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I giovani (tifosi) d'oggi

Ultimo Aggiornamento: 19/03/2016 16:37
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Post: 2.725
15/03/2016 13:00
 
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Apro questo topic per farvi una domanda, o meglio per farla a quelli di voi che sono in contatto con ragazzi tifosi di calcio - non necessariamente della Lazio - nella fascia tra i 15 e i 25 anni. Stavo riflettendo sul fatto che io ormai non ne conosco più nessuno, ahimè. E quindi ho su di loro un'opinione, o sarebbe meglio dire un'impressione, troppo da esterno.
Del calo di presenze allo stadio si parla spesso, e quasi sempre si incolpano le tv e il loro spezzatino, il prezzo dei biglietti in un'epoca di crisi economica, la fatiscenza dei nostri stadi e il peggioramento tecnico della Serie A negli ultimi 10 anni. Tutte cose verissime, tutte cose che fanno parte della nostra esperienza più recente, ma noi ormai siamo diventati la generazione di mezzo. Se hai, come molti di noi, più o meno vent'anni di stadio sulle spalle ci sta che ti fai tentare dal divano o che metti via quel po' di soldi per cose che nel frattempo sono diventate più importanti. Ci sta che hai meno tempo e meno libertà, perché nel frattempo siamo cresciuti e le nostre vite sono cambiate. Quello che voglio dire è che io dai 15 ai 25 anni ho respirato, mangiato, bevuto, cacato e sognato calcio, e da esterno non mi pare che sia ancora così per i 15-25enni di oggi. Graziarcazzo, mi si dirà: te sei cresciuto con Cragnotti, questi poveracci con Lotito. Ma è un'obiezione che coglie nel segno solo in parte, perché la mia impressione va oltre la Lazio. Restando a Roma, che ovviamente è il posto che conosco meglio, direi che in proporzione, viste le ambizioni delle rispettive squadre, è persino più allarmante la disaffezione romanista. Insomma, mi pare che manchi un ricambio generazionale sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo: che io quarantenne laziale sia stanco e disilluso da Lotito è perfettamente normale, ma se fossi un ventenne romanista, e dunque 1) non avessi mai vinto un cazzo in vita mia e 2) avessi la squadra per farlo, la mia febbre sarebbe a 90° (cit.)! Non mi perderei dietro alla diserzione anti-prefetto e al disprezzo per i secondi posti o il "calcio moderno", per il semplice fatto che la mia anagrafe non mi permetterebbe di rimpiangere una beata fava.
La tesi, quindi, è che i 15-25enni di oggi siano complessivamente meno interessati al calcio e comunque in maniera meno intensa di come lo eravamo noi. Probabilmente sono più informati perché subiscono un bombardamento h24 da parte dei mass media, hanno una cultura calcistica globale che noi alla loro età non avevamo, ma allo stesso tempo sono più disincantati. Se così fosse, ci sarebbe da chiedersi: è un bene, significa che sono più adulti e capaci di dare la giusta importanza al tifo nelle loro vite, oppure sono meno capaci di sognare e di provare emozioni, figli di un'epoca che è molto meno spensierata della nostra?

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Post: 266
15/03/2016 14:10
 
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Re:
Mark Lenders (ML), 15/03/2016 13.00:

 Probabilmente sono più informati perché subiscono un bombardamento h24 da parte dei mass media, hanno una cultura calcistica globale che noi alla loro età non avevamo, ma allo stesso tempo sono più disincantati. Se così fosse, ci sarebbe da chiedersi: è un bene, significa che sono più adulti e capaci di dare la giusta importanza al tifo nelle loro vite, oppure sono meno capaci di sognare e di provare emozioni, figli di un'epoca che è molto meno spensierata della nostra?



è esattamente questo.
parlo con cognizione di causa, essendo padre di un diciannovenne.
mio figlio sa tutto su tutti. ha visto immagini di tutti. può vedere partite come e quando vuole.
insomma, volendo, potrebbe usufruire di tutto il calcio mondiale senza mai alzarsi dal divano.
idem per i suoi amici/compagni di classe (pressoché tutti romanisti, by the way. e qui può entrare in ballo il discorso Cragnotti vs Lotito).
poi, certo, lui è figlio a me e quindi ha una partecipazione attiva molto più intensa rispetto ai suoi coetanei, abbonamento allo stadio in primis.
è laziale fino al midollo, odia la roma quasi quanto me ma...c'è qualcosa di diverso.
hanno meno fame di calcio, indubbiamente. probabilmente perché, a differenza nostra, ne possono gozzovigliare a piacimento.


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Post: 2.725
15/03/2016 14:11
 
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Mark Lenders (ML), 15/03/2016 13.00:

meno capaci di sognare e di provare emozioni



Rileggendo, ho usato un verbo ingiusto. Hanno sicuramente la stessa capacità di "provare" emozioni di tutti gli altri uomini di tutte le epoche e di tutte le latitudini.
In realtà volevo dire "abbandonarsi alle". Scegliere di agganciarle a qualcosa su cui non si ha il minimo controllo.

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Post: 321
15/03/2016 14:43
 
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Re: Re:
boks xv, 15/03/2016 14.10:



...hanno meno fame di calcio, indubbiamente. probabilmente perché, a differenza nostra, ne possono gozzovigliare a piacimento.



Sono con Boks. Ci avventavamo sulle radioline, su Lamberto Giorgi, su 90' minuto e speravamo di giocare in casa con Juve e Milan per vedere il secondo tempo in differita. O a mezzanotte dopo goal di notte per vedere la partita in trasferta. Dovevamo cercarcelo il calcio e potevamo parlare dei giocatori passati solo tramite i racconti e i ritagli perchè youtube non esisteva.
Io di Peppino Massa non saprei che dire; giorni fa un 21enne laziale mi diceva: "quella pippa di Marchegiani c'ha fatto perde no scudetto". Volevo dargli un destro ma era troppo grosso per me...

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Post: 363
15/03/2016 16:43
 
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Un'altra ragione credo sia il fatto che nel complesso hanno accesso a molte più alternative rispetto al calcio. Oggi vedi ragazzi appassionati a sport di cui io alla loro età sapevo a malapena l'esistenza.

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Post: 11
15/03/2016 17:24
 
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Re: Re: Re:
alenboksic71, 15/03/2016 14.43:


Sono con Boks. Ci avventavamo sulle radioline, su Lamberto Giorgi, su 90' minuto e speravamo di giocare in casa con Juve e Milan per vedere il secondo tempo in differita. O a mezzanotte dopo goal di notte per vedere la partita in trasferta. Dovevamo cercarcelo il calcio e potevamo parlare dei giocatori passati solo tramite i racconti e i ritagli perchè youtube non esisteva.
Io di Peppino Massa non saprei che dire; giorni fa un 21enne laziale mi diceva: "quella pippa di Marchegiani c'ha fatto perde no scudetto". Volevo dargli un destro ma era troppo grosso per me...



sono d'accordo con voi
c'è una sovrabbondanza di info, video, statistiche e possibilità che noi non solo ce la sognavamo ma, anzi, proprio non immaginavamo potesse accadere

più adulti e capaci, caro ML, direi proprio di no
anzi, mi pare che in definitiva siano molto più deboli e permeabili a problematiche che noi, ai tempi, superavamo con un'alzata di spalle o, nel peggiore dei casi, con la solidarietà del gruppo del quale facevamo parte
oggi, mi pare, la virtualità dei rapporti - e se vogliamo quella massima del loro rapporto col calcio, visto il topic - è tesa ad una spersonalizzazione dei sentimenti e ad una maggiore frigidità nei rapporti
anche con la squadra del - presunto - cuore

voglio dire, ai tempi miei - che sono più o meno quelli di boks - a 15 anni eri visto male se frequentavi lo stadio
oggi, secondo me, i ragazzi che frequentano lo stadio a quell'età sono forse più equilibrati, rispetto a quelli che usufruiscono del calcio solo tramite i media (medium) che sappiamo
sporcarsi le mani con la propria passione è cosa sicuramente migliore che essere appassionati virtuali di una realtà che, come tante di quelle che loro virtualmente frequentano, credono sia un eterno gioco di ruolo nel quale le persone si possono ferire o venr ferite senza pericolo, tanto hanno tante belle vite da giocarsi

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Post: 1.597
15/03/2016 17:25
 
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secondo me semplicemente l'offerta è enorme rispetto ad allora e soprattutto molto piu facilmente fruibile.

allora se eri tifoso "dovevi" vivere da tifoso, o ne eri fuori.
c'era la categoria simpatizzanti, come ora (gente che magari si dichiara di una squadra ma poi manco sa dirti chi sono i giocatori), ma da quella si passava direttamente al vero tifoso. perchè l'unico modo per conoscere il calcio, parlare di calcio, era andare allo stadio.

oggi ci sono mille sfumature in mezzo, c'è gente che può essere "tifosa di calcio" senza essere realmente tifosa di una squadra come lo eravamo noi, allora non era possibile perchè il calcio era solo allo stadio.

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Post: 2.878
15/03/2016 18:15
 
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Io molti ventenni di oggi li conosco e posso confermare il distacco maggiore con cui vivono il calcio, rispetto a come lo vivevamo noi, mentre sulle cause posso fare solo ipotesi speculative come le vostre. Alla domanda "è un bene, significa che sono più adulti e capaci di dare la giusta importanza al tifo nelle loro vite, oppure sono meno capaci di sognare e di provare emozioni, figli di un'epoca che è molto meno spensierata della nostra?”, tenderei a rispondere così: è un fatto (e probabilmente un bene) che diano la giusta importanza al tifo nelle loro vite, ma ciò non esclude il lato B della domanda, che ne è diretta conseguenza. L’aggettivo da incriminare secondo me è “giusta” importanza: per me l’aggettivo corretto è “meno” importanza, laddove la torta dell’importanza è diventata sconsideratamente maggiore, e allora le fette di importanza da destinare agli aspetti della vita devono essere necessariamente inferiori (non giusti o ingiusti). Il ché può inevitabilmente essere un bene e un male, dipende dall’oggetto cui destinare importanza. In linea generale immagino (immagino, non ne sono certo) che questa dinamica abbia aumentato la fruizione di cose frivole, e deturpato la destinazione media di passione che ognuno esercita. Ma la quota di passione da destinare immagino sia sempre la stessa, perché attiene alla persona, non alla generazione

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Post: 2.725
15/03/2016 18:33
 
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Grazie per le risposte [SM=g27985]
Domanda successiva: premesso che tra le due vittorie mondiali dell'Italia (1982 e 2006) la Serie A ha indubbiamente conosciuto il suo periodo di massimo splendore, che dire della nostra generazione (io sono del 1974) in comparazione alle precedenti? Cioè, anche noi siamo stati più tiepidi rispetto ai nostri predecessori, nonostante ci sia toccato in sorte il periodo migliore? Per dire, negli anni '70, con il movimento ultras ancora agli albori ma con una fortissima radicalizzazione politica nel paese, il tifo calcistico era più o meno acceso di come è stato poi diciamo negli anni '90?

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Post: 652
16/03/2016 06:57
 
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Alla seconda domanda, essendo coetaneo di Mark Lenders, lascio ovviamente rispondere altri.

Alla prima avete già fornito spiegazioni e punti di vista di grande interesse, cui aggiungo altre due considerazioni.

Una va al di là del calcio: ammettiamo pure che l'atteggiamento assai più disincantato nei confronti del tifo possa apparire una forma di saggezza.
Mi chiedo, però: per cosa si entusiasmano veramente, come noi un tempo per il pallone? Nulla, temo.
E ho la sensazione che il cambio di atteggiamento nei confronti del calcio rappresenti un sottoinsieme del cambio di atteggiamento nei confronti della vita.
Ripensiamo al contesto in cui siamo cresciuti, e mi permetto di generalizzare poiché le generazioni nate fra la metà degli anni '50 e la metà degli anni '70 hanno seguito un percorso in gran parte comune.
Siamo nati in un'Italia ancora tendenzialmente proibizionista.
Ci siamo confrontati con un'autorità familiare più o meno spiccata, ma comunque presente.
Abbiamo affrontato una disponibilità materiale in genere lontana dall'indigenza, ma nella quale occorreva imparare a divertirsi con niente.
E nella quale, fra i vari interessi e aspirazioni, abbiamo dovuto selezionare quelli che ritenevamo essenziali o che comunque ci interessavano davvero: scelte che, nel loro piccolo, contribuiscono a plasmare lo scheletro su cui si forma una personalità definita.
A me sembra che ai più giovani sia mancato tutto questo.
Il rapporto con la controparte genitoriale - rapporto in generale, non solo in termini autoritari - si è affievolito, togliendo fra l'altro un passaggio fondamentale come l'identificazione di qualcosa a cui ribellarsi più o meno apertamente.
La sovrabbondanza di beni materiali e di comunicazione li ha esposti a una sistematica iperstimolazione, portandoli a contatto con varie esperienze a cui forse non erano preparati e, soprattutto, senza concedere loro il tempo di desiderarle.
Sono mancate, in sostanza, componenti decisive nella trasmissione di una cultura come il tabù, il mito, l’iniziazione, i riti di passaggio.
Al netto di qualsiasi rivalità generazionale (concetto che non mi è mai appartenuto, né verso l'alto né verso il basso) e di sospiri del tipo "ai miei tempi" (non sono abbastanza vecchio), mi appaiono in un certo senso come vittime.
Nel senso che, sul piano dei beni immateriali, hanno avuto meno opportunità di noi, innanzitutto nel costruirsi una personalità e un'identità.
E quindi è molto più difficile per loro tenere davvero a qualcosa nei termini per noi consueti, poiché sono stati spinti verso un'indistinta abbondanza in cui tutto è importante e non lo è.

L'altra considerazione, invece, rimane all'interno dell'ex gioco più bello del mondo.
E riguarda la Seconda Repubblica del pallone, il cui fondamento ideologico si è concretizzato nella derisione dell’immaginario del tifoso per sostituirlo con un più moderno – e secondo loro redditizio – rapporto commerciale.
Nella sua ottusità neoliberista, quella classe dirigente non si è accorta di un dato fondamentale: le implicazioni economiche dei valori non economici.
Quel miscuglio di infantilismo e Medioevo con cui si maturava e si trasmetteva un legame invisibile ma fortissimo con la squadra del cuore rappresentava, infatti, il principale meccanismo di fidelizzazione della clientela.
I parvenu di cui sopra l’hanno invece distrutto, ritenendolo a torto un limite verso un target generalista e potenzialmente illimitato.
Hanno perso così il pubblico di settore senza guadagnare quello cui puntavano, anche a causa di un secondo e macroscopico errore: il non aver intuito che vari fattori – in testa i nascenti nuovi media – orientavano verso una fruizione maggiormente individualizzata e quindi verso il declino dell’offerta generalista.
Fenomeno, del resto, evidentissimo anche nell’evoluzione dei palinsesti televisivi.

Riassumendo: da un lato ci si confronta con una generazione alla quale l’assenza del percorso di cui sopra e un’accessibilità immediata ai contenuti hanno tolto la distanza necessaria per una percezione mitica del pallone.
Dall’altro si raccoglie quanto si è seminato da un quarto di secolo a questa parte.
Sommando le due componenti, c’è casomai da stupirsi che il declino della passione calcistica non stia avvenendo in maniera ancora più rapida e devastante.
[Modificato da Er Matador 16/03/2016 07:54]

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Post: 141
16/03/2016 12:27
 
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Complimenti a tutti per la capacità di analisi.
Mi permetto soltanto di aggiungere uno spunto di riflessione, già sviscerato in altre discussioni simili, legate al disaffezionamento da calcio.
Come si concilia tale fenomeno, che ora stiamo immaginando come "generazionale", con il confronto con gli altri paesi (gli stadi pieni di Germania, Gran Bretagna e Spagna)a noi vicini in termini di cultura calcistica?

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Post: 2.878
16/03/2016 16:16
 
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Per la seconda domanda propongo un parallelismo anche tra i calciatori di allora e di oggi, non solo tra i tifosi. Entrambe le passioni (giocare a calcio e tifare il calcio) erano più vere sia per mere questioni cronologiche che per l’assenza della patinatura di cui parla Er Matador. Credo che i sentimenti dei calciatori durante e dopo le partite fossero diversi da quelli dei calciatori di oggi, e quelli dei tifosi ne sono diretta conseguenza. Il bambino nel frattempo è cresciuto, e con lui è morto Babbo Natale. Negli anni ’90 magari già erano cambiati parecchi codici (sarebbe interessante un excursus delle risse da stadio, e delle loro trasformazione genetica). Mi chiedo: esistono ancora idoli nel calcio, o i giocatori possono al massimo aspirare di essere riferimenti per la moda, il taglio di capelli, o pedine di squadre del fantacalcio? Il fantacalcio non è un discorso marginale. Chi nasce dandolo per scontato arriva agevolmente a tifare per la sua squadra di fantacalcio più che per la sua squadra del cuore. Qualcuno bravo nel campo potrebbe introdurre neologismi tipo cross supporter, ovvero coloro che tifano squadre incrociate con giocatori misti. Rientrerebbe nel processo di spersonalizzazione del calcio, e potrebbe aprire scenari che non immaginiamo

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Post: 1.597
16/03/2016 17:01
 
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in america è gia così. non tanto per l'aspetto del fantacalcio/basket/ecc (fantasy league da loro) quanto per l'identificazione della passione di molti tifosi non per una squadra ma per un giocatore (o piu di uno). c'è da dire che lì manca tutto l'aspetto campanilistico che c'è qui e le squadre professionistiche (che infatti si chiamano franchigie e vengono spostate qua e là dove conviene di piu) sono spesso slegate dal territorio. in alcuni casi c'è identificazione ma in molti altri no. l'aspetto territoriale è molto piu radicato nello sport universitario che in quello professionistico.
tutto questo per dire che in america accanto a molti che tifano per la squadra della loro città, della loro infanzia ecc come facciamo noi, ci sono legioni di tifosi che cambiano squadra (letteralmente) quando la cambia il loro giocatore/mito.

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Post: 652
16/03/2016 17:05
 
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Re:
Brunogiordano, 16/03/2016 12.27:

Complimenti a tutti per la capacità di analisi.
Mi permetto soltanto di aggiungere uno spunto di riflessione, già sviscerato in altre discussioni simili, legate al disaffezionamento da calcio.
Come si concilia tale fenomeno, che ora stiamo immaginando come "generazionale", con il confronto con gli altri paesi (gli stadi pieni di Germania, Gran Bretagna e Spagna)a noi vicini in termini di cultura calcistica?



Buona domanda.

Alla quale tento di rispondere a partire da un’istantanea a cavallo fra anni ‘80 e ‘90, quindi nel periodo di massimo splendore tecnico e di pubblico per il nostro calcio: il passaggio di Jürgen Kohler dal Colonia al Bayern, che scatenò un putiferio nella Bundesliga.
Intanto perché i bavaresi andavano a sottrarre il miglior giocatore a una squadra storicamente rivale e allora tecnicamente comparabile – l’1. FC Köln aveva disputato una finale di Coppa Uefa pochi anni prima -, rompendo una sorta di tacita lottizzazione che voleva un minimo di distribuzione dei migliori talenti fra i vari club per non far saltare gli equilibri.
In secondo luogo per la “scandalosa” cifra che, anche qui, sacrificava la sostenibilità complessiva e l’altrui possibilità di competere al loro strapotere economico.
Quanto era costato quello sconcertante trasferimento? DUE miliardi, avete letto bene.
Quale fu la reazione a tanta arroganza pecuniaria? "Potete iscrivervi al campionato italiano", testualmente.
E questo in un periodo nel quale, a proposito di tifo, la media degli spettatori nelle gare del massimo campionato teutonico si attestava sulle 18.000 unità.

Se passiamo dalla Germania all’Inghilterra, a una primazia incontrastata nelle Coppe – almeno fino all’Heysel – faceva da contraltare un movimento dai connotati anacronistici al limite del folclore.
Al di là delle sole due riserve in panchina – portiere escluso – e di simili vezzi, l’imperversare degli hooligans costituiva un retaggio di cui Oltremanica non riuscivano a liberarsi.
Mentre gli stadi, sia pure stracolmi di fascino, scivolavano giorno dopo giorno in una tragica inadeguatezza strutturale, in primis sul piano della sicurezza: un pensiero alle vittime di Bradford e Hillsborough basta per capire di cosa si stia parlando.

Tutto questo per sottolineare come la mancata “sincronizzazione” fra lo stato di salute – in generale e nel successo di pubblico – dei principali movimenti calcistici europei non sia affatto un’anomalia tipica del nostro presente.
Casomai si sono scambiati i ruoli, e si è forse approfondito il divario, ma senza creare nulla di inedito.
Forse perché, per venire alla tua formulazione, non si tratta di “Paesi […] a noi vicini in termini di cultura calcistica”.
Bensì di Paesi cui ci accomuna la passione radicata per questo sport, ma lontanissimi – se non antitetici – in termini di cultura calcistica.
E qui si arriva al dunque: il ribaltamento delle gerarchie dipende, a mio modo di vedere, dal cambiamento di paradigma gestionale e culturale.
Passando da regole del gioco che esaltavano le nostre qualità ad altre che esaltano quelle altrui, evidenziando in maniera chirurgica i nostri limiti.
Un po’ quanto accadde tra ‘400 e ‘600, quando un mercantilismo basato sul genio individuale o su un’organizzazione parafamilista lasciò il posto a strutture organizzative impersonali e assai più complesse: il che portò la Penisola dal ruolo di cuore pulsante dell’economia europea a una desolata marginalità.
Può sembrare un discorso off-topic, in quanto riferito alla componente tecnica e gestionale: ma la capacità di attrarre pubblico non è forse pertinente a quest’ultima, soprattutto nel modello attualmente in auge?
Pensiamo a come era cresciuta l’affluenza negli stadi italiani durante il dopoguerra: basandosi su un preesistente patrimonio di passione e di “legami invisibili”, era bastato ampliare gli impianti a prezzi di favore per riversare al loro interno masse festanti.
Con l’aggiunta, per dirla tutta, di un connotato di irresponsabilità e disorganizzazione.
In termini di sicurezza, se si pensa alla totale insensibilità all’argomento da parte di fornitori e utenti: l’importante era assistere alla partita, e pazienza se si rimaneva stipati in autentici pollai con tutti i rischi del caso.
In termini di priorità di spesa: il Vittorio Gassman padre di famiglia, che spende gli ultimi spiccioli per strillare “forza l**i” lasciandosi alle spalle moglie e figli allo sbando (I mostri, nell’episodio Che vitaccia!), è una caricatura estrema ma rappresentativa.
Finché si è trattato di pompare denaro nel sistema ad opera dei “ricchi scemi” e di monetizzare una passione spontanea, per la quale si metteva mano al portafogli più volentieri che altrove, il nostro calcio non ha avuto uguali: poi è cambiato tutto.
Sul piano gestionale, occorreva diversificare le entrate attingendo ad autofinanziamento, merchandising, capacità di attrarre investimenti esteri.
Sul piano commerciale, occorreva vendere uno spettacolo più generico – quindi a un pubblico non preesistente, ma che andava “conquistato” – con stadi comodi come teatri, sicurezza e logistica efficiente a incidere in maniera determinante sull’appetibilità dell’offerta.
Quanto possiamo essere competitivi in un simile scenario, e con quei criteri di selezione, lo sappiamo.
E lo sapeva anche la classe dirigente che ci ha sprofondati in quel pantano per interessi personali e corporativi.

In conclusione: credo che la morte del tifoso – perlomeno nell’accezione da Prima Repubblica – sia un fenomeno generalizzato a livello continentale.
Magari più evidente in Italia, perché si è caduti da un’altezza maggiore, ma sostanzialmente omogeneo.
Il problema è che altrove è nato al suo posto il cliente: mentre noi siamo ancora a metà del guado, fra ciò che non c’è più e ciò che non c’è ancora.

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Post: 2.725
16/03/2016 19:58
 
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Brunogiordano, 16/03/2016 12.27:

Complimenti a tutti per la capacità di analisi. Mi permetto soltanto di aggiungere uno spunto di riflessione, già sviscerato in altre discussioni simili, legate al disaffezionamento da calcio. Come si concilia tale fenomeno, che ora stiamo immaginando come "generazionale", con il confronto con gli altri paesi (gli stadi pieni di Germania, Gran Bretagna e Spagna)a noi vicini in termini di cultura calcistica?



Ho visto che ti ha già risposto Er Matador, del quale per ora non leggo l'intervento per non farmi influenzare nella risposta. Perdonami quindi se ripeterò cose già dette.
La differenza, secondo me sta nei cambiamenti dell'economia e nella maniera in cui questi influenzano il rapporto con la vita stessa. Ad ogni modo scomporrei la questione analizzandola prima da un punto di vista istituzionale, con riferimento ai vari movimenti calcistici nazionali, e poi dal punto di vista privato del singolo tifoso.
Spagna, Inghilterra e Germania occupano le prime tre posizioni nel ranking Uefa per nazioni, sono i paesi che hanno i club più ricchi e di conseguenza i campionati più belli: non a caso, a differenza di vent'anni fa, li guardiamo pure noi. Ma a pesare, più ancora del dato istantaneo, è la tendenza nel periodo: la Spagna domina da quasi un decennio e ha i due giocatori più forti del mondo nel suo campionato, l'Inghilterra - grazie a un bacino d'utenza che per la Premier è davvero mondiale - ha i club più ricchi e di conseguenza il livello tecnico medio più alto, e la Germania è campione del mondo in carica e finalmente riesce ad attrarre - almeno con il Bayern, - qualche campione assoluto; il calcio di tutti e tre questi paesi è in ascesa, laddove il nostro è in declino. Questo è il punto. Se ti sei abituato al meglio ridimensionarsi è la cosa più difficile di tutte: non importa quanto facciamo schifo in assoluto, magari neanche troppo, bensì che facciamo relativamente più schifo rispetto al passato recente. E quindi siamo depressi.
Germania e Inghilterra sono anche due grandi potenze economiche, da loro la crisi si sente molto di meno. C'è meno disoccupazione, meno cinghie tirate, e di conseguenza più soldi da destinare agli svaghi e più voglia di farlo con animo spensierato, laddove da noi il tifo spesso diventa fuga dai problemi. Credo che ci sia una differenza enorme: quando il tifo è vero divertimento in linea di massima ci investi anche più denaro e socialità, vai alle partite, fai le trasferte, fai girare l'economia; quando è fuga, invece, tendi a vivertelo individualmente: già è tanto se paghi un abbonamento alla pay tv e nel complesso virtualizzi l'interazione, sfruttando internet e (qui a Roma) le radio. Anche sotto quest'altro punto di vista, dunque, l'approccio è tendenzialmente depressoide. Abbiamo il calcio che ci possiamo permettere in questa fase* e anche il nostro modo di viverlo è consequenziale tanto al livello del calcio medesimo, quanto alla fase che sta passando il paese.

* = Temo che parlare di fase sia un esercizio di ottimismo. E non perché l'economia europea non sia destinata a riprendersi, bensì perché il declino dell'Italia non è altro che un rientrare nei parametri della normalità. Se non sbaglio negli anni '90 eravamo addirittura la quarta potenza economica mondiale, ma dovremmo chiederci come abbiamo fatto a diventarlo, noi che geograficamente siamo uno sputo nel Mediterraneo. La risposta sta nella guerra fredda: dopo la Seconda Guerra Mondiale ci siamo ritrovati ad essere un paese strategico nella partita a scacchi tra Usa e Urss, e dal Piano Marshall in poi la nostra economia è stata dopata dalla politica internazionale. Ma poi è caduto il muro di Berlino e abbiamo smesso di essere così importanti. Il nostro declino politico-economico comincia da lì, e se non cambiano gli scenari il nostro valore assoluto a livello mondiale è destinato a riallinearsi alla reale dimensione del paese. Il calcio, in quanto industria, viene pesantemente influenzato da tutto ciò. E noi pure.
[Modificato da Mark Lenders (ML) 16/03/2016 20:11]

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Post: 11
17/03/2016 09:22
 
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Re: Re:
Er Matador, 16/03/2016 17.05:

credo che la morte del tifoso – perlomeno nell’accezione da Prima Repubblica – sia un fenomeno generalizzato a livello continentale.
Magari più evidente in Italia, perché si è caduti da un’altezza maggiore, ma sostanzialmente omogeneo.
Il problema è che altrove è nato al suo posto il cliente: mentre noi siamo ancora a metà del guado, fra ciò che non c’è più e ciò che non c’è ancora.



perfettamente d'accordo

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Post: 1.597
19/03/2016 12:10
 
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letto oggi su corriere.it, o ci leggono o cominciano ad accorgersene in molti:


Tutto Messi e niente stadio
Arrivano i nuovi tifosini
Non ha una squadra ma idoli come Ronaldo e Messi: perché mio figlio Federico è così diverso da me? L’effetto-PlayStation
di GUIDO DE CAROLIS

I nostri idoli erano dei nessuno. E non poteva essere diverso. Stefano Rebonato era un onesto attaccante di provincia: segnava poco, non vinceva niente. Lo conoscevamo noi piccoli affamati di calcio, fanatici della Gazzetta dello Sport e del Guerin Sportivo. Nella stagione 1986/87 però Rebonato di gol ne fece 21 e spinse il Pescara in serie A per la terza volta. La rete della promozione, all’ultima partita, la realizzò il centrocampista Roberto Bosco contro il Parma di Arrigo Sacchi. L’anno dopo Rebonato e Bosco furono ceduti alla Fiorentina, venduti per 4 miliardi. Per noi però non se sono mai andati, sono rimasti con un poster e un’immagine indelebile nel cuore. Stringere a 11 anni la mano a Rebonato mi lasciò più contento che se mi avessero presentato Pablito Rossi, l’eroe del Mundial di Spagna 82. E leggendo una decina d’anni dopo Febbre a 90’ di Nick Hornby che raccontava la sua «malattia» per l’Arsenal capivo cosa provava, viveva, sentiva. L’attesa del match, l’innamoramento per un difensore mediocre che magari, per una volta una sola, aveva fatto una gran partita. E allora ci ho provato.


Il tifoso da Playstation

Ho tentato di fare di mio figlio Federico un tifoso da strada. L’ho portato una domenica a vedere Sampdoria-Pescara. Ottocento chilometri per ammirare il Pescara del Maestro Zeman, che vent’anni dopo si giocava di nuovo la promozione con in campo Verratti (oggi con Ibrahimovic nel Psg), Insigne (ora spalla di Higuain nel Napoli) e Immobile. A Genova vince 3-1, è ancora serie A. E proprio a Federico che aveva 6 anni, Insigne dal campo lancia i suoi calzettoni zuppi e sporchi di fango: una reliquia. Oggi però è dimenticata in un cassetto. Federico ha 11 anni e non è un tifoso della strada, ma un tifoso da PlayStation.
Non ha una squadra, ma idoli: veri. Non tifa per nessuno, solo per i più forti. Parla sempre di Cristiano Ronaldo, Ibrahimovic e Messi. E li compra tutti, alla Play. Della serie A per lui esiste appena Mauro Icardi. Non perché è il capitano dell’Inter, la sua fortuna è avere la faccia stampata insieme a quella di Messi sulla «cover» (la chiama cover sì, non copertina) di Fifa 16, il gioco con cui spende interi pomeriggi, da solo o sfidandosi on line con gli amici. È peggio di Mino Raiola, il re del calciomercato. Vende e compra i «galaticos», costruisce e smonta squadre. «Papà guarda chi ho preso in attacco: Ibra, Messi e Ronaldo». Provo: «Dai domenica ti porto allo stadio a vedere il Bologna». «Ma dai non scherzare, non c’è nessuno: andiamo a Madrid a vedere Cristiano». A Madrid? Cristiano? No, non sei mio figlio. Ma è così purtroppo e non è così solo Federico.

Lo stadio è nel salotto di casa

Per i figli della Playstation le squadre locali e i loro «poveri idoli» non esistono più: sei un «Top player» (parole sue) o non sei nessuno. Normale che sui social il Barcellona sia la squadra più seguita con 164 milioni di seguaci, davanti al Real Madrid (153) e Manchester United (92). Prima delle italiane? Il Milan, 8° con 36. Federico è tra quei milioni di ragazzini-tifosi di idoli non di club. Conosce le formazioni di Barcellona, Real, Bayern Monaco, Manchester. Non sa nulla o quasi della serie A. Solo giocatori: Dybala e Pogba della Juve, Higuain del Napoli, Dzeko della Roma. Fine. Negli anni 70 la fetta più consistente degli spettatori allo stadio aveva tra i 15 e i 25 anni, oggi 40 o più. Lo stadio adesso è nel salotto di casa dove giocano telecomandati Cristiano, Messi, Ibra. Oppure è il Bernabeu di Madrid o magari l’anno prossimo diventerà Old Trafford a Manchester se Ronaldo lascerà il Real per il club inglese. L’ultima richiesta: «Papà a giugno mi porti all’Europeo a vedere Ibra contro l’Italia?». «Sì, ti porto». Ho perso. È un figlio della Play.

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Post: 2.725
19/03/2016 12:41
 
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Drenai71, 19/03/2016 12.10:

Negli anni 70 la fetta più consistente degli spettatori allo stadio aveva tra i 15 e i 25 anni, oggi 40 o più.



Mi piacerebbe sapere dove ha preso il dato. Perché l'impressione - come detto all'inizio - è proprio questa: manca il ricambio.
Comodità del salotto, pochi soldi in tasca e orrore per il declino del livello tecnico sono scuse da quarantenni. Quando ne avevamo 20 ci siamo bevuti di tutto: il laziale della Serie B potrebbe raccontare molto su stadi e giocatori ridicoli, e su trasferte messe insieme con poche lire.
Gli stadi sono vuoti anche, se non soprattutto, perché mancano i giovani. Da questo punto di vista il Leicester andrebbe tifato alla morte, non gufato (come me e pochi altri) per andare in culo a mister "fumo della pipa"  

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Post: 2.878
19/03/2016 16:37
 
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Ha appena segnato, il maledetto Leicester

Comunque io pensavo di aver introdotto un argomento originale, col Fantacalcio, non rendendomi conto che è a sua volta un argomento superato da quello relativo alla Playstation... Non so voi ma io peraltro sono un accanito fantacalcista e videogiocatore di Fifa, anche se non ho mai sottratto energie per questo alla passione per la Lazio

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