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Politica internazionale

Ultimo Aggiornamento: 12/03/2024 11:08
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01/07/2011 10:02
 
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Il Partito Comunista Cinese
compie novant'anni


Mentre censura e repressione impediscono una riflessione indipendente, si scatena la propaganda


Il Partito Comunista Cinese compie novant'anni, e la propaganda si scatena. In tutto il Paese il rosso è il colore di ordinanza, che sia in televisione, per le strade decorate di bandiere, o nei rally negli stadi e nelle piazze che celebrano il grande, il glorioso, l'unico salvatore della Cina: il Partito Comunista Cinese e i suoi leader.
Il 1 luglio, quest'anno, oltre ad essere una cifra tonda – dettaglio fondamentale per tutti gli anniversari – cade nel mezzo di una campagna “rossa” intensa, volta a preparare, già da mesi, il terreno per il 18esimo Plenum del Partito, che si terrà nell'ottobre del 2012. L'anno prossimo, il Partito organizzerà le nuove nomine del Politburo, comprese quelle del Premier e del Presidente, per sostituire Wen Jiabao e Hu Jintao, attualmente in carica. Si tratta di una successione che non ha precedenti: i nuovi leader (che dovrebbero essere Xi Jinpin e Li Keqiang, a scanso di imprevisti dell'ultim'ora) infatti non sono né stati attivi negli anni rivoluzionari che vengono ora ricelebrati tramite le commemorazioni per l'anniversario, né tantomeno designati da un leader rivoluzionario – come avvenne per l'attuale dirigenza, scelta da Deng Xiaoping ancora negli anni Novanta. Il problema della legittimità dunque si pone, eccome, e la propaganda martellante vorrebbe essere il miglior antidoto contro i dubbi.

Così, il venerando Partito si mobilita per favorire una transizione senza intoppi, e gli ultimi mesi dimostrano che, nei periodi di incertezza, essere conservatori è ancora la scelta più sicura: Bo Xilai, il governatore di Chongqing, ha lanciato da due anni la “campagna rossa” per eccellenza, imponendo il canto delle “canzoni rosse”, facendo inviare ogni giorno agli abbonati alla telefonia mobile della sua municipalità (17 milioni) un SMS con una frase di Mao o di Deng Xiaoping, promuovendo il “raccontare storie rivoluzionarie” fra i ragazzini delle scuole, e via dicendo. La televisione locale ha bandito tutta la pubblicità, ed è un susseguirsi di canzoni rivoluzionarie vecchie e nuove, e di alti sentimenti della pomposa, melensa, e prevedibile “etica rivoluzionaria” voluta (ma non necessariamente osservata) dal Partito. All'inizio, molti risero delle iniziative di Bo Xilai, aspirante membro del Politburo, ma da quando la “campagna rossa” è stata promossa con entusiasmo in tutta la Cina, se ne ride un po' meno, e si aspetta che la follia propagandistica abbia presto termine.

Il Partito del resto è in pieno boom: ha superato gli 80 milioni di membri, secondo le statistiche ufficiali, ed ha fatto nuove reclute in particolare fra i giovani – i quali, vuoi per calcolo politico, vuoi per vero idealismo, hanno fatto domanda a centinaia per essere ammessi nei ranghi dell'organizzazione politica che governa il Paese. Prima, era un'organizzazione clandestina e rivoluzionaria. Oggi, è la più potente organizzazione politica ed economica del pianeta, restia ad ogni riforma ed apertura politica ma lanciatissima sul piano della finanza, degli investimenti anche all'estero, e della diplomazia internazionale.

Fra gli eventi per la celebrazione, diversi megafilm fatti con budget hollywoodiani, che quante più persone possibile devono vedere – anche a costo di essere portate con gli autobus aziendali in giorni lavorativi. Il primo fra questi “blockbuster” un po' forzati è “L'inizio della grande rinascita”, dove si ripercorrono i primi passi clandestini, la guerriglia, la guerra civile e poi il trionfo delle truppe maoiste, ripercorrendo dunque delle tappe rivoluzionarie che oggi colpiscono gli spettatori in particolare per come inneggino ad azioni rese attualmente tutte illegali: come le proteste contro i corrotti, le manifestazioni, i pamphlet politici, le assemblee. L'umorismo del web cinese è tale che i più importanti siti web di film e critica cinematografica hanno ricevuto l'ordine di disabilitare i commenti dell'utenza, lasciando dunque solo recensioni entusiastiche d'ordinanza.

Pochissime le riflessioni autorizzate sui 90 anni del Partito: chi ha provato, in tempi recenti, ad aprire in pubblico il dibattito sui disastri avvenuti in Cina sotto la guida del Partito, dal Grande Balzo in Avanti (che causò una violenta carestia che portò alla morte di milioni di persone) alla Rivoluzione Culturale, all'attuale stato di corruzione endemica, viene immediatamente messo a tacere.

Alcuni, ugualmente, ci provano, come ha fatto ieri il professor Zhao Shilin, delll'Università Minzu di Pechino, che in una lettera pubblica ha denunciato il modo selettivo con cui il Partito organizza il suo compleanno, impedendo di rivedere in modo aperto “i terribili errori” fatti. “Non deifichiamo e glorifichiamo il Partito”, ha vanamente implorato Zhao, rara voce coraggiosa in un crescendo rivoluzionario che non conosce limiti del kitsch.

Non che il Partito non ci tenga a “rivedere la sua storia”: anzi. Nuove storiografie ufficiali sono state approvate, documentari e speciali sui giornali. Ma un'unica versione dei fatti è ammessa, e gli ultimi mesi hanno ampiamente mostrato che la tolleranza nei confronti del dissenso, o anche solo di opinioni diverse, è oggi a livelli bassissimi.

A 90 anni, il Partito sembra oscillare fra l'orrore per ogni critica, l'ossessione per il controllo, e l'orgoglio per la crescita economica della Cina e per la sua riconquistata dignità internazionale. Un compleanno che mostra come, sotto ai canti patriottici e alle bandiere rosse, ci sia anche il timore di ammettere ogni, seppur minima, debolezza.

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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01/07/2011 17:30
 
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Strauss-Kahn potrebbe essere liberato
"Troppe lacune in racconto cameriera"



Clamorosa retromarcia degli investigatori, lo scandalo che ha fatto perdere il posto al direttore del Fondo monetario internazionale potrebbe essere una montatura. Un investigatore: "L'indagine è un disastro". La donna ha un rapporto sospetto con un detenuto e riceve versamenti sul suo conto da tutto il mondo

NEW YORK - Dominique Strauss Kahn potrebbe tornare libero già oggi. La clamorosa svolta arriva a pochi giorni dall'inizio del processo, previsto per il 18 luglio. Gli investigatori fanno un'eclatante marcia indietro e adesso rivelano: la cameriera che lo accusa ha mentito ripetutamente.

L'accusa non regge più e lo scandalo che ha fatto perdere il posto al direttore del Fondo monetario potrebbe rivelarsi - se non la montatura dei suoi nemici politici in Francia che pure era stato ipotizzata - un'invenzione della donna che ha denunciato lo stupro: per altri fini. Il sesso c'e stato. E su questo dall'inizio la difesa è stata chiara. Ma è l'accusa di violenza che ora vacilla, come scrive il sito del Nyt. La procura non solo è divisa sulle accuse di Ofelia - il nome sotto cui fin qui è stata celata la cameriera di origine africana - che sarebbe caduta in contraddizione più volta. Ma l'accusatrice avrebbe un passato così burrascoso da non poter sostenere la versione dei fatti che ha tenuto fin qui agli arresti domiciliari - seppure dorati - l'uomo che fino al 14 maggio scorso sognava di finire all'Eliseo dell'odiato Nicolas Sarkozy. E che stamattina alle 11 locali comparirà davanti a quella corte distrettuale di Manhattan che gli aveva fatto balenare la possibilità di trascorrere in galera i prossimi 70 anni.

La stessa corte che adesso invece potrebbe addirittura mettere fine - momentaneamente - al caso che ha catturato i giornali di tutto il mondo: rimandando in libertà l'uomo fino a ieri sulla gogna. La prigione dorata dove Dominique Strauss Kahn e la moglie Anna Sinclair trascorrono le ore che possono separarli dalla fine dell'incubo è già assediata da giornalisti e paparazzi. Ma le finestre del civico 153 di Franklin Street - nel cuore del quartiere di Tribeca che i locali di Bob De Niro hanno trasformato in attrazione turistica - sono sbarrate come sempre.

Proprio ieri un libro uscito in Francia raccoglieva l'ultima verità della signora: "Sono spaventata ma
usciremo a testa alta". Che cosa è successo? I sospetti della difesa si sono rivelati fondati. Da subito Ben Brafman, l'avvocato che aveva fatto assolvere Michael Jackson dall'accusa terribile di pedofilia, aveva giocato a carte più o meno scoperte. Il sesso? Senza ammettere alcunché l'avvocato aveva evidenziato dal primo momento che la stessa ricostruzione della polizia non stava in piedi: non configurava una violenza. Se sesso c'era stato era stato consensuale. Che l'ex capo dell'Fmi fosse conosciuto al Sofitel come un cliente particolare non era un segreto per nessuno.

Ma un conto sono i comportamenti più o meno licenziosi e più o meno eticamente leciti - o illeciti. Un conto quell'accusa infamante: stupro. Il diritto americano su questo è implacabile. In questi casi si gioca uno contro uno. Non è un particolare di poco conto che il 90 per cento delle cause di violenza sessuale vengano risolte con il patteggiamento: dimostrare davanti a una giuria popolare - come impone la legge di qui - la violenza o meno di un rapporto è sempre più difficile. In gioco la credibilità dei due testimoni-protagonisti. E proprio sul concetto di credibilità rischia di andare in frantumi tutta l'inchiesta.

Da quel mezzogiorno del 14 maggio Ofelia ha mentito e si è contraddetta più volte. Non solo. Secondo le testimonianze degli investigatori l'indagine "sarebbe un disastro". Nel giorno stesso in cui ci sarebbe stato lo stupro la donna telefonò a un amico che si trovava in carcere con cui discusse dei possibili "benefici" di quell'incontro al Sofitel. La telefonata è stata registrata. E l'uomo fa parte di un gruppo di persone - forse sarebbe già meglio dire una banda - che hanno versato sul conto della povera ragazza madre africana 100 mila dollari in due anni. Depositi che arrivano dalla Georgia, dall'Arizona, dalla Pensylvania e anche da New York.

Gli investigatori ipotizzano traffico di droga e riciclaggio di denaro. Ma Ofelia ha mentito su tanti particolari della sua vita privata. Quella che il suo avvocato difensore dipingeva come una musulmana modello è una donna dal passato e forse dal presente a dir poco movimentato. Aveva sostenuto di aver fatto richiesta di asilo per uno strupro subito in Africa: non ce n'è traccia. Aveva sostenuto di avere subito la mutilazione dei genitali: è falso. Sono stati gli stessi investigatori a incontrare gli avvocati di Strauss-Kahn per decidere quali passi prendere. Questa mattina alle 11 il destino dell'uomo che puntava alla presidenza della Francia potrebbe avere l'ennesimo - e questa volta per lui fortunato - inaspettato giro. Il giudice potrebbe addirittura considerare di mandarlo libero in attesa del processo. Sono caduti i presupposti di fuga e di reiterazione di un reato tutto da dimostrare.

Rimangono i 5 milioni di dollari di assicurazione oltre al milione di "bailout" già concesso. Ma l'intera vicenda getta già una luce negativa sul primo caso portato avanti dal procuratore Cyrus Vance. Il nuovo arrivato - dopo quarant'anni di regno del mitico Robert Morgenthau - qui si giocava la sua credibilità. E la sua procura è quella che indaga, oltre che sui crimini comuni, anche su quelli di un "quartiere" chiamato Wall Street. Ha proprio ragione l'investigatore che ha confessato che l'inchiesta è un disastro. Anzi per la precisione "a mess": che in inglese vuol dire anche "un casino".
repubblica.it

bella figura...
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08/07/2011 11:49
 
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Chiuso il News of the World
Cameron: inchiesta pubblica



Sarà avviata un'inchiesta pubblica, guidata da un giudice, sullo scandalo delle intercettazioni che non coinvolge solo la stampa, ma anche il modo con cui funziona la polizia e la politica.

News of The World nella bufera per le intercettazioni illegali chiude: l'ultimo numero del domenicale del gruppo Murdoch uscirà questa domenica. Lo ha annunciato James Murdoch, il figlio del miliardario australiano. L'ultimo numero del domenicale non avrà pubblicità e i ricavi andranno in beneficenza.

Intanto, domani l'ex portavoce del primo ministro David Cameron, Andy Coulson, sarà arrestato per lo scandalo delle intercettazioni di News of the World. Lo riporta il Guardian. Coulson è stato informato dalla polizia che sarà arrestato domani mattina perché è sospettato di esser stato a conoscenza, o di esser stato direttamente coinvolto, nell'intercettazione di cellulari quando era al timone del tabloid del gruppo Murdoch. «News of the World aveva ragion d'esser nel mettere la gente di fronte alle loro responsabilità», ha detto James Murdoch, il numero due del gruppo annunciando la chiusura del domenicale al centro della bufera delle intercettazioni: «Ma abbiamo sbagliato quando riguardava noi stessi».

La decisione di chiudere una testata vecchia 168 anni ha preso di sorpresa i dipendenti, riporta SkyNews. Nella lunga comunicazione a News International, il braccio britannico delle operazioni di News Corp, Murdoch ha citato una serie di «errori» fatti dal giornale. Murdoch ha detto che «i giornalisti che lavorano a News of the World oggi pagano per le trasgressioni di altri».

Domenica News of the World uscirà senza pubblicità. Molti inserzionisti si erano volontariamente ritirati per boicottare il giornale per lo scandalo delle intercettazioni. La bufera intercettazioni del tabloid rischia di coinvolgere direttamente l'impero di Rupert Murdoch. L'Associazione nazionale veterani britannici, «sotto shock» dalla notizia che News of The World avrebbe spiato anche le famiglie dei soldati uccisi in Afghanistan o in Iraq «nel momento più pesante del loro dolore», ha interrotto il contratto per una campagna pubblicitaria.

A conferma che lo scandalo sta alienando pesantemente le simpatie dei lettori dal giornalismo d'assalto, la British Legion ha avvertito che potrebbe boicottare, come altri importanti brand, la pubblicità su tutti i quotidiani di News International, la società proprietaria del tabloid e che pubblica anche Sun, The Times e il quotidiano più venduto in Gran Bretagna, Now.

Ma il timore più grande di Murdoch è che lo scandalo e l'indignazione popolare facciano arenare il progetto di acquisire l'intera quota dell'emittente britannica BSkyB (British Sky Broadcasting). La decisione se approvare la controversa offerta da 10 miliardi di dollari per l'emittente sembra ormai rinviata al prossimo autunno: il segretario alla Cultura, Jeremy Hunt, doveva dare il 'via liberà nelle prossime settimane, spianando la strada al cammino del magnate australiano; ma fonti del governo hanno detto esplicitamente che la decisione sarà rinviata.

E oggi le azioni del gruppo hanno sensibilmente perso terreno. Intanto potrebbero arrivare presto i primi arresti Secondo il Times, è imminente un provvedimento di custodia cautelare per cinque tra giornalisti e manager.

Scotland Yard sta indagando sull'ipotesi che i reporter a caccia di scoop del domenicale intercettassero anche le famiglie dei soldati uccisi in Afghanistan e in Iraq. «Negli archivi di Glenn Mulcaire, l'investigatore privato al servizio del domenicale, sono stati trovati i dati personali privati delle famiglie dei soldati morti», ha riferito.

Il leader laburista, Ed Miliband, si è unito al coro di quanti chiedono le dimissioni di Rebekah Brooks, l'ex direttrice di News of the World passata alla guida di News International.

Lo scandalo è partito dalle intercettazioni del telefono di Milly Dowler, una tredicenne rapita e poi uccisa nel 2002: l'investigatore assoldato da News of the World cancellò alcuni sms della ragazza facendo credere ai genitori e agli inquirenti che fosse ancora viva. Sono anche emerse intercettazioni nell'ambito dell'inchiesta su Holly Wells e Jessica Chapman, le due piccole studentesse uccise nel 2002 a Soham, nel Cambridgeshire, sui familiari di alcune delle 52 vittime dell'attentato del 7 luglio 2005 a Londra e anche su quelle dello tsunami in Indonesia: tutto per captare qualche esclusiva e magari garantirsi un'intervista.

Robert Murdoch l'ha difesa ancora ieri, ma l'attuale amministratore delegato di News International ed ex direttore del tabloid inglese News Of the World, Rebekah Brooks, sarà costretta a lasciare il suo incarico a causa dello scandalo intercettazioni esploso nel Regno unito. Lo hanno riferito al New York Times persone al corrente di quanto sta avvenendo all'interno del gruppo del magnate australiano, secondo cui sarebbe ormai prossimo un accordo sull'uscita di scena di Brooks.

Diverse persone vicine a Murdoch hanno dichiarato che il tycoon si è opposto con forza all'ipotesi delle dimissioni dell'amministratore delegato innanzitutto per lealtà, ma anche perchè ritiene tutta la vicenda una vendetta ordita dai nemici politici del gruppo. Una di queste stesse persone ha poi anticipato che l'azienda sta rivedendo anche la posizione di Andy Coulson, ex direttore di News of the World che lo scorso gennaio venne costretto a lasciare l'incarico di portavoce del premier britannico David Cameron proprio per la vicenda delle intercettazioni illegali ai danni di politici e celebrità.

Oltre 130 mila persone hanno firmato una petizione che chiede a Jeremy Hunt, il sottosegretario per la cultura i media e lo sport, di bloccare l'acquisizione di BSkyB da parte di Rupert Murdoch. Lo riporta il Daily Telegraph, quotidiano contrario al takeover, che sul suo sito online mette un link alla petizioone invitando i lettori a firmarla.

LA CAMPAGNA WEB PER BOICOTTARE IL TABLOID Il boicottaggio di News of the World vola su Twitter e Facebook: la campagna che ha portato colossi come Procter and Gamble, i supermercati Asda e Sainsbury, le case automobilistiche Ford e Mitsubishi a ritirare le inserzioni dal domenicale di News International che spiava bambine scomparse e vedove di guerra, celebrità dello spettacolo e dello sport e membri della famiglia reale, è nata sui social network. È una campagna nata quasi per caso: tornata a casa dal lavoro lunedì sera, Melissa Harrison, una giornalista freelance, ha chiesto ai suoi seguaci sul sito di microblogging di unirsi a lei in una azione contro il settimanale tabloid. «Non ero mai entrata in iniziative del genere», ha detto la Harrison che vive nel sud di Londra: «Mai stata a una marcia. Ma quando ho sentito che avevano spiato il cellulare della tredicenne Milly Dowler ho pensato che ne avevo avuto abbastanza». Il primo post su Twitter andava diritto a segno: Melissa chiedeva di individuare i grandi inserzionisti del giornale di Rupert Murdoch. Il messaggio fu raccolto e rilanciato da un altro cliente di Twitter, Andy Dowson, che aveva chiesto ai suoi 4.700 seguaci di mettere a punto l'elenco. Un altro utente di Twitter nel frattempo aveva generato un documento Google con gli indirizzi email degli amministratori delegati delle aziende che comprano pubblicità su News of the World. Era partito un bombardamento di messaggi in cui si chiedeva di tagliare l'ossigeno finanziario al giornale.

Di lì al sito web, creato da un altro utente Twitter, Tony Kennick, il passo è stato breve: martedì aveva già 41 mila hits e la possibilità di generare un messaggio automatico da mandare alle aziende per chiedere il boicottaggio. Altre due pagine Facebook sono state create con lo stesso modello: da allora Mitsubishi, Virgin Holidays, la banca Halifax, i Lloyds, la Ford, la Vauxhall, i supermercati Asda e Sainsbury, la catena di farmacie Boots e la rete di telefoni O2 hanno ritirato le inserzioni.

IL GOVERNO BRITANNICO PROMETTE BATTAGLIA Il governo britannico promette battaglia sul caso della chiusura di News of the World e promette un'indagine rigorosa che porterà «davanti alla giustizia» i responsabili dello scandalo. «Senza dubbio - ha detto un suo portavoce - coloro che sono responsabili dovranno andare davanti alla giustizia». «Il primo ministro - ha aggiunto - si è impegnato ad aprire un'inchiesta rigorosa in modo che questo non succeda più in questo paese».
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09/07/2011 10:45
 
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Sud Sudan, poveri ma indipendenti


Sventola a Juba la bandiera del Sud Sudan finalmente libero: è il 54simo Stato del continente e sarà il 193simo membro della Nazioni Unite

INVIATI A NEW YORK
Il nuovo Stato del Sud Sudan non era ancora nato, quando ieri mattina il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità l’invio di una missione di pace nel suo territorio. Circa 7000 soldati e 900 poliziotti, che dovranno garantire la tenuta della fragile pace con il Nord. Già questo dovrebbe bastare a capire quanto sia complicata la situazione, ma in realtà c’è di più, perché la guerra continua anche in altre regioni ai confini dell’ultimo, il 54˚, Stato africano.

Il Sud Sudan è nato ufficialmente alla mezzanotte di ieri, salutato anche da un messaggio di auguri del Papa, dopo circa vent’anni di guerra civile. È grande più di Spagna e Portogallo messi insieme, ha meno di 10 milioni di abitanti e buone risorse petrolifere, ma è uno dei Paesi meno sviluppati al mondo: basti sapere che ha il peggior tasso di mortalità infantile e l’84% delle donne è analfabeta. Le differenze tra Khartoum e gli ex ribelli del Sudan People’s Liberation Army erano etniche e religiose, perché il Nord è arabo e musulmano, mentre il Sud ha una buona presenza cristiana; ed economiche, perché il 75% delle risorse petrolifere sono nelle regioni meridionali e costituivano un terzo del Pil nazionale. Su queste divergenze hanno giocato anche gli interessi internazionali, perché l’Occidente ha un rapporto molto difficile con il presidente sudanese Omar al-Bashir, già alleato di Osama bin Laden e ora incriminato per genocidio nel Darfur, e quindi vedeva bene un suo indebolimento.

La pace era stata firmata nel 2005, e prevedeva che un referendum decidesse il futuro del Sud. Nel frattempo una missione Onu chiamata Unamis avrebbe garantito la stabilità durante la transizione. Il referendum si è tenuto a gennaio e il 99% degli abitanti ha scelto l’indipendenza. Già ieri Khartoum ha riconosciuto il nuovo Stato, promettendo relazioni amichevoli, ma questo non vuol dire che i problemi sono finiti. Per evitare subito nuovi conflitti, l’Onu avrebbe voluto estendere il mandato di Unamis, a cui partecipano anche osservatori italiani. Il Nord però ha detto no, e quindi ieri il Consiglio di Sicurezza ha approvato la nuova missione Unamiss, o piuttosto ristrutturato la precedente: in sostanza ha aggiunto la S di South Sudan e spostato il raggio d’azione sotto il confine tra i due Paesi, nel solo territorio della nuova nazione.

La paura di atti ostili da parte del Nord, peraltro, non è l’unica minaccia alla stabilità della regione. L’Onu infatti ha appena autorizzato l’invio di una missione separata, composta da 4200 soldati etiopi, per favorire la pace nel vicino territorio di Abyei, mentre un altro conflitto che richiederebbe un intervento è quello in corso nel Sud Kordofan, l’ultima regione petrolifera rimasta nelle mani di Khartoum ma tentata dalla secessione.
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09/08/2011 09:23
 
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Guerriglia a Londra, edifici in fiamme
Scontri anche a Liverpool, Birmingham, Manchester e Bristol


L'origine sabato dopo una marcia di protesta per la morte di Mark Duggan, ucciso dalla polizia


ROMA - Si stanno estendendo alle principali città del Paese i disordini scoppiati sabato scorso a Londra: nella terza notte di violenze e saccheggi, scontri tra gruppi di giovani a volto coperto si registrano anche a Liverpool, Birmingham, Manchester e Bristol.

Stamani il premier David Cameron, rientrato anticipatamente dalle vacanze in Toscana, presiederà una riunione d'emergenza del comitato di crisi, a cui parteciperanno il ministro dell'Interno, Theresa May, e il capo di Scotland Yard, Tim Godwin. Da sabato, le persone arrestate sono 334, 65 incriminate: tre persone sono finite in manette con l'accusa di tentato omicidio dopo l'investimento di un agente a Brent (nordovest Londra) che tentava di fermare dei sospetti saccheggiatori.

Nella capitale, dove numerosi negozi ed edifici sono stati dati alle fiamme e dove gli agenti vengono affrontati con mazze da baseball e spranghe di ferro, sono stati dispiegati oltre 1.700 poliziotti per contrastare i disordini, che si estendono a macchia d'olio per tutta la città. Vengono presi di mira in particolare i negozi di abiti e prodotti hi-tech, ma anche ristoranti e negozi di telefonia.

Le stazioni della metropolitana che erano state chiuse, scrive la Bbc, hanno riaperto stamani, alcune sono cordonate dalla polizia.

A Liverpool e Manchester gruppi di centinaia di giovani a volto coperto hanno dato alle fiamme auto e danneggiato negozi. A Birmingham, dove è stato dato alle fiamme un commissariato a Handsworth, la polizia ha eseguito oltre 100 arresti. A Bristol "un gruppo di circa 150 giovani" si è scontrato con la polizia. Si estendono anche a Manchester e Bristol i disordini scoppiati sabato scorso a Londra: lo riferiscono i media britannici citando fonti di polizia.


ansa
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01/09/2011 12:03
 
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Fidel Castro in fin di vita
Ma è solo una voce diffusa su Twitter


Le voci che danno Fidel Castro morto o in fin di vita circolano periodicamente e di solito vengono regolarmente smentite. Detto questo, dobbiamo segnalare che da alcuni giorni la voce delle sue precarie condizioni di salute rimbalza su Twitter, la popolare rete sociale caratterizzata da brevi post composti da 140 caratteri.

Yoani Sánchez, di fronte ai molti messaggi di persone che si informavano sullo stato di salute di Fidel, ha scritto su Twitter di non avere certezze. «Il mio telefono non smette di squillare. Tutti mi chiedono se è vero che Fidel Castro versa in gravi condizioni di salute. Non lo so, ma se anche fosse, noi cubani saremmo gli ultimi a saperlo», scrive la popolare blogger.

Pare che la voce sia stata diffusa da un sito informativo cileno, ma il tam tam di Internet da alcuni giorni è diventato intenso. Secondo Naked Security il messaggio originale circolava dai primi giorni di agosto con il titolo: «Fidel è morto». Il messaggio era falso e conteneva in allegato un pericoloso virus. In definitiva nessuna certezza sulle condizioni di salute di Fidel ma solo una ridda di voci incontrollate.


lastampa.it
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11/10/2011 10:37
 
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Camacho a gamba tesa sulla legge del figlio unico in Cina

Jose Antonio Camacho non è diplomatico. Non è un uomo delicato: non con le parole, almeno, come non lo era con i piedi quando presidiava la difesa del Real Madrid e della Spagna.
Oggi, che è il c.t. al quale la Cina ha affidato tre mesi fa le sue fragili speranze di rinascita calcistica, Camacho non si smentisce.
E con un'intervista rilasciata al quotidiano iberico AS se la prende con i giocatori della Repubblica Popolare. Non solo: entra a gamba tesa in una faccenda delicatissima, che tocca sia nervi ancestralmente sensibili sia tematiche politiche e dunque delicate.

EGOISTI Per farla breve, il cinquantaseienne Camacho attacca la legge del figlio unico, il complesso di norme che limita a uno il numero di bambini che una famiglia può mettere al mondo in Cina e che è il pilastro controverso delle politiche demografiche di Pechino (in realtà la regola è seguita da un buon numero di deroghe: il diktat non vale per le minoranze etniche, se il primo figlio muore o è handicappato potrà avere un fratello, nelle città genitori figli unici possono avere due bimbi, nelle campagne se la prima è una femmina può essere seguita da un fratello o sorella). Secondo l'allenatore, i giocatori cinesi non sono un granché perché la regola del figlio unico ha prodotto stuoli di ragazzi viziati, egoisti, che non si sanno mettere al servizio della squadra.

DIBATTITO La presa di posizione, categorica, è stata affrontata sui blog e sui forum. Le implicazioni del figlio unico in Cina sono da tempo motivo di dibattito. Stavolta la novità è il contesto calcistico e il fatto che a suscitare la discussione sia uno straniero, uno sportivo oltretutto. Così, a titolo di esempio, ecco che sul portale Sina, l'utente A380 replica indignato che campioni come la tennista Li Na, l'ostacolista Liu Xiang e il cestista Yao Ming, glorie della nazione, sono tutti figli unici. Zittito da un un altro partecipante al forum che replica: sciocchezze, il calcio è un gioco di squadra, e se non sei altruista perdi. Oggi (martedì), comunque, torna a parlare il calcio giocato: match decisivo di qualificazione ai Mondiali del 2014 contro l'Iraq, a Shenzhen.

corriere.it
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31/10/2011 18:13
 
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La Palestina ammessa nell'Unesco

Il Mar Morto è uno dei siti scelti dall'autorità palestiense
in lizza per diventare patrimonio dell'umanità



La Palestina è stata ammessa come membro a pieno diritto dell'Unesco: e l'evento ha un'importanza particolare per i palestinesi che dunque mettono a segno un primo successo nel loro processo di adesione alle Nazioni Unite.
Ma la decisione Onu rischia di creare una spaccatura con gli Usa che avevano minacciato di tagliare i fondi all'Unesco in caso di voto positivo.


Regge, intanto, la tregua mediata dall'Egitto a Gaza, dopo cinque giorni di violenze ta Israele e i miliziani palestinesi (violenze che, in appena 36 ore, hanno fatto 12 vittime tra i palestinesi e una tra i civili israeliani). Dalla mezzanotte di domenica, il confine la striscia di Gaza e Israele è relativamente tranquillo dopo l'ultimo raid israeliano andato a segno e che ha fatto due vittime tra i miliziani palestinesi.

La tregua sembra reggere, ma oggi lo scontro è tutto diplomatico e si consuma a Parigi, sullo sfondo dell'Assemblea generale dell'Unesco. Sulla richiesta di adesione dell'Anp all'Unesco hanno votato contro Stati Uniti, Germania e Canada. L'Italia e il Regno Unito si sono astenuti, mentre la Francia, la Cina, l'India hanno votato a favore, insieme alla quasi totalità dei Paesi arabi, africani e latino-americani. Complessivamente, i voti a favore sono stati 107, mentre 14 Paesi hanno votato contro l'ammissione e 52 si sono astenuti.

L'Unesco è la prima agenzia Onu ad aver messo in agenda la questione dello status palestinese, dopo la richiesta avanzata da Abu Mazen, il 23 settembre, all'Onu. Due leggi approvate negli anni '90 dagli Usa, da sempre alleato fedele di Israele, vietano espressamente il finanziamento di qualsiasi organizzazioni Onu che accetti la Palestina come membro a pieno titolo. Il che significa che adesso l'Unesco rischia di perdere i 70 milioni di dollari del suo bilancio annuale (il 22 per cento).

«Non c'è alcuna speranza che il Congresso, controllato dai repubblicani, emendi la legislazione», aveva detto in mattinata, prima ancora del voto, una fonte Unesco. Del resto, la portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, aveva chiarito molto bene la posizione Usa la scorsa settimana: «Esistono linee rosse molto chiare nella legislazione e, se sono sorpassate nell'Unesco, tale legislazione viene attivata». E stamane, il sottosegretario Usa per l'Educazione, Martha Kanter, proprio a Parigi aveva parlato di un voto «controproducente e prematuro».

Gli Usa sono rientrati nell'Unesco solo nel 2003, dopo anni di boicottaggio nei confronti di quella che il Dipartimento di Stato definiva «la crescente disparità tra la politica estera Usa e gli obiettivi dell'Unesco»; ma nonostante il ventennio di boicottaggio, il presidente Barack Obama ha sempre considerato l'Unesco un'organizzazione di interesse strategico e un utile strumento multilaterale per propagare i valori occidentali.

Dura anche la reazione di Israele, secondo cui l'ammissione della Palestina come membro dell'Unesco danneggerà le prospettive di ripresa del processo di pace. «Si tratta di una mossa unilaterale palestinese che, pur non portando alcun cambiamento sul terreno, allontana la
possibilità di un accordo di pace», ha affermato il ministero degli Esteri israeliano in un comunicato. «Questa decisione non trasforma l'Autorità Nazionale Palestinese in uno Stato ma pone ostacoli sulla via del ripristino dei negoziati».
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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20/12/2011 13:32
 
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Kim Jong Il, il clown grottesco e astuto
che beffò Clinton e Bush


Ha sfruttato la rivalità fra Usa e Cina per arrivare indisturbato a fare la Bomba
GIANNI RIOTTA

Era molto facile considerare Kim Jong Il, il leader nordcoreano scomparso il 18 dicembre a 70 anni un clown grottesco. Il suo cuoco giapponese ha raccontato in un best seller firmato con lo pseudonimo di Kenji Fujimoto di ballerine nude raccolte nella militare Brigata Della Gioia, di voli con il jet fino a Hokkaido per comprare ricci di mare, mentre milioni di coreani morivano nella carestia.

In realtà il «Caro Leader» Kim Jong Il, figlio del fondatore della dinastia comunista Kim Il Sung, è stato uno scaltro broker del regime, che ha giocato sulla rivalità contrapposta tra Stati Uniti e Cina per rafforzare l’esercito e ottenere fino a otto testate nucleari, pur rozze. Hanno pagato il prezzo del suo potere contadini affamati in campi incolti, bambini denutriti, prigionieri in gulag dal rigore feroce, dove si finisce relegati per una svista o una battuta.

Con il ciuffo alla Elvis Presley, occhiali da sole a calotta, tacchi per rialzare la statura, le manifestazioni pubbliche con coreografie alla Mao Ze Dong e canti ritmici di fanciulle sorridenti - tra cui si racconta, per capriccio, Kim Jong Il scegliesse le nuove reclute della Brigate della Gioia- davvero il «Caro Leader» coreano sembrava un «cattivo» dei film di James Bond, il Dottor Julius No, Auric Goldfinger, Emilio Largo. E nella collezione personale di 20.000 film di Hollywood e europei che Kim Jong Il aveva ammassato, i video tratti dai romanzi di 007 di Fleming erano al centro. I coreani? Potevano guardare nelle feste qualche vetusta pellicola di propaganda del regime.

Al tavolo della trattativa però, quando le ragazze della Brigata della Gioia erano tornate nei loro dormitori, Fujimoto in cucina preparava sushi e sashimi, Kim Jong Il era giocatore raffinato. «Aveva idee chiare e duttilità» ricorda l’ex presidente sudcoreano Roh Moo-hyun, che l’incontrò nel 2007. E gli americani, preoccupati oggi per un possibile vuoto di potere che possa crearsi tra l’erede designato, Kim Jong Un (pare ventottenne) e i vertici militari, riconoscono che nei suoi anni al potere, Kim Jong Il ha beffato prima Bill Clinton e poi George W. Bush. L’ambasciatrice Usa Wendy Sherman, che trattò nella capitale Pyongyang nel 2008 lo giudica «intelligente, concentrato, informato sui dossier, sicuro di sé e regista dei propri burocrati. Di politica e diplomazia capiva più della media dei leader occidentali». Graham Allison, che studia la possibilità di un attentato terroristico con materiale nucleare, non ha dubbi nel saggio «How to stop nuclear terror»: «Quando scriveranno la storia del nostro tempo il punteggio sarà Kim 8, Bush 0».

Succedendo nel ’94 al padre, uno stalinista della vecchia guardia addestrato in Siberia alla guerriglia contro i giapponesi durante la II guerra mondiale, Kim Jong Il, a detta di alcuni analisti, avrebbe fatto delle timide avance agli americani, pur di allentare l’influenza della Cina che mantiene con il petrolio in vita il regime come cuscinetto contro la Corea del Sud. Pare che, piccato per la mancata reazione di Washington, abbia deciso di farsi valere con un programma nucleare. Altri esperti dissentono, persuasi che la presunta «apertura» fosse un bluff. Una terza scuola è invece convinta che ogni tentativo di giudicare la strategia di Pyongyang con razionalità diplomatica occidentale è destinata alla frustrazione: Jennifer Lind del Dartmouth College ha scritto sulla rivista Foreign Affairs che gli occidentali sopravvalutano sempre la propria capacità di penetrare il mistero nordcoreano. Pare, per esempio, che Kim Jong Nam, fratello maggiore dell’erede designato Kim Jong Un, fosse contrario al nuovo passaggio dinastico che l’escludeva, ma il padre lo avrebbe scartato senza pietà.

E questo culto morboso del segreto, in un paese in cui una radio a onde corte può portarvi al plotone d’esecuzione mentre Kim passava ore collegato a Internet, è stato un’arma vincente. Offeso dal silenzio degli americani o astuto nel doppio gioco, Kim Jong Il avvicina lo scienziato canaglia pachistano Abdul Qadeer Khan, che nell’ultimo decennio del XX secolo aveva creato una sorta di Ikea del traffico clandestino di materiale nucleare. La Corea del Nord aveva collaborato segretamente con vari agenti a un programma atomico clandestino a Yongbyon, lasciando che Pechino mandasse avanti con i sussidi la vita economica del paese di 23 milioni di abitanti, e irretendo Washington in un’inutile e defatigante trattativa che a un certo punto vide impegnato persino l’ex presidente, e attivissimo premio Nobel per la Pace, Jimmy Carter. Come spesso capita in America, la confusione tra un’opinione pubblica genericamente benigna e pacifica, le manovre confuse dei falchi, e i dossier contraddittori della Cia, che scoprì sì il piano nucleare nordcoreano ma non seppe individuare il sito di Yongbyon, paralizzarono l’iniziativa Usa. E mentre le colombe applaudivano la diplomazia del «raggio di sole» dei fratelli coreani di Seul, e i falchi ammonivano su una seconda guerra di Corea come quella del 1950-1953, (fino a 3 milioni di morti tra civili e militari secondo alcune stime) Kim Jong Il prima sperimentò alcuni missili, mirandone uno con effetti di terrore psicologico sul Giappone, poi ultimò nel 2006 almeno 8 testate atomiche, beffando gli amici cinesi, gli ingenui americani e i sussiegosi burocrati Onu.

Il test fu un mezzo fallimento, ma anche un arsenale nucleare a rischio cilecca fa paura, soprattutto se il regime, messo alla corde, cede materiale atomico a bande terroristiche. Mentre l’America e il mondo erano ipnotizzati dallo showdown in Iraq tra George W. Bush e Saddam Hussein, Kim Jong Il - che nel 2003 entrò in clandestinità per vari mesi - lanciò chiaro il ricatto: non ci ridurrete come Saddam, Pyongyang non sarà Baghdad.

L’eredità di Kim Jong Il è devastante. Con 1400 euro pro capite di Pil, con l’agricoltura che ogni anno perde il 10% di raccolti, con 9 milioni di cittadini denutriti su 23 milioni la Corea del Nord è uno dei paesi più poveri al mondo. Negli anni 90 2.200.000 innocenti morirono di fame. Nel frattempo il cuoco Fujimori stappava vini francesi, volava in Giappone per il sushi, in Thailandia per la frutta esotica, in Danimarca per il bacon e a Praga per la birra alla spina, che mai mancassero alla mensa del «Caro Leader». Il suo regime però potrebbe sopravvivere al vento anti despoti che ha spazzato il 2011. «Il sistema politico nord coreano ha dimostrato resistenza e stabilità - ha osservato Evans Revere del centro Korea Society - il Partito dei lavoratori, l’esercito, forte di oltre un milione di soldati, e la polizia sono i pilastri della dittatura politica ed economica». E Robert Carlin, diplomatico impegnato nelle trattative con la Nord Corea dal 1992 al 2000 conclude: «All’estero si vede il regime come uno stato canaglia, ma molti coreani ancora lo rispettano o temono, pensando agli anni della resistenza contro il Giappone dal 1905 al 1945».

Sono i cittadini poveri cui la propaganda assicura che Kim Jong Il era nato il 16 febbraio 1942, in una capanna sul magico monte del mito, il Paetku, annunciato da un doppio arcobaleno, un mistico volatile e una stella cometa. Invece il despota nacque un anno esatto prima, nel villaggio siberiano di Vyatskoye, dove il padre preparava la dinastia che tanti dolori ha causato al povero paese. Perfino la data è una bugia, tragica.

lastampa.it
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20/12/2011 16:12
 
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doverosa una riflessione su quei poveretti (a me fanno pena) che piangevano e si disperavano... per la morte di un dittatore.

incredibile a che livello di lobotomia si può arrivare sotto l'effetto di un mix esplosivo (o meglio catalessizzante) di Isolamento+Propaganda.

vero... anche nelle pieghe delle nosre cosidette democrazie si finisce per cadere nella disinformazione, della censura, della limbizzazione di ciò che non fa comodo (cibi avvelenati, siamo circondati... ma un pò tutto funziona così).

però insomma avoglia a minzolini la in Corea del Nord...

poveracci.


29/12/2011 15:13
 
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Re:
giove(R), 20/12/2011 16.12:

doverosa una riflessione su quei poveretti (a me fanno pena) che piangevano e si disperavano... per la morte di un dittatore.

incredibile a che livello di lobotomia si può arrivare sotto l'effetto di un mix esplosivo (o meglio catalessizzante) di Isolamento+Propaganda.

vero... anche nelle pieghe delle nosre cosidette democrazie si finisce per cadere nella disinformazione, della censura, della limbizzazione di ciò che non fa comodo (cibi avvelenati, siamo circondati... ma un pò tutto funziona così).

però insomma avoglia a minzolini la in Corea del Nord...

poveracci.




Ancora più triste e deprimente la situazione che ho visto sulla BBC del funerale....
Non penso che il nuovo presidente riesca a gestire i rapporti internazionali e soprtautto la crisi con la corea del sud....tempo due mesi e diventa la soldo degli americani....
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questi invece hanno altro a cui pensare..

L'isola che ha cancellato venerdì 30 dicembre

Le Samoa saltano ad Ovest

Giovedì a mezzanotte le isole Samoa salteranno a Ovest della linea del cambiamento di data. Questa almeno è l’intenzione del governo del piccolo arcipelago in mezzo all’Oceano Pacifico, 2842 chilometri quadrati e 210 mila abitanti. Per gli abitanti di Samoa non esisterà la giornata di venerdì, e Capodanno arriverà in anticipo, facendo di quegli isolotti il primo posto del mondo dove inizierà il 2012. Chi ha fretta di correre verso il compimento dell’infausta profezia Maya può fare il brindisi laggiù.

Il Capodanno precoce è però soltanto un effetto collaterale del salto di Samoa rispetto alla linea del cambiamento di data. Il vero motivo che muove il governo ad adottare il provvedimento è commerciale. Attualmente, stando agli orologi, le isole Samoa si trovano a 21 ore dalla Nuova Zelanda e a 23 dall’Australia. Poiché i traffici prevalenti sono proprio con questi Paesi, e l’economia del pianeta gravita ormai intorno a Cina e Giappone, la separazione oraria crea parecchi problemi, specie quando Samoa si trova in un giorno festivo mentre i partner commerciali sono in piena attività. Notevoli economie si otterrebbero evitando le conseguenze della collocazione rispetto alla linea del cambiamento di data.

Come sa chi ha letto il romanzo di Jules Verne «Il giro del mondo in 80 giorni», questa linea nata da una convenzione internazionale crea curiosi paradossi. Tutto inizia nel 1675, quando vicino a Londra sorge l’Osservatorio di Greenwich e la potenza navale del Regno Unito fa del meridiano che passa di lì un riferimento importante.

Per un po’ la supremazia inglese fu contestata da Parigi, ma alla fine tutti dovettero arrendersi. E dunque, se si adotta come meridiano zero quello di Greenwich, il meridiano 180 che attraversa l’Oceano Pacifico diventa la linea del cambiamento di data.

La questione si pose però soltanto con l’adozione dei fusi orari. Il primo a proporli fu l’italiano Quirico Filopanti nel 1859. L’idea venne ripresa da Fleming e Barnard e fu accettata nel 1884 alla «Conferenza del Meridiano» che si svolse a Washington. Si disegnò allora una linea del cambiamento di data che va a zig-zag tra gli arcipelaghi del Pacifico cercando di rispettare le esigenze dei vari Paesi. Come tutte le convenzioni, la linea può essere cambiata: resta da vedere se gli Stati intorno a Samoa gradiranno una scelta unilaterale.

Quando a Greenwich è mezzogiorno, ovviamente a una longitudine di 180˚ è mezzanotte: solo in quell’istante inafferrabile è lo stesso giorno, per esempio domenica, su tutta la Terra. Un pelo a Ovest della linea sono le ore 24, e quindi la domenica sta finendo; un pelo a Est sono le ore zero, e la domenica sta cominciando. In questo istante fa la sua comparsa sulla Terra il lunedì.

Ogni giorno del calendario nasce sulla linea del cambiamento di data. Dapprima è lunedì su un sottilissimo spicchio del globo, a Ovest della linea e a Est della mezzanotte; tre ore dopo è lunedì su un ottavo della Terra e nel resto del pianeta è ancora domenica, e così via. Tagliando la linea del cambiamento di data non si deve quindi spostare l’orologio, ma il calendario: avanti di un giorno se verso Ovest, indietro di un giorno se ci si sposta verso Est.

Ecco svelato il trucco con cui certe agenzie di viaggi riescono a organizzare crociere con due feste di Capodanno. Quanto al venerdì che Samoa perde, non impressioniamoci. Papa Gregorio XIII riformando il calendario cancellò i giorni tra il 4 e il 15 ottobre 1582. Giulio Cesare, invece, con la sua riforma fece sì che l’anno 708 dalla fondazione di Roma avesse 445 giorni.



lastampa.it
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29/12/2011 15:17
 
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Re: Re:
Sono abbastanza preoccupato che degeneri la situazione nello stretto di Hormuz...Anche se non ci sono repubblicani al Governo in USA.....quando c'è da bombardare si bombarda...così mangiano un pò tutti.
Che tutti quei Marines che tornano dall'Iraq li volemo tenere nelle basi dentro al territorio USA....quelli ce vivono con l'indennita da missione di 'pace'.

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29/12/2011 17:21
 
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Re: Re:
faberhood, 29/12/2011 15.13:




Ancora più triste e deprimente la situazione che ho visto sulla BBC del funerale....
Non penso che il nuovo presidente riesca a gestire i rapporti internazionali e soprtautto la crisi con la corea del sud....tempo due mesi e diventa la soldo degli americani....




non credo.
la Corea del Nord è sotto l'ala "protettrice" della Cina.
l'america è (per ovvi motivi) alleatissima della corea del Sud (ci sono state molte esercitazioni congiunte delle due marine, intensificate nell'ultimo anno, cosa che ha infastidito, per usare un eufemismo la stessa Corea Nord, ma ovviamente anche la Cina).

certo si dovrà tenere conto prima o poi un riavvicinamento delle due Coree, ma queste sono cose che come si sa "ora succede, ora succede" poi passa un secolo e siamo ancora così.

le velleità di riunione (tutte da verificare comuqnue non essendo così rivendicate) valgono quello che valgono, come si può immaginare, di fronte a due potenze che "tifano" per la permanente divisione.

qualunque delle due coree facesse un passo verso l'altra andrebbe a pestare fastidiosamente (molto di più: strategicamente) i piedi all'alleato della dirimpettaia.

seguendo la tua idea di un nuovo leader "di coccio tra gli otri di ferro" vedo più un inesorabile soggiogamento da parte della Cina, che non se la lascerà sfuggire sotto il naso.

l'ultima cosa di cui ha bisogno la Cina, che in qeusti ultimi anni sta conducendo aggressive politche di difesa ed espansione in tutto l'Oceano Indiano (vedansi le dispiute sul Mar della Cina e su molte delle isole a sud della thailandia) è veder consolidare a est e nord est il triangolo Corea Sud-Giappone-USA, facendolo diventare un quadrilatero con l'aggiunta della Corea del Nord.


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13/03/2012 16:54
 
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Le Falkland trent'anni dopo: per il rock inglese
( e Sean Penn) sono argentine


Roger Waters e Morrissey si espongono pubblicamente nel Paese Sudamericano: «Le isole dovrebbero appartenere a voi»


MILANO - A ormai trent'anni di distanza quella che sembrava una guerricciola, continua a far parlare di sé: il tentativo di invasione delle Falkland voluto dai militari argentini, il 19 marzo del 1982, divenne presto un evento generazionale ben presente e mai dimenticato nella cultura popolare di inglesi e sudamericani. Nonostante la brevissima durata (tre settimane) e il numero di vittime tutto sommato non altissimo (comunque 1000).

TENSIONE- Ora che si avvicina l'anniversario, la tensione cresce, nonostante i successivi ottimi rapporti tra gli establishment dei due Paesi. Da un lato il film sulla Thatcher, The Iron Lady ha riaperto diverse ferite dalle parti della Pampa: visto che fu proprio la Signora di Ferro, la grande vincitrice della velocissima guerra. Ma il fatto curioso è che ad alimentarla, la tensione, siano personaggi dello spettacolo britannico ( e americano). E non con revanscisti empiti patriottici. Tutto il contrario: per due dei campioni del rock made in England, l'ex Smiths Morrissey e l'ex Pink Floyd Roger Waters, le Falkland dovrebbero chiamarsi Malvinas e appartenere all'Argentina.

ROGER, UN PASSO INDIETRO - Ha iniziato Waters, qualche settimana fa: in tournée a Buenos Aires per la riedizione del monumentale The Wall ha dichiarato, «Le Malvine dovrebbero essere argentine». Frase assai forte, subito rimbalzata in patria, dove è partito un gran polverone: Roger ha subito fatto un passo indietro «È assurdo prendere posizione in una questione così complicata come quella delle Falkland». Lui che al tema dedicò in pratica l'ultimo album dei «Pink Floyd tutti insieme», The Final Cut, anno 1983.

MORRISSEY, IL PROVOCATORE- Non ha fatto alcun passo indietro invece Morrissey, che in Inghilterra è uomo molto ascoltato ( quanto controverso). Uno capace di dire, ai tempi della terribile strage norvegese di Utoya «che non era meno grave dei maltrattamenti sugli animali». Bene, a Buenos Aires, ha fatto vestire tutta la band con delle magliette che recavano la scritta :«We Hate William e Kate», odiamo la coppia reale in sostanza. E poi ha detto: «È ovvio che le Malvine appartengano all'Argentina». Altro grave scandalo su tutti i tabloid di Britannia.

SEAN PENN: «NEOCOLONIALISTI» - Oltre ai due «nemici in casa», anche gli americani si sono uniti al coro antibritannico: Sean Penn ha preso nettamente posizione: «Gli inglesi alle Malvinas sono neocolonialisti. Ed è stato un affronto mandare il principe "Guillermo" (così in spagnolo, ndr) a fare il servizio militare laggiù». Così pure Matt Groening, l'inventore dei Simpson ha appoggiato su Twitter le rivendicazioni sulle isole degli argentini. Che probabilmente non s'aspettavano tanta solidarietà.

CORRIERE.IT

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18/06/2012 17:07
 
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Los Angeles: morto Rodney King, simbolo degli scontri razziali in Usa

L'uomo divenne celebre per essere stato vittima di un violento pestaggio ad opera di agenti della polizia nel marzo del 1991. Quando vennero prosciolti ci furono scontri che provocarono 53 morti. E' stato trovato privo di vita nella sua piscina

E’ stato il simbolo degli scontri razziali di Los Angeles negli anni ’90, e sollecitò l’opinione pubblica e i cittadini a combattere ingiustizie e pregiudizi dovuti al colore della pelle. Rodney King è stato trovato morto sul fondo della piscina della sua abitazione a Rialito, in California. Le cause della morte non sono ancora chiare anche se non ci sarebbero indicazioni che lasciano ipotizzare un crimine. Intanto la polizia ha avviato delle indagini. King, 47 anni, è stato trovato morto dalla sua fidanzata, ora “sconvolta per l’accaduto” afferma l’agente di King, Suzanne Wickham.

La polizia è stata chiamata nelle prime ore del mattino, intorno alle 5.25. Giunta sul posto ha cercato di soccorrere King, che era privo di conoscenza. Ma gli sforzi sono risultati vani e l’uomo è stato dichiarato morto alle 6.11 minuti in un ospedale vicino la sua abitazione, situata a 70 chilometri da Los Angeles.

King rappresentava il ‘simbolo’ degli scontri razziali a Los Angeles e negli Stati Uniti. Il 3 marzo 1991 venne fermato nella città californiana, ammanettato, steso a terra e picchiato brutalmente con 50 colpi di manganello da quattro poliziotti bianchi. Un incidente che sarebbe passato inosservato se non fosse stato per una telecamera amatoriale: dal balcone di casa un videoamatore filmò l’incidente e le sue immagini fecero il giro delle televisioni di tutti gli Stati Uniti.
I quattro furono processati e, un anno dopo il fatto, prosciolti da una giuria popolare composta da bianchi, un ispanico e un asiatico. La decisione scatenò una forte protesta, sconfinata in scontri e violenze: più di 100mila persone scesero per le strade di Los Angeles manifestando contro il razzismo. Una manifestazione inizialmente pacifica poi degenerata, tanto da costringere l’intervento della Guardia nazionale al quarto giorno di incidenti, quando ormai il bilancio delle vittime era pesante: 53 morti. “Li ho perdonati” perchè gli Stati Uniti “mi hanno perdonato numerose cose e mi hanno offerto numerose possibilità “, aveva dichiarato King in una recente intervista alla Cnn, riferendosi ai suoi innumerevoli arresti per reati minori.


il video del pestaggio [SM=g27996]

www.youtube.com/watch?v=16KzYcbNeBM
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15/09/2012 09:08
 
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Dal film all’assalto, i misteri dietro la morte dell’ambasciatore americano


Il diplomatico Usa è stato ucciso in una rivolta che è tutt'altro che spontanea. Mentre la pellicola su Maometto è avvolta dal misteroScritto da Giovanni Giacalone il 13 settembre 2012 in Mondo
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Libia nel caos.
Nella notte di martedì un gruppo di estremisti islamici del gruppo Ansar al-Sharia ha assaltato il consolato americano a Bengasi a colpi di arma da fuoco ed RPG uccidendo l’ambasciatore Chris Stevens, un altro funzionario di governo e due marines.



Dalle proteste alla violenza.
Secondo fonti del governo libico i terroristi si sarebbero uniti ai centinaia di manifestanti radunatisi all’esterno dell’edificio per protestare contro il film “The Innocence of Muslims”, prodotto da un regista californiano Sam Bacile e nel quale verrebbero denigrati e derisi l’Islam e il profeta Maometto. Il film aveva già scatenato proteste all’esterno delle sedi diplomatiche Usa in Marocco, Tunisia ed in particolare in Egitto dove manifestanti salafiti si sono arrampicati sulle mura dell’ambasciata, hanno strappato la bandiera americana dandola alle fiamme e l’hanno sostituita con una bandiera nera con la professione di fede islamica.

I precedenti.
Non è la prima volta che episodi di questo tipo generano violente proteste nel mondo islamico: nel febbraio 2005 fu il consolato italiano a Bengasi ad essere assaltato e dato alle fiamme in seguito a una t-shirt di Calderoli con una caricatura di Maometto. Nell’aprile 2010 i creatori del cartone animato South Park vennero minacciati di morte da estremisti islamici per aver raffigurato Maometto vestito da orso. Nel novembre 2011 venne lanciata una bomba molotov nella sede del settimanale francese Charlie Hebdo, colpevole di aver pubblicato un’immagine satirica di Maometto.

Un attacco premeditato.
In questo caso però l’assalto risulta tutt’altro che “spontaneo”. Fonti del governo Usa affermano che molto probabilmente si tratta di un’operazione ben pianificata da parte di terroristi che avevano a disposizione armi non facilmente reperibili. Non è da escludere che Ansar al-Sharia, gruppo legato ad Al-Qaeda in Nord Africa, abbia utilizzato le manifestazioni fuori del consolato come pretesto per l’assalto che aveva invece l’obiettivo di vendicare l’uccisione del numero due di Al-Qaeda nella penisola arabica, Saeed al-Shihri, colpito pochi giorni fa da un drone americano nella parte orientale dello Yemen.

La dinamica.
Anche la Quilliam Foundation sostiene l’ipotesi della pianificazione e mette in evidenza come l’attacco sia stato diviso in due fasi: inizialmente i terroristi avrebbero bersagliato direttamente l’edificio consolare e successivamente, una volta iniziata l’evacuazione, un secondo attacco sarebbe stato effettuato in una zona limitrofa dove erano stati portati i funzionari USA.

Il mistero del regista.
Nel frattempo si infittisce il mistero sul regista del film “incriminato”. Di lui si sa veramente poco: secondo un’inchiesta del Guardian, Sam Bacile sarebbe lo pseudonimo di un immobiliarista californiano il quale però, secondo il Departement of Real Estate della California, non sarebbe in possesso di alcuna licenza e, in aggiunta, non comparirebbe neanche nel loro database. Alcune fonti affermano che si tratterebbe di un cittadino israeliano ma ciò sarebbe stato successivamente smentito dalle autorità israeliane. Secondo altre fonti Bacile farebbe parte della diaspora copta egiziana in California; curiosamente un membro della Diocesi copta di Los Angeles ha però dichiarato di non aver mai sentito il suo nome.

Un film proiettato una sola volta.
Anche ad Hollywood si sa ben poco di lui, risulta sconosciuto nella comunità locale, il suo film “The Innocence of Muslims” sarebbe stato proiettato una sola volta e a sala praticamente vuota, non ha alcun agente registrato nel sito IMDBPro e nessun credito su alcun film o produzione televisiva. Una strana situazione dunque: il mondo islamico si scatena per protestare contro un film a dir poco ignoto , prodotto da un misterioso regista di cui non si sa praticamente nulla; durante le spontanee proteste viene assaltato il consolato USA da un gruppo di militanti che di “spontaneo” hanno ben poco e viene ucciso l’ambasciatore americano.

( dirittodicritica.com )
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Chávez, eroe o tiranno? Di sé diceva: “Sono un soldato”

Diceva di lui Rangel: "È un errore demonizzare Chavez, così come sarebbe santificarlo. Se non fosse comparso lui ce ne sarebbe stato un altro. Per come eravamo ridotti avremmo potuto avere Pinochet"

Un eroe degli oppressi? Un tiranno? Un caudillo come l’America latina ne ha conosciuti tanti? O un leader carismatico senza rivali nell’ora della conquista del consenso? Hugo Rafael Chavez Frias di sé diceva “sono un soldato”. E quella, alla fine, è l’identità che ha rivendicato fino all’ultimo.

Nato sotto il segno del leone, il 28 luglio 1954, sangue bianco, nero e indio nelle vene, figlio di due maestri elementari della provincia profonda, los llanos, una pianura quasi deserta tra la cordigliera delle Ande e le valli caldissime del fiume Orinoco. L’emancipazione è avvenuta attraverso la carriera militare, studi da autodidatta in caserma: gli eroi dell’indipendenza e il mito di Simon Bolivar, “el libertador”.

Poi la fuga dalle campagne e l’arrivo a Caracas. Tenente colonnello molto amato dai giovanissimi soldati, nel 1992 si mette capo di un tentativo di golpe contro il governo di Carlos Andres Perez, fradicio di corruzione. Lui l’ha sempre chiamata “insurrezione militare“, tecnicamente era un golpe. Fatto sta che fallì in poche ore. Chavez chiese ed ottenne di poter fare una dichiarazione in tv. Si prese la responsabilità dell’accaduto, rivendicò le ragioni per abbattere quel governo e pronunciò il famoso “por ahora”. Disse: abbiamo perso, per ora. Una promessa.

Doveva essere una dichiarazione di resa, ma fu il suo primo comizio televisivo. Un debutto. E un gran successo. Due anni di carcere senza pentimenti, mentre la figura di militare di sinistra attento alle esigenze dei più poveri prendeva corpo e assumeva i toni mistici della leggenda popolare.

Graziato dal presidente Caldera, esce dal carcere e fonda il “movimento quinta repubblica”. Va all’Avana appena uscito dalla cella, Fidel Castro lo aspetta all’aeroporto e lo riceve come un capo di Stato: particolare fondamentale nella storia privata di Chavez e nel futuro del Venezuela.

Nel 1998 si candida alle presidenziali e vince. Da quell’elezione in poi trionfa ogni volta che c’è una chiamata alle urne. Prima tutti i passaggi per l’assemblea costituente e per l’approvazione della nuova carta costituzionale. Poi la vittoria nel 2000.

L’11 aprile del 2002, viene travolto da un colpo di stato e portato via dal palazzo presidenziale, sotto il tiro dei cannoni. Si siede al suo posto Pedro Carmona, presidente della confindustria locale che, come primo atto, scioglie il Parlamento. “Pedrito il breve”, lo chiamerà Chavez che dopo 48 ore, salvato dalla ribellione di giovani tenenti sfuggiti ai golpisti, rientra nel palazzo presidenziale di Miraflores acclamato da una moltitudine di persone scese in strada a festeggiare. Quella lunghissima notte del 13 aprile 2002, con l’elicottero che planava sul centro di Caracas e la folla in visibilio, è per l’immaginario chavista la santificazione dell’ascesa al potere, l’inizio di una nuova epoca politica. Qualche mese dopo l’opposizione ci riprova. A dicembre una serrata di Pdvsa, l’impresa pubblica del petrolio di cui il Venezuela vive, mette in ginocchio il Paese. Dura quasi due mesi. Miracolosamente Chavez sopravvive al golpe. Da allora una serie lunghissima di libere elezioni, sempre vinte. Ha perso solo una volta, quando il voto popolare boccia una nuova carta costituzionale apertamente socialista.

Bravissimo a esasperare gli avversari, è stato la disperazione della destra venezuelana, il cui disorientamento davanti alle uscite del presidente è durato 14 anni. “Chavez los tiene locos” (Chavez li manda al manicomio) è uno degli slogan sempre in voga del chavismo.

Ha creato una nuova classe dirigente, usato il petrolio come arma di politica internazionale e ha occupato tutti i posti di potere dello Stato, utilizzando soprattutto militari, gli unici di cui si fida. La sua abilità fondamentale è stata la capacità di provocare l’avversario per poi annientarlo, il suo principale talento la capacità di usare la tv. Chavez prega, ride, canta, parla con lo slang delle baraccopoli, con le parole dei rapper neri dei sobborghi e con il tono dei predicatori evangelici. Lo fa attraverso lo schermo rivolgendosi direttamente al popolo, che lo premia col voto facendolo stravincere anche nei primi anni in cui il governo, prima di vincere la guerra contro le tv private, poteva contare solo su una tv malconcia e aveva contro cinque tv nazionali e tutte le radio.

Molto amato e molto odiato, personaggio per molti versi sfuggente. Diceva di lui i primi tempi Rangel, ex alleato politico e esponente della sinistra classica venezuelana: “E’ un errore demonizzare Chavez, così come sarebbe un errore santificarlo. Se non fosse comparso lui, ce ne sarebbe stato un altro. Fortunatamente con lui abbiamo modo di trasformare il Venezuela pacificamente. Per come eravamo ridotti, avremmo potuto avere un Pinochet“.

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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06/03/2013 09:49
 
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capirai. anche lo stronzo "specialista" di turno della repubblica titola: "addio a chavez, l'ultimo caudillo", insinuando identità con pinochet.
storia della politica: zero.
il fatto gli fa anche l'oroscopo: "nato sotto il segno del leone".
è diventata una punta di diamante dell'illuminismo, la carta straccia di travaglio!

intanto sarebbe stato carino accennare al fatto che grazie a chávez la gestione delle risorse nel venezuela non trova paragoni in altri paesi produttori di petrolio.

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(Samuel Beckett, Worstward Ho)
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06/03/2013 19:01
 
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Sempre grande giornalismo dalle parti di Travaglio...
[Modificato da jandileida23 06/03/2013 19:04]
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