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SCIASCIA: BATTISTA, MACALUSO, DALLA CHIESA, E DI NUOVO MACALUSO

Ultimo Aggiornamento: 04/01/2007 23:48
04/01/2007 23:48
 
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CORRIERE DELLA SERA
2 gennaio 2007
MAFIA E ANTIMAFIA
le Scuse Dovute a Sciascia
Chi allora attacco' dovrebbe ritrattare
Pierluigi Battista

archivio.corriere.it/archiveDocumentServlet.jsp?url=/documenti_globnet/corsera/2007/01/co_9_07010...

Vent' anni fa a Leonardo Sciascia fu bruscamente intimato di rinchiudersi «ai margini della società civile». Scrisse proprio così, il «Coordinamento antimafia», nel gennaio del 1987: «collochiamo Sciascia, con tutta la nostra forza, ai margini della società civile». E diedero a Sciascia anche del «quaquaraquà», il più spregevole degli individui secondo la gerarchia di valori del don Mariano Arena del Giorno della civetta. Un assaggio, e forse neanche il più indigesto, degli insulti che si riversarono su Sciascia all' interno di una disputa aspra, che presto fu ribattezzata «l' ammiraglia delle polemiche». Oggi, a vent' anni di distanza, quella polemica sui «professionisti dell' antimafia» innescata da Sciascia con un articolo pubblicato dal «Corriere della Sera» il 10 gennaio 1987, viene puntualmente ricostruita da Attilio Bolzoni su «Repubblica» e da Leoluca Orlando in un' intervista a Sandra Amurri per «l' Unità», in cui l' ex sindaco di Palermo distingue le parole di Sciascia dall' uso degli «sciasciani di borgata» che a suo dire le «strumentalizzarono» come passaporto culturalmente accettabile nella loro opera di denigrazione dell' antimafia. Non è poco, questo riconoscimento postumo del valore di ciò che scrisse e denunciò Sciascia. Ma allora, vent' anni fa, questa distinzione non esisteva. Il bersaglio degli anatemi e delle scomuniche era proprio lui, lo scrittore di Racalmuto, il Leonardo Sciascia che attraverso i suoi romanzi aveva per primo messo a punto la chiave in grado di penetrare la dimensione enigmatica dell' antropologia mafiosa, ma che, inopinatamente, per colpa di quell' articolo pubblicato dal «Corriere» allora diretto da Piero Ostellino, si trasformò, come in una diabolica metamorfosi, nel sabotatore «oggettivamente» colluso con gli amici della mafia, il nemico numero uno della battaglia contro la mafia, il traditore da esecrare, da respingere, da bandire dal consorzio civile delle persone perbene. Sciascia aveva avanzato il dubbio, a proposito di un libro di Christopher Duggan sulla mafia durante il fascismo, che «l' antimafia», senza il rispetto delle garanzie dello Stato di diritto e con la tentazione di raggiungere «un potere incontrastato e incontrastabile» allergico al dissenso e insofferente alle critiche, potesse trasformarsi in uno «strumento di potere» anche in un sistema democratico. Se la prendeva con l' allora sindaco di Palermo Orlando, il quale, «per sentimento o per calcolo» si esibiva per «tutto il suo tempo» come «antimafioso», e perciò si sentiva come in una «botte di ferro»: «Chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un' azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che alla fine qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso». Inoltre Sciascia, prendendo spunto da un notiziario del Consiglio superiore della magistratura, avanzava come esempio le motivazioni dell' «assegnazione del posto di procuratore della Repubblica a Marsala al dottor Paolo Emanuele Borsellino» in virtù dei suoi incarichi nei processi di mafia. La reazione fu immediata, e con il corollario di una violenza verbale che lascia ancora sbigottiti. Il «Coordinamento antimafia» («una frangia fanatica e stupida», secondo la definizione dello scrittore), espelle Sciascia dalla «società civile», lo liquida come un «quaquaraquà» e si dice certo che Sciascia, per una «certa affinità di cultura», ha nel suo cuore non Orlando, ma un sindaco come Vito Ciancimino, «che gestiva la cosa pubblica in nome e per conto della mafia». Marcelle Padovani, sul «Nouvel Observateur», accusa Sciascia di replicare, per incoercibile esibizionismo, le sue «misere polemiche» contro l' antimafia. Sciascia viene sottoposto al rito feroce del «non riconoscimento», le sue ubbìe garantiste sono svilite a pretesti per portare acqua al mulino dell' anti-Stato. Tra i suoi accusatori più veementi si distingue Giampaolo Pansa, che scrive di provare «una gran pena» al cospetto di «uno Sciascia che si è messo a combattere con Sciascia», denuncia la scomparsa del «massimo scrittore civile italiano». Eugenio Scalfari definirà la posizione di Sciascia come «l' esempio di una trahison des clercs quale più lampante non si poteva dare. Ma del resto Leonardo Sciascia non è nuovo a questo genere di sortite, nelle quali la vanità personale fa spesso premio sulla responsabilità civile». Attorno a Sciascia si fa il vuoto. Con l' eccezione dei radicali, ai quali lo scrittore si era avvicinato in precedenza provocando il ripudio del suo ex amico e custode dell' ortodossia comunista Renato Guttuso: «Il senso di sgomento che ho provato nell' apprendere la notizia della tua candidatura al Pr mi ha fatto riflettere sulla misura e qualità della mia amicizia per te». O con quella di Rossana Rossanda, che interviene in prima persona a favore dello scrittore, tanto che sul «Manifesto» appare un articolo dal titolo «Un triste processo a Sciascia», in cui si deploravano gli attacchi a «Sciascia il cinico, Sciascia il rinunciatario». Lo scrittore contrattacca con una vis polemica particolarmente accesa. Ne ha per Pansa («non so se si è convinto di essere un padreterno»), che «pirandelleggia sull' uno che sono stato e sul due che sono» e che «sembra del tutto ignaro dell' esistenza del diritto e spara contro di me la sua brava raffica». Replica risentito a Scalfari: «In quanto alle "sortite", capisco benissimo che non gli passi per la testa il sospetto che si possa scrivere per null' altro che per amore della verità». Descrive il nucleo culturale e politico del suo contendere: «Respingere quello che con disprezzo viene chiamato "garantismo" - e che poi è un richiamo alle regole, al diritto, alla Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un errore di incalcolate conseguenze». Oggi sono passati vent' anni da quella polemica furiosa che costrinse il «Corriere» a intervenire a fianco dello scrittore («Perché siamo con Sciascia») nella difesa contro i «chierici dell' intolleranza». Il protagonista della disputa è morto nel 1989, non prima, come ha documentato Matteo Collura nel suo Il maestro di Regalpetra, di aver chiarito con Paolo Borsellino, in un incontro a Gibellina, che con le sue parole non intendeva attaccare un magistrato, ma un metodo («Tra me e Sciascia non vi fu alcuno scontro», dirà lo stesso Borsellino). Due magistrati come Falcone e Borsellino sono stati assassinati dalla mafia. Si sono celebrati processi (taluni, quelli costruiti sul nesso tra mafia e politica, con esiti fallimentari). Lo stesso Falcone, prima di essere massacrato a Capaci dall' anti-Stato, è stato sottoposto a critiche feroci, spesso dagli stessi protagonisti, è il caso di Leoluca Orlando, coinvolti nell' «ammiraglia delle polemiche» del 1987. Ora si assiste a piccoli segnali di ripensamento sui toni sfoderati al tempo contro Sciascia. Piccoli, significativi, ma ancora insufficienti. Una buona base, si spera, per riconoscere, vent' anni dopo, la necessità di chiedere scusa a Leonardo Sciascia per il trattamento riservatogli. Una necessità, e un atto di coraggio.




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IL RIFORMISTA
giovedì 4 gennaio 2007
VENT’ANNI DOPO.
DI EMANUELE MACALUSO

Antimafia, non tutto il Pci
si schierò contro Sciascia


SEGUE DALLA PRIMA.
RIPUBBLICHIAMO UN ARTICOLO DEL 1987 DELL’«UNITÀ» DI EMANUELE MACALUSO
La mafia non si combatte solo con i magistrati
Nella sostanza Sciascia ha ragione. La crisi della Sicilia è comunque difficile e serve una battaglia politica e culturale, non solo di un partito


www.ars.sicilia.it/DocumentiEsterni/UfficioStampa/RassegnaPdf/articolipdf/5...




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L'UNITA'
4 gennaio 2007
SCIASCIA. PERCHÉ NON MI PENTO
Nando dalla Chiesa

www.ars.sicilia.it/DocumentiEsterni/UfficioStampa/RassegnaPdf/articolipdf/5...




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IL RIFORMISTA
venerdì 5 gennaio 2007
Em.ma
DALLA CHIESA, L’UNITÀ E CHIAROMONTE

In un articolo sull'“Unità” dal titolo «Sciascia, perché non mi pento» Nando Dalla Chiesa ribadisce tutte le cose che una parte della sinistra disse sullo scrittore siciliano dopo il suo articolo sui «professionisti dell'antimafia» di cui ho parlato ieri sul “Riformista”. Io non contesto il fatto che Dalla Chiesa difenda le sue posizioni. La questione tuttavia non si esaurisce qui perché si tratta di sapere se una persona (in questo caso Sciascia) esprimendo su un tema scottante - mafia-antimafia - opinioni diverse da altre persone che affrontarono lo stesso tema, potesse essere bollato come «quaquaraquà» e in ogni caso, come uno che dava una mano al nemico. Gerardo Chiaromonte, direttore dell'“Unità” nel 1987, condivise la posizione come quella mia ripubblicata ieri dal “Riformista”. Dalla Chiesa scrive «che tutti i direttori di giornale (Scalfari escluso) erano avvinti da un intreccio surreale che univa complicità aperte, omertà di partito, bisogno di legalità “ben temperata”, rispetto sacro per il maestro pensiero, diffidenza verso il pool di magistrati nati nei processi al terrorismo». Chi osò pubblicare sul tema quel mio articolo è stato quindi messo all'indice. Ma l'“Unità” è ancora l'“Unità”?







INES TABUSSO
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