Wild West e gli altri tutti i reality del nostro scontento
L'articolo è di Rosanna Cornazzi della Stampa
LOS ANGELES. I reality del nostro scontento. In questo inizio di stagione, su Rai e Mediaset, il pubblico italiano è stato sommerso di cowboy, artisti, circensi, semifamosi abbandonati, storie di bellezze e cervelloni andati ad aggiungersi ai già numerosi programmi realizzati dalla gettonatissima «gente comune». Ma il pubblico non è d'acciaio, e dunque non ne può più, abbandonando Wild West, Reality Circus, L'Isola dei famosi, Unan1mous, La pupa e il secchione al loro destino più o meno sfavorevole, e comunque inferiore alle aspettative. Il Codacons, l'associazione consumatori, chiede che l'Authority per la comunicazione stabilisca un tetto di programmi-realtà in palinsesto, e il settimanale Chi pubblica i costi di produzione: Reality Circus, 930 mila euro a settimana tutto compreso; Wild West, 5,5 milioni di euro; L'Isola dei famosi, meno di 6 milioni di euro ma quasi 10 quando si aggiungono i costi Rai.
I reality sono per definizione i programmi che sublimano la finzione: un il bel gioco dura poco, mentre l'anomalia della prima serata italiana lunga tre, quattro ore, porta lo sconforto e la noia anche tra gli spettatori più favorevolmente orientati. Paolo Bassetti, il capo di Endemol nonché produttore di Reality Circus e di La pupa il secchione, è da tempo convinto che la prima serata si dovrebbe accorciare, altrimenti sono guai per tutti. Adesso rilancia, invitando a far terminare i reality almeno alle 23,30. Pure Giorgio Gori di Magnolia (Isola dei famosi) pensa che le sfide tra concorrenti abbiano esaurito la loro spinta: «Ormai gli abbiamo fatto fare di tutto».
Appunto. Forse troppo. Nigel Lithgoe è il produttore esecutivo di American Idol, il padre di tutti i reality, seguito ogni settimana in Usa da qualcosa come 31 milioni di spettatori, con punte di 35 (chi vorrà vederlo sugli italici piccoli schermi, lo troverà dal 3 ottobre su Fox Life). Da noi c'era stata una cosa simile, di poco successo, con Operazione trionfo. Ebbene, l'inglesissimo Lithgoe (debuttò come ballerino, come Lucio Presta) sostiene alcune cose interessanti, dall'alto della sua audience colossale. Sostiene per esempio che «è profondamente sbagliato far mungere una mucca a chi le mucche non le ha mai munte. Può far ridere una volta, ma poi il pubblico percepisce uno sgradevole senso di irrealtà. Così, tanto vale guardare i telefilm». E allora voi che cosa fate, nel preparare il cast? «Cerchiamo intanto qualcuno che sappia cantare, perché la nostra è prima di tutto una gara musicale. Ma saper cantare non basta, e quindi cerchiamo storie, casi umani. Per evitare che qualche aspirante ci racconti delle frottole, lavora per noi anche un gruppo di investigatori privati, che va a controllare ogni dichiarazione degli aspiranti. Poi li facciamo parlare e mescoliamo il tutto con la nostra sceneggiatura».
E insomma, quello che il produttore di uno degli show più seguiti del mondo sostiene è che un reality, perché funzioni, non deve perdere il suo ancoraggio: deve essere davvero vero. E come la mettiamo con il fatto che la televisione è sempre, e comunque, spettacolo e costruzione? «La mettiamo che noi facciamo spettacolo con i nostri concorrenti e le loro storie disperate, ci costruiamo sopra il copione. Ma il pubblico percepisce che la struttura di base non è inventata, e si appassiona». American Idol fa circa 16 mila provini a stagione: saranno anche tutte vere le storie raccontate, ma in compenso sono spesso mostruose e titillano il lato oscuro del «sogno americano». Infatti American Dreamz si intitola il film sarcastico di Paul Weitz, con Hugh Grant, che fa il verso al programma e che Lithgoe sconfessa. Alla fine, non è detto che non siano meglio i nostri reality ruspanti, dove almeno si recita a soggetto e con meno accanimento e dove la verità non deve essere a tutti i costi brutta sporca e cattiva.