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Ultimo Aggiornamento: 18/03/2024 03:14
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06/04/2010 15:13
 
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consigli per la lettura
'La seconda vita del Che'
di Michael Casey



L'Avana, 5 maggio 1960: il fotografo cubano Alberto Korda immortala il rivoluzionario argentino Ernesto Che Guevara. E' un millisecondo che entrera' nella storia: la foto di Che, sguardo fiero, basco in testa, zigomi pronunciati, fascino potente, pura bellezza e' l'immagine piu' riprodotta di sempre. Occhieggia dalle t-shirt, sventola dalle bandiere rosse, da' il nome ad una bevanda a base di cola, a zuppe e birre, e' venerata come un santino, e' immortalata nei souvenir, e' rielaborata da artisti come Andy Warhol. Insomma e' un marchio globale, un prodotto di quel capitalismo che il Che combatteva: emozione e paradosso insieme.
Il giornalista Michael Casey ha compiuto intorno allo scatto fotografico di Korda, un giro del mondo, divertente e critico al tempo stesso, facendo ai personaggi piu' impensabili la stessa domanda, perche' il Che?, e analizzando le molteplici evoluzioni del marchio, una mercificazione di massa che pero' non ha tolto verita' a Guevara. Quella fotografia che ha reso il Che una superstar dall'immenso potere simbolico e' al tempo stesso uno strumento pubblicitario del 'marketing tribale' - scrive Casey sul libro che Feltrinelli (un editore non a caso trattandosi del Che) pubblica da oggi - in grado di vendere praticamente qualsiasi prodotto immaginabile e un simbolo perenne della resistenza al sistema capitalista che promuove quegli stessi prodotti: un incontro-scontro postumo con il capitalismo, che ha alimentato, se possibile, la seconda vita del Che morto il 10 ottobre '67.
Il commercio che ormai governa questo post-Che e' figlio di un mondo assai diverso da quello che conosceva Guevara. Il Che si collocava - analizza Casey - con nettezza su un fronte preciso della Guerra fredda ideologica e auspicava la distruzione del sistema capitalista, eppure oggi la sua immagine partecipa a quello stesso sistema. In certi casi le vendite del Che sono spinte da grandi multinazionali, una pratica che ha fatto partire battaglie legali e una lotta su piu' fronti sui diritti d'autore dell'immagine di Korda. Occorre ammettere che e' stato il capitalismo a fare del Che quel che e' oggi, senza sminuire le intenzioni di chi lotta in nome del Che per sconfiggere le disuguaglianze nel mondo: gli stessi contestatori sono 'consumatori' del Che. E' prima di tutto un brand politico, un marchio di culto che puo' essere estrapolato dall'iniziale contesto rivoluzionario latinoamericano ma fino ad un certo punto.
La potenza di quella foto ha fatto di Che un'icona contemporanea che e' tante cose insieme, spettro vendicatore, angelo custode, santo (in tutta l'America latina si venera in questo senso 'Sant'Ernesto'), ma non e' la mercificazione ad averla resa tale, semmai il commercio gli e' andato dietro nella capitalistica legge della domanda e dell'offerta, sulla richiesta di milioni di anime semplici che credono alla rivoluzione del Che.
I marchi, i simboli, le immagini, dall'alba del mondo, fanno parte dell'io idealizzato. E' per questo, scrive Casey, che il Che di Korda e' cosi' importante e duraturo: nutre l'anima, e' capace di suscitare da sola indignazione e di attingere al radicato desiderio di un mondo migliore. Il suo fascino - e il commovente racconto della Chica del Che cosi' chiamata perche' indossa sempre la stessa maglietta in una baraccopoli di Buenos Aires - sta nella bellezza della speranza.
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
06/04/2010 15:15
 
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Re: consigli per la lettura
Sound72, 06/04/2010 15.13:

'La seconda vita del Che'
di Michael Casey



L'Avana, 5 maggio 1960: il fotografo cubano Alberto Korda immortala il rivoluzionario argentino Ernesto Che Guevara. E' un millisecondo che entrera' nella storia: la foto di Che, sguardo fiero, basco in testa, zigomi pronunciati, fascino potente, pura bellezza e' l'immagine piu' riprodotta di sempre. Occhieggia dalle t-shirt, sventola dalle bandiere rosse, da' il nome ad una bevanda a base di cola, a zuppe e birre, e' venerata come un santino, e' immortalata nei souvenir, e' rielaborata da artisti come Andy Warhol. Insomma e' un marchio globale, un prodotto di quel capitalismo che il Che combatteva: emozione e paradosso insieme.
Il giornalista Michael Casey ha compiuto intorno allo scatto fotografico di Korda, un giro del mondo, divertente e critico al tempo stesso, facendo ai personaggi piu' impensabili la stessa domanda, perche' il Che?, e analizzando le molteplici evoluzioni del marchio, una mercificazione di massa che pero' non ha tolto verita' a Guevara. Quella fotografia che ha reso il Che una superstar dall'immenso potere simbolico e' al tempo stesso uno strumento pubblicitario del 'marketing tribale' - scrive Casey sul libro che Feltrinelli (un editore non a caso trattandosi del Che) pubblica da oggi - in grado di vendere praticamente qualsiasi prodotto immaginabile e un simbolo perenne della resistenza al sistema capitalista che promuove quegli stessi prodotti: un incontro-scontro postumo con il capitalismo, che ha alimentato, se possibile, la seconda vita del Che morto il 10 ottobre '67.
Il commercio che ormai governa questo post-Che e' figlio di un mondo assai diverso da quello che conosceva Guevara. Il Che si collocava - analizza Casey - con nettezza su un fronte preciso della Guerra fredda ideologica e auspicava la distruzione del sistema capitalista, eppure oggi la sua immagine partecipa a quello stesso sistema. In certi casi le vendite del Che sono spinte da grandi multinazionali, una pratica che ha fatto partire battaglie legali e una lotta su piu' fronti sui diritti d'autore dell'immagine di Korda. Occorre ammettere che e' stato il capitalismo a fare del Che quel che e' oggi, senza sminuire le intenzioni di chi lotta in nome del Che per sconfiggere le disuguaglianze nel mondo: gli stessi contestatori sono 'consumatori' del Che. E' prima di tutto un brand politico, un marchio di culto che puo' essere estrapolato dall'iniziale contesto rivoluzionario latinoamericano ma fino ad un certo punto.
La potenza di quella foto ha fatto di Che un'icona contemporanea che e' tante cose insieme, spettro vendicatore, angelo custode, santo (in tutta l'America latina si venera in questo senso 'Sant'Ernesto'), ma non e' la mercificazione ad averla resa tale, semmai il commercio gli e' andato dietro nella capitalistica legge della domanda e dell'offerta, sulla richiesta di milioni di anime semplici che credono alla rivoluzione del Che.
I marchi, i simboli, le immagini, dall'alba del mondo, fanno parte dell'io idealizzato. E' per questo, scrive Casey, che il Che di Korda e' cosi' importante e duraturo: nutre l'anima, e' capace di suscitare da sola indignazione e di attingere al radicato desiderio di un mondo migliore. Il suo fascino - e il commovente racconto della Chica del Che cosi' chiamata perche' indossa sempre la stessa maglietta in una baraccopoli di Buenos Aires - sta nella bellezza della speranza.




Ho letto molto sul Che....ma questo post mi ha fatto rivenire la curiosità......vado in libreria appena esco dall'ufficio [SM=g28002]
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iNTERESSANTE.
In effetti la figura del Che mi ha sempre affascinato ma poi vedere il suo volto mitizzato e stampato su qualsiasi cosa da una parte lo svilisce ma al tempo stesso fa riflettere sulla potenza dell'immagine di un uomo che comunque era "contro".
Io non ho mai comprato nulla con la mitica immagine ma se faccio 2 secondi di mente locale in casa ho :
un accendino, un posacenere, un calendario,una calamita da frigo, una bottiglia di vino con l'etichetta con la foto e delle cartine del "Che" [SM=g27987] [SM=g27987]
chissà se il dottore se lo sarebbe immaginato di diventare il più grande testimonial del pianeta .....
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06/04/2010 16:58
 
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si rivolterebbe nella tomba.
occhio però che il Che era si portatore di grandi ideali ecc. ma era un estremista non da poco.
addirittura utopico in maniera esagerata, fuori dalla realtà in pratica (così come la prima e più centrale ideologia del comunismo che, per i più puri e duri, avrebbe funzionato solo se applicata a tutto il mondo.
cosa impossibile già in principio e COME principio.

io ho letto due libri sulla vita del Che. uno di questi forse tra i più famosi è "senza perdere la tenerezza" (da una sua massima: nella vita bisogna indurirsi, ma senza perdere la tenerezza).

beh emerge un uomo dai grandi valori, dal grnade valore, dai principi sempre più radicati, fino all'estremo e uno che ... ce li vorrei vedere tanti che intendono i ...comunisti o simili, come degli scansafatiche, o dall'interno stesso di simpatizzanti, degli allegri e comprensivi compagni e colleghi di lavoro.

Che sul lavoro, in guerriglia, come al governo, era non un "nazista"... di più.
si faceva un culo così per 20 ore al giorno, si ammazzava nonostante l'asma, e tu che eri nel suo staff, o nel suo manipolo di guerriglieri dovevi fare esattamente come lui sennò eri fuori.

era un macello, quasi una macchina.
[Modificato da giove(R) 06/04/2010 16:59]


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23/04/2010 16:09
 
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MANDELA E IL CALCIO: QUEL CAMPIONATO DI ROBBEN ISLAND

Un libro straordinario, che riconcilia con l'essenza più autentica del calcio, ed è strano che nessuno per ora abbia pensato di ricavarci un film. E' la cronaca del più incredibile campionato mai organizzato, quello che vide impegnati per quasi un quarto di secolo i detenuti politici del carcere di Robben Island, l'isolotto sudafricano al largo di Cape Town, dove fu rinchiuso anche Nelson Mandela. La loro lunga battaglia - alla fine degli Anni Sessanta - per avere l'ok a giocare a pallone, sfogo e liberazione dopo le tante ore trascorse a spaccare pietre; la nascita di una «regolare» federazione, la Makana Football Association (dal nome del condottiero esiliato a Robben Island nel 1819 dopo aver sfidato il potere coloniale) infine la creazione addirittura di tre campionati, di serie A, B e C, con tanto di Commissioni Arbitrali e Disciplinari, ed è quasi commovente notare la cura con la quale questi detenuti, privati di tutto, compilavano i bollettini delle partite e i relativi comunicati disciplinari. Nel 1967 il primo campionato fu vinto dal Manong, l'unica squadra che reclutava giocatori a prescidere dal loro schieramento politico e che forse anche per questo vantava sostenitori anche nella famigerata sezione B, quella dove Mandela trascorse gli anni dell'isolamento. Mandela non poteva partecipare al torneo, guardava le partite dalle grate della sua cella finché gli venne negata anche quella possibilità e dovette quindi accontentarsi dei resoconti degli altri detenuti. L'ultimo campionato si disputò nel 1991, anno della chiusura del carcere, ma alcuni dei giocatori continuarono ugualmente a far parlare di sè. Come il talentuoso capitano dei Rangers, Jacob Zuma, attuale presidente del Sudafrica. Ed è bello pensare che il Mondiale sudafricano sia nato proprio dalla passione per il calcio di Mandela e Zuma, e dalle partite del campionato di Robben Island.

Molto più di un gioco di Chuck Korr e Marvin Close; Iacobelli editore, 235 pagine, 15 euro.
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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13/05/2010 15:05
 
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Rose e Pistole di Stefano Cappellini

Un bel libro. Intrigante, coinvolgente ed appassionante: Rose e Pistole è forse l’unico libro pubblicato fino ad ora sul ’77 e firmato da un giornalista (un giovane giornalista) capace di raccontare efficacemente quello che uno dei protagonisti di quella stagione, Franco Berardi (Bifo), ha definito «l’anno sacrilego del doppio sette».
Non è un saggio storiografico: non ci sono note, non c’è una bibliografia di riferimento e Cappellini utilizza fonti che non stupiscono certo per la loro originalità eppure il racconto regge e i fatti salienti emergono con chiarezza seguendo un filo cronologico lineare e rigoroso. Dal proletariato giovanile protagonista delle domeniche autoridotte milanesi all’incendio dell’Angelo Azzurro a Torino, il ’77, con i suoi eccessi, la violenza e le trovate geniali, è tutto lì nelle 336 pagine del libro.
Non è un romanzo: le storie raccontate in Rose e Pistole fanno parte della storia di questo nostro Paese. Indiani metropolitani, streghe, autonomi inkazzati, brigatisti, proiettili vaganti e strade insanguinate non sono frutto dell’immaginazione dell’autore: nel ’77 c’era tutto questo e molto di più. Il merito più grande di Cappellini è, infatti, di aver saputo raccontare la complessità di quei giorni folli, drammatici, colorati, insanguinati, festosi e violenti in quelle 336 pagine che corrono via veloci senza bisogno di colpi di scena o di frasi ad effetto.
Rose e Pistole restituisce il clima di quel periodo e parla di quello che per alcuni fu l’ultimo sussulto del “lungo maggio italiano”, un insieme di tante facce, con tante espressioni di giovani che non esistono più, un movimento che fu insieme festa e violenza, gioco e morte.
Cappellini non inventa nulla: lascia parlare i fatti o meglio fa in modo che a parlare siano i protagonisti di quei fatti e lo fa attraverso le interviste o riproducendo articoli e documenti dell’epoca.
Il libro ci è piaciuto, quindi, anche se, concludendo, riteniamo necessario fare alcune precisazioni.
In primo luogo, nell’introduzione si sostiene che il 1977 sarebbe l’anno in cui si estingue il comunismo italiano (p. IX): Cappellini confonde l’antipartitismo che sempre ha caratterizzato i movimenti e i gruppi nati a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo con l’anticomunismo. «In questa casa» scriveva Bifo in Chi ha ucciso Majakovskij (Milano, Squilibri, 1977) «ci abitiamo in molti. Vivere insieme, in modo collettivo con le stanze che comunicano una nell’altra […]. Siamo tutti comunisti, stanza per stanza» (p. 33). In quelle stanze c’era il movimento e la sinistra rivoluzionaria che mai negò o rinnegò le proprie origini: certo, molti dei giovani rivoluzionari degli anni Settanta si richiamavano al Marx dei Grundrisse e non ai classici del marxismo-leninismo ma nessuno dei protagonisti di quel periodo si sarebbe mai definito anticomunista. A finire nel ’77 non è il “comunismo italiano” ma la forma-partito entrata in crisi e messa fortemente in discussione già a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. «Forse aveva ragione Asor Rosa» scrive ancora Cappellini a p. 321 «a definire ‹anticomunisti› i giovani del movimento». Asor Rosa non si riferiva alla matrice culturale e politica del movimento ma alla violenta e radicale frattura che si era consumata – in modo definitivo dopo la “cacciata” di Luciano Lama, allora segretario della CGIL, dalla Sapienza – tra il Partito Comunista Italiano e i giovani della sinistra extraparlamentare e rivoluzionaria. Questa frattura fra i «non-garantiti» – e cioè i giovani del movimento – e il partito di Berlinguer era stata determinata, da una parte, dall’atteggiamento del Pci che, fin dall’inizio, scelse di contrapporsi al movimento considerandolo un fastidioso ostacolo in un momento politicamente delicato come quello che lo vedeva avvicinarsi al governo. Il PCI, infatti, era stato colto di sorpresa da questa nuova contestazione giovanile: troppo diverso e strano il linguaggio utilizzato da quei giovani dai volti colorati e troppo radicali e violenti i comportamenti di quei volti coperti dal passamontagna per un partito legato ad un’altra concezione dell’agire politico, più progettuale e finalizzata. Dall’altra, era stata provocata dal fatto che tutte le componenti del movimento – dagli emarginati delle periferie agli studenti fuori sede, dal sottoproletariato alle femministe, dagli indiani metropolitani agli autonomi – consideravano il Pci un partito d’ordine in nulla differente dalla Democrazia Cristiana. In un articolo del 1987, intitolato Le due sordità, Asor Rosa ha definito il 1977 «il momento in cui la lacerazione […] tra forze rappresentate (o sovra-rappresentate) e forze poco rappresentate (o nient’affatto rappresentate), […] tra sistema dei partiti e realtà sociali marginali» era esplosa in maniera clamorosa. I partiti, e in particolare quello comunista, di fronte al movimento si erano comportati «come quei selvaggi che prendono a calci l’onda che sale sulla spiaggia, gridando: ‹Via, via!›; perché non hanno ancora capito che esiste un fenomeno che, scientificamente parlando, si definisce “marea”» (A. Asor Rosa, Le due sordità, “L’Espresso”, 18 gennaio 1987).
Poi, ci sembra doveroso aprire una piccola parentesi sul concetto di flessibilità. «In netta opposizione col disobbediente degli anni Novanta,» scrive Cappellini (p. 319) «il creativo del ’77 vede nella flessibilità il germe della liberazione dal lavoro salariato: il part-time, il lavoro a domicilio rappresentano un primo passo verso la realizzazione dello slogan: ‹È ora, è ora, lavora solo un’ora›.». Partendo dal presupposto che non è possibile sovrapporre lotte e slogan coniati in periodi storici e in contesti politico-economici così diversi e lontani tra loro senza un giusto sforzo di contestualizzare situazioni e protagonisti, il disobbediente degli anni Novanta non contesta la flessibilità in sé, che effettivamente potrebbe anche essere considerata una ricchezza, ma la precarietà e cioè la totale mancanza di regole, di diritti e di tutele che oggi sembra governare (o non governare) il mondo del lavoro. Così come i creativi del ’77 (e non in opposizione ad essi), i disobbedienti di oggi lottano contro la disoccupazione e la mancanza di prospettive che fanno sì che i «non-garantiti» odierni vaghino per anni «tra color che son sospesi» tra contratti sempre più atipici e ingiusti che autorizzano lo sfruttamento fornendo strumenti e giustificazioni legali a datori di lavoro sempre più spregiudicati.

Infine, un’annotazione: uno dei capitoli del libro si intitola 13 maggio 1977: la morte di Giorgiana. Ma Giorgiana Masi muore il 12 maggio 1977, a Roma. Quel giorno il Partito radicale aveva promosso, nonostante un decreto prefettizio avesse vietato ogni manifestazione fino al 31 maggio, un corteo pacifico per celebrare la vittoria del referendum sul divorzio del 12 maggio 1974. La polizia era intervenuta prima picchiando alcuni parlamentari radicali e poi caricando un corteo che, a differenza delle altre volte, era privo di servizi d’ordine e di strumenti di difesa. Iniziata la sarabanda dei lacrimogeni ad altezza d’uomo, delle sassaiole, il corteo si era diviso in due spezzoni. Erano state erette barricate nel tentativo di sbarrare la strada alla polizia che nel corso di una delle cariche aveva iniziato a sparare con le sue armi. Gli scontri andarono avanti per ore. A tarda sera, arrivò la notizia che su Ponte Garibaldi era stata uccisa Giorgiana Masi, una simpatizzante del Partito Radicale, colpita alla schiena mentre fuggiva.
E allora perché il 13 maggio? Forse perché Cappellini si sofferma particolarmente sul dibattito che si sviluppò dopo la morte della diciannovenne romana?
Lo slogan pubblicato sulla quarta di copertina del libro ci sembra il modo migliore per congedarci dopo queste brevi note sul bel lavoro di Cappellini e su quei giovani che trent’anni fa, tra errori e contraddizioni, tornarono a riempire le piazze e le strade d’Italia: «Non è il ’68. È il ’77. Non abbiamo né passato né futuro. La storia ci uccide».

.............

Ho letto diversi libri sugli anni '70, sul terrorismo, su quel periodo storico-politico italiano in generale.
Questo l'ho trovato uno dei piu'scorrevoli, documentati e meglio argomentati. Belle anche le fotografie scattate nel '77 da Tano D'Amico. Tempo fa vidi una sua mostra del periodo a Testaccio.
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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18/05/2010 18:01
 
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Con Edoardo Sanguineti scompare un'altra delle piu' importanti figure culturali e carismatiche della comunita' genovese. Ogni verso, ogni brano tradotto, ogni scritto di Sanguineti era riconoscibilissimo per la messa in discussione, genuina e mai inutilmente provocatoria, di regole codificate, per la capacita' di superare la facile tentazione di capovolgere e stupire e pervenire invece al nucleo autentico di ogni cosa partorita dalla fantasia e dalla creativita' dell'uomo". Lo dice in una nota il presidente della Provincia di Genova Alessandro Repetto sulla scomparsa del poeta Edoardo Sanguineti "intellettuale sempre presente e attivo anche nella vita della citta'". (AGI)

Famosi i suoi aforismi..eccone alcuni:


- La nozione di chiarezza, per nostra disgrazia, pare essere intrinsecamente e fatalmente oscura.

- Quelli di Tienanmen erano veramente dei ragazzi poveretti, sedotti da mitologie occidentali, un poco come quelli che esultarono quando cadde il muro; erano dei ragazzi che volevano la Coca-Cola.

- Pinocchio piace moltissimo anche a me. Ritengo anche io che sia uno dei più grandi libri dell'Ottocento italiano. Ma non fa testo. È al di fuori della letteratura. Collodi non aveva la coscienza, la lucidità del letterato. Era in sostanza un narratore orale; non sapeva quello che poteva dare come non lo sa ogni narratore orale.

- La poesia non è una cosa morta, ma vive una vita clandestina.

- E' impossibile separare la scienza dal suo contesto storico sociale concreto. L'immagine dello scienziato chiuso in laboratorio che fa la grande scoperta è un po' comica. A promuovere la scienza sono innanzitutto i gruppi interessati a usarne le ricadute: l'università, l'industria sempre più immateriale, i grandi centri medici e farmacologici, l'esercito. La portata ideologica della scienza lievita dentro questi interessi.

-Sarei tentato di dire che non esistono cattivi maestri, ma solo cattivi scolari.

-Viviamo in un mondo interconnesso, in cui anche i problemi piccoli dipendono da quelli filosofici, e quelli locali dal resto del mondo.

-Il problema del proletariato attuale è che comprende i tre quarti della popolazione, ma molti non lo sanno. Se un piccolo materialista storico come me potesse aiutare qualcuno a prenderne coscienza...

- Per me la scienza è fatalmente portatrice di valori. Pensando al discorso sul metodo mi viene in mente Galileo e le sue ragioni metodologiche. Non credo che la sua scienza fosse innocua, neutrale, innocente. Per la semplice ragione che le sue ricerche misero in crisi una prospettiva ideologica forte: quella fino ad allora sostenuta dalla Chiesa e dall'autorità scientifica appoggiata dal cardinal Bellarmino.

-Credo alla teoria dei bisogni radicali di Marx da quando ho l'età della ragione. E chiunque abbia una posizione "di sinistra", a mio giudizio, non può non crederci.

-In cinquant'anni molte cose sono profondamente cambiate, la poesia è cambiata, ma non è cambiato il compito dei poeti, quello di disegnare il profilo ideologico di un'epoca.

- L'industria culturale non è tale da impedire la nascita di un'opera d'arte di qualità e magari d'eccezione. Ma è evidente che ne condiziona la forma.

-E'meglio scrivere di riso che di lacrime, perché ridere è ciò che è proprio dell'uomo.

-Posso dire che l'universo, che altrove si squadrena, è qui [a Genova] raccolto, miniaturizzato come si deve. Ma questo accade perché Genova è un po'una replica del mondo, e un po'è un suo archetipo ristretto, una specie di modellino ristretto.

-La virtù principale del capolavoro, se vogliamo continuare a chiamarlo così, è quella di creare un nuovo modo di guardare le cose.

-L'industria culturale è il terreno su cui opera la nostra cultura. Non potrebbe essere diversamente. Se Honoré de Balzac scriveva capolavori nella forma del romanzo, ciò è perché l'industria culturale dell'epoca chiedeva questo genere.

-Uno sguardo vergine sulla realtà: ecco ciò che io chiamo poesia.

-Non c'è opera veramente comica se non ha in sé qualcosa di tragico e viceversa.

-Nel mercato planetario far ridere è arma di potere.

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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26/05/2010 17:36
 
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Delitti rock. Da Robert Johnson a Michael Jackson: 200 indagini sulla scena del crimine

Autore Guaitamacchi Ezio
Dati 2010 - 460 pag. - Editore Arcana (collana Arcana musica)



Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison: quattro grandi star della "musica che ha cambiato il mondo" muoiono (in circostanze misteriose) nel giro di soli due anni. Tutti avevano una J nel nome. Tutti avevano 27 anni. Quella del "Club J27", purtroppo, non è un'anomalia della storia del rock. Prima e dopo Brian, Jimi, Janis e Jim, altre stelle luminose del firmamento musicale vedono le loro giovani vite troncate da incidenti improvvisi, overdose vigliacche, atti violenti, veri e propri omicidi. Sempre, un alone di mistero circonda queste "morti celebri". Da Elvis Presley a Kurt Cobain, da Marvin Gaye a Jeff Buckley, sono decine i "casi irrisolti" (a volte, ancora aperti) di una catena inquietante di Delitti Rock. Quarant'anni dopo le morti di Hendrix e Joplin e a trenta dall'omicidio Lennon, questo libro racconta i casi più scottanti, le storie più scabrose, gli avvenimenti più scioccanti cercando di far luce sui misteri che aleggiano (ancora oggi) attorno ai nomi di alcuni dei più grandi miti del Novecento. La scena del crimine viene analizzata nel dettaglio così come minuziosamente sono approfonditi tutti gli accadimenti che accompagnano la tragica fine di ciascun personaggio. Il racconto trasporta l'ascoltatore in una zona "ai confini della realtà" nella quale si possono assaporare le varie storie quasi le si stesse rivivendo in diretta.

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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27/05/2010 11:49
 
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"Il Mondiale della Vergogna"
Zanetti ricorda e racconta
L'incontro tra il capitano dell'Inter e il p.m. di Calciopoli Narducci è diventato un documentario, per riflettere e non dimenticare tutto quello che è stato nascosto dietro al Mondiale del '78. Oggi a Roma la presentazione del libro



ROMA, 27 maggio 2010 - Metti un Mondiale, un'Argentina vittoriosa e un dietro le quinte feroce, un libro, un magistrato che lascia per un momento Calciopoli e si occupa di storia sudamericana, un capitano che è reduce da una stagione in cui ha vinto tutto quello che c'era da vincere. Mescolate bene e ne viene un incontro sul lago di Como, parlando di quei giorni. Giorni in cui Javier Zanetti non aveva compiuto 5 anni e il pm napoletano Giuseppe Narducci era ancora uno studente. Giorni entrati però nella memoria del calcio e della storia, in Argentina e non solo. Il punto di partenza del colloquio è "Il Mondiale della Vergogna", il volume di Pablo Llonto, prime esperienze giornalistiche nella copertura dell'Argentinos Juniors, la squadra in cui militava Diego Maradona agli esordi, proprio negli anni bui dei 30 mila desaparecidos.

Narducci ha scritto la prefazione del libro di Llonto e l'editore Alegre ha voluto organizzare un incontro, con la regia di Gianni Cipriani e di Globalist, che è diventato un piccolo documentario. La prima, oggi a Roma, alle 17.30, a Palazzo Valentini, nella sala Di Liegro della Provincia. Con Narducci, ci sarà anche Gianni Minà, il regista Stefano Incerti e l'autore Pablo Llonto.
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08/09/2010 19:00
 
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Il divino pallone_ Metafisica dei piedi da Platone a Totti


Heidegger era un’ottima ala sinistra, Derrida un buon centravanti, Camus giocava in porta ,come Giovanni Paolo II e un numero non piccolo di filosofi ha utilizzato il calcio per fare filosofia. Sarte amava dire che il calcio è una metafora della vita, Wittgenstein giunse alla svolta del suo pensiero guardando una partita di calcio, Marleau-Ponty spiegava la fenomenologia parlando di calcio. Come mai? Il calcio si basa su un principio: il controllo di palla. Ma il principio non può essere finalizzato a se stesso. Per giocare bisogna necessariamente abbandonare la palla e “metterla in gioco”. Controllo e abbandono sono i due principi del calcio e della vita. La filosofia, come gioco della vita, si basa su regole calcistiche: per filosofare bisogna saper mettere la vita in gioco. È per questo motivo che nel Divino Pallone si spiega l’Idea di Platone con Pelé, la contraddizione del non-essere con Garrincha, la virtù e la bellezza con Platinì, ma anche l’inverso: il genio di Maradona con la “logica poetica” di Vico, la visione di gioco di Falcao con il mito della Caverna, il cucchiaio di Totti con la metafisica di Aristotele. E tanto altro ancora. Il calcio, infatti, non è solo una metafora, ma un paradigma cognitivo che dà scacco matto perfino al fenomeno politico più drammatico della modernità: il totalitarismo. Hitler e Stalin pretesero di controllare tutto e ci riuscirono. Pretesero di controllare anche il pallone. E persero. Il calcio ci fornisce il modello per non ricadere più nel totalitarismo.

L’autore
Giancristiano Desiderio, giornalista e saggista, ha pubblicato libri sul rapporto tra pensiero e libertà. Lavora con il quotidiano «Liberal» e collabora con il «Corriere del Mezzogiorno». È stato cronista parlamentare di «Libero» e vicedirettore dell’«Indipendente», ha fondato la rivista «CroceVia» e la Biblioteca Michele Melenzio. Vive a Sant’Agata dei Goti scrivendo, leggendo, insegnando e, naturalmente, giocando.

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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Let it be

Serial killer e detective hanno in comune una sola cosa: i Beatles




Let it be" (versione integrale pubblicata da Alacran editore e Gialli Mondadori n.2981) è il primo libro di Paolo Grugni, un noir insolito e innovativo, soprattutto dal punto di vista dello stile narrativo. Il protagonista è Tommaso Matera, un appassionato dei Beatles che lavora nella polizia con il compito di decifrare i messaggi lasciati dagli assassini nei loro delitti. Il romanzo, ambientato a Milano e in una immaginaria Volate, sembra essere strutturato in due parti distinte, parti che, dopo averne letto il finale, si scopre fanno parte di un unico disegno ben eseguito.
Lo stile narrativo è asciutto, secco, ma ricco di metafore. I personaggi sono descritti con pochi tratti lasciando al lettore il compito di immaginare il resto, rendendolo partecipe della storia. In "Let it be" è subito, già dalle prime pagine, riconoscibile il tratto di Grugni e la mano dello scrittore professionista. Inoltre, è facile ritrovare l'autore in più punti della storia.
Già dal titolo "Let it be", celebre canzone dei Beatles, gruppo musicale al centro dell'intero romanzo, ritroviamo la passione per la musica del critico musicale Grugni. Troviamo anche un Grugni critico letterario nell'uso della semantica per risolvere i casi di omicidi, e un Grugni ambientalista nella figura di Tommaso Matera che decide di avviare un'attività di prodotti biologici.

Sicuramente "Let it be" è un volume che non può mancare nella libreria di un appassionato di gialli classici, in quanto c'è un buon uso di indizi, di un cultore di noir, per le atmosfere e descrizioni, e del lettore in generale in quanto siamo di fronte ad una lettura più che piacevole da non perdere.

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11/09/2010 00:23
 
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qualche titolo
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Ionesco - La cantatrice calva

Tomaso Staiti - Confessione di un fazioso

Stefano Benni - Bar Sport


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I pilastri della Terra : il medioevo infuocato e intrigante di Ken Follett arriva in Tv in una serie voluta da Tony e Ridley Scott


Una volta c'era Atlante che portava il mondo sulle sue spalle. Poi è arrivato Ken Follet e ha scritto, in un romanzo dall'epica straordinaria, dei Pilastri della Terra. Potevano Ridley e Tony Scott non cogliere l'occasione per tradurla in serie tv? Debutterà su Sky Cinema, in esclusiva assoluta per l’Italia, a partire l'1 ottobre 2010. La traduzione della parola cartacea in otto ore di immagini è costata costata 40 milioni di dollari. La storia si sviluppa nell’Inghilterra Medievale, minata dei continui, insanabili contrasti tra nobiltà e clero, proprietari terrieri e artigiani, avventurieri senza scrupoli e pii uomini di chiesa, tra amori contrastati e impossibili e rivalità familiari.

La serie, che nel cast annovera tra gli altri Donald Sutherland e lo stesso Ken Follet che è un ricco mercante, verrà proposta in 4 puntate su Sky Cinema 1 HD a partire dal primo ottobre, tutti i venerdì alle 21.00. Siamo nel Sud dell’Inghilterra e il secolo è il XII. Il racconto copre un arco temporale di 50 anni, insanguinati dalle guerre tra Inghilterra e Francia. Il cuore narrativo è la costruzione di una imponente cattedrale nel paesino di Kingsbridge. Lì si incrociano e scontrano le ambizioni del piccolo, malvagio nobile William Hamleigh, della bella Aliena, figlia di un conte, del Priore Philip e di Jack il costruttore, figlio di una donna scacciata dal paese e che lo ha allevato nella foresta.

I fan del bestseller di Ken Follett hanno aspettato quasi 20 anni prima che il capolavoro venisse adattato per lo schermo. Il 22 giugno 2009, Tandem Communications e Muse Entertainment con la Scott Free Films, iniziano a lavorare al progetto per realizzare un’avvincente trasposizione televisiva del libro. Fu un lungo percorso quello che lo avrebbe portato a diventare una serie tv. Lo stesso Follett sosteneva da sempre che sarebbe stato impossibile raccontare le quasi 1000 pagine del romanzo in un film di due ore, come ha spiegato egli stesso: "Semplicemente non credevo ci fosse un modo per fare de I Pilastri della Terra un film per il cinema o la tv, così mi sono tenuto lontano da questa idea per lungo tempo". La svolta avviene già durante le prime conversazioni con Ridley e Tony Scott: "Ridley Scott si avvicinò e mi disse che avevo ragione, non poteva essere fatto in meno di sei ore e probabilmente non dovrà essere inferiore a otto. E io gli dissi che rea il mio uomo!". Infatti, l’iniziale progetto che voleva fare de I Pilastri della Terra una serie lunga sei ore fu sospeso. Tutto ripartì grazie alla partnership con Tandem e la canadese Muse Entertainment, inaugurando una co-produzione internazionale capace di sostenere un progetto tanto ambizioso e la sfida di realizzare l’adattamento televisivo di un così straordinario racconto epico. La serie tv è diretta da Sergio Mimica-Gezzan (Heroes, Saving Grace, Into the West di Steven Spielberg) e vanta produttori esecutivi del calibro di Ridley e Tony Scott (Scott Free Films) che insieme a Tandem Communications e Muse Entertainment hanno realizzato con tenacia e passione questo imponente progetto seriale.
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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17/09/2010 17:19
 
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Una tosse cupa lo interrompe spesso mentre parla al telefono. Roberto Saviano è reduce da una polmonite («per i filtri marci dell’auto blindata», dice) che non gli consente di uscire dal rifugio segreto in cui vive, come se non bastasse la solitudine vigilata alla quale è obbligato da quando Gomorra è diventato un best seller planetario e lui il nemico numero uno della camorra. Non gli ha impedito, però, di partecipare a Sfide, in onda oggi su Rai 3 alle 23.10, per rievocare lo scudetto conquistato 19 anni fa nel basket da Caserta - la squadra di Gentile ed Esposito -, a riprova di una passione profonda per lo sport, testimoniata dai reportage sui ragazzi d’oro della boxe di Marcianise e sull’incontro con Leo Messi, che fa parte dell’ultimo libro La bellezza e l’inferno.

«Nel ’91 avevo 12 anni. Veder vincere quella squadra, composta da ragazzi del posto, cambiò la percezione del territorio. Fu una riscossa. Significò che qui il talento può avere uno sbocco; che esiste una realtà che non ha bisogno dell’aiuto di un politico, ma vince con le proprie forze; che non si è solo una provincia sconosciuta in mano alla malavita. Lo stesso vale per le medaglie olimpiche prodotte a Marcianise in palestre puzzolenti di scuole medie che nessuno crederebbe esistano ancora».

Lei le conosce bene avendole frequentate.
«Da ragazzo ho praticato basket, boxe e anche pallanuoto, ai tempi del Volturno, ma senza eccellere. Per il basket sono alto appena 1.70 e tiro male; a pallanuoto m’ispiravo a Manuel Estiarte, un genio: ero alto quanto lui e magro,maevidentemente non è bastato. Nel pugilato ho avuto uno dei migliori allenatori al mondo,Mimmo Brillantino, maestro di campioni olimpici. All’inizio anche lui credeva in me, poi un giorno mi ha fatto sorridere dicendo: "Robbe’, mi sa che devi soltanto scrivere", come a dire che il ring lo avrei potuto frequentare esclusivamente per migliorare il fisico».

Roberto Saviano, 31 anni il 22 settembre, una vita da fantasma.
Roberto Saviano, 31 anni il 22 settembre, una vita da fantasma.

È quello che continua a fare?
«Se non mi allenassi, sarei finito. La mia vita è declinata in due sole espressioni: o esisto in pubblico - su un giornale, in tv - o non esisto, perché sono rinchiuso, blindato. Fare sport è l’unico modo che ho per sentire di essere reale, non solo una foto o un video su YouTube. Faccio boxe da anni. Con difficoltà, vedo ogni tanto Brillantino; mi sono allenato per un po’ grazie alla polizia nella palestra degli atleti olimpici. Continuo a essere un pessimo boxeur, ma a volte penso che, se dovessi mai affrontare su un ring un collega scrittore o giornalista, beh avrei buone speranze di vincere».

Nello scudetto di Caserta c’è lo stesso spirito di Leo Messi: nulla è impossibile.
«Mi attirano le sfide impossibili. Non amo lo sportivo perfetto. Cristiano Ronaldo, per dire, non mi piace: carino, con il muscoletto e il tocco giusto. A me piacciono gli sghembi: Garrincha, Eusebio, Maradona. Uomini che hanno avuto difficoltà fisiche, sociali e lo sport ha salvato; persone che hanno dimostrato che ce la si può fare. Guardare a queste storie mi ha sempre dato coraggio: sono costellazioni che aiutano a navigare nel quotidiano».

Lo sport, dunque, può dare speranza?
«Può essere fondamentale per dare disciplina ai ragazzi: palestre, campetti e stadi dovrebbero riempire il Sud ed essere sottratti a una precarietà che li espone alle infiltrazioni negative. Dall’inchiesta sulla Parmalat è emerso che le tangenti ai Casalesi per assicurarsi il mercato venivano pagate spesso a società sportive di organizzazioni criminali. Così, la criminalità si sta mangiando settori della crescita sociale che invece dovrebbero costruire rispetto e lealtà. Il calcio è profondamente infiltrato, come ha detto tempo fa don Ciotti: molti personaggi che circolano in quel mondo sono interfaccia delle organizzazioni calabresi e campane. Questo, i magistrati lo sanno bene. E non va dimenticato che Calciopoli è partita da Napoli e da due magistrati, Beatrice e Narducci, che hanno una formazione anti-mafia. E perché Napoli è da sempre una centrale per le organizzazioni per accedere al calcio che conta. Con De Laurentiis le cose sembrano cambiate, speriamo».

Segue le partite, la domenica?
«Sì. Sono grande tifoso del Napoli e della Nazionale, specie quando giocano calciatori meridionali. La squadra di Mazzarri mi piace, sembra essere sulla strada giusta. Però mi manca il contatto con la folla, sono isolatissimo ». Come si fa a vivere così? «Me lo sto chiedendo. Sono schiacciato tra due gigantesche forze: da un lato la sensazione che gli addetti ai lavori non mi sopportino più e credano che la mia sia una messinscena; dall’altro, gli inquirenti che mi avvertono di rischi e minacce, per cui devono aumentare il livello di protezione: adesso ho spesso 7 uomini che mi seguono. Tutto questo mi lacera dentro, e ciò chemi ha dato un baricentro negli ultimi anni è stato allenarmi. Quando non posso farlo, devo ammettere, sono facile preda di sconforto e depressione».

Quante volte si allena?
«Nei momenti più duri, anche tutti i giorni: 2 ore di corsa, 2 di sacco e guanti. Quando vengo spostato, salto intere settimane. Se vado all’estero, chiedo se c’è una palestra vicina».

Uno dei suoi miti è Maradona. Ora vorrebbe tornare a Napoli per festeggiare i cinquant’anni: è giusto perdonargli i debiti col fisco?
«Diego deve pagare, ma potrebbe essere trattato come tanti imprenditori nei cui confronti non c’è stata troppa severità. Bisogna farlo tornare, trovando un compromesso. Circondato da personaggi inavvicinabili, Maradona è un uomo saccheggiato, con visioni politiche da sedicenne (come l’amore per Castro e Chavez). Ma è anche intelligente, un grande comunicatore che ha intuito quali poteri determinavano gli equilibri nel calcio. Come Bono Vox nella musica, è uno di quei grandi personaggi che non lasciano solo una traccia nella sua arte, ma attraverso la sua arte fa parlare anche di molto altro».

«Gomorra» ha fatto parlare di camorra nel mondo. Per questo lei è stato accusato, anche da calciatori come Cannavaro e Borriello, di aver evidenziato solo il peggio di Napoli.
«So che Cannavaro mi ha cercato per scusarsi e spiegarmi che non intendeva denigrare il mio lavoro. Piuttosto mi sembrano paradossali le parole di Borriello, per quanto abbia corretto il tiro ammettendo d’aver detto una cosa più grande di lui. Borriello è figlio di Vittorio, detto Biberon perché da ragazzino metteva la tettarella sulla bottiglia per bere la birra, ammazzato da Pasquale Centore, ex sindaco di San Nicola La Strada, narcotrafficante poi pentito. Centore disse di averlo fatto perché Biberon aveva chiesto interessi da usura del 300% sui prestiti. Le critiche di Borriello mi sembrano una contraddizione tutta italiana. Sono accusato di diffamare la città perché mostro cosa sta accadendo: per me, al contrario, diffama chi tace».

L’hanno definita, per questo, un eroe moderno, al pari di certi campioni. Si sente così?
«No, perché ho paura della parola eroe: si associa a un’idea di morte. Io sono vivo, voglio fare molti errori, scrivere ancora un sacco di fesserie, voglio divertirmi, riacquistare una vita normale. Tra pochi giorni compio 31 anni, a volte mi sembra di averne novecento».

Intanto ha lasciato Facebook per scrivere un libro.
«E questo ha scatenato la curiosità. Ho letto che mi occuperò di ’ndrangheta, P3, droga. Nulla di tutto questo e mi diverto a depistare: per scaramanzia, non lo dirò neanche a lei».

Pubblicherà ancora per Mondadori, malgrado le polemiche sul premier-editore?
«Mi sono trovato bene con la casa editrice e con chi ci lavora; il mio problema, oggi, è ovviamente con la proprietà. Vedremo ».

Che cosa farà il giorno in cui non sarà più blindato?
«Ci penso continuamente. Vorrei vedere una partita di calcio e giocarne una, anche se sono un mediocre libero. Poi farei una corsa sul lungomare, magari atteggiandomi un po’ con le mani fasciate, come fanno i pugili, per sentirmi più duro»
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Re:
Sound72, 16/09/2010 12.45:

I pilastri della Terra : il medioevo infuocato e intrigante di Ken Follett arriva in Tv in una serie voluta da Tony e Ridley Scott


Una volta c'era Atlante che portava il mondo sulle sue spalle. Poi è arrivato Ken Follet e ha scritto, in un romanzo dall'epica straordinaria, dei Pilastri della Terra. Potevano Ridley e Tony Scott non cogliere l'occasione per tradurla in serie tv? Debutterà su Sky Cinema, in esclusiva assoluta per l’Italia, a partire l'1 ottobre 2010. La traduzione della parola cartacea in otto ore di immagini è costata costata 40 milioni di dollari. La storia si sviluppa nell’Inghilterra Medievale, minata dei continui, insanabili contrasti tra nobiltà e clero, proprietari terrieri e artigiani, avventurieri senza scrupoli e pii uomini di chiesa, tra amori contrastati e impossibili e rivalità familiari.

La serie, che nel cast annovera tra gli altri Donald Sutherland e lo stesso Ken Follet che è un ricco mercante, verrà proposta in 4 puntate su Sky Cinema 1 HD a partire dal primo ottobre, tutti i venerdì alle 21.00. Siamo nel Sud dell’Inghilterra e il secolo è il XII. Il racconto copre un arco temporale di 50 anni, insanguinati dalle guerre tra Inghilterra e Francia. Il cuore narrativo è la costruzione di una imponente cattedrale nel paesino di Kingsbridge. Lì si incrociano e scontrano le ambizioni del piccolo, malvagio nobile William Hamleigh, della bella Aliena, figlia di un conte, del Priore Philip e di Jack il costruttore, figlio di una donna scacciata dal paese e che lo ha allevato nella foresta.

I fan del bestseller di Ken Follett hanno aspettato quasi 20 anni prima che il capolavoro venisse adattato per lo schermo. Il 22 giugno 2009, Tandem Communications e Muse Entertainment con la Scott Free Films, iniziano a lavorare al progetto per realizzare un’avvincente trasposizione televisiva del libro. Fu un lungo percorso quello che lo avrebbe portato a diventare una serie tv. Lo stesso Follett sosteneva da sempre che sarebbe stato impossibile raccontare le quasi 1000 pagine del romanzo in un film di due ore, come ha spiegato egli stesso: "Semplicemente non credevo ci fosse un modo per fare de I Pilastri della Terra un film per il cinema o la tv, così mi sono tenuto lontano da questa idea per lungo tempo". La svolta avviene già durante le prime conversazioni con Ridley e Tony Scott: "Ridley Scott si avvicinò e mi disse che avevo ragione, non poteva essere fatto in meno di sei ore e probabilmente non dovrà essere inferiore a otto. E io gli dissi che rea il mio uomo!". Infatti, l’iniziale progetto che voleva fare de I Pilastri della Terra una serie lunga sei ore fu sospeso. Tutto ripartì grazie alla partnership con Tandem e la canadese Muse Entertainment, inaugurando una co-produzione internazionale capace di sostenere un progetto tanto ambizioso e la sfida di realizzare l’adattamento televisivo di un così straordinario racconto epico. La serie tv è diretta da Sergio Mimica-Gezzan (Heroes, Saving Grace, Into the West di Steven Spielberg) e vanta produttori esecutivi del calibro di Ridley e Tony Scott (Scott Free Films) che insieme a Tandem Communications e Muse Entertainment hanno realizzato con tenacia e passione questo imponente progetto seriale.




«I pilastri della Terra»
e il piacere del racconto


La serie tratta dal bestseller di Ken Follett disarma lo spettatore. Come se non appartenesse né alla letteratura né al cinema né alla tv, ma alla più infantile delle felicità


Corriere.it -Sarà la storia, sarà il clima favolistico, sarà la fotografia con quei suoi colori da sogni, sarà il fuoco di un incendio che illumina romanzescamente la notte dei tempi, ma "I pilastri della Terra" è uno di quei racconti che disarmano il lettore e lo spettatore. Come se non appartenessero né alla letteratura né al cinema né alla tv, ma alla più infantile delle felicità: il piacere della narrazione. Tratta dal bestseller di Ken Follett, la serie è scritta da John Pilemeier, diretta da Sergio Mimica-Gezzan ("Heroes", "Saving Grace", "Into the West" di Steven Spielberg), prodotta da Ridley e Tony Scott, insieme con Tandem Communications e Muse Entertainment (SkyCinema, venerdì, ore 21, 4 appuntamenti, 8 puntate).

Racconta la costruzione di una cattedrale a Kingsbridge (una località immaginaria nel Wiltshire in Inghilterra); è ambientata nel XII secolo (precisamente tra il 1123 e il 1174), dall'affondamento della White Ship (la nave in cui morì l'erede al trono inglese) fino all'assassinio dell'arcivescovo di Canterbury Thomas Becket, già descritto da T. S. Eliot nel suo dramma teatrale del 1935 "Assassinio nella cattedrale". Il racconto, che si snoda fra i continui contrasti tra nobiltà e clero, proprietari terrieri e artigiani, avventurieri senza scrupoli e pii uomini di chiesa, è principalmente incentrato sulle peripezie del costruttore Tom (Rufus Sewell), un modesto carpenter che sogna di costruire cattedrali, e dei suoi figli Alfred (Liam Garrigan) e Martha (Emily Holt). E proprio sotto le macerie di una chiesa si incrociano altri destini. Nei panni del conte Bartholomew c'è anche un Donald Sutherland in gran forma. Costruita sui pilastri classici della narrazione (con un buon uso del vecchio, caro montaggio parallelo), la serie ci restituisce un Medioevo sospeso tra realtà e fantasia, azione e mistero. Il consiglio è di abbandonarsi alla visione e lasciarsi penetrare dalla smaltata e invadente presenza dei fatti, dei volti, dei dettagli.

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il libro è inarrivabile, però la serie Tv è appassionante, l'unica controindicazione è che bisogna aspettare una settimana ta una puntata e l'altra..un'altra grande opera di Ridley Scott in ogni caso
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Re: Re:
Sound72, 13/10/2010 10.20:




«I pilastri della Terra»
e il piacere del racconto


La serie tratta dal bestseller di Ken Follett disarma lo spettatore. Come se non appartenesse né alla letteratura né al cinema né alla tv, ma alla più infantile delle felicità


Corriere.it -Sarà la storia, sarà il clima favolistico, sarà la fotografia con quei suoi colori da sogni, sarà il fuoco di un incendio che illumina romanzescamente la notte dei tempi, ma "I pilastri della Terra" è uno di quei racconti che disarmano il lettore e lo spettatore. Come se non appartenessero né alla letteratura né al cinema né alla tv, ma alla più infantile delle felicità: il piacere della narrazione. Tratta dal bestseller di Ken Follett, la serie è scritta da John Pilemeier, diretta da Sergio Mimica-Gezzan ("Heroes", "Saving Grace", "Into the West" di Steven Spielberg), prodotta da Ridley e Tony Scott, insieme con Tandem Communications e Muse Entertainment (SkyCinema, venerdì, ore 21, 4 appuntamenti, 8 puntate).

Racconta la costruzione di una cattedrale a Kingsbridge (una località immaginaria nel Wiltshire in Inghilterra); è ambientata nel XII secolo (precisamente tra il 1123 e il 1174), dall'affondamento della White Ship (la nave in cui morì l'erede al trono inglese) fino all'assassinio dell'arcivescovo di Canterbury Thomas Becket, già descritto da T. S. Eliot nel suo dramma teatrale del 1935 "Assassinio nella cattedrale". Il racconto, che si snoda fra i continui contrasti tra nobiltà e clero, proprietari terrieri e artigiani, avventurieri senza scrupoli e pii uomini di chiesa, è principalmente incentrato sulle peripezie del costruttore Tom (Rufus Sewell), un modesto carpenter che sogna di costruire cattedrali, e dei suoi figli Alfred (Liam Garrigan) e Martha (Emily Holt). E proprio sotto le macerie di una chiesa si incrociano altri destini. Nei panni del conte Bartholomew c'è anche un Donald Sutherland in gran forma. Costruita sui pilastri classici della narrazione (con un buon uso del vecchio, caro montaggio parallelo), la serie ci restituisce un Medioevo sospeso tra realtà e fantasia, azione e mistero. Il consiglio è di abbandonarsi alla visione e lasciarsi penetrare dalla smaltata e invadente presenza dei fatti, dei volti, dei dettagli.

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il libro è inarrivabile, però la serie Tv è appassionante, l'unica controindicazione è che bisogna aspettare una settimana ta una puntata e l'altra..un'altra grande opera di Ridley Scott in ogni caso




il libro è BELLISSIMO.
La serie la sto scaricando così non devo aspettare [SM=g27989]
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22/10/2010 12:24
 
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Quei 101 gol mai dimenticati

CORSERA (G. BIANCONI) - Si gioca a calcio per fare gol e vincere, ovvio. Com’è ovvio che si fa il tifo per vedere la propria squadra segnare e battere chiunque. Ma con la Roma, e per la Roma, è diverso. I gol realizzati da chiunque indossi la maglia giallorossa - di qualunque fattura, e in qualunque stagione - sono importanti a prescindere dalle vittorie. E a volte perfino dal giocatore che ha spinto la palla in rete. Quello segnato da Roberto Pruzzo il 25 ottobre 1981 alla Fiorentina, per esempio, se lo ricordano in pochi; ma tutti quelli che l’hanno visto conservano memoria del colpo di tacco di Paulo Roberto Falcao che aveva liberato il centravanti anticipando il portiere avversario. Fu una delle azioni più belle della Roma di quegli anni.

Perfino i gol rivelatisi inutili li portiamo con noi, perché ci diedero attimi di esaltazione che nemmeno la cattiva sorte ha potuto cancellare: ancora Pruzzo contro il Liverpool nella finale di coppa dei campioni (1984), Rizzitelli in quella di coppa Uefa con l’Inter (1991), e via rimpiangendo. Oppure le reti superflue, come il quinto di gol di Totti alla Lazio nel derby dell’1-5, quel pallonetto meraviglioso e la sua corsa sotto la Sud, per mostrare la scritta «6 unica»: lui s’era appena innamorato di Ilary, noi lo eravamo già di lui, e da quella sera un po’ di più. Per un gol che non cambiava una partita già ampiamente vinta con le quattro reti di Montella.

Tutto questo rievoca il libro (Newton Compton editori) che Patrizio Cacciari ha dedicato ai 101 gol che hanno fatto la grande la Roma, un’antologia che va dalla prima segnatura ufficiale (25 settembre 1927, Roma-Livorno 2-0, Ziroli) fino alla punizione di Vucinic che fissa l’1-2 sulla Lazio nell’ultimo derby giocato, 18 aprile 2010. Ottantatre anni di storia e di esultanze, accompagnate da un’atmosfera che ciascuno può rivivere o scoprire, a seconda dell’età e dei ricordi.

C’è la celebrazione della prima rete di Bruno Conti in maglia giallorossa e c’è un gol sottratto alle statistiche, quello di Turone alla Juventus ingiustamente annullato, 19 maggio 1981: una gioia strozzata, un furto che sottrasse alla Roma un probabilissimo scudetto ma aggiunse rabbia e consapevolezza a una squadra già grande che di lì a poco sarebbe diventata grandissima. Ce ne potrebbero essere altri cento e cento ancora, di gol da raccontare, ma già questi bastano a far capire perché, come ha ammonito uno striscione della curva Sud, «chi tifa Roma non perde mai».

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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“Fiumicino 17 dicembre 1973”

Un interessante opera letteraria dal titolo “Fiumicino 17 dicembre 1973. La Strage di Settembre Nero”, edito da Rubbettino, è in questi giorni nelle librerie italiane. Un libro scritto con sapienza e dovizia di particolari dai giornalisti Annalisa Giuseppetti e Salvatore Lordi. Un documento importante che ci racconta i misteri e le incognite che ancora oggi, a 37 anni dai fatti, circondano l’attentato più sanguinoso compiuto nell’aeroporto italiano di Fiumicino. La storia racconta la strage che fu il frutto di un attentato terroristico palestinese che colpì con efferata determinazione, uccidendo 30 persone innocenti. I feriti furono oltre 15. Terroristi arabi si diressero verso un aereo della Pan Am e vi gettarono all’interno due bombe al fosforo. Quattro delle 30 vittime erano italiani: Raffaele Narciso, Giuliano De Angelis, la moglie Emma Zanghi in De Angelis e la loro figlioletta Monica. Uccisero inoltre il militare della Guardia di Finanza Antonio Zara, che aveva tentato di opporre resistenza. Si impadronirono poi di un aereo Lufthansa, facendovi salire alcuni ostaggi tra cui sei guardie di pubblica sicurezza. Costrinsero quindi l’equipaggio, che già era a bordo, a far decollare il velivolo. A bordo dell’aereo della Lufthansa uccisero il tecnico della società Asa, Domenico Ippoliti, che venne abbandonato sulla pista di Atene, dove l’aereo aveva fatto scalo. Molti aeroporti infatti rifiutarono l’atterraggio e alla fine l’aereo si fermò all’aeroporto di Kuwait City. L’incubo terminò nella tarda serata del giorno successivo al Kuwait International Airport, dove vennero liberati gli ostaggi e arrestati i terroristi che verranno consegnati all’Olp. Di loro, compresa l’identità, non si seppe mai nulla, ma i terroristi erano uomini di “Settembre Nero”, ovvero di Abu Nidal, il fondatore del Consiglio Rivoluzionario di al-Fath, detto anche Fmt (Fath al-Majlis al-Thawri), e figura per molti aspetti ambigui e controversi, tanto da far ritenere attendibile una sua manipolazione e/o infiltrazione da parte dei servizi israeliani. Oggi, a 37 anni di distanza dal quel giorno nefasto per la storia del nostro Paese, questo libro vuole cercare di fare luce su quella strage. Per la prima volta, infatti, testimoni oculari parlano di fatti rimasti nell’ombra, rivelando scenari a dir poco sconvolgenti.Molti in realtà sono gli interrogativi affrontati: perché uno dei terroristi indossava la tuta degli operatori dell’Asa? Chi era il fantomatico “Generale K” che fece visita alla famiglia di Domenico Ippoliti, morto ad Atene? E soprattutto chi seguiva, come un fantasma, l’aereo dei dirottatori? Interrogativi ancora senza risposte in una vicenda ancora da analizzare a fondo. Nelle pagine del libro di Giuseppetti e di Lordi si aprono scenari che sanno di depistaggi con la complicità dei servizi segreti, di intese italo-palestinesi e della partecipazione del Mossad al primo grave attentato aereo della storia della Repubblica italiana. “Stragi definitivamente cancellate”, ha scritto Sandro Provvisionato nella prefazione, parlando anche dell’altro attentato allo scalo romano del 1985. E degli autori, cita il lavoro paziente, minuzioso e certosino che li vede muoversi come abili investigatori del passato nei meandri di quello che a pieno titolo può essere considerato un “cold case” tutto italiano, nella storia della sporca guerra che il terrorismo ha combattuto sul terreno della nostra penisola. Un ottima lettura per gli appassionati del genere, ma anche per chi ama ogni tanto curiosare nelle vicende e nelle pagine più scure dei misteri italiani.
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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02/12/2010 14:46
 
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a proposito di libri....

si sa nulla di "Metastasi"?

non dovrebbe uscire in questi giorni?
L. S. D.
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02/12/2010 18:05
 
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ho sentito quello che avrai wsentito pure te.
addirittura la Polizia avrebbe acquisito il libro per saperne di più!!!
ma te rendi conto? è come se Ranieri andasse da Torri a chiedergli cone gioca la Roma.
c'è anche un altro libro, prefazione di Caselli, "Nomi, cognomi e infami".
lo slogan di presentazione è "la mafia al nord esiste. ce la racconta chi da anni la combatte".

intanto mi sono preso un pò di roba come compiti per le vacanze:
Soza Boy il libro sponsorizzato da Saviano di KEn Saro Wiwa, scrittore impegnato in nigeria contro la distruzione delle terre degli Ogoni a causa dello sfruttamento dell'iundustira pretrolifera, impiccato con l'assenso della Shell, poi l'ultimo di Amarthya Sen, e infine il primo di una giornalista che è di recente balzata nella mia top five, Arundhaty Roy, indiana.

inchieste a go go sulla deriva nazionalista e anche un pò nazista dell'India, un tempo paese ..gandhiano.
è da poco tornata da un periodo nella giungla insieme ai guerriglieri naxaliti/maoisti/tribali cui il governo dà la caccia perchè vogliono difendere i loro territori, dove purtroppo per loro sono state trovate praticamente tutte le riserve di ricchezz mineraria ecc. le multinazionali sono lì che si fregano le mani e il governo indiano è impegnato a spazzare via chi non è d'accordo.
il fatto vuole che ai vecchi guerriglieri comunisti che combattono da tempo per altri motivi, si sono uniti tutti i poveracci dei villaggi, gente che combatte l'esercito con i bastoni, facendo imbiocate e guerriglia di altri tempi, per difendere le loro montagne sacre, i boschi sacri, ecc....

è una lotta impari, lei ha sposato la loro causa. di recente molta parte dell'opinione pubblica (disinformata) e delle autorità ha chiesto che venisse arrestata per quanto afferma.


vabbè non ve ne frega un cazzo ma tant'è... [SM=g27987]


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