Pascal Vernus: "La scrittura Geroglifica"

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-Kiya-
00giovedì 29 giugno 2006 02:08
Le civiltà sono mortali, osservava Paul Valéry. Le scritture lo sono altrettanto, potremmo aggiungere. Quale esempio più clamoroso della scrittura geroglifica, che, dopo essere stata per oltre tre millenni pomposa espressione della civiltà faraonica, scomparve completamente con l'affermarsi del cristianesimo bizantino? Ci volle il genio di Champollion per strapparla dall'oblio in cui era rimasta relegata per più di tredici secoli e conferirle un riconoscimento che, in questa fine secolo, continua a crescere. Oggigiorno la scrittura geroglifica affascina al punto da venire studiata anche al di fuori degli austeri seminari organizzati dalle istituzioni accademiche. Per trovare una spiegazione a questo successo inatteso, l'egittologo deve tener conto non soltanto delle sue peculiarità, ma anche delle condizioni storiche in cui fu creata e si sviluppò.
La scrittura geroglifica presenta due caratteristiche principali che vanno distinte nettamente. Innanzi tutto la materialità, ovvero il suo aspetto concreto, costituito dalla forma dei segni, dal loro carattere figurativo e dalle regle alla base della loro concatenazione; in secondo luogo l'organizzazione interna della scrittura, vale a dire il sistema con cui sono codificati e fissati graficamente gli enunciati linguistici. La specifica della scrittura geroglifica deriva dall'associazione di queste due caratteistiche, quantunque ciascuna abbia una certa autonomia che ci consente di studiarle separatamente.
Ciò che nella scrittura degli antichi egizi disorienta, sconcerta, intriga e affascina è il suo aspetto figurativo. I segni infatti, invece di rappresentare se stessi come le lettere del nostro alfabeto, sono immagini identificabili di primo acchito che rinviano a realtà dell'universo faraonico, un fatto evidente anche per chi non è esperto in egittologia. Sorge a questo punto un interrogativo: se i geroglifici sono immagini, in cosa si distinguono dalle immagini che non sono elementi di scrittura?
Tre proprietà permettono di stabilire questa distinzione:
1) In primo luogo il rapporto dei geroglifici con la realtà che rappresentano. Nel diventare segni di scrittura, le immagini hanno subito una calibratura in virtù della quale le loro proporzioni non corrispondono più alle proporzioni di ciò che rappresentano. Così la ciocca di capelli ha circa le stesse dimensioni dell’uomo che si colpisce la testa con un’ascia! La ragione di questa calibratura è chiara: se i geroglifici rispettassero le proporzioni degli esseri e degli oggetti reali cui si riferiscono dovrebbero averre dimensioni considerevoli per rendere leggibili anche quelli più piccoli, ad esempio una ciocca di capelli, senza contare che la loro concatenazione avrebbe richiesto spazi immensi.
2) In secondo luogo la concatenazione dei geroglifici. Gli altri tipi di immagini occupano sovente uno spazio considerevole su uno sfondo vuoto in cui sembrano perdersi. I segni geroglifici al contrario tendono a essere più fitti possibili in modo da riempire completamente lo spazio assegnato all’iscrizione. Invece di succedersi gli uni agli altri formano delle file come le nostre lettere e lasciando in tal modo ampi spazi vuoti, sono spesso sovrapposti (nel caso delle righe) o giustapposti (nel caso delle colonne) in unità spaziali, non delineate concretamente, dette “quadrati”.
3) In terzo luogo i geroglifici sono soggetti a regole di orientamento assai rigide, cui si sottraggono le altre immagini. Le regole sono evidenti quando si osservano i segni asimmetrici e in particolare quelli che rappresentano gli esseri viventi: uomini, divinità antropomorfe e animali. Si può infatti constatare come, a prescindere dalla posizione occupata nell’iscrizione, questi soggetti abbiano tutti lo sguardo rivolto nella stessa direzione che, in genere, coincide col punto di partenza del testo ed è quindi opposta a quella della lettura. Ciò avviene perché, se la nostra scrittura segue necessariamente e sempre la medesima direzione, da sinistra a destra, i geroglifici possono invece essere letti orizzontalmente da sinistra a destra o da destra a sinistra, oppure verticalmente nei due sensi.
In altre parole, esistono almeno quattro possibili direzioni di scrittura ed è l’orientamento dei segni asimmetrici a indicare in quale verso vada letta un’iscrizione: se gli esseri umani volgono lo sguardo a sinistra bisogna leggere da sinistra a destra e viceversa. La direzione di lettura più usuale per gli antichi egizi era quella da destra a sinistra. Grazie a queste quattro possibilità i geroglifici si adattano alle superfici con maggiore flessibilità delle scritture moderne.
Già straordinariamente originale per la forma, la scrittura geroglifica lo è anche per il sistema che la caratterizza.
Ogni scrittura è basata su un sistema di codificazione che permette di trasformare il materiale sonoro, ossia gli enunciati di una lingua, in materiale visivo (o tattile nel caso del Braille). La codificazione può essere effettuata foneticamente o ideograficamente, secondo il modo in cui viene segmentato l’enunciato. Nella scrittura fonetica, i segni codificano le unità che corrispondono ai suoni fondamentali della lingua, i “fonemi”, ossia [n] al quale corrisponde la lettera n, [o] al quale corrisponde la lettera o , [v] al quale corrisponde la lettera v e infine [e] al quale corrisponde la lettera e. Nella scrittura ideografica invece i segni codificano unità corrispondenti a unità di significato della lingua, ossia a parole. Ogni parola è in tal caso concepita globalmente, come accade nella scrittura cinese e talvolta in quelle alfabetiche, in cui “nove” può infatti essere scritto anche 9.
A priori si è tentati di pensare che il sistema geroglifico sia ideografico, poiché i segni sono figurativi, un’idea diffusa che però non consente di spiegare la reale complessità della scrittura egizia. Il sistema geroglifico infatti è ideografico e al tempo stesso fonetico e si basa su tre categorie di segni: gli ideogrammi, i fonogrammi e i determinativi.
Sono ideogrammi i geroglifici che rappresentano una parola o un’idea. Sono fonogrammi i segni utilizzati per scrivere un fonema o una sequenza di fonemi, rappresentati sempre da consonanti perché la scrittura egiziana non tiene conto delle vocali. Questa caratteristica, in apparenza sorprendente, è propria della famiglia camitosemitica, di cui fanno parte l’egiziano, l’arabo e l’ebraico, lingue nelle quali le sequenze di consonanti esprimono il significato fondamentale, mentre le vocali servono soltanto a rendere più preciso tale significato (i sostantivi e i verbi indicano esseri, cose o azioni in rapporto con questo significato, ecc.). Infine i determinativi sono classificatori che, posti alla fine di una parola scritta con ideogrammi e/o fonogrammi, indicano la classe semantica cui la parola appartiene. Da un lato essi facilitano l’identificazione di una parola, dall’altro aiutano a suddividere il testo in frasi.
Il sistema geroglifico è dunque basato sulle combinazioni fra ideogrammi, fonogrammi e determinativi. Purtroppo queste combinazioni sono stabilite dall’uso e non da una logica rigorosa, il che spiega come sia occorsa la genialità di Champollion per decifrare quella scrittura.
Proprio per le ragioni appena menzionate, i geroglifici sono senza dubbio difficili da utilizzare, sia per la forma che, a causa del carattere figurativo, è assai più complicata di quella delle nostre lettere, sia per il modo in cui son codificati gli enunciati del linguaggio, basato su un sistema complesso in cui, come abbiamo visto, si usano tre categorie di segni. Nonostante ciò, la scrittura geroglifica è stata usata per più di tremilacinquecento anni, dal 3150 a.C., data delle prime iscrizioni, alla fine del IV secolo d.C., quando Teodosio ordinò la chiusura dei templi pagani, abolendo gli ultimi luoghi in cui era ancora studiata e usata.
Come mai una scrittura così poco pratica durò tanto a lungo? Gli egizi furono forse incapaci di trovare soluzioni più semplici? No di certo. In alcuni campi seppero infatti superare gli inconvenienti dei geroglifici, servendosi nei testi letterari e religiosi, nei documenti pubblici e in quelli privati di scritture corsive, quali la ieratica e la demotica, in cui i segni geroglifici erano semplificati e in caso di necessità potevano essere uniti in uno stesso tracciato per scrivere più in fretta. Tuttavia i principi del sistema geroglifico restano immutati anche in queste scritture corsive che si leggono sempre da destra a sinistra.
Agli occhi degli egizi, la scrittura geroglifica, nonostante e forse anche a causa dei suoi inconvenienti, aveva risorse e qualità eccezionali. Infatti non soltanto fissa visivamente gli enunciati, ma può inoltre arricchire il messaggio linguistico di effetti speciali. In primo luogo, potendo essere letta in quattro direzioni, essa possiede una plasticità che le permette di adattarsi in modo straordinario agli oggetti e ai monumenti su cui viene riportata, dei quali mette in risalto l’architettura. In secondo luogo, essendo i suoi segni originariamente delle immagini, è in grado di integrarsi in maniera quasi simbiotica con le figure. Gli esempi in proposito non mancano. Così talvolta accade che il copricapo delle divinità sia semplicemente il segno geroglifico del loro nome. Meglio ancora, i geroglifici possono creare una vera e propria unità iconografica formando un motivo suscettibile di essere ripetuto lungo un intero fregio.
D’altra parte, il sistema geroglifico consente di affinare il significato delle parole e, al livello più elementare, la scelta dei segni permette di aggiungere un’indicazione che la lingua non può esprimere. Tali potenzialità di variazione grafica svolgevano anche un ruolo in campo religioso. Per questo motivo, in determinate epoche, si evitò di usare nelle camere funerarie i geroglifici raffiguranti animali o esseri pericolosi, da cui sarebbe potuto derivare un danno al defunto mummificato che tentava di vincere la morte con i riti. Le variazioni grafiche possono essere però molto più sofisticate e, in tal caso, sono note come “giochi di scrittura”. Non è tuttavia per pura combinazione che le risorse complessive della scrittura geroglifica siano state sfruttate soprattutto quando lo Stato faraonico era ormai scomparso. Ciò accadde semplicemente perché essa era ritenuta l’espressione più tenace dell’identità egizia, che ormai non poteva più essere veicolata attraverso il potere politico.
L’applicazione delle straordinarie proprietà della scrittura geroglifica era per gli egizi una vera e propria pratica filosofica. Come in molte altre civiltà, antiche e moderne, anche in quella faraonica non esisteva una separazione netta fra la realtà e i nomi e le immagini che la rappresentavano. In altre parole, studiare i vari modi in cui poteva essere scritto un elemento dell’universo equivaleva a studiare l’essenza stessa dell’elemento. A tal fine si passavano in rassegna i differenti geroglifici che potevano venire usati per scriverlo e si cercava anche di scoprire i legami fra quell’elemento e altri, scovando le somiglianze grafiche dei loro nomi. Si trattava inoltre di far apparire intere parti dell’infinita rete di analogie e di omologie sulla quale si fondava la coerenza dell’universo. Era in definitiva una ricerca metafisica che consentiva di conoscere il senso del cosmo.
Infine, e soprattutto, grazie alla scrittura geroglifica gli egizi fissarono sulla pietra, “per l’eternità”, dei segni grafici suscettibili di captare l’essenza stessa di ciò che nominavano con il suono e illustravano con l’immagine e, tramite la scienza sacra della scrittura, elevarono la filologia al rango di filosofia. I greci, che ebbero stretti rapporti con l’Egitto a partire dal VII secolo a.C., intravidero l’eccezionalità della scrittura geroglifica senza però riuscire a comprenderla perfettamente. A causa di quella comprensione imperfetta, autori come Platone avvolsero in un’aura d’esoterismo, di mistero e perfino di misticismo la civiltà faraonica ostacolando per lungo tempo la decifrazione dei geroglifici. Molti studiosi, fra cui il gesuita e orientalista tedesco Athanasius Kircher che nel XVII secolo tentò con scarso successo di decifrarli, erano persuasi che fossero simboli comprensibili soltanto per alcuni iniziati, folgorati da un’intuizione divina. Ancor oggi questa loro dimensione ha un ruolo importante nell’attrazione esercitata dall’Antico Egitto su un vasto stuolo di cabalisti, cultori di dottrine esoteriche e mistici.
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