"l' università itagliana"

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.pisicchio.
00venerdì 27 settembre 2013 18:18

Emblematico che nessuno commenti.

Ovviamente nessuno pagherà.

Questa è l'Italia che vogliamo e che ci siamo meritati.

E pensare che in altre cartelle c'è ancora qualche ingenuo che apre discussioni per sapere come si entra in un dottorato...

(pollastro)
00venerdì 27 settembre 2013 21:33
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Commento io, non ho paura di farlo. Sì, questa è l'università che ci siamo meritati. Dopodiché, ho un'assistente brava (e piacente) che non mi ha mai accompagnato in auto prima del concorso, con cui non mi sognerei mai di andare a letto, che non mi fa regali (anzi ahimè qualche volta mi frega i libri). Sono amico anche di suo marito (conosciuto sempre dopo il concorso) e gioco coi ragazzini suoi figli, che mi trattano da zio. Cioè: non generalizzate, qualche fesso che tiene all'etica esiste ancora e non penso di essere l'unico. Non è mai tutto nero, per fortuna, il mondo, anche se - lo ammetto - non è quello del Mulino Bianco
connormaclaud
00sabato 28 settembre 2013 15:33
Re:
.pisicchio., 27/09/2013 18:18:


Emblematico che nessuno commenti.

Ovviamente nessuno pagherà.






e che vuoi commentare pisicchio?
C'è solo da incazzarsi, non solo nelle università, e restare sempre più schifati.

itreniavapore@
00martedì 1 ottobre 2013 14:09
mikele88uni
00martedì 1 ottobre 2013 14:23
fridafrida
00martedì 1 ottobre 2013 15:09
Re:
mikele88uni, 01/10/2013 14:23:





Speechless [SM=x43804]
MARTINA.SANNINO83
00martedì 1 ottobre 2013 15:51
Di cosa ci meravigliamo?
Siamo adulti abbastanza per capire come va il mondo. I concorsi pubblici, chi più chi meno, sembrano esser solo una grande farsa:devi pagare marche da bollo ingenti, spender soldi x libri et similia, per poi arrivare lì con il morale sotto i tacchi perché tanto si sa già chi passerà. Certo, la mia potrebbe essere una generalizzazione bella e buona, ma non di rado assistiamo a figli di baroni(in ogni campo) che risultano essere primi nelle graduatorie dei concorsi oppure che ricoprono posti per cui non c'è stato alcun concorso.
(pollastro)
00mercoledì 2 ottobre 2013 11:38
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Come avevo cercato di dire in precedenza e come ripeto qui, la descrizione del sistema italiano complessivo che fate è realistica, ma spero di non essere un ottimista stupido se vi dico che non dovete scoraggiarvi e combattere, diventando bravi: nella competizione globale le cattive prassi non possono più durare a lungo, saremmo troppo penalizzati nel confronto con altri Paesi. La classe dirigente (vincolata ad impegni europei di forzato miglioramento, se no restiamo in bassa classifica) sta prendendone coscienza, anche all'università. Nel nostro Dipartimento è ad esempio avviato un dibattito su come migliorare (le classifiche di rendimento scientifico e didattico sono mediocri, la concorrenza preme). Vedo schiarite da questo punto di vista e siccome in questo sono sempre stato dalla parte dei colleghi miei e degli studenti perbene ne sono contento. Poi, com'è ovvio, anche il Padreterno ci mise sette giorni a creare il mondo; voglio cioè dire che le cose non cambiano senza impegno e in un attimo, devono essere avviati processi di rinnovamento
(pollastro)
00mercoledì 2 ottobre 2013 18:34
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Bravissimo a chi l'ha postata: avevo dimenticato la sequenza, ma (sia come approccio dialogico, sia come valutazioni anche "a fiuto", sia come sostanza dell'analisi, sia quanto a conclusioni), penso - o temo - di assomigliare a quel professore
mikele88uni
00mercoledì 2 ottobre 2013 20:20
Re:
(pollastro), 02/10/2013 11:38:

Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Come avevo cercato di dire in precedenza e come ripeto qui, la descrizione del sistema italiano complessivo che fate è realistica, ma spero di non essere un ottimista stupido se vi dico che non dovete scoraggiarvi e combattere, diventando bravi: nella competizione globale le cattive prassi non possono più durare a lungo, saremmo troppo penalizzati nel confronto con altri Paesi. La classe dirigente (vincolata ad impegni europei di forzato miglioramento, se no restiamo in bassa classifica) sta prendendone coscienza, anche all'università. Nel nostro Dipartimento è ad esempio avviato un dibattito su come migliorare (le classifiche di rendimento scientifico e didattico sono mediocri, la concorrenza preme). Vedo schiarite da questo punto di vista e siccome in questo sono sempre stato dalla parte dei colleghi miei e degli studenti perbene ne sono contento. Poi, com'è ovvio, anche il Padreterno ci mise sette giorni a creare il mondo; voglio cioè dire che le cose non cambiano senza impegno e in un attimo, devono essere avviati processi di rinnovamento



L'università italiana, come tutto il resto dopotutto, è in pieno decadimento. Purtroppo il sistema Italia sta collassando su sé stesso. "Di chi è la colpa? Sicuramente ci sono alcuni più responsabili di altri che dovranno rispondere di tutto ciò; ma ancora una volta, a dire la verità, se cercate il colpevole... non c'è che da guardarsi allo specchio" (dal film V per Vendetta, oggi sono in vena di citazioni cinematografiche). Tutti sono responsabili: dagli studenti pigri nel rivendicare il diritto ad una formazione di livello ai docenti presi da attività extra universitarie e/o ormai rassegnati al ruolo di distributore automatico di voti, passando per gli uscieri e i segretari.
La soluzione ai problemi della nostra facoltà (pardon dipartimento) passa inevitabilmente per una riduzione degli iscritti e quindi dall'aumento dell'occupazione giovanile. L'iscrizione all'università non può rappresentare l'alternativa alla disoccupazione.
Bisogna poi domandarsi se una università in cui vige la tanto decantata "selezione naturale" sia una formazione sociale che contribuisce al pieno sviluppo della persona umana. Come ho già scritto in altra occasione, si può riproporre, facendo le dovute proporzioni, la critica di Beccaria alla tortura: lo studente debole ma preparato non supera l'esame (o lo supera con una votazione che non rispecchia la propria preparazione), lo studente non preparato ma forte lo supera. Non sono per il numero chiuso ma per uno sbarramento dopo il primo anno per chi non abbia raggiunto un tot prefissato di crediti.
Bisognerebbe aumentare gli esami scritti in primis perché i concorsi pubblici non sono solo orali ma anche per garantire una maggiore oggettività nella valutazione; bisognerebbe ridurre il numero degli esami accorpandone all'occorrenza alcuni eliminandone altri e istituire corsi semestrali per alcuni esami visto che spesso i professori non riescono a terminare i programmi ai corsi (che dovrebbero essere resi obbligatori e flessibili per gli studenti lavoratori).
Tengo a precisare che questo non vuole essere un attacco ad un docente in particolare né ritengo che questa sia la soluzione ai problemi dell'università è solo un contributo da uno studente (fuori corso e scoraggiato) ormai vicino alla laurea al dibattito in corso.


fridafrida
00mercoledì 2 ottobre 2013 21:13
Re: Re:
[...] facendo le dovute proporzioni, la critica di Beccaria alla tortura: lo studente debole ma preparato non supera l'esame (o lo supera con una votazione che non rispecchia la propria preparazione), lo studente non preparato ma forte lo supera.

Per debole e forte, mi spieghi cosa intendi?

Non sono per il numero chiuso ma per uno sbarramento dopo il primo anno per chi non abbia raggiunto un tot prefissato di crediti.

E cosa cambierebbe a livello di preparazione? Dopo sarebbe una gara ad ottenere il credito, magari mediante attività extra-curriculari di cui nessuno, o pochi, si interessano realmente. Insomma credo che fin quando lo studente sarà costretto a ragionare in numeri (dal voto ai crediti formativi ecc..) questa università resterà tale e quale a prima.

Per il resto, sommariamente, concordo.





mikele88uni
00mercoledì 2 ottobre 2013 21:46
Re: Re: Re:
fridafrida, 02/10/2013 21:13:

[...] facendo le dovute proporzioni, la critica di Beccaria alla tortura: lo studente debole ma preparato non supera l'esame (o lo supera con una votazione che non rispecchia la propria preparazione), lo studente non preparato ma forte lo supera.

Per debole e forte, mi spieghi cosa intendi?
il riferimento era sopratutto ai corsi del primo semestre del primo anno di cui conservo un ricordo traumatico (spero che le cose siano migliorate). Per forte intendo semplicemente resistente sia fisicamente (seguire un corso in piedi o per terra nelle posizioni più assurde non è certo una situazione ottimale xD) sia mentalmente (i corsi del primo anno sono un frullatore in cui è facile perdere la concentrazione). Non voglio dire che da noi non esistono studenti preparati anzi ne ho conosciuti diversi nel corso di questi anni ma il livello medio di preparazione lo trovo basso e questo sopratutto per le lacune che si creano al primo anno dove ci sono esami fondamentali come privato e costituzionale.

Non sono per il numero chiuso ma per uno sbarramento dopo il primo anno per chi non abbia raggiunto un tot prefissato di crediti.

E cosa cambierebbe a livello di preparazione? Dopo sarebbe una gara ad ottenere il credito, magari mediante attività extra-curriculari di cui nessuno, o pochi, si interessano realmente. Insomma credo che fin quando lo studente sarà costretto a ragionare in numeri (dal voto ai crediti formativi ecc..) questa università resterà tale e quale a prima.

Per il resto, sommariamente, concordo.

quanto meno avrebbe un effetto deterrente: giurisprudenza è il parcheggio degli indecisi, di quelli che non passano il test a numero chiuso a medicina o hanno un punteggio basso nel test a ingegneria. L'approccio all'università di questi spesso lede la libertà di seguire un corso in santa pace agli altri.









connormaclaud
00mercoledì 2 ottobre 2013 23:26
Condivisibile e condiviso quanto afferma michele,ma non riesco a scorgere cosa si mette sull'altra parte della bilancia.
(pollastro)
00giovedì 3 ottobre 2013 01:03
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Non so Michele chi sia (forse lui mi conosce e forse lo conosco anch'io, ma tra tanti studenti non lo identifico), ma condivido completamente quello che scrive e continuo sempre a proporlo in Dipartimento (ex facoltà), prima o poi i miei argomenti "sfonderanno": meno esami, oppure esami accorpati, programmi con meno pagine, corsi teorici ma anche pratici e partecipati (cioè non lezioni-monologo del docente), scrittura diffusa (soprattutto di atti simulati), analisi della giurisprudenza, studio anche di bilanci societarii, di tecniche di raccolta prove e di investigazione su un luogo del delitto, nonché di tecniche oratorie, esami processuali in cui si dovrebbe dare prova di avere assistito a momenti significativi dei giudizi (mediante convenzioni con tribunali e consigli dell'ordine), un sito web dei soli studenti dove pubblicare pezzi di tesi, ecc., come "vetrina" nel rapporto con studi legali e di altre professioni, abolizione della tesi obbligatoria (facendola restare facoltativa) e sostituzione con l'estrazione a sorte di un quesito interdisciplinare sulla cui corretta soluzione avviare una discussione con un collegio di docenti (si eviterebbero copie e acquisti di tesi). Infine numero chiuso non all'inizio, ma dopo due anni: chi non prova di avere superato almeno una quantità X di esami, salvo che dimostri gravi motivi ostativi da predeterminare (grave malattia propria o di stretti familiari, o loro morte, ad esempio), va fuori.
Ritengo che, poiché l'università è oggi sottoposta alla cultura della valutazione e cioè immessa in un sistema di concorrenza e non più al riparo come prima di "protezioni domestiche", non sia in prospettiva più realistica l'università "dei parenti" e/o dei protetti e delle protette per meriti diversi da quelli di studio. Un esempio spero chiarisca: in Gran Bretagna, l'equivalente della laurea in giurisprudenza si consegue dopo un triennio, poi la formazione va completata presso uno studio legale. Ebbene, nessuno studio prenderebbe un ignorante solo perché socialmente protetti, come il figlio di un amico o una ragazza esperta in cose diverse dalla professione: questo abbasserebbe infatti il ranking dello studio stesso, che perderebbe avviamento professionale.
In sintesi, è un momento di passaggio, in cui si deve "incorporare" una nuova cultura. Forse non vedrò gli effetti delle novità, ma ci sono e i ricercatori giovani (ad esempio) sono mediamente più preparati di quelli di prima. Preciso meglio: hanno meno spessore teorico, conoscono meno TUTTA una materia, ma meglio e più concretamente SETTORI SPECIFICI di essa e la letteratura non solo nazionale, ma straniera
MARTINA.SANNINO83
00giovedì 3 ottobre 2013 09:21
Pratica, pratica, pratica, pratica. Ci vuol tanto a capire che l'università deve formare CONCRETAMENTE e non ASTRATTAMENTE gli studenti?Sì, la teoria è carina, simpatica, ma detto onestamente non me ne può fregare di meno di un dettato astratto di nozioni com'è stato il Di Majo, parte speciale di diritto civile, e non sapere concretamente cosa sia un contratto. Allo stesso modo, credo che a nessuno di noi importino le centinaia di pagine di dottrina inserite nei manuali di procedura civile, se a monte non capiamo realmente cosa sia un decreto ingiuntivo.
Dovrebbero farci frequentare i tribunali(giacché gli studenti di medicina/chimica/biologia passano la vita in laboratorio). Io credo che solo così potremmo davvero farci le ossa. Onde non arrivare alla pratica, non retribuita, fatto di "sfruttamento", per poi affermare: "Ma io non credevo fosse così difficile"!
Meditiamo.
(pollastro)
00giovedì 3 ottobre 2013 13:13
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Ho sempre difeso la necessità di un' università più pratica di quanto non sia oggi, ma attenzione: più pratica non vuol dire tutta pratica. Per me vuol dire teoria raggiunta attraverso la pratica (metodo induttivo, common law) o studiata sì, ma contemporaneamente esemplificata con la pratica (metodo deduttivo, civil law). L'università deve rimanere diversa da una scuola professionale, come le fondamenta del palazzo sono essenziali perché esso si regga, ma nessuno abiterebbe nelle fondamenta. Assolutamente poi "pratica" non vuol dire trascurare storia e filosofia del diritto (di situazioni attuali generali e delle singole persone come sono oggi non si capisce nulla, se non si sa quello che è successo prima, se non ci si informa "da dove vengono" gli avvenimenti attuali e i contesti anche familiari e personali), né studiare solo diritto (economia ad esempio è decisiva, ne occorrerebbe di più e così organizzazione aziendale e letture di bilanci di società, se si vuole lavorare nella o con la pubblica amministrazione; basterebbe anche soltanto che i docenti guidassero a leggere bene e con continuità "Il Sole 24 Ore". Il guaio è che gli studenti devono inseguire "crediti", il sistema non li spinge all'autofomazione critica - guidata (non "indottrinata") dall'esperienza dei professori - della cultura, né i più dei ragazzi sono sensibili a questa essenziale esigenza
trixam
00giovedì 3 ottobre 2013 13:40
Un articolo di Luca Enriques sul tema che prende spunto da discussione simile in Usa.



In America si discute sulla possibile riduzione di un anno dei corsi di giurisprudenza. Perché per preparare i futuri avvocati sembra più efficace un periodo di tirocinio. E da noi? Cinque anni solo per la laurea e tanto studio mnemonico. Barriere all’entrata e apertura a laureati in altre materie.


MENO STUDIO, PIÙ PRATICA

Un corso di giurisprudenza negli Stati Uniti dura tre anni. Vi si può accedere dopo aver acquisito una laurea, diremmo noi, di primo livello. Conclusi i tre anni, è possibile diventare avvocati, sostenendo un esame a pochi mesi dalla laurea.
Recentemente, complice anche un calo delle iscrizioni, si è cominciato a discutere se tre anni non siano troppi: il campo di coloro che sostengono che il terzo anno dovrebbe diventare facoltativo, consentendo agli studenti di sostituirlo con un tirocinio, si è arricchito poche settimane fa della presa di posizione a suo favore del presidente Obama, già professore di diritto costituzionale all’università di Chicago.
La tesi, che da noi suona estrema, è che due anni di lezioni ed esami su materie giuridiche siano sufficienti e anche più efficaci, se seguiti da un anno di pratica, a preparare un avvocato. I corsi fondamentali si possono impartire in quel biennio, durante il quale vi sarebbe anche il tempo per approfondimenti in materie specialistiche. Troppo poco? È più che legittimo avere opinioni diverse al riguardo, ma non meriterebbe un rifiuto preconcetto, dalle nostre parti, l’idea, del resto da sempre dominante negli Stati Uniti, che per essere un buon avvocato non serva (più) la padronanza mnemonica di fiumi di leggi vigenti e di orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, quanto piuttosto la capacità di usare il ragionamento giuridico e l’insieme di strumentazioni retoriche che vi si associa; la capacità di reperire le fonti (leggi, sentenze, articoli di dottrina, circolari interpretative, eccetera) piuttosto che la loro memorizzazione; la conoscenza dei concetti fondamentali del diritto pubblico e privato, che consentono di muoversi con agio in ciascun settore, nonché la familiarità con le (mai numerose) idee di fondo che sorreggono le singole discipline; e, infine, l’acquisizione di una sorta di indice mentale delle materie che compongono ogni singola disciplina piuttosto che la ritenzione dei relativi contenuti.
Si muoverà meglio nella pratica del diritto amministrativo chi abbia compreso a fondo cosa sono un atto amministrativo, un procedimento amministrativo, un interesse legittimo e l’eccesso di potere, o chi abbia dedicato allo studio di questi concetti fondamentali la stessa, per necessità più superficiale, attenzione che a memorizzare la disciplina degli appalti pubblici, degli enti pubblici territoriali, delle opere pubbliche, e così via?

DURATA DELLA LAUREA, UNA BARRIERA ALL’ENTRATA

In Italia, dove la durata degli studi giuridici è di ben cinque anni (cui vanno aggiunti diciotto mesi di pratica, e anche un anno di attesa per l’esito dell’esame), prevale ancora l’idea che il laureato in giurisprudenza debba conoscere a fondo, nel senso nozionistico del termine, l’ordinamento positivo, oltre che alcune materie più “culturali”, come la filosofia del diritto e il diritto romano. Per questo, in effetti, anche cinque anni possono non bastare. Ma questo sforzo di acquisizione di nozioni è un impiego utile del tempo per le migliaia di studenti che si iscrivono a giurisprudenza ogni anno? E siamo sicuri che il capitale umano che costruiscono in cinque anni di questo tipo di studio sia quello non solo di cui avranno bisogno nella loro carriera professionale, ma soprattutto che meglio potrà servire la domanda di servizi legali e le esigenze della società nel suo complesso?
Il dibattito americano potrebbe far riflettere, pur senza farsi illusioni sull’agibilità politica di una simile soluzione, circa l’opportunità perlomeno di un ritorno ai tradizionali quattro anni di giurisprudenza (era questa la durata del corso di laurea fino al 2000).
Si potrebbe obiettare che cinque anni sono meglio di quattro, se in questo modo si disincentiva la scelta di giurisprudenza e si riduce dunque il bacino dei futuri avvocati. Si potrebbero avere effetti positivi sul tasso di litigiosità “patologica” (ossia di liti pretestuose, spesso di minimo valore, che servono gli interessi più degli avvocati che dei loro clienti e, ingolfando i tribunali, rendono più difficile soddisfare la domanda fisiologica del servizio “giustizia”), se è vero che su questo incide il numero degli avvocati. (1)
Il razionamento dell’offerta dei servizi legali, tuttavia, è uno strumento rozzo per rimediare alle patologie della giustizia civile determinate da una cattiva offerta di servizi legali: non farebbe venir meno i meccanismi che consentono agli avvocati, per quanto in minor numero, di appesantire il servizio giustizia con liti ingiustificate, posto che immutata resterebbe l’asimmetria informativa che consente all’avvocato di dare consigli infedeli al cliente. Inoltre, una minore concorrenza tra gli avvocati porterebbe a prezzi più alti per i loro servizi anche a danno di chi avesse buone ragioni per agire o resistere in giudizio.
Ammesso che più elevate barriere all’entrata siano benefiche in questo campo, invece che una maggiore durata degli studi (che porta a un’autoselezione per censo) non sarebbe più equo (e forse anche più efficace) consentire anche alle università pubbliche di prefissare il numero di nuovi studenti da immatricolare ogni anno parametrandolo alla propria capacità di offerta formativa (e selezionando così i candidati più meritevoli)?
E insieme al ritorno ai quattro anni di studio, si potrebbe prendere ad esempio il modello americano, per immaginare un percorso alternativo per l’acquisizione di competenze giuridiche e l’accesso alle professioni legali: consentire a chi abbia già un’altra laurea triennale, in qualunque materia, di accedere a un corso biennale di diritto, senza debiti formativi e con laurea finale dello stesso valore di quella quinquennale. Dopo il biennio, per accedere alla professione forense servirebbero i diciotto mesi di pratica previsti anche per i laureati quadriennali.
Certo, questo percorso potrebbe rivelarsi proibitivo per il “tardivo” aspirante avvocato se l’esame di accesso alla professione premia il nozionismo e l’enciclopedismo. Come sembra fare la recente riforma dell’ordinamento forense, laddove ha escluso che durante gli esami scritti sia possibile consultare testi normativi commentati.

UN CAMBIO DI MENTALITÀ

Il vantaggio maggiore dell’apertura delle professioni legali a laureati in altre discipline non starebbe tanto nell’eventuale incremento dell’offerta di servizi legali, quanto piuttosto nell’accesso a questo mercato di attori con un capitale umano meno monoliticamente incentrato sul diritto e dunque meno inclini a condividere l’idea del primato del diritto stesso. Oggi, infatti, secondo l’ideologia prevalente all’interno delle facoltà di giurisprudenza e delle professioni legali, il diritto è un fine, non un mezzo per agevolare le interazioni individuali e sociali; è la società a doversi adattare alle esigenze del diritto, non questo alle necessità di quella salve le limitazioni frutto di scelte politiche esplicite (e non della fantasia interpretativa del giurista, avvocato, giudice o funzionario pubblico che sia). Il diritto non è anche il riflesso di fenomeni e influenze sociali e culturali “altri”, bensì un sistema chiuso, nel quale i valori non possono entrare se non travestendoli da argomenti giuridici logicamente cogenti (e dunque con minore accountability nei confronti della società stessa).
L’immissione in questo contesto culturale di persone che per almeno tre anni abbiano dedicato i propri sforzi di studio a tutt’altro, che si tratti di letteratura classica o di scienza dei materiali, di matematica o di storia moderna, potrebbe contribuire nel tempo a introdurre i germi del dubbio nelle granitiche certezze del giurista circa la propria centralità sociale e l’autosufficienza culturale della propria scienza.
In un paese in cui gli operatori economici sono quotidianamente vessati da restrizioni legali, attese di provvedimenti amministrativi e ricorsi giurisdizionali, una simile spinta al cambiamento della cultura giuridica dominante non potrebbe che giovare.




ps Enriques mette dei punti giusti in particolare sulla lunghezza quinquennale della laurea che favorisce oggettivamente i più abbienti dato che sono gli studenti più poveri quelli che, per varie ragioni, trovano più difficoltà a rimanere in corso e completare gli studi. Poi però dando per scontato che non si può risolvere il problema (la struttura del sistema universitario) la butta pure lui sul numero chiuso a dimostrazione che su certi argomenti aver studiato ad Harvard o alla Tuscia non cambia molto.
Totalmente condivisibile la parte finale sul cambio di mentalità.
trixam
00giovedì 3 ottobre 2013 13:43
Qui un articolo sulla questione in america, è in inglese ma basta un piccolo sforzo. Certe discussioni sono un po' diverse quando entra in gioco il costo-opportunità da sostenere con la propria tasca.


“THIS is probably controversial to say, but what the heck,” said Barack Obama on August 23rd. “[L]aw schools would probably be wise to think about being two years instead of three.” Mr Obama once taught constitutional law; his idea could put many of his former colleagues out of work. Yet he has a point.

For most of the 1800s, would-be lawyers (such as Abraham Lincoln) learned the trade as apprentices. Law schools sprouted up late in the century, in two main flavours. Elite universities set up legal departments for posh students; night schools catered to the sons of immigrants.

To stop the proles from sullying the image of the bar—ahem, to provide sufficient instruction in the intricacies of the law—the snootier institutions convinced the American Bar Association (ABA) to accredit only schools that required a costly three years’ worth of courses for a degree. It still does.

Most of the basic principles of legal analysis can be learned in a year, and law schools have made little effort to teach practical skills, since firms have historically trained new attorneys themselves. So students tend to fill their final year with classes on curious or obscure topics.

Over the past decade, however, fees have soared, requiring students to borrow ever-greater sums: the average 2013 graduate will be $140,000 in hock, by one estimate. Meanwhile, firms have cut back on hiring, leaving many debt-laden young lawyers unemployed. That has led critics— now including Mr Obama—to suggest that law schools pare their coursework down to two years, letting students to save money and start earning sooner. Cutting costs would also allow more graduates to take lower-paying jobs in public-interest law.

That would benefit students, but not law schools. Already suffering from declining enrollment, they would have to tighten their belts if they lost a third of their tuition revenue. So some schools are trying to reinvent the final year: New York University is placing students in foreign universities or in government, while Stanford has emphasised interdisciplinary classes and clinical courses. Since first-year lawyers at big firms now earn $160,000 a year, their time has become too valuable to squander on training. “We can use that time to prepare them for practice better and cheaper than firms can,” says Larry Kramer, the former dean of Stanford Law.

But despite Mr Obama’s words, even schools that make no such effort are still shielded by the three-year requirement. The ABA has set up a task force on legal education, and its commission on accreditation standards is now conducting a quinquennial review. Ten of the council’s 21 members come from the legal academy, which wants to maintain the status quo. James Silkenat, the ABA’s president, says he supports “innovation” to reduce costs— but still believes schools yield “a better product with the full three years”.

Many advocates for reform are turning to the judiciary, which sets the rules for bar admission. Last year Arizona began allowing students to take the test while still in law school. If more states follow its lead— and if firms will hire lawyers without an ABA-approved degree, then adventurous law schools might offer a two-year option.

Or perhaps Mr Obama could tell the Department of Education to strip the ABA of its role as the federally sanctioned accreditor if it does not give schools the “flexibility” Mr Silkenat says he favours.

goisis
00giovedì 3 ottobre 2013 13:48
Di che meravigliarci. Gli itacani appresentano un nocumento per l'umanità
(pollastro)
00giovedì 3 ottobre 2013 18:25
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Fermo restando che lo studio del diritto comparato dimostra che le tradizioni culturali devono essere aperte alla comunicazione, al dialogo, alle "buone pratiche" da recepire, ma che ogni Paese è diverso e imposizioni di pratiche, culture, istituti, modi di pensare e studiare anche il diritto non è saggio, l'articolo postato i Italiano da Trixam - e per il quale ringrazio - contiene suggestioni utili e va nel senso dell'università che amo personalmente fare e che concretamente faccio. Con me, come sa chi mi legge qui, si sfonda una porta aperta
connormaclaud
00giovedì 3 ottobre 2013 19:35
Interessanti entrambi gli articoli,mostrano però paradossalmente un problema,se vogliamo, opposto rispetto a quello italiano.
ObbligazioneNaturale
00giovedì 3 ottobre 2013 21:47
Non lo faranno mai, del resto tutt'oggi l'offerta di professionisti legali e' superiore alla domanda figuriamoci se riducessero i corsi da 3 a 2 anni (parlo degli USA). Tra l'altro l'articolo e' parziale, tra il primo ed il secondo anno accademico c'e' una clerkship o un internship "obbligatoria" (caldamente consigliata), tra il secondo ed il terzo semestre idem, il secondo semestre del terzo anno la maggior parte delle universita' dispensa gli studenti dalle lezioni affinche' possano anticipare la preparazione per il bar.

Il problema e' eminentemente economico piu' che di preparazione (anche perche' il 50% degli studenti si iscrive dopo il bachelor ma l'altro 50ha lavorato almeno 2 anni), troppe scuole, troppi studenti con il sogno di diventare avvocato ed un mercato incapace di assorbire la domanda, la pressione ribassista sui salari e' perfettamente logica ed abbassare la soglia d'accesso non fara' che peggiorare la situazione. D'altronde con l'automazione e l'outsourcing dei compiti meno IQ intensive, il monte ore per le grosse law firms e' calato drasticamente, a fronte di clienti sempre meno numerosi anche per i piccoli (servizi come rocket lawyers o Fast counsel stanno rosicchiando il mercato da entrambi i lati). Gli studi legali grossi e piccini dovranno ripensarsi allo stesso modo delle societa' di consulenza strategica.

Ad oggi, i clienti fanno storie sulle fees legali accreditate ai junior lawyers perche' ritenute eccessivamente penalizzanti in proporzione ad un servizio ricevuto giudicato a basso valore aggiunto - del resto sarebbe perfettamente automatizzabile - svolgibile persino da un paralegal. Tagliamo la formazione a 2 anni e rendiamo gli avvocati meri pratici del diritto? Cosa otteniamo? Un paralegal 2.0 con 100mila dollari di debito sul groppone e che sa fare esattamente le stesse cose del fratello povero, a quel punto -senza nemmeno il pedigree- come giustificare il sovrapprezzo? Sinteticamente, non converrebbe nemmeno agli stessi studenti che Obama sembra voler difendere.

connormaclaud
00giovedì 3 ottobre 2013 22:14
Ho sempre creduto che la percentuale di legali in usa fosse basso.
ObbligazioneNaturale
00giovedì 3 ottobre 2013 22:17
Invece c'e' un consistente surplus di offerta rispetto alla domanda. Tant'e' vero che si chiamano ambulance chasers, gli studenti migliori stanno disertando le law schools in massa (a dire il vero c'e' un calo di iscrizioni generalizzato, il college non ha piu' lo stesso rendimento di una volta).
Semplicemente, studiare legge negli USA non e' conveniente a meno che non si sia usciti da una scuola top 15.

Imparate a programmare in Python.
connormaclaud
00giovedì 3 ottobre 2013 22:37
Aspetta un attimo,la cosa m'incuriosisce.
Tolto il calo di iscrizioni generalizzato,causa crisi costi e difficoltà di avere una contropartita nel mondo del lavoro,esiste un surplus dell'offerta rispetto alla domanda negli studi legali e nel settore in genere?
Se ho ben capito, rispetto ai tradizionali numeri èlitari, l'allargamento delle maglie ha portato ad uno stravolgimento dei vecchi equilibri,mettendo sul groppone della nazione un esercito di avvocati.
In tal caso rettifico il mio precedente intervento
trixam
00venerdì 4 ottobre 2013 20:52
In realtà l'idea di ridurre la durata della laurea non è originale di Obama, al riguardo forse il massimo ideologo è Brian Tamanaha di Washinton St Louis che ha scritto al riguardo un libro piuttosto eloquente. www.amazon.com/Failing-Schools-Chicago-Series-Society/dp/02...

Alcune università già offrono dei corsi accelerati, www.law.northwestern.edu/academics/ajd/.
Inoltre alcuni stati americani come la California e la Virginia permettono di fare l'esame da avvocato senza aver frequentato la law school purché i candidati abbiano fatto un apprenticeship con un giudice o un procuratore.
Per altro questa possibilità sembra sia molto scarsamente usata almeno in California dove solo lo 0.05% dei candidati all'esame da avvocato nel periodo 2007-2012 proveniva da questo percorso.
Gli stessi corsi biennali sono discutibili nel senso che alla fine richiedono agli studenti gli stessi crediti e fees dando la possibilità di svolgerli in due anni lasciando una preparazione più lacunosa. Tre anni con le necessarie intership sono un periodo giusto per la laurea in giurisprudenza soprattutto in un sistema come
quello ameriano incentrato sulle materie fondamentali, nonostante il modello sia migliorabile.

Per quanto riguarda la convenienza della laurea, il dibattito è interessante. Di recente se ne è occupato un paper di due professori, Simkovic e Mcintyre, che trovate qui papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2250585

In sintesi gli autori affermano che valga ancora la pena iscriversi ad una law School, il ritorno copre l'investimento, il livello dei salari dei laureati pur diminuito nella crisi in realtà è in linea con valori registrati in altre fasi del passato in fase di crisi minori o di non crisi e che il livello di default(cosa tipica americana) sui prestiti per i laureati in legge è più basso dei laureati in altre discipline.
Il problema di questo studio è che non introietta ancora pienamente gli effetti della crisi attuale anche se gli autori dicono di averli calcolati bene.

Altro problema è che il livello di default è basso anche a causa di uno "sfalsamento" del campione perché solo il 58% dei laureati in legge fa l'avvocato, cosa che in parte accomuna Usa e Italia dove non conosco dati precisi ma mi sembra di ricordare che solo uno su 2 laureati si dedica ad una professione legale nonostante il
consensus generale pensi diversamente. La cosa insomma è tipica della laurea in legge ed è singolare, in effetti sarebbe bizzarro se metà dei laureati in medicina o ingegneria non facesse il medico o l'ingegnere.

In definitiva però lo studio probabilmente riporta una verità, la laurea in legge conviene ancora negli usa nonostante tutto anche se poi bisogna vedere in che settori si va ad operare e dove ci si laurea. Ma questa è una costante. Negli Usa la disuguaglianza maggiore registrata negli ultimi 20 anni non è tra laureati e non ma tra
laureati di primo livello e quelli con titolo post universitario ad elevato valore aggiunto.


In italia però la questione secondo me è valida, 5 anni per una laurea in giurisprudenza è oggettivamente troppo tenuto conto che molti esami non sono altro che ripetizioni di parti già studiate in altre e potrebbero tranquillamente accorparsi mentre quelli culturali, nonostante siano in teoria giustificabili, sono in pratica
perfettamente inutili.






(pollastro)
00sabato 5 ottobre 2013 01:22
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

"Esami culturali in pratica perfettamente inutili?". Ah, Trixam, che bestemmia! Lo sarebbero, se uno la cultura se la facesse altrove. Ma prego credere... Per il resto, molto di questa discussione è utile per un confronto e rivela assonanze e diversità tra il dato italiano e certe tendenze americane. E' vero, cinque anni di sola teoria sono una palla inutile e vomitevole; è vero: tanti da noi si laureano in legge (finché non ci saranno test d'ingresso, sarà sempre il refugium peccatorum), ma pochi sono avvocati (soprattutto bravi e con clienti), magistrati, notai; è vero: negli USA (e in Inghilterra) la formazione è perlopiù pragmatica e giurisprudenziale. Mettiamola così: da noi troppo lunga e troppo solo teorica, lì corta e pragmatica, forse un'esagerazione opposta. Il giusto mezzo no, eh?
connormaclaud
00sabato 5 ottobre 2013 09:37
Signori,per quanto interessante sia la discussione, rinvengo una omissione di non poco conto, quale la contropartita per queste eventuali riforme?
Con tutto il dovuto rispetto,ma ho l'impressione che si voglia la botte piena e la moglie ubriaca.

La durata del corso , si potrebbe eventualmente prendere in considerazione una accentuata caratterizzazione del percorso, è relativa e gli esami storico-culturali-comparatistici fondamentali per la forma mentis del futuro giurista che,in soldoni, dà una garanzia rispetto alla precarietà dei tecnicismi che,devono sì esser presenti, ma dando loro il giusto peso.
Qualsiasi stronzo-mi si consenta il francesismo- può decifrare un codice, ma se questo dovesse essere sostituito con un altro il tecnico del diritto finirebbe in cura da uno strizzacervelli.
Questa la differenza tra chi deve necessariamente padroneggiare il diritto e chi può unicamente subirlo con devota sudditanza...la stessa che non permette riforme in questo paese.

Fatta questa doverosa premessa, se si vuol attuare la rivoluzione nell'insegnamento,così come contemplato negli interventi di molti utenti, diventa necessario circoscrivere il campo d'azione del dottore in giurisprudenza.

Tutti a lamentarsi dei cani morti presenti in facoltà, tutti a lamentarsi dell'assenza di motivazione di molti studenti,ma nessuno a ricordare che fino a quando questa laurea verrà percepita come un passepartout nulla potrà mai cambiare.

Bene,vada per i test d'ingresso ed il numero chiuso,per un metodo d'insegnamento diverso e pratico,bene tutto, ma si costringa il futuro dottore a potersi muovere solo ed esclusivamente nel campo strettamente giuridico. Così come chi s'iscrive a medicina o farmacia conosce il proprio futuro allo stesso modo lo studente di giurisprudenza deve essere consapevole di avere l'onore e l'onere di camminare su pochi binari e non avere tentacoli che vanno dal giornalismo alla p.a. passando per l'attività menageriale.
Il dottore in giurisprudenza,cos' come tutti gli altri, deve sapere di che morte morirà e laddove vengono a crearsi dei buchi,si aprano nuovi corsi di laurea ad hoc.



my two cents
(pollastro)
00sabato 5 ottobre 2013 12:12
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

"Vada per i test d'ingresso ed il numero chiuso,per un metodo d'insegnamento diverso e pratico, bene tutto, ma si costringa il futuro dottore a potersi muovere solo ed esclusivamente nel campo strettamente giuridico"

Senza ironia, Connor: quando hai circoscritto il campo, fammi sapere come hai fatto. Studio da quarant'anni, ma il confine non l'ho ancora trovato
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