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IL SARDO ENIGMA

Ultimo Aggiornamento: 26/04/2007 22:03
26/04/2007 22:03
 
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Carissimi nipoti, le vostre visite hanno ormai il carattere delle apparizioni. Arrivate all’aeroporto di Cagliari-Elmas alla mattina, lavorate tutto il giorno, stiamo insieme a cena, e ripartite il giorno dopo. Nella trattoria di Cagliari dell’altra sera, dove si assaporano manicaretti sopraffini (e si paga il giusto), mi hanno fatto piacere le vostre domande e ancora di più mi hanno reso felice i vostri stupori nell’ascoltare le mie risposte, riguardanti i tanti perché della Sardegna, ovvero di tutto quello che vi ho accennato sul SARDO ENIGMA. Insomma vi ho visti incuriositi da matti, sembravate come i bambini di una volta, quando sgranavano gli occhi ad ascoltare le favole. Ma ciò che vi ho spiegato non è una favola ma un insieme di scottanti verità. Questa lettera ve la scrivo come pro memoria degli argomenti toccati.
Ordunque (e aggiungiamo ohibò), il sardo-enigma è un insieme di misteri, anzi, è una storia molto appassionante e, soprattutto, vera.
Il valore di un popolo e delle sue invenzioni è stato eclissato dal predominio culturale di civiltà, venute dopo.
La Sardegna, come vedremo più avanti, è sempre stata abitata da un popolo geniale, umanissimo, tecnologico, che ha precorso i tempi, in tutto. Ma la fama delle qualità intellettuali di questo popolo, la conoscenza della sua vera storia, non ha mai raggiunto i livelli di diffusione delle altre civiltà, perché (come gli etruschi), ha espresso la propria genialità, più in opere che in parole.
In molte parti dell’isola si trovano dolmen e menhir. A Pranu Mutteddu di Goni ci sono circoli di menhir che sono la dimostrazione delle conoscenze astronomiche di un popolo, pressochè sconosciuto, nonostante le grandi abilità possedute. Tutti conoscono Stonehenge, luogo celeberrimo, maestoso, di grande fascino e da impulsi forti. Ebbene, l’arcano di Stonehenge non è paragonabile a quello di Goni che è molto di più, perché vi entra nell’anima.


Si suppone che, nella preistoria, l’isola sia stata frequentata da pellegrini provenienti da ogni dove del Mediterraneo, per curarsi ai suoi pozzi sacri, individuabili, da lontano, per le loro cupole a ogiva. Questo avveniva intorno al 2500 avanti Cristo, mille e più anni prima della civiltà micenea (XIII Sec.a.C.). Le cupole a ogiva le hanno inventate i sardi. Per inciso, l’acqua dei pozzi sacri, oltre a curare le ferite, dovute ai morsi non mortali dei ragni (il cui veleno influiva sul sistema nervoso), serviva per determinati riti, sicuramente per l’ordalia, forse anche per altri, quali l’entrata degli adolescenti nella comunità degli adulti e il matrimonio.
Il periodo della costruzione dei nuraghi è iniziato nel 1900 a.C. Ogni nuraghe è composto di una o più torri. In ciascuna torre, circolare, è ricavato un vano con relativa volta auto-portante. Trattasi di una tecnica costruttiva più facile da realizzare, rispetto ad altre. Ma ciò che desta perplessità è che, ovunque, dette torri, sono uguali nell’inclinazione esterna, qualunque sia il diametro alla base e che, all’interno, ovvero nella volta, ogni fila di massi sovrapposti, segue la stessa inclinazione, fino a congiungersi in alto. Questo potrebbe significare l’esistenza di un clan di costruttori capace di tramandarsi i segreti della tecnica (erano già in essere le corporazioni di arti e mestieri?). Ciò che indispone è il presentare questo sapere architettonico come derivato dalla conoscenza delle tholos micenee, costruite cinque secoli dopo, solo per fare sfoggio di erudizione e senza curarsi che, in tal modo, si toglie il “primato” ai sardi antichi.Qualunque architetto rimane meravigliato osservando la volta interna del nuraghe Is Paras di Isili (ancora intatta). E’ un opera magnifica, emblematica.


Chiunque si stordisce analizzando la perfezione della rastremazione di ogni fila di pietre, poste all’ingresso del pozzo sacro di Santa Cristina di Paulilàtino (1600 a.C. periodo nuragico). La sezione verticale dei due muri che accompagnano la scala, presenta una forma ellittica. Anche gli architravi, sopra la scala, sono a forma di gradini. E’ uno stile architettonico inconfondibile, unico. La sezione verticale del pozzo è a ogiva (purtroppo la cupola non c’è più). L’insieme, visto dall’alto, è di un’armonia sorprendente. La scala è rivolta verso il punto ove sorge il sole dell’equinozio di primavera (21 marzo). Il sole, nella mattina di San Benedetto (la rondine sotto il tetto), illumina, completamente, lo specchio d’acqua del pozzo.
Osservando la tecnica costruttiva dei pozzi sacri di Nuragus e Santa Vittoria di Serri, si nota che il popolo che li edificava era capace di tracciare cerchi perfetti (quindi aveva inventato anche il compasso). Ogni fila orizzontale di pietre è stata disegnata su un lastrone di roccia, suddivisa in tanti elementi. Ogni elemento è stato scalpellato, osservando, scrupolosamente, le inclinazioni laterali di ogni pietra, definite nel disegno. Ogni fila (di pietre) superiore, ha il diametro più stretto di due centimetri, rispetto a quella inferiore. Anche di questi pozzi sono andate perdute le cupole a ogiva, sporgenti dal terreno, ma è rimasta intatta quella interrata. Per similitudine l’ogiva è la parte a punta dei proiettili da fucile.
Il Lovisato, venendo in Sardegna per una campagna di scavi, verso la fine del 1900, ha potuto osservare due cupole a ogiva, semi-intatte, nei pozzi sacri ubicati in località Matzanni, sui monti di Villacidro e Vallermosa. Oggi, l’unico pozzo sacro con la cupola a ogiva ancora intatta e quello di Settimo San Pietro, denominato “Cuccuru de su Nuraxi”. E’ un tempio ipogeico (sotterraneo), all’interno di una collina, quindi la volta non si vede dall’esterno. L’imponente costruzione del tempio è del 1700 a.C. Ci giurerei che quei grandi costruttori, trovata la vena d’acqua in un campo, hanno costruito l’insieme, ricavando la scalinata di accesso, quindi hanno provveduto ad avvolgere il tutto con terriccio riportato, formando una collina conica. Dalla sua cima parte la ripida scala di accesso al pozzo. E’ in corso il lavoro di recupero per renderlo fruibile al pubblico. Lo visitai alcuni anni fa, quando l’accesso era ancora possibile. La domanda è la solita: ma perché un monumento di tal genere non lo conosce nessuno?

Per penetrare il sardo enigma non basta magnificare l’abilità costruttiva dei sardi antichi, occorre anche chiedersi del loro rapporto con il mare, in sintesi se sapevano navigare.
Se sapevano navigare, hanno fatto parte dei leggendari popoli del mare? Chi erano i shardana? Erano tutti i popoli del mare, o solamente i sardi antichi erano denominati in tal modo?
Sull’ipotesi di Atlantide non mi sento di dare interpretazioni, anche perché conosco abbastanza bene le Isole Cicladi e faccio fatica a pensare che la Sardegna sia stata la sede del mito, a prescindere dalla teoria, fascinosa, ardita, geniale e plausibile, delle colonne d’Ercole, poste in Sicilia anziché nello stretto di Gibilterra. Gli archeologi greci collocano Atlantide nell’isola del vulcano Thera (la cui esplosione mise a soqquadro Cnosso, nell’isola di Creta), altri archeologi sostengono che si trovava in un’isola britannica. Rimanendo sull’argomento, non può essere dimenticata la spedizione di sommozzatori, guidati da Jurgen Spanuth nell’isola Helgoland (Mare del Nord – 1956?) dove, ad una profondità di 13 Mt., furono trovati resti di muraglie le cui pietre erano bianche, nere e rosse; gli stessi colori descritti da Platone nella sua descrizione dell’isola favolosa.
Per quanto riguarda il discorso, che una parte della Sardegna sia stata percorsa da un immane maremoto, occorre ricordare l’esplosione del vulcano Thera (dove oggi c’è Santorini), che ha causato onde altissime. Una parte dei marosi hanno tracimato dal Mediterraneo nel Mar Rosso; altre, sboccando dal Canale di Sicilia, sono arrivate sulle coste della Sardegna, distruggendo ogni cosa, compreso i porti ed i navigli dei nuragici. L’epoca dell’esplosione è dubbia, gli archeologi greci la collocano nel 1500 a.C.; altri (tra i quali gli archeologi israeliani) nel XII sec. (all’epoca di Mosè, inseguito dal faraone d’Egitto fino al Mar Rosso).
A proposito di faraoni, proprio nel museo di Santorini, scorrendo un catalogo, ho letto di un piatto, esposto quale reperto, le cui iscrizioni narrano dei rapporti tra i shardana e il faraone Ramsete III (1195-63 a.C.)
Il discorso shardana, o popoli del mare, dei quali, pare, che il mondo accademico non voglia mai fare cenno, rimane un enigma da risolvere. Si può solamente intuire. La scienza, ovviamente, non può esprimersi sulla fantasia. Gli scienziati operano sulla base di prove accertate e non di intuizioni o leggende.
Ma sui shardana devo aggiungere, che nel museo di Filitosa (a nord di Sartene), in Corsica, vi è un’iscrizione che rievoca l’intervento navale dei sardi, per soccorrere e liberare il popolo corso dall’invasione preistorica di un popolo sconosciuto. Di tale intervento navale non vi è nessun cenno da parte della scienza.
Comunque, continuare a non riconoscere ai sardi preistorici, la capacità di navigare è un boomerang, sembra un dogma imposto da un determinato ceto culturale che non tiene conto della perfezione di molti bronzetti del periodo nuragico, a forma di navicella (a quali navi si sarebbero ispirati i sardi antichi se i fenici arrivarono solo nel nono secolo avanti cristo?).
Un fonditore sardo, che riproduce fedelmente le navicelle votive con il metodo della cera persa, mi ha fatto vedere un piccolo bronzetto, dicendomi che era

autentico, ovvero era stato trovato in uno scavo clandestino, vicino ad una sorgente di montagna. Il manufatto era una navicella, più piccola del palmo della mano. Sotto la chiglia vi era una protuberanza circolare, interpretabile come uno stabilizzatore oppure come una ruota a pale, orizzontale.
In tutto il Mediterraneo, sono stati trovati manufatti in ossidiana (punte di frecce e oggetti di uso domestico). Una buona parte è costituita dall’ossidiana di Monte Arci (vulcano dell’Oristanese estinto da moltissimo), facilmente identificabile per la sua particolare composizione. L’uso dell’ossidiana, o vetro lavico, ha precorso e accompagnato l’età del rame, ed è stato di ausilio anche nell’età del bronzo. Chi ha portato l’ossidiana di Monte Arci, lontano dalla Sardegna, dal quarto millennio a.C. in poi? E con quali mezzi, dato che il mare, anche se diverso da oggi, c’era, e bisognava sapere navigarlo?
I nuraghi (ma cosa mai vorrà dire il termine “nur”?), cominciarono ad apparire in Sardegna nel 1900 a.C., ovvero nell’età del bronzo. Sono costruzioni circolari di pietra, imponenti, maestose. Ebbene, nelle scuole italiane, si parla assai di più dei palafitticoli, che dei nuragici, come se le palafitte (fatte di tronchi) fossero, didatticamente, più importanti dei nuraghi.
Indispettisce che nessuno sappia delle incisioni trovate nell’architrave del nuraghe Craminalana, in quel di San Giovanni Suergiu, nel sud-ovest. Esse rivelano che, all’epoca dei nuraghi, i sardi antichi costruivano carri con le ruote a raggiera, non con ruote piene (per inciso prima dei carri da guerra egiziani).
Desta meraviglia, continuando a parlare di nuraghi, l’ossessivo, continuo, riferimento alle tholos micenee, che sono poche, e costruite cinquecento o settecento anni dopo l’inizio del periodo nuragico. In Sardegna esistono oltre 15.000 nuraghi, grandi e piccoli. Ma quel che stupisce è il ritrovamento, ad opera di studiosi subacquei, dei resti, costieri, di colossali opere portuali (e di fortificazione) del periodo nuragico, naturalmente sommerse.
La causa del sardo-enigma, potrebbe essere imputata ad una parte cospicua del mondo intellettuale sardo, affascinata dai canoni estetici del mondo classico greco e di quello romano, punti di riferimento costante. Il popolo sardo, antico, ha inventato quanto è poi stato enfatizzato da greci e romani e non si è profuso nella perfezione delle forme, curando l’essenziale. E’ l’ennesima dimostrazione che un fatto non narrato non esiste. Per questo la Sardegna non è conosciuta e la storia dei sardi antichi non compare da nessuna parte.
I romani l’hanno invasa, hanno cercato di soggiogarla, hanno riconosciuto (per soggiogare meglio) il dio dei sardi, romanizzandolo in Sardus Pater, ed hanno raccontato fandonie su Ampsicora, principe di Cornus, il quale, concependo una Sardegna dei sardi (218 a.C.), ha sfidato in campo aperto le legioni di Quinto Manlio Torquato. I romani hanno diffuso storie non vere, su tutti i loro nemici, compresi i punici e i sardi. Dopo i romani, hanno dominato la Sardegna i vandali, quindi i bizantini e, dopo un periodo di autonomia, nella quale la Sardegna, come ai tempi nuragici, era governata da sardi tosti che non permisero la colonizzazione araba, arrivarono pisani e genovesi. Questi ultimi furono cacciati dagli aragonesi. Dopo quasi cento anni di battaglie, tra il Giudicato di Arborea (sardo) e gli spagnoli (invasori), questi ultimi prevalsero e imperversarono, con cupidigia mai vista, sorretti da un sistema feudale violento e caratterizzato da mentalità perennemente retrodatata. Poi sono arrivati gli austriaci e, infine, i Savoia, con i piemontesi. Si deve agli studi dei caratteri fisici, geologici e archeologici, pubblicati dal 1821 in poi, da Alberto Ferrero di La Marmora, l’inizio di una ricerca sistematica, scientifica, dell’archeologia in Sardegna. L’immenso patrimonio di cultura dei sardi antichi, è stato custodito dallo strato di polvere e fango che si è accumulato, anno dopo anno, dall’arrivo dei romani, nel 238 a.C., fino al tardo 1800.
Miei carissimi, nipoti, esprimervi cosa penso dei Sardi, della loro regione – nazione – continente, non è facile da dire o da scrivere. Penso, certamente, che i sardi moderni, costituiscono un popolo molto unito, nella difesa della propria etnia e nell’attaccamento alle quattro lingue romanze, derivate dal latino, parlate, anzi, favellate in aree omogenee.
Frequentando i giovani, nello svolgimento di oltre 50 corsi professionali, nell’ambito dei quali ho insegnato geografia turistica della Sardegna e relative risorse (comprese la preistoria e la storia), devo dire che non ho mai trovato un solo giovane disinteressato alla conoscenza della “sua” Sardegna.
I sardi moderni sono acuti, interessati a tutto, non xenofobi, più colti della media degli europei e parlano un italiano perfetto. Conversare con la maggior parte di loro è un grande piacere. Si parla di ogni cosa. La maggior parte è infervorata di politica e conosce vita e miracoli della Giunta e del Consiglio regionale. Sono accesi fautori dei valori della politica.
Occorre non dimenticare, infatti, che in Sardegna, oltre ai rappresentanti di tutti i partiti nazionali, vi sono anche gli autonomisti di Sardinia Natzione e del famoso Partito Sardo D’Azione. Tra i fondatori di quest’ultimo (1919), oltre a Camillo Bellieni e Dino Giacobbe, non si può dimenticare Emilio Lussu (di Armungia), comandante di fanteria nella guerra 1915-18, autore del romanzo “Un anno sull’altopiano” (1937), co-fondatore a Parigi di “Giustizia e Libertà”, deputato alla costituente, senatore. Poi tutti sanno che la Sardegna è patria di Antonio Gramsci, Antonio Segni, Enrico Berlinguer, Francesco Cossiga.
Ma io sono affascinato dai sardi antichi. I loro monumenti della preistoria, sono dotati di una grande forza artistica (vedi tombe dei giganti del nord Sardegna), di una propria fisionomia, di un fascino misterioso che dona serenità. I loro monumenti arcaici sono frutto di una sapienza tecnologica. Se non avessero conosciuto l’uso delle carrucole e di rudimentali paranchi, come avrebbero fatto a sollevare macigni così grandi? Sono stati il primo popolo monoteista, già nel tremila a.C., molto prima degli ebrei, dato che Abramo, patriarca capostipite ebraico, è vissuto nel XVIII sec.a.C.. I proto-sardi, insomma i sardi antichi, non adoravano e non ossequiavano il loro Dio: lo amavano con familiarità, gli erano amici e confidenti, lo vedevano nella bellezza dei panorami, nel gioco delle nuvole, nello scorrere dei ruscelli, nella fioritura primaverile. Era un rapporto naturale di serenità e di rispetto. L’Essere Supremo era nella natura, ne faceva

parte. La loro era una religione che, per certi aspetti, ha precorso anche lo scintoismo giapponese, senza proliferazione di dei. Quella dei Sardi era una religione lieta, non rituale, che considerava gli aspetti positivi della natura e teneva nel più alto dei concetti il valore della libertà.
I Sardi antichi hanno scoperto la pietà per i morti, e il culto degli eroi, ancor prima del 3000 a.C.
Hanno scoperto la cura del sonno (vedi residui del rito dell’incubazione a Montessu di Villaperuccio).
Sono stati i primi metallurgici. Non solo sapevano scavare minerali metallici e ricavare il metallo, ma hanno inventato una lega che noi chiamiamo bronzo, ma che non è un mix di rame e stagno, perché lo stagno, in Sardegna, è sempre stato presente in quantità limitatissime. Il bronzo dei bronzetti è qualcosa d’altro, comunque una lega molto fusibile. Avevano scoperto il procedimento di fusione a cera persa (un’anima di cera, con le forme da riprodurre, racchiusa nell’argilla). Sono stati dei grandi osservatori astronomici e stabilivano quando seminare o quando smettere di lavorare la terra, osservando le posizioni del sole, all’alba. Poi sono stati navigatori, pirati, grandi allevatori di greggi, etc., etc. Mi ha sempre stupito il constatare l’armonia panoramica dei luoghi ove hanno costruito i monumenti preistorici. Avevano un fortissimo senso del bello. I nuraghi erano fortezze? Forse lo sono stati dopo, all’inizio erano templi dove si manifestava la sapienza taumaturgica del guaritore-indovino, ovvero del sacerdote.
E Barumini?


Era un porto sul lago, ora prosciugato. Salite sulla Giara di Gesturi da Tuili. Prima di arrivarvi, guardate giù e vedrete!
E le tombe dei giganti?
Erano monumenti evocativi dei propri eroi, costruiti, sempre, con l’apertura orientata verso una situazione astronomica, e ubicati per segnalare la presenza di forte energia magnetica naturale.


Tutto qui?
Basta e avanza se si ha intenzione di approfondire.
Comunque avevano inventato anche il rito dell’ordalia. Se lo spergiuro, avesse osato bagnarsi gli occhi con l’acqua del pozzo sacro, avrebbe perso la vista. La teoria di Raffaele Pettazzoni, espressa nel suo saggio “Religione primitiva in Sardegna” (1912), dice che i bronzetti-voto dei guerrieri, trovati scavando attorno al pozzo sacro di Abini-Teti, hanno più arti e più occhi per dimostrare la gioia, la ritrovata vigoria, di aver detto il vero, negando l’accusa infamante di codardia in battaglia e aver sfidato l’ordalia, il giudizio divino.
Occorre non dimenticare che in più luoghi nuragici vi sono costruzioni basse, a cupola, con sedile circolare e tavolo, che dimostrano un’altra cosa: conoscevano il modo di fare la sauna.
Ma la Sardegna non è solo un insieme di affascinanti enigmi preistorici, è anche una realtà paesaggistica di bellezza superba; e pur avendo viaggiato in mezzo mondo, credo di essere nel giusto se affermo che il fascino poetico e il senso di libertà che questa terra esprime è difficilmente riscontrabile in altre parti del pianeta. Nell’isola vi sono luoghi montuosi, dove, camminandovi, ho provato sensazioni primordiali che non ho avvertito camminando sulle dolomiti e visitando tutti i rifugi che vi sono e neppure in aree archeologiche andine.
In Sardegna, di questi luoghi ancestrali, primigeni, dove tutto, dalle rocce alla vegetazione, parla di originario e primitivo, ve ne sono una quantità incredibile. E’ difficile, considerando soltanto il sud ovest, enumerarli tutti. Quelli che più mi piacciono, o meglio quelli che visitandoli mi hanno donato il profumo e la sensazione dell’altrove, sono: a Villamassargia, il Montexi, l’altopiano di Astia e Orbai; a Domusnovas, i monti di Perda Niedda e la sacralità dell’Oridda; a Iglesias, il Marganai; a Narcao, Monte Narcao e la zona minerarie di Rosas; a Villaperuccio, Montessu; a Santadi, Barrancu Mannu e Gutturu Mannu; a Teulada, Calamixi e Is Cannoneris; a Sant’Antioco, Grutti Acquae; a Buggerru, Gutturu Cardaxiu e la zona del Lago di Piscina Morta; a Fluminimaggiore, le Fonti di Pubusinu e la vallata con le grotte Su Mannau; a Guspini, il Monte Arquentu. Nella zona di Cagliari sono indescrivibili, per la loro bellezza selvaggia, sia la zone di Monte Arcosu, Cima Lattias e Is Caravius, sia quella dei Sette Fratelli.
Ma lasciato il campidano e proseguendo in senso anti-orario verso nord-est; da Seui al Montarbo; dal Golgo di Baunei a Cala Goloritzè; da Cala Luna a Su Gorropu (salendo per la Codula di Luna e scendendo verso il Rio Flumineddu); da Tiscali al Nuraghe Bianco Mereu e al Monte Novo San Giovanni; da Lula al Montalbo; da Pattada ai monti di Alà dei Sardi; dal Lago del Coghinas al Limbara; da Aggius alla Valle della Luna; è tutto un susseguirsi di panorami incredibili e di sensazioni da privilegio. La serie infinita di luoghi, per me magici, continua da Alghero ai monti di Villanova Monte Leone (con la necropoli di Puttu Codinu), fino alle meraviglie dei due antichi vulcani della Sardegna, Il Montiferru e il Monte Arci.
A questo punto mi aspetto la vostra domanda: “ E i parchi? Il parco del Gennargentu? Cosa ne pensi di fare un parco?”
Mi stupirei molto se le popolazioni vi lasciassero nascere qualcosa di completamente estraneo rispetto alla loro cultura. Conosco geograficamente molto bene, il Gennargentu e il Supramonte e frequento la gente che ci vive. Vi è un equilibrio perfetto, atavico, omerico. Solo persone avulse dal contesto di libertà che esprimono certi luoghi aspri e selvaggi, possono concepirvi l’intrusione di un parco. Solo dei teorici di ambientalismo, che non ha mai scarpinato con i locali, faticando su e giù per quei monti, beatificandosi di profumi ancestrali tra un groviglio di dirupi, dove zoccolano, guardinghi, i mufloni, può concepire tale mostruosità, preludio alla colonizzazione del turista “falsamente impegnato”. Un giorno, il mio amico Giovanni Francesco Sale di Dorgali ed io, abbiamo portato, nel capanno di un capraio (avvertito il giorno prima), due giovani giornalisti di una nota rivista continentale, appena ritornati dal Canada. Si era molto in alto, sui monti abbaglianti, al di sopra di Cala Luna. Eravamo seduti nel capanno. Fuori, a perdita d’occhio, vi erano ginepri, sassi, cespugli, capre, maialetti bradi, cornacchie, poiane e vento. Per arrivarvi, avevamo arrancato due ore in macchina, percorrendo chilometri di sassaie, ovvero lo stesso percorso che compie il proprietario del caprile, tutti i giorni, mattino e sera. Avevamo gustato il pane carasau ed il formaggio, prima del capretto arrosto. Poi, il capraio, che disquisiva di Goethe e di Schiller in un mix di Platone, Aristotele, Socrate e mondiali di calcio (1990) etc., offrì il caglio, ovviamente pizzicantissimo, adatto per gente vigorosa, risoluta, nerbata, gagliarda: uomini, insomma
Il vino, dolce e ambrato, contenuto nell’otre di pelle, scendeva che era una meraviglia, tra l’afrore dello stazzo e la beatificazione delle meningi, già avvolte in una nebbiolina particolare. A un certo punto uno dei due giornalisti ha chiesto una bibita molto fredda. I due dorgalesi hanno fermato con lo sguardo il mio inizio di reazione, perché ero greve di odio per la profanazione della cultura di quell’ambiente, intatto, libero e pastorale, esente dal pre-confezionato. Chi aveva chiesto la bevanda ghiacciata, ha dimostrato di non aver capito niente del luogo e della gente e di non

conto che si stava godendo di momenti appositamente scelti per distaccarci dalla modernità. Un gruppo elettrogeno portatile, adatto per funzionamento del frigorifero, in quel capanno, era semplicemente inconcepibile.
Due giorni dopo, ho incontrato i due dorgalesi. Dopo i saluti, sempre cordialissimi, mi hanno chiesto di non portarmi appresso, mai più, sulle loro montagne, dei tonti colti, ma solo persone, vere, genuine e semplici, in grado di comprendere l’importanza del connubio non artificioso uomo-ambiente.
Ecco, ditemi voi: è possibile codificare la genuinità, l’arcaicità, il rapporto degli allevatori con i loro animali, gli equilibri naturali, l’armonia delle essenze che ci provengono intatte dalla preistoria?
La sensazione di essere liberati dai condizionamenti del modernismo, che pervade in certi luoghi, è qualcosa di grande, che eleva l’anima e rende capaci di librarci in alto, come le aquile.
I parchi non hanno senso, sono di un altro pianeta, sono per i divoratori di hamburger e di patatine insacchettate, sono per gente infantile che non vede, d’istinto, ma che ha bisogno di cartelli indicatori che consigliano di guardare di qua e di là, sono per gente che ha bisogno di essere teleguidata, gestita.
Finita la sbruffata con i parchi, devo dire che ci sono altre cose che mi piacciono dei sardi. Avete mai sentito i canti a tenores di Bitti, Neoneli, Orgosolo, Desulo, Oliena, Dorgali,Fonni etc.? Quei cambi di tonalità, quegli accordi, ritmicamente antichissimi, sono unici nell’umanità, non hanno paragone, sono una delle tante invenzioni dei sardi
Ma tra le tante qualità ci sono anche i problemi. I ragazzini, fin dall’asilo sono intelligentissimi. Poi, diventati adulti, non trovano terreno fertile ove mettere a frutto la propria innata capacità, perché nell’Isola c’è lavoro impiegatizio negli enti pubblici e nell’industria di Stato, ma molto poco nella piccola industria manifatturiera privata. Parecchi giovani devono lasciare l’Isola per andare a trovare lavoro dove funziona la piccola industria artigiana.
Prescindendo dalla mancanza di lavoro, c’è il problema degli incendi estivi. Gli alberi e gli arbusti sono esseri viventi. Saperli bruciare vivi mi da molta tristezza. Chi lo fa, non sa che gli alberi sono esseri soprannaturali. Una leggenda coreana, su chi li brucia, afferma che gli autori saranno sempre affetti da malattie gravi. E negli incendi muoiono piante e animali selvatici.
C’è dissenso, ovviamente, a queste mie critiche. Ma gli incendi sono un serio problema. Ovunque, in Sardegna, la terra è ferace. L’erba, in primavera, cresce in un battibaleno. Occorre falciarla prima della fine di aprile, diversamente è un’esca pericolosa per i male intenzionati (perché gli incendi sono sempre dolosi). Non basta. Occorre raccogliere l’erba falciata e utilizzarla come combustibile nei cascinali e negli ovili. E’ indispensabile attivare la nuova mentalità di utilizzo rivolta al recupero di ogni fonte d’energia perenne. Disinnescare il pericolo estivo di un mare smisurato di erba secca, trasformandolo in fonte di energia perenne è importante. Discutere sulla complessa problematica dei parchi è di un’importanza relativa.
Prima o poi, questo ritornello del parco del Gennargentu finirà, e rimarrà, soltanto, la sinfonia del vento tra le sculture naturali dei ginepri e delle rocce. Tutto deve essere lasciato come sempre è stato e nessun nuovo sentiero deve arrivare al Nuraghe Bianco Mereu, oppure a Tiscali, alla Gola Gorropu, alla tomba dei giganti di Biristeddi.


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