Isabel Allende: "Una notte in Egitto"

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-Kiya-
00lunedì 29 agosto 2005 21:05
Voglio calarmi nella parte che più mi piace, quella del..."narrastorie", e dedicarvi un frammento che d'Egitto conserva un sapore un po' particolare.....

Il titolo del racconto che segue è:
"UNA NOTTE IN EGITTO" - tratto da AFRODITA di Isabel Allende


"... Sono da qualche parte nel Basso Egitto, avrei bisogno di una cartina per sapere esattamente dove... Sono arrivata qui dal Cairo perchè qualcuno mi aveva detto che è un posto interessante, ma mi sono dimenticata il motivo; non so cosa speravo di trovare qui, FORSE UNA PICCOLA AVVENTURA. Sai già che non viaggio in modo scientifico, preferisco farmi guidare dall’intuito. Dimentico date, nomi, luoghi, mi resta solo una vaga impressione generale, forme e colori che poi riappaiono nei miei disegni. All’aeroporto mi si avvicinò un giovane che si offrì come guida. Bruno, bello, con un sorriso luminoso ed enormi occhi neri, il tipo d’uomo che mi attrae a prima vista. In Egitto una donna non può andare in giro sola, non ti lasciano in pace; accettai perché quel ragazzo mi ispirò fiducia. Gli spiegai del mio lavoro e gli chiesi di portarmi a vedere artigianato, pietre preziose, perle per i miei gioielli.
Mahmoud decise di portarmi all’unico albergo del posto per farmi depositare le valigie e poi di accompagnarmi in un piccolo villaggio nubiano al confine con il deserto. Mi ritrovai così in un’automobile sgangherata circondata da quattro parenti della guida che si aggregarono alla spedizione. … Mi passò per la testa che non era una buona idea, ma era troppo terdi per tirarmi indietro e quegli uomini erano così gentili e sembravano così contenti di far pratica dl loro inglese con me che misi da parte i miei timori.
Fu un viaggio estenuante. Dopo almeno un paio d’ore intravedemmo un villaggio bianco che brillava contro la distesa di sabbia. Mahmoud annunciò che eravamo arrivati a casa di suo nonno e guidò la macchina verso una recinzione in muratura che, come mi spiegò, si allungava per più di un chilometro. All’interno dei muri di argilla dipinti di blu e di bianco c’erano diverse dimore; era evidente che lì viveva una famiglia numerosa. Una piccola moltitudine uscì per riceverci e per osservarmi con curiosità: cugini, zii, sorelle, nipoti, molti bambini…Che confusione!
"Benvenuta nella nostra casa. Lei è la prima persona straniera che mette piede in questa proprietà" disse Mahmoud.
Pensai che con un pizzico di fortuna questa poteva essere l’avventura che desideravo. Le donne, vestite di nero e leggermente intimidite all’inizio, mi portarono datteri e altra frutta su grandi vassoi e mi invitarono nelle loro case. Una giovane mi condusse verso un grande baule per mostrarmi il suo corredo da sposa, tutto ricamato con un motivo di fiori e foglie intrecciate, che aveva impiegato anni a preparare. Un’altra volle che vedessi la sua macchina per cucire e una terza il grande frigorifero bianco che campeggiava in mezzo alla sala, l’oggetto più prezioso. Fuori il sole batteva spietato, ma tra le pareti d’argilla faceva fresco; una musica dolce e malinconica giungeva da qualche parte e potevo sentire le litanie musulmane da una moschea vicina… Le donne non si stancavano di studiare i miei braccialetti e accarezzarmi le braccia, stupite dalla mia pelle bianca e dal colore dei miei capelli, tinti, come cercai inutilmente di spiegare: loro non parlavano l’inglese e io non parlavo l’arabo. Anch’io studiavo i loro tatuaggi e i loro ornamenti d’argento, mentre da una certa distanza gli uomini mi guardavano con insistenza, bisbigliando e ridendo apertamente. Tutti gli occhi mi si inchiodarono addosso quando aprii la borsetta, tirai fuori uno specchietto e mi misi il rossetto. Mi fecero accomodare in una sala con mobili austeri allineati contro le pareti e fotografie di nozze e di antenati colorate a mano; le donne servirono tè e limonata a me e agli uomini, ma non si sedettero con noi. La mia guida mi disse che lì in Egitto aveva amici potenti; qualsiasi cosa mi fosse necessaria lui poteva ottenerla, la mia felicità era fondamentale, desiderava che stessi bene nel suo paese e che avessi molte avventure, non era forse questo quello che cercavo? Si mise a ridere e gli altri si unirono a lui. I suoi occhi mi stavano bruciando; il caldo e la stanchezza del viaggio iniziavano a farsi sentire, avevo bisogno di fare un bagno; volevo tornare in albergo al villaggio, ma non potevo certo offendere i miei anfitrioni. Mi alzai con l’intenzione di congedarmi. Mi accorsi che gli uomini si scambiavano segnali che non riuscii a interpretare e mi resi conto che le donne si erano ritirate una a una, con discrezione, lasciandomi sola. Mi diressi verso la porta, fuori era calata la sera e iniziava a rinfrescare, calcolai che nel giro di mezzora si sarebbe fatta notte e che la strada di ritorno al villaggio era lunga. Uscii con passo deciso, scostando gli uomini che mi si paravano davanti. Allora Mahmoud e gli altri mi seguirono alla macchina e, dopo aver discusso un momento, due salirono davanti e mi fecero salire dietro, stretta tra altri due. Sentivo il loro respiro sulle guance, le gambe contro le mie, mani che mi toccavano, le spalle, i gomiti, la camicetta. Incrociai le braccia sul petto.
"E’ ora di tornare in albergo" incalzai.
"Si, certo," replicò Mahmoud sempre sorridendo, "ma prima vogliamo mostrarle le dune"...
La notte si lasciò cadere all’improvviso. Il profilo del deserto illuminato dalla luna era straordinario. La strada era buia e procedevamo senza fari; l’autista li accendeva quando temeva che arrivasse un veicolo nella direzione opposta, e abbagliava. Neanche lui rispettava la sua corsia, andavamo a zig zag da una parte all’altra, come facevano anche le rare macchine che incrociavamo. Avevo la sensazione che viaggiassimo da molto, che girassimo in tondo e che fossimo passati più volte vicino allo stesso gruppo di palme e alle stesse dune, ma ormai non ero sicura di nulla, è facile perdere l’orientamento nel deserto.
"Sono molto stanca Mahmoud, voglio tornare in albergo", dissi nel modo più fermo possibile.
"Ma se no ha ancora mangiato! Cosa penserà della nostra ospitalità? Prima dobbiamo invitarla a cena a casa, come è consuetudine".
"No, grazie".
"Insisto. Mia madre ha passato tutto il pomeriggio a preparare da mangiare per lei."
Allora capii che ci trovavamo di nuovo davanti al muro dipinto di blu e bianco, che stavano attraversando lo stesso portone, che adesso era illuminato da due lanterne ad olio. Tutto attorno era buio: era mancata la luce al villaggio, mi spiegarono. In lontananza scintillava la luce tremula di altre lanterne o piccoli falò. Ci fermammo davanti a una delle case, scendemmo e finalmente potei stendere le gambe, ero madida di sudore nonostante l’aria fresca della notte. I quattro uomini cominciarono a parlare sovrapponendo le voci, discutendo e gesticolando come se fossero arrabbiati, ma non capii una sola parola di quello che dicevano. Alla fine tre di loro sparirono e Mahmoud mi prese per un braccio, scusandosi per l’assenza di luce, e mi condusse verso la casa buia. Attraversammo diverse stanze, camminammo per corridoi che mi parvero interminabili, alle mie spalle si chiudevano delle porte, sentivo passi e mormorii, ma non vidi nessuno. A volte inciampavo negli stipiti e nei mobili, ma il mio anfitrione mi sorreggeva con decisione, e anche con una certa grazia. Arrivammo in una stanza, illuminata solamente da due piccole candele quasi consumate, in cui c’erano un tavolo e due sedie, una di fianco all’altra. Nell’aria aleggiava un sottile aroma di incenso misto a quello del cibo e delle spezie.
"Dov’è il resto della famiglia?" chiesi.
"Hanno già mangiato, siamo solo noi", replicò Mahmoud facendomi accomodare. Mi sedetti, attanagliata dall’angoscia.
Sul tavolo c’erano diversi recipienti dal contenuto indistinguibile alla debole luce delle candele; Mahmoud prese un piatto e mi servì.
"Cos’è?"
"Carne".
"Che tipo di carne?"
"Bollita"
"Che tipo di carne bollita?"
Si toccò lo stomaco e le costole con un gesto vago. Ho bisogno di vedere quello che mangio, specialmente se è carne; mi piace esaminare tutto nel dettaglio prima di portarlo alla bocca, ma era troppo buio. Mahmoud iniziò a servirmi le altre vivande e mentre le posava sul piatto me le descriveva: pesce del Nilo, formaggio di capra, olive nere, fichi maturi, uova, melanzane fritte, crema di ceci e yogurt. Mi lavai le mani in una bacinella di acqua e limone e Mahmoud me le asciugò con un telo, i suoi gesti erano lenti come carezze. Le ritrai troppo bruscamente, probabilmente lo offesi. Assaggiai un boccone e mi piacque, la carne era d’agnello ben condita, così tenera che si disfaceva prima di masticarla. L’uomo, seduto così vicino da sfiorarmi il viso con il suo, mi guardava mangiare e commentava la mia grande bellezza. Ancora una volta mi assicurò che lui era il mio amico in quel paese e che dovevo considerarlo il mio fidanzato egiziano. Io non dicevo nulla ma il sudore mi scendeva lungo la schiena e le ginocchia mi tremavano. La cena era squisita e il tè – tiepido e molto zuccherato, con un retrogusto di menta o di gelsomino – rinfrescante. Mahmoud prese un’oliva e me l’appoggiò in bocca; era un po’ amara, ma deliziosa. Poi mise del formaggio e della crema di ceci su un tozzo di pane arabo, ne mangiò una parte e poi me lo passò, sorridendo rapito quando lo ricevetti. Il profumo del pane appena sfornato, ancora tiepido, mescolato alla fragranza dei piatti, delle candele di cera e dell’incenso era così intso che chiusi gli occhi. Mi sentivo spossata, i sensi esaltati. A bassa voce, quasi sussurrando, lui recitava una cantilena in cui mi paragonava alla luna e alle stelle del deserto; la mia pelle, diceva, sembrava marmo, non aveva mai visto una pelle così morbida e bianca.
"Devo tornare in città…"
"Ha un fidanzato in America? Un marito, forse?"
"Si, ho un fidanzato molto geloso".
"Come non esserlo? Io non permetterei a nessun uomo di posare gli occhi su di Lei, vivrei per amarla e appagarla. Perché questo fidanzato la lascia viaggiare da sola?"
"E’ molto tardi, Mahmoud, per favore, mi riporti in albergo".
"Assaggi queste verdure, sono dell'orto di mia madre, cucinate con le sue mani..."
Era una pietanza a base di melanzane, distinsi l’aroma di noce moscata e cannella, una combinazione esotica. Me ne servii ancora, e presi ancora un po’ d’agnello, misurando per la prima volta le dimensioni della mia imprudenza. Nessuno sapeva dove alloggiavo, nessuno mi aveva visto andare con quegli uomini verso il deserto, potevo sparire senza lasciare tracce. Mahmoud mi versò dell’altro tè. Nell’immenso silenzio della casa buia, il suono del liquido che cadeva nel bicchiere era nitido come note di uno strumento a corda. Una delle candele si consumò completamente in una pozza di cera sciolta.
"E’ stata una bella giornata? Una giornata memorabile? Si è divertita?" volle sapere il mio anfitrione, al mio orecchio.
"Si, grazie, ma ora vado".
Cercai di alzarmi, ma mi trattenne quasi abbracciandomi. Ancora una volta mi avvolse con la sua voce melodiosa descrivendo la mia bellezza, paragonandomi alle ury del Paradiso di Allah e alle stelle del cinema, e assicurandomi che non si sarebbe mai stancato di guardarmi, che avrebbe potuto trascorrere l’intera vita davanti a una donna come me. Mi stava prendendo in giro, immagino, ma avevo voglia di credergli, nessuno mi aveva mai detto quelle cose. E continuava a parlare, a parlare, sempre con lo stesso tono di voce… Non volevo forse che anche lui stesse bene? Che anche per lui quello fosse un giorno memorabile? La sua mano si posò sul mio collo e un lungo brivido mi fece sussultare. Mahmoud insistette, la cena non era ancora finita, mancavano i dolci. Con grande delicatezza fece scivolare nella mia bocca un pasticcino di pistacchi e miele, senza smettere di accarezzarmi il collo, giocherellando con le mie collane e i miei orecchini, adulandomi nel suo inglese forzato. Assaggi questa delizia turca, supplicò. Era morbida, dolce, profumata di rose.(...) … La fiamma dell’ultima candela vacillò per qualche istante e poi si spense completamente. Dalla finestra vidi la luna illuminare la notte egiziana. Presi un altro pasticcino e lo morsi voluttuosamente..."



Ciò che non ci è dato vivere lo incontriamo nei nostri sogni....


-Kiya-
00mercoledì 10 giugno 2009 14:12
Ci sono momenti in cui rifugiarsi nei sogni è ancora più piacevole del solito.
Oggi, qualcosa di non ben definito mi ha riportato alla mente questo frammento... leggerlo è sempre un attimo di profondo e intenso trasporto.
-Kiya-
00domenica 20 giugno 2010 18:59
Per le signore di EgiTToPhiLìa:

chi ha voglia di lasciarsi trasportare un po?

Conoscete questo racconto di Isabel Allende?

A me piace rispolverarlo... di tanto in tanto.....
-francis-
00lunedì 21 giugno 2010 10:31
L'ho letto tempo fa. Pur con qualche imprecisione, il testo è molto bello...
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