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I Signori della Steppa

Ultimo Aggiornamento: 30/09/2011 18:41
21/06/2011 16:06
 
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Come aveva detto tanto tempo orsono (così tanto che a momenti mi dimenticavo pure io) comincio a narrare le gesta dei miei Cumani. Sarà una campagna che non so ancora dove mi porterà - niente super-obbiettivi di renovatio o simili stavolta - ma che quantomeno voglio portare avanti fino allo scontro coi Mongoli; tenendo conto che gioco con l'iron's mod questo vuol dire che sarà bella lunghetta. Enjoy!



Questa storia ha inizio molti anni prima che io nascessi, quando Manuele Comneno era basileus di Bisanzio e Geza II Arpad sovrano d’Ungheria. Allora come oggi gli stati nascevano e cadevano, gli uomini lottavano strenuamente per il potere e la sopravvivenza, per la gloria e la ricchezza, per essere ricordati o semplicemente per mettere qualcosa sotto i denti. Era un mondo difficile e duro, spietato e complesso, dove dovevi guardarti tanto dai nemici quanto – e forse soprattutto – dagli amici. Non erano passati poi molti anni da quando gli infidi Romei avevano attirato, presso la città di Beroia, in una trappola mortale i Peceneghi, fieri e abili guerrieri. Agli occhi dei vincitori c’era poca differenza fra quegli uomini e noi. Come se fossimo la stessa cosa ci guardavano e ci trattavano, da quelli che chiamano barbari, che etichettano come esseri inferiori e incivili, stupidi e rozzi. Ma noi siamo ben altro. Noi siamo i Kipchaq, i Signori della Steppa.
Siamo un popolo grande, abituato ad affrontare le avversità della vita e a superarle. Nasciamo in sella e moriamo in sella. Dovunque i nostri cavalli possano portarci, lì siamo temuti e rispettati, probabilmente anche odiati. Siamo stati anche derisi a volte, ma è un peccato che nessuno possa più testimoniarlo: sappiamo infatti essere giusti verso che merita il nostro rispetto e terribili nella vendetta contro chi non ottiene altro che il nostro odio. Perché noi siamo i Kipchaq, i Signori della Steppa.
A volte mi chiedo perché così tanti potenti si ostinino a ritenersi perennemente superiori ai loro vicini, salvo poi ricadere nei medesimi errori. Perché non si impara mai da quanto accade? Quanti sovrani hanno cercato di intralciare il nostro cammino, convinti che il loro potere fosse sufficiente a fermare noi Kipchaq? Solo Tengri lo sa e a lui solo lascerò questa conoscenza. Ma forse sto correndo troppo, forse è bene che cominci la mia narrazione dal momento in cui tutto mutò.



Correva l’anno 1155 – per comodità e maggior comprensione tua, o lettore, mi baserò sul calendario in voga nelle terre magiare – e il khanato dei Kipchaq stava attraversando un momento molto complicato. Bonyak, del clan degli Osen, era khan da anni, ma ormai i suoi giorni volgevano rapidamente al termine: ultrasessantenne e malato al punto che non riusciva più a salire a cavallo, egli dimorava nella città di Saqsin, sul Caspio. Era una città modesta, non particolarmente importante e molto decentrata, un luogo in cui mai un sovrano dovrebbe soggiornare troppo a lungo. In effetti da anni il potere lo aveva nelle proprie mani il primogenito di Bonyak, Sharukan, un prode guerriero che aveva fatto della rocca di Sarkel la sua fortezza. In quanto futuro khan, Sharukan stava già lavorando attivamente per risolvere diverse situazioni complicate che il padre nella sua vecchiaia lasciava troppo andare.

Qualche anno prima il khanato era stato scosso da una forte serie di rivolte e spaccature nei territori orientali, secondo alcuni sobillate addirittura dal sovrano di Georgia. Quello che era certo era che questi accadimenti avevano provocato ampio scontento un po’ ovunque, minando la fedeltà di molti al clan Osen e facendo emergere nuove figure nella vita politica del khanato. Questo aveva portato Sharukan a doversi appoggiare sempre più ai due fratelli minori, Ituk e Konchak.
Ituk era stato nominato governatore della capitale del khanato, la ricca città di Azaq, primario accesso al mar Nero e ai suoi ricchi commerci, non ultime le rotte commerciali con i mercati romei. Nonostante si fosse messo in luce come un notevole amministratore e un governatore benvoluto, Ituk aveva però dimostrato delle capacità limitate sotto l’aspetto militare, non riuscendo a sedare la sua parte di rivolta e permettendo, in ultima analisi, la nascita del principato di Taman, uno staterello tutto imperniato sulla città di Tmutarakan, e governato da Igor Sviatoslavich, un russo fuggito da Kiev e riciclatosi durante la rivolta. La forza militare del neoprincipato era trascurabile, ma la sua posizione strategica no, e il fallimento di Ituk aveva lasciato uno spinoso problema in sospeso che Sharukan, impegnato a reprimere altrove la rivolta, non aveva ancora avuto tempo di affrontare.
L’altro fratello, Konchak, per certi versi aveva avuto un compito ancor più complicato. Nominato signore di Olese, una piccola cittadina lungo le coste nord-occidentali del mar Nero, egli non aveva ancora dovuto provare sul campo quanto valeva a livello militare; in compenso aveva dovuto trattare quotidianamente con i clan dei Kunbek e dei Terter-Oba, due famiglie recentemente assurte a ruoli di potere e decise a ottenere quanto più possibile. Una situazione molto complessa, tanto più che la sete di potere dei Kunbek aveva portato a una rapida ma incontrollata espansione verso Occidente, inglobando la Moldava e la parte meridionale dei Carpazi. In particolare quest’ultima zona, il cui centro principale era la città di Arges, si trovava molto distante dal cuore dei domini dei Kipchaq, circondata da terre magiare e romee.



Un quadro generale a cui bisognava aggiungere il principato di Crimea – indipendente, ma molto legato a Bisanzio e governato da Isacco Botoniate; delle regioni non del tutto indipendenti – ancora una volta la longa manus romea si faceva sentire – come quelle bulgare, i cui governatori erano Romano Diogene a Constanta e Demetrio Monoftalmo a Tirnovgrad; il principato di Halych a settentrione della Moldavia, uno stato ricco e bramato da molti potenti dell’area; il khanato della Volga Bulgaria, la cui capitale Bolgar era vista come una città immensa e ricchissima; il gran principato di Vladimir-Suzdal, un gigante ancora addormentato ma che era meglio lasciar dormire finché si poteva; i magiari ai confini occidentali, un popolo che aveva perso molto della grandezza di un tempo – quando erano fieri del proprio potere e della propria fede e si facevano chiamare Ungari – ma che non per questo andava sottovalutato; e ovviamente l’Impero dei Romei, avidi e infidi, suadenti come bellissime donne e pericolosi come serpenti velenosi.



Attorno al marzo 1155 Bonyak Osen, khan dei Kipchaq, si spense dopo lunga malattia nella sua dimora di Saqsin, sul mar Caspio. Con lui moriva un uomo che non era riuscito a far fronte a una crisi interna di notevole portata, che aveva infiacchito notevolmente il khanato a ogni livello. Toccava a suo figlio Sharukan assumersi l’onere di trovare una via d’uscita. Il primo pensiero del nuovo khan era quello di chiudere una volta per tutte i conti con quelle ribellioni che ancora insanguinavano la parte orientale dei domini dei Kipchaq: bisognava rapidamente chiudere il conto con il principato di Taman per poi potersi concentrare al meglio sull’attacco al ben più forte e protetto stato dell’Ossetia, la cui capitale Maghas era reputata una fortezza in grado di sfidare i più insigni generali.



Con questo progetto grandioso in mente, Sharukan emanò immediatamente una serie di ordini affinché ogni cosa si mettesse in moto e intraprendesse la strada che egli voleva. Suo fratello Ituk venne insignito dell’alto onore di regolare i conti con Taman – un compito che era più che altro un oneroso castigo, visto che già una volta egli aveva fallito – e truppe vennero drenate da Saqsin e da Sarkel e fatte confluire ad Azaq: in particolare Ituk si ritrovò omaggiato di squadroni di dreg e calarisi, i primi fior fiore delle armate kipchaq, i secondi ausiliari dallo stile di combattimento ibrido.





Konchak – nominato nel frattempo erede al trono - ricevette invece il compito di lanciare un piano di riavvio economico, che portasse rapidamente nelle casse del khanato quei fondi necessari all’arruolamento, addestramento ed equipaggiamento di un grande esercito per conquistare Maghas. Questo comportò subito la partenza di una lunga missione diplomatica, condotta dall’esperto notabile Vlur, per stabilire rapporti economici con varie realtà politiche: in successione vennero toccati Georgiani, Turchi Selgiuchidi, Zenghidi di Siria, Crociati di Gerusalemme e infine Fatimidi d’Egitto. Contemporaneamente una seconda missione diplomatica compiva altrettanti passi nei confronti di Rus, Magiari e Polacchi. Oltre, ovviamente, ai Romei. Da ultimo diversi mercanti furono inviati a trattare per ottenere i diritti di sfruttamento e commercio di varie risorse, principalmente argento bizantino (dalla Chaldia) e tessuti pregiati da Bolgar.
Il gran movimento e i tanti onori ottenuti dai rappresentanti del clan Osen, detentore del potere supremo, uniti ai vasti territori conquistati dai Kunbek negli anni precedenti, spinsero però un giovane capoclan, Sevanch Terter-Oba, a cercare a propria volta fortuna e gloria. Dalla sua base di Asperon – che i Romei chiamano Castrum Album – egli scrutava la vicina regione della Dubrodza, governata dal filo bizantino Romano Diogene. Era consapevole che anche solo una razzia in quell’area avrebbe irritato colui che da Konstantinoupolis tutto vedeva e controllava, ma non aveva intenzione di restare nell’ombra: era un kipchaq, un guerriero.



Così radunò un’armata – invero abbastanza indegna delle tradizioni guerriere del nostro popolo – e si lanciò in una campagna di razzia e saccheggio in Dubrodza. Contro ogni aspettativa, i Romei non accorsero come api sul miele per aiutare l’alleato e questo spinse Sevanch a maggior audacia: nel cuore dell’estate 1155 iniziò una sistematica conquista di villaggi e castelletti, puntando a chiudere vieppiù il cerchio attorno a Constanta e al suo governatore. Che, dal canto suo, pur avendo un’armata numericamente di egual forza, preferì chiudersi dietro le mura e attendere che la tempesta fosse passata.
Ma la tempesta non passò affatto. Al di là della ricerca della gloria per sé e per il proprio clan, Sevanch ora stava combattendo per salvare la propria vita. Infatti Sharukan, alla notizia di questo raid, aveva dato istruzioni severissime al fratello Konchak perché il reo fosse immediatamente imprigionato al suo rientro e sottoposto al giudizio del khan. Sevanch sapeva che tornare con del bottino non sarebbe stato sufficiente per convincere il khan a risparmiarlo, tanto più che erano di due clan diversi e non particolarmente amici. Inoltre suo figlio Kotian, appena sedicenne, era presso la capitale come paggio di corte e rappresentava una pedina che egli, Sevanch, non poteva lasciar muovere a nessuno. Così prese la decisione di conquistare l’intera regione e la sua capitale e di offrirla al khan quale segno che il suo operato era per la maggior gloria dei Kipchaq e non del clan Terter-Oba.
Solamente all’inizio del 1157 Romano Diogene, ormai completamente bloccato da diversi mesi in Constanta e senza alcun aiuto visibile all’orizzonte da Bisanzio, decise di tentare il tutto per tutto in uno scontro campale: meglio la morte di spada che quella d’inedia.
Avvertito che i nemici si muovevano con il chiaro intento di effettuare una sortita, Sevanch ordinò alle proprie truppe di schierarsi a battaglia. Dispose i lancieri in una grossa linea, alle cui spalle posizionò i vasti gruppi di arcieri, ordinando loro di traforare qualunque nemico arrivasse a tiro. Quindi montò sul proprio destriero, controllò un’ultima volta il filo della lama e attese.
Non dovette attendere molto, dato che Romano Diogene scatenò tutte le sue forze in un unico, massiccio attacco frontale: i soldati caricarono urlando e vennero accolti da una pioggia di letali frecce, che aprirono larghi buchi nei loro ranghi.



Tuttavia non bastò per bloccarne l’impeto e i due schieramenti vennero rapidamente a contatto, in un turbinare di lance, spade e sangue.



Romano Diogene attese che la mischia si fosse ben sviluppata, quindi si slanciò contro l’ala destra dello schieramento kipchaq e si aprì un varco a furia di fendenti. Sevanch vide la propria ala incurvarsi pericolosamente e ordinò di caricare per tappare la falla. Si accese una breve mischia fra i due avversari, ma presto Romano Diogene preferì disimpegnarsi. Sevanch dovette far violenza al suo sangue guerriero per non inseguirlo; ma sarebbe stato un errore potenzialmente mortale. Così tornò in posizione, conscio che avrebbe avuto un’altra occasione.
Intanto i lancieri kipchaq resistevano egregiamente, pur se la linea cominciava qua e là a mostrare qualche segno di stanchezza. Alle loro spalle gli arcieri continuavano a investire di frecce la controparte nemica, ormai ridotta a poche unità. La battaglia volgeva a favore dei kipchaq e Romano Diogene fu costretto a intervenire nuovamente con la propria guardia. Esattamente il momento che Sevanch stava aspettando: con un urlo tonante ordinò la carica e i suoi cavalieri irruppero nei ranghi nemici non protetti, seminandovi il panico e inducendo molti a cercare salvezza oltre le mura della città.



Romano Diogene cercò di arginare la paura dilagante nelle sue truppe, ma venne colpito mortalmente e stramazzò al suolo. Con la sua morte ogni resistenza venne meno e Sevench Terter-Oba poté entrare da trionfatore a Constanta. Aveva perso quasi un terzo delle proprie truppe, ma aveva ottenuto ciò che voleva: ora poteva presentarsi al suo khan con qualcosa di concreto da offrire come dono pacificatorio.



Ma l’attenzione del khan era in quel momento tutta rivolta da un’altra parte: nella primavera del 1157 Ituk Osen aveva lasciato Azaq alla testa di un vasto esercito – circa 10.000 uomini, di cui quasi 2.000 cavalieri – e aveva invaso il principato di Taman. Era un compito che non gli aggradava, ma si rendeva conto che essere un kipchaq voleva dire dover essere anche un guerriero e che quella era un’occasione che non poteva farsi sfuggire: doveva vincere o l’intero khanato l’avrebbe etichettato come una femminuccia, un essere indegno di essere un kipchaq, per di più nobile e con delle responsabilità di governo.
Igor Sviatoslavich era ben conscio che era quasi utopico pensare di restare indipendente a lungo, data la potenza delle nazioni vicine – kipchaq e georgiani – ma non per questo intendeva arrendersi senza combattere: se si voleva la sua pelle e la sua città, che si sputasse sangue. Aveva a disposizione un esercito composto in prevalenza da milizie cittadine, armate ora di lancia ora di arco, a cui affiancava la sua guardia personale e i corpi di kazaki che lo avevano fedelmente seguito nell’esilio da Kiev.
Ituk, desideroso quanto mai di chiudere alla svelta la faccenda e di tornarsene ad Azaq a occuparsi di problemi economici e di piani di sviluppo cittadino, optò per un attacco il più rapido possibile. Costruito un ariete e una buona quantità di scale ordinò l’assalto da due direttrici diverse, in modo da suddividere la resistenza avversaria. Questa tuttavia si rivelò assai più coriacea del previsto e tutti gli assalti con le scale vennero respinti nel sangue. Per fortuna, e seppur a prezzo di perdite elevatissime, gli uomini addetti all’ariete riuscirono a portarlo fin sotto le mura, in una zona parzialmente riparata dal letale e insistente tiro degli arcieri avversari. L’arretratezza delle difese di Tmutarakan impedì ai difensori di reagire efficacemente e una via d’accesso venne aperta.



Nel frattempo, l’altra direttrice d’attacco non aveva trovato miglior fortuna: anche qui gli attacchi con le scale erano riusciti a creare delle fragilissime teste di ponte immediatamente spazzate via al primo contrattacco, facilitato dall’arrivo in zona dei cavalleggeri kazaki. Che però, presi dall’entusiasmo, inseguirono i fanti in fuga, finendo nelle grinfie dei calarisi che, meglio equipaggiati per uno scontro corpo a corpo, ebbero rapidamente la meglio e ricacciarono in città i kazaki con ampie perdite.



Questi rientrarono giusto in tempo per vedere i dreg irrompere dalla porta ormai abbattuta. Tutti i difensori collassarono velocemente verso la ridotta difensiva, fatta innalzare nel cuore dell’insediamento. Questo li portò però ad ammassarsi in uno spazio stretto e a essere vittime delle frecce che i dreg scagliavano con generosità contro di loro. La mischia nel centro cittadino procedette per almeno un paio d’ore, ispirata dalla presenza carismatica di Igor Sviatoslavich; ma ormai la situazione del principato di Taman era irrimediabilmente compromessa.



E infine Ituk Osen poté festeggiare coi suoi uomini una vittoria pagata a caro prezzo: per sconfiggere i 5.000 difensori erano dovuti cadere altrettanti kipchaq.



La vittoria di Tmutarakan e la conseguente annessione dell’intero principato di Taman rappresentarono un trionfo importante per Shurakan, che pote guardare ai propri progetti con più calma. Come prima cosa egli decise magnanimamente di accettare le profferte di pace di Sevanch Terter-Oba , consigliato in tal senso dal fratello Konchak che, come diretto responsabile di tutti i territori occidentali del khanato, si rendeva conto dell’importanza economica e strategica del possesso della Dubrodza.
Poi il khan volse gli occhi sulla Crimea. L’assenza di una reazione romea all’occupazione della Dubrodza era una spinta forte ad allungare le mani su una regione teoricamente molto legata a Konstantinoupolis, ma che poteva non venire da questi adeguatamente sostenuta: dopotutto l’invio di una spedizione non avrebbe avuto altro esito che quello di deteriorare i rapporti fra Bisanzio e i Kipchaq, un’eventualità che per ora nessuno sembrava realmente voler contemplare. Così venne organizzata una spedizione veloce, un gruppo di razzia che inducesse il governatore di Cherson, Isacco Botoniate, a commettere l’errore di lasciare la sicurezza delle mura per cercare uno scontro campale. Il capitano Sharohan venne posto alla testa di 820 dreg, 840 cavalieri peceneghi e 840 calarisi, che invasero la Crimea da oriente, usando come base d’avvio la neo conquistata Tmutarakan e come base d’appoggio interno il castello fortificato di Sudak, prima conquista della spedizione.
Denotando una mente tutt’altro che acuta, Isacco Botoniate abboccò clamorosamente all’esca tesagli dai kipchaq e, nel corso di una battaglia senza storia e tutta basata sulla mobilità, venne pesantemente sconfitto. Cherson restò senza alcun genere di difesa e venne occupata dai kipchaq sul finire del 1158.




Frattanto da più parti si premeva affinché, dato che ormai si era padroni della Dubrodza, si consolidassero le posizioni raggiunte con l’occupazione di quanto restava delle lande bulgare, in particolare di quella città fortificata di Tirnovgrad che era la capitale e il rifugio del governatore filo bizantino dell’area, Demetrio Monoftalmo.
Sharukan, che a Sarkel continuava a selezionare truppe e equipaggiamenti per l’armata da scatenare contro l’Ossetia, chiese a riguardo consiglio al fratello Konchak, che nella duplice veste di erede e governatore delle lande occidentali era molto più addentro alla questione di lui. Konchak si pronunciò a favore di una spedizione contro Tirnovgrad, tanto più che le truppe del capitano Sharohan erano da poco arrivate a Constanta dopo la vittoriosa spedizione in Crimea.
Così nel 1159 questa piccola ma coriacea armata venne affidata a Sevanch Terter-Oba e scatenata contro i bulgari. Usando la stessa tattica che gli aveva permesso, tre anni prima, di sconfiggere il governatore di Constanta – ma con il vantaggio notevole di una maggior mobilità – Sevench Terter-Oba costrinse Demetrio Monoftalmo a compiere una pericolosa scelta: rinchiudersi in Tirnovgrad e sperare in un aiuto dai Romei oppure tentare la sorte del campo. Numero contro mobilità, arcieri bulgari contro cavalieri peceneghi: la scelta del Monoftalmo comportò questo genere di scontro, una battaglia in cui le truppe bulgare lottarono con strenuo coraggio ma in cui toccò ai comandanti far pendere da una parte o dall’altra l’ago della bilancia. Ma Demetrio Monoftalmo si trovò a dover fare i conti con un nemico rapido e sfuggente, mentre Sevench Terter-Oba poté con maggior facilità far valere la forza distruttiva delle cariche della propria guardia.




Il risultato finale fu la sconfitta dei bulgari e la caduta di Tirnovgrad in mano dei kipchaq.
[Modificato da frederick the great 21/06/2011 16:07]
21/06/2011 16:12
 
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Evviva!! Finalmente un'altra tua campagna Frederick!! [SM=x1140430]
Che Tengri sia con te quando la guardia del Khan mongola verrà a "bussare" alla tua porta..
[SM=g1598463]
21/06/2011 17:24
 
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Grazie! Credo che coi Mongoli non mi raccomanderò solo a Tengri, innalzerò direttamente un pantheon: tutto farà brodo! [SM=g27964]
21/06/2011 19:11
 
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Una nuova emozionante cronaca da parte di Frederick!!!

Cerca soltanto di non oscurare la mia altrimenti [SM=x1140482] [SM=x1140482]

Scherzo dai, sei un talento nello scrivere come sempre [SM=x1140429]

P.S. cosa sono quelle macchie nella cartina??

[Modificato da Imperatore I 21/06/2011 19:12]



21/06/2011 21:11
 
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Combattiamo con armi troppo diverse per oscurarci, Imperatore: sono certo che la tua narrazione avrà un strepitoso successo [SM=x1140427]

Per le macchie penso che tu ti riferisca a quel marrone screziato che si trova in Georgia e attorno ad Arges: sono Caucaso, Carpazi e Balcani (mi sa che son malato a metter così tanti dettagli [SM=x1140421] )
21/06/2011 21:12
 
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Ah, mi accorgo adesso di aver dimenticato un dettaglio: gioco alla feudal full.
28/06/2011 17:12
 
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La potente città di Halych era il cuore di un principato ambito dai Rus, dai Magiari, dai Polacchi. E dal clan dei Kunbek, fino a quel momento completamente tagliati fuori dall’espansione del khanato. Ormai padrone della Bulgaria e sempre più vicino a completare l’armata per invadere l’Ossezia, Sharukan fu ben lieto di poter sfruttare il desiderio di gloria dei suoi infedeli vassalli, soprattutto perché aveva già in mente un piano per usufruire al meglio di un’eventuale vittoria.
Il compito di guidare un’armata verso nord alla conquista di Halych sarebbe in teoria toccato a Sirchan Kunbek, khan di Moldavia; ma questi, da sempre molto sospettoso nei confronti degli altri clan, e di quello degli Osen in particolare, decise che era meglio non lasciare la propria dimora a Iaski Torg, e affidò il comando delle truppe a un suo cliente, un certo Ambuz Bonyak, recentemente elevato al rango di nobile e insignito alla dignità di Boiardo di Bulgaria. Non che avesse particolari doti per governare le recenti conquiste, ma era il prezzo che Konchak Osen aveva scelto di pagare per mantenere tranquilli i Kunbek.



La spedizione militare avanzò nel principato di Halych senza incontrare particolare resistenza, una circostanza che venne progressivamente svelata dalle continue notizie di attacchi rus e magiari. Inoltre gli esploratori informarono Ambuz che anche una spedizione polacca era stata vista a occidente della capitale del principato. La maggior velocità della cavalleria kipchaq, unita all’evidente indecisione del comandante polacco, permisero però a Ambuz di arrivare per primo a destinazione e di porre la città sotto un assedio che il principe di Halych, David Rostislavich, cercò di rompere senza successo nei primi mesi del 1163. La sconfitta non fece che accelerare la caduta della città, che si arrese all’inizio dell’estate.
Frattanto, molto più a oriente, il gran principe di Vladimir si era incontrato con Sharukan per trattare di una questione molto delicata per ambo le parti: nel 1161 le armate rus erano riuscite a ottenere un trionfo dalla vasta eco conquistando nientemeno che Bolgar, la capitale dei Bulgari del Volga, una delle città più ricche dell’intera area. La popolazione, tuttavia, aveva gradito assai poco il cambio di governo e così nell’autunno 1162 aveva dato vita a una rivolta conclusasi con la cacciata del governatore inviato da Vladimir. Subito dopo la città si era volontariamente sottomessa al potere di Sharukan, che per motivi misteriosi era stato visto come il governatore ideale, il sovrano perfetto. La situazione aveva fatto ovviamente deteriorare i rapporti fra Rus e Kipchaq, rischiando di far sfociare la situazione in una guerra aperta che avrebbe insanguinato le steppe per anni e anni.
Tuttavia né i Rus, intenzionati a volgere la propria forza a occidente contro i Polacchi, né i Kipchaq volevano che la cosa degenerasse fino a questo punto. Così Sharukan propose al gran principe di Vladimir un incontro per discutere personalmente la cosa, assicurando fin da subito che la situazione creatasi a Bolgar era del tutto estranea alla sua volontà.
E dai negoziati emerse esattamente quello che Sharukan voleva: la sicurezza ai confini settentrionali per potersi dedicare con tranquillità ad altri obbiettivi. Bolgar venne immediatamente restituita ai legittimi proprietari e i suoi fedifraghi abitanti abbandonati al loro destino; i canali commerciali vennero prontamente riaperti, assicurandosi che il monopolio del commercio dei tessuti dalla città incriminata continuasse a essere in mano dei mercanti kipchaq; una forte alleanza di mutuo sostegno e supporto venne stipulata, rendendo sostanzialmente le steppe un unico corpo, metà del quale volgeva la propria attenzione verso nord-ovest, l’altra metà guardava invece a sud.
Questo importante trattato arrivò nel pieno di un rinnovamento economico e commerciale che l’abile mano di Konchak aveva promosso un po’ ovunque. Mercanti furono inviati a stabilire proficue rotte commerciali coi territori bizantini – navi, lana, vetro, armi – e con le lande magiare – soprattutto con le miniere d’argento dei Carpazi. In varie località commercialmente rilevanti, fra cui la capitale Azaq e la roccaforte di Asperon, vennero ospitate colonie di mercanti veneziani, che portavano ricchezze e spirito imprenditoriale. Nelle lande orientali inoltre i khazari, che già servivano come soldati nelle armate del khanato, vennero spinti a intraprendere anche la carriera di mercanti, sfruttando quell’abilità che derivava loro dall’essere di religione ebraica.
Nuovi trattati commerciali vennero stipulati con regno lontani, perfino con l’Inghilterra dei Plantageneti. Il khanato prosperava.



L’alleanza coi Rus era appena stata stipulata quando un messaggero trafelato si presentò al palazzo del governatore di Olese, con un plico da consegnare direttamente al khanzada Konchak Osen. Il breve messaggio, scritto in fretta e furia, informava che un’armata bizantina aveva attraversato i confini e stava marciando verso Tirnovgrad, saccheggiando i villaggi e seminando il terrore. Era un fulmine a ciel sereno, una lotta di cui i Kipchaq non avevano timore ma per cui non erano pronti. Buona parte delle risorse militari erano state indirizzate alla costruzione di quell’armata con cui Sharukan intendeva finalmente invadere l’Ossezia; e il grosso dello truppe occidentali del khanato stavano ad Halych, a settentrione.
La situazione era molto grave e Konchak Osen dovette far ricorso a tutta la sua autorità per evitare che si scatenasse il panico. Immediatamente spedì un messaggero al fratello, informandolo di quanto accadeva e chiedendogli urgentemente risorse e truppe per far fronte a un attacco che rischiava di rivelarsi letale. Un secondo messaggero venne sguinzagliato verso Halych, per far rientrare quanto prima le truppe di Ambuz; e un terzo volò verso Arges, per allertare Sevench Terter-Oba.
La risposta di Sharukan non si fece attendere molto e, sostanzialmente, diede carta bianca a Konchak per gestire la situazione. Soprattutto ordinava che la città di Halych venisse offerta come dono propiziatorio di un’alleanza col potente regno magiaro, giacché la sicurezza delle frontiere settentrionali era ritenuta strettamente collegata con la possibilità di fermare i Romei.
Romei che, nel frattempo, avevano proseguito l’avanzata e avevano raggiunto Tirnovgrad, stringendola rapidamente d’assedio. Il comandante della guarnigione cittadina si accorse subito che non aveva a che fare con una forza smisurata – non erano che poco più di 2.000 uomini. Ma si avvide altresì che erano truppe professioniste, fra cui spiccava nientemeno che una compagnia delle temutissime guardie imperiali, soldati pesantemente corazzati e superbamente addestrati. Erano truppe che i miliziani – qualche lancieri, arcieri e contadini delle valli transilvane – difficilmente avrebbero potuto anche solo impegnare. Urgevano soccorsi, e anche molto in fretta.
Ma l’unico soccorso che giunse fu Sevench Terter-Oba con la propria guardia personale, appena 200 uomini. Il nobile si fece a sua volta un’idea della situazione e, nonostante ciò, inviò un proprio uomo in città per coordinare un attacco. Il comandante di Tirnovgrad ritenne l’idea una pazzia, ma non aveva né l’autorità né la voglia di opporsi ai comandi di un nobile come Sevench: così acconsentì.
L’attacco venne scatenato poco prima dell’alba e la fanteria kipchaq avanzò fino ad occupare un lieve rialzo: lancieri al centro, arcieri alle spalle e transilvani alle due ali. Le forze bizantine – composte da un battaglione di skoutatoi, una compagnia di varangoi, una compagnia di guardie imperiali e un contingente di arcieri – avanzarono veloci verso il proprio obbiettivo, certe che avrebbero pranzato in Tirnovgrad. Gli arcieri cominciarono a scambiarsi raffiche di frecce e i primi morti andarono a insanguinare la terra. I lancieri miliziani si posero sulla difensiva, guardando con crescente paura i soldati nemici che avanzavano, i loro sguardi fieri e determinati, la sicurezza che emanavano.




Fu a questo punto che, con una carica tanto improvvisa quanto micidiale, Sevench Terter-Oba irruppe nei ranghi degli skoutatoi portandovi la distruzione.



Rimasto celato in una piccola macchia boschiva, il nobile kipchaq aveva atteso il momento propizio per colpire, soprattutto per far sì che la sua apparizione infondesse coraggio nel cuore dei suoi sottoposti. E la sua tattica funzionò egregiamente: non solo i miliziani non indietreggiarono e aspettarono a piè fermo l’attacco della guardia imperiale romea, ma addirittura i transilvani dell’ala destra si scagliarono in una violenta carica contro i varangoi.



Un gesto avventato che venne pagato a carissimo prezzo, giacché i più esperti e temprati soldati bizantini presero rapidamente il controllo dello scontro e solo l’intervento di Sevench impedì che i transilvani andassero in rotta immediata.
Tamponato il problema, per quanto momentaneamente – i varangoi erano stati sì colpiti, ma restavano comunque nettamente avvantaggiati – Sevench decise che era tempo di togliere di mezzo gli arcieri romei e li caricò. Trovò però pane per i propri denti, tanto che fu costretto a ritirarsi per non rimanere invischiato in un pericoloso corpo a corpo. Tuttavia il suo attacco aveva dato modo all’altro gruppo di transilvani di portarsi indisturbati sul fianco della guardia imperiale e di caricarla, generando uno scontro sanguinoso ma che pendeva, seppur a fatica, dalla parte dei kipchaq.
Il comandante di Tirnovgrad, rimasto fino ad allora con gli arcieri, decise che era tempo di spostarsi dove poteva essere più utile; così fece compiere un largo giro ai propri uomini, portandoli infine alle spalle dello schieramento bizantino ed eliminando lungo il percorso quanto restava degli arcieri romei. Sevench, la cui guardia era stata pesantemente decimata, apprezzò lo spirito d’iniziativa del capitano e gli ordinò di investire con una selva di frecce le spalle scoperte dei varangoi, ormai a un passo dal liberarsi definitivamente dei transilvani. A così breve distanza nemmeno una freccia andò sprecata: i bizantini caddero come spighe e con loro cadde anche il sogno di conquistare Tirnovgrad.



Incredibilmente vittoriosi, i kipchaq rientrarono in città fra due ali di folla festante e Sevench si premurò di inviare quanto prima notizie della vittoria a Olese e Sarkel.



La notizia della vittoria di Tirnovgrad, maturata in condizioni così complesse, si sparse come un incendio nelle steppe e infiammò il cuore di ogni kipchaq con un desiderio di rivalsa che poteva essere placato unicamente con il sangue dei romei. Che il loro basileus pagasse per aver osato sfidare la potenza del khanato!



Al di là dei proclami, però, c’era una situazione molto complicata: le spie informavano costantemente di movimenti bizantini ai confini meridionali, con la fortezza di Sardike che veniva potenziata e la città di Adrianoupolis divenuta centro di raccolta di nuove truppe. Le milizie che presidiavano Bulgaria e Dubrodza erano troppo poche, mal addestrate e spaventate dalle voci che continuamente giungevano; peggio ancora, il sistema militare kipchaq era molto diverso nella parte orientale – dove era molto avanzato e imperniato sulla potente rocca di Sarkel – e la parte occidentale, dotata di strutture inadeguate e con la sola rocca di Asperon a fare da centro, pure questa obsoleto e necessitante di ammodernamenti.
Ma il khanzada Konchak Osen non intendeva darsi per vinto a priori: dopo tutto il vantaggio in quel momento era dalla parte dei kipchaq, erano loro che avevano vinto a Tirnovgrad. Così si accordò col fratello per un audace piano, un attacco a tenaglia che mostrasse ai romei come avessero fatto male i propri calcoli e quanto avessero fatto male a svegliare un leone fino a quel momento dormiente. A Tmutarakan un giovane cliente degli Osen, Toksobich, venne incaricato di radunare quante più truppe possibili e di mettere insieme una flotta adeguata al loro trasporto: miliziani e professionisti, kipchaq e appartenenti a etnie sottomesse come khazari e alani vennero uniti in un’unica armata, che nella primavera del 1164 salpò dalla penisola di Taman e fece vela per il sud.
Contemporaneamente la capitale venne spostata a Olese, per far sì che il centro del khanato fosse più vicino al fronte e ordini e decisioni raggiungessero più facilmente i generali impegnati.
Poi nella tarda estate Konchak Osen lasciò Olese alla testa di 4.000 cavalieri, metà dei quali appartenenti al popolo pecenego, che da molto tempo attendeva di poter restituire ai bizantini quanto subito a Beroia. L’avanzata delle truppe kipchaq colse di sorpresa i romei, che non si aspettavano una reazione così rapida: il risultato fu che la città di Adrianoupolis era pericolosamente sguarnita, un fatto di cui Konchak era a conoscenza grazie alle proprie efficienti spie.
Deciso ad approfittare di quell’inaspettato regalo bizantino, Konchak puntò risolutamente sulla città; ma si trovava ancora a una trentina di chilometro quando gli esploratori lo informarono della presenza di una colonna bizantina, quasi certamente fanti inviati a rinforzare la guarnigione della città: 2000-2500 uomini, secondo le stime. E apparentemente ignari della presenza così vicina di un’armata kipchaq.
Era un’occasione irripetibile e Konchak non era uomo da lasciarsela sfuggire: subito ordinò ai peceneghi di dividersi in due grossi contingenti e di aggirare, uno a destra e l’altro a sinistra, la colonna romea; quindi prese il comando di tutta la cavalleria rimasta e si slanciò al galoppo per precedere i bizantini sulla via di Adrianoupolis.
Quello che seguì è ricordato nelle cronache romee come “il massacro di Adrianoupolis” o “il corridoio della morte”, un nome quest’ultimo che i bizantini diedero alla tattica usata per la prima volta in questa occasione da Konchak: due ali di arcieri a cavallo che, tenendosi a distanza e bersagliando con continuità il nemico, lo inducono a proseguire un’avanzata destinata a finire con la tonante carica della cavalleria kipchaq.



La vittoria totale ottenuta dal khanzada aprì definitivamente la via per l’assedio e la conquista della città, operazione apparentemente molto semplice – le truppe di Konchak, rinforzate dai contingenti di Kotian Terter-Oba fino al numero di 9.000 uomini contro i 1.400 difensori, guidati dal synbasileus Andronico Comneno – che venne però complicata dalla strenua resistenza bizantina, in particolare dai corpi di arcieri che provocarono molti lutti nelle file kipchaq.



Tuttavia alla fine dell’autunno Adrianoupolis venne occupata e il vessillo romeo sostituito da quello del khanato.
Khanato che, nel frattempo, aveva colto una brillante vittoria in una zona molto più distante, ai margini orientali del mar Nero. Qua sorgeva la roccaforte di Trapezous, in mano a Bisanzio da secoli e punto nevralgico per il controllo della costa e la salvaguardia dei confini imperiali con il vicino regno di Georgia. Il governatore della piazza, Giovanni Comneno, aveva ricevuto ordine di reclutare soldati e inviarli come rinforzi alla capitale, perché venissero impiegati contro i kipchaq. Tuttavia egli si vide costretto a richiamarli quanto prima quando venne informato che una vasta armata kipchaq era sbarcata a est della rocca e marciava alla sua volta.
Nello scontro che seguì Toksobich si dimostrò cattivo comandante di fanteria, mandando inutilmente parte delle sue truppe a morire sui bastioni difesi dagli esperti e letali arcieri di Morea;



ma mise in luce altresì delle doti come comandante di cavalleria, giostrando le proprie forze con abilità e distruggendo pezzo per pezzo la colonna bizantina dei rinforzi.



Questo permise poi di poter portare un secondo e più convinto assalto alle mura della rocca, un attacco che i difensori non riuscirono a respingere semplicemente perché erano troppo pochi per farlo. Giovanni Comneno morì eroicamente difendendo fino all’ultimo il maschio, ma anche questo sacrificio non poté evitare la caduta di Trapezous.
La perdita della rocca rappresentò un duro colpo per Bisanzio, ma molto peggiore fu l’uso che ne venne fatto dai conquistatori: dopo averla sistematicamente spogliata di ogni cosa utile e di valore, la rocca e il suo territorio venne donato al regno di Georgia per assicurarsene l’alleanza e, in definitiva, lasciare un unico fronte di guerra in cui concentrare tutte le proprie energie.



La perdita di una città come Adrianoupolis era una cosa del tutto inammissibile, tanto più che la sua posizione era troppo vicina alla capitale per non rappresentare una pericolosissima spina nel fianco. Il problema andava risolto subito e a Konstantinoupolis Manuele I Comneno, il grande basileus, convocò uno dei suoi migliori generali, Niceforo Paleologo. Questi apparteneva a una nobilissima famiglia bizantina dalla fedeltà subordinata ai vantaggi che poteva ottenere, ma era un uomo leale e capace, e di lui Manuele si fidava. Per questo gli affidò il comando di un vasto esercito e il compito di riprendere la città perduta e di ricacciare a calci nelle steppe quegli straccioni che avevano avuto l’ardire di sfidare la sua ira.
Quegli “straccioni” nel frattempo non dormivano sugli allori, anzi; Konchak era ben conscio che aveva compiuto un’azione che non poteva che generare una reazione forte da parte di Bisanzio e sapeva bene che uno scontro di vaste proporzioni era molto probabile. Così come era conscio che una sua sconfitta avrebbe generato un tremendo vuoto militare nel khanato, lasciando praticamente sguarnito ogni villaggio, castello e insediamento da Adrianoupolis fino a Olese. Sguinzagliò spie un po’ ovunque e si confrontò diverse volte con Kotian Terter-Oba.



Questi era il figlio primogenito di Sevench, cresciuto e educato ad Azaq quando era la capitale, poi nominato knjaz di Tmutarakan e in questa veste responsabile della crescita demografica ed economica della città dominante la penisola di Taman. Fino a quel momento non aveva messo in luce alcun genere di abilità militare, per quanto di lui si dicesse che fosse un guerriero pronto tanto di mente quanto di braccio: tuttavia Konchak ne aveva fatto il proprio braccio destro, confidando che quel ragazzo di appena 21 anni avrebbe imparato presto e bene.
Le prime avvisaglie delle armate bizantine vennero avvistate sul finire dell’aprile 1165, ma si trovavano ancora a svariati giorni di distanza dalla città e, sulle prime, vennero addirittura scambiate per piccole pattuglie esplorative. Fu solo a maggio che le spie kipchaq riferirono che i Romei marciavano in gran forze e stimavano l’esercito superiore alle 10.000 unità. Konchak Osen aveva all’incirca 8.900 uomini, metà dei quali cavalieri: questo certamente gli dava maggior mobilità, ma rendeva l’esito del probabile scontro molto soggetto alle condizioni in cui questo si sarebbe combattuto. Tuttavia non poteva certo restare rintanato in Adrianoupolis e così il 10 maggio 1165 l’armata kipchaq lasciò la città per andare incontro al proprio destino, vittorioso o meno che fosse.
Avendo imparato dalla campagna dell’anno precedente e dagli errori in essa compiuti, Niceforo Paleologo faceva largo uso di informatori e pattuglie esplorative, cosa che gli permise di essere avvisato per tempo delle mosse del suo avversario. Così decise di costringere il principe kipchaq ad attaccarlo dove voleva lui, lasciandogli pure la mobilità, ma mettendolo costantemente di fronte a una difesa pungente e foriera di disfatta. Si attestò su una piccola collina, protetto parzialmente all’ala sinistra da un mulino diroccato, e schierò le proprie truppe su tre linee: davanti i contingenti di arcieri, fra cui spiccavano quelli di Morea; dietro una lunga linea di lance, il grosso della quali appartenenti alla milizia; e dietro ancora la fanteria d’assalto e la poca cavalleria a sua disposizione.
Due giorni dopo Konchak arrivò dove i romei lo attendevano e si rese conto che la posizione scelta dal suo avversario era complicata da attaccare: un assalto frontale infatti avrebbe esposto le truppe kipchaq a un salasso troppo oneroso, facendole arrivare a contatto in condizioni tali che sarebbero andate in rotta dopo pochi minuti. Una carica di cavalleria, che avrebbe ridotto notevolmente i tempi di esposizione al tiro degli arcieri nemici, era però altrettanto sconsigliabile, in quanto alle spalle degli arcieri dardeggiava un muro di lance che non prometteva certo vittoria e gloria. Bisognava perciò indurre il nemico ad abbandonare la posizione che si era scelto, facendogli commettere un errore che lo mettesse nelle condizioni di essere massacrato dalla cavalleria kipchaq.
Questo difficile compito cadde sulle spalle dei peceneghi che, divisi in due squadroni e sostenuti da un’unità di giavellottisti romei (o traditori, a seconda di come la si vede), vennero inviati a tartassare i fianchi dello schieramento bizantino.



Era però una mossa a cui Niceforo Paleologo era ben pronto a rispondere: ben presto i peceneghi si ritrovarono impegnati in un mortale duello con gli arcieri di Morea ed essendo bersagli più grossi le loro possibilità scemavano rapidamente coll’aumentare delle perdite. Così furono costretti a ritirarsi fuori dalla gittata nemica, rendendosi però a propria volta inutili. Questa ritirata li condusse sostanzialmente alle spalle dello schieramento romeo: potenzialmente una situazione complicata, per Niceforo era un buon compromesso, in quanto gli bastò spostare gli arcieri in terza linea per costringere i peceneghi a stare a distanza. E frontalmente aveva ancora le lance a fare muro.



La situazione era in fase di stallo e fu a questo punto che il comandante del contingente di giavellottisti romei decise di lanciarsi in un attacco personale: scatenò i propri uomini contro un contingente di arcieri, portandosi a distanza ravvicinata e bersagliando con giavellotti il retro bizantino. Se è vero che questo costò ai romei qualche perdita – soprattutto fra le guardie di Niceforo – è altresì vero che tutti i giavellottisti vennero massacrati e l’attacco respinto con facilità. Ancora in fase di stallo, dunque.
Ma quell’azione, tanto temeraria quanto stolta, diede a Konchak un’idea per provare a smuovere la battaglia: inviò un’unità di cavalleria con il compito di caricare alle spalle i romei e seminare un po’ di panico nelle loro fila; quindi convocò Kotian Terter-Oba e gli affidò il comando della fanteria, ordinando gli di avanzare risolutamente verso il nemico e di attaccarlo appena possibile. Egli, dal canto suo, si pose alla testa della cavalleria pesante e si mosse a propria volta verso le truppe di Niceforo Paleologo.
La carica solitaria dei kipchaq venne accolta con raffiche di frecce e dal contrattacco di una compagnia della guardia imperiale;



ma fece guadagnare quel tempo tanto necessario perché il grosso dell’armata si avvicinasse senza subire decimazioni.



Mentre di ritirava il comandante dei cavalieri ordinò al proprio portastendardo di fare il segnale prestabilito ai peceneghi, che attendevano fuori dal tiro degli arcieri romei.
Non appena il segnale venne dato i cavalieri peceneghi appesero gli archi alle selle, impugnarono le sciabole dalla lama ricurva e diedero di sprone, lanciandosi alla carica verso gli odiati nemici, con in testa le storie del vile tradimento e del massacro di Beroia.



Infiammati d’odio, irruppero a valanga sulle spalle dei bizantini poco prima che la cavalleria di Konchak arrivasse all’impatto; e là dove questi ultimi dovevano trovare un muro di lance, i peceneghi portarono la morte e la distruzione.



Ormai attaccati da ogni parte, i bizantini si difesero con coraggio, ma senza speranze: non uno riuscì a fuggire da quella morsa micidiale e non ricevette quartiere. Niceforo Paleologo venne massacrato con tutta la sua guardia e fu Kotian Terter-Oba a abbatterne il vessillifero, evidenziando al mondo che quel giorno era dei Kipchaq.



1.300 uomini caddero in quel giorno di gloria, ma l’intera armata nemica venne distrutta e un segnale tuonante venne inviato fino al palazzo imperiale di Konstantinoupolis.

(di seguito il resoconto tattico per fasi della battaglia. L'area in rosso attorno all'armata bizantina è l'area di tiro degli arcieri romei.










28/06/2011 18:41
 
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Conte



Bella frederick ( come sempre [SM=g27964] ) complimenti!!!

A breve ne voglio iniziare una nuova anch'io che l'altra è andata a farsi benedire [SM=g27970] ...




29/06/2011 14:41
 
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Molto molto bella come AAR, complimenti!! :)

04/07/2011 17:24
 
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La vittoria di Adrianoupolis esaltò l’intero khanato: i romei mordevano la polvere ed era un trionfo kipchaq. Nuove truppe vennero ammassate a Constanta e poi inviate a sud, a rinforzare l’armata vittoriosa. Anche le guarnigioni di Arges e Tirnovgrad ricevettero rinforzi.
Deciso ad approfittare il più possibile della vittoria, Konchak Osen organizzò una serie di veloci raid, per mostrare alla popolazione che ormai il basileus non era più in grado di difenderli. Queste azioni portarono a diversi scontri minori con truppe romee, piccole battaglie che vennero sistematicamente vinte dal khanzada e dai suoi temutissimi cavalieri peceneghi.
Nel corso di uno di questi raid venne catturato un messaggero diretto alla capitale, che recava importanti dispacci di ordine militar-strategico. Da essi Konchak Osen apprese che le armate bizantine a nord erano impegnate a sedare una pericolosa ribellione di serbi e che, quindi, la grande rocca di Sardike era sguarnita: non a caso si richiedevano rinforzi alla capitale. Così, dopo aver affidato il comando e la difesa di Adrianoupolis al fido Kotian Terter-Oba, Konchak Osen mosse alla testa dei suoi cavalieri verso Sardike. La sua del tutto inattesa apparizione sotto le mura della rocca colse i difensori impreparati e Sofya, come oggi è nota, cadde praticamente senza colpo ferire.
Si trattò di una vittoria di grande importanza, che mostrava come il precedente scontro di Adrianoupolis non fosse stato deciso dalla fortuna, come l’impero dei romei fosse debole e claudicante. Una sensazione acuita dalla splendida operazione anfibia condotta dall’armata del capitano Toksobich – che già aveva conquistato Trapezous – che condusse le truppe kipchaq nel cuore della Paphlagonia e all’occupazione della città di Amastris.
A questo punto Sharukan decise che molto era stato ottenuto e che questo andava consolidato nel migliore dei modi, per prepararsi con calma a ricevere degnamente la reazione di una Bisanzio ferita nell’orgoglio. Un’ambasceria venne inviata a Konstantinoupolis per proporre un onorevole trattato ai Romei: i kipchaq avrebbero restituito la Paphlagonia e Amastris e pagato un tributo di 2.500 bisanti per l’anno successivo (in cinque spezzoni da 500 l’uno) e in cambio i romei avrebbero riaperto ogni canale commerciale e si sarebbero impegnati a non intraprendere altre azioni militari contro il khanato per i successivi cinque anni, pena un attacco congiunto. A Sharukan sembrava un buon accordo e, anzi, dopo che l’ambasceria era ormai partita confidò al fratello Ituk che forse era stato troppo buono, che avrebbe dovuto essere più duro e imporre la propria volontà; ma Manuele Comneno lo ritenne più che altro un vero e proprio insulto, giacché rifiutò sdegnosamente ogni accordo e rispedì al khan dei kipchaq la testa dell’ambasciatore come monito a non sfidare oltre la sua ira.
A quella risposta Sharukan fu sentito giurare su Tengri che avrebbe consegnato al dio della morte l’anima nera del romeo arrogante. Ma quest’ultimo sapeva bene cosa fare: inviò rapidamente un’armata contro Adrianoupolis con il compito non tanto di catturare la città, quanto di impedire a Kotian Terter-Oba di muoversi dalla stessa; un contingente marciò su Amastris, difesa da poche milizie e praticamente condannata; soprattutto le due armate del settentrione confluirono verso Sofya, per riprendere il controllo di una posizione così strategicamente importante. Era nuovamente tempo di combattere.



Le operazioni bizantine furono così veloci che Konchak Osen ne venne informato solamente quando le prime avvisaglie delle armate romee furono visibili dall’alto delle torri di Sofya. Per un autentico caso una colonna di cavalleria era arrivata la settimana precedente da Tirnovgrad e quindi il khnazada poteva contare su una forza numericamente consistente e ben equipaggiata, quasi 6.000 cavalli in tutto.



La principale armata bizantina, però, era grande quasi il doppio (9.750 uomini), e per quanto non tutti i suoi effettivi fossero soldati di provata esperienza, poteva rivelarsi un affare complesso da risolvere.
Tuttavia in un primo momento Konchak ritenne più prudente non sfidare esageratamente la sorte e lasciò che Giovanni Angelo-Ducas si accampasse a un miglio circa dalle mura. Inviò un messo verso Adrianoupolis con un dispaccio per Kotian Terter-Oba, chiedendogli di inviare con una certa celerità rinforzi per chiudere in una mortale tenaglia i romei. Il messo arrivò all’indomani di uno scontro in forze che aveva visto i kipchaq prevalere su un’armata bizantina, e si sentì rispondere che purtroppo non un solo uomo poteva essere mandato a nord, giacché i bizantini stavano ammassando pericolosamente truppe ai confini e, pareva, con il basileus in persona al comando.
La notizia non piacque affatto al khanzada, ma passò rapidamente in secondo piano quando un informatore riuscì a raggiungere la rocca e informò che un’armata di 5..000 bizantini stava marciando da Ras per rinforzare Giovanni Angelo-Ducas. Era evidente che la rivolta serba era stata schiacciata e che ora l’Impero stava spostando la sua forza contro l’altro nemico. A questo punto Konchak non poteva più attendere e rischiare di essere stretto nella morsa di 15.000 bizantini, così optò per una sortita.
Ai dreg venne ordinato di creare una testa di ponte appena fuori le mura, tenendo gli avversari a distanza a suon di frecce, dando tempo al resto dell’esercito di assumere la posizione indicata.



Ma Giovanni Angelo-Ducas, non appena comprese cosa stava per fare il suo avversario, ordinò al grosso del proprio esercito di caricare le posizioni nemiche, mentre mandava la propria cavalleria leggera, formata interamente da hippotoxotai, a vessare le ali.



Konchak si ritrovò costretto a ordinare a propria volta ai dreg di impegnare in mischia il nemico, generando un selvaggio corpo a corpo;



con l’arrivo sulla scena degli skoutatoi anche calarisi e peceneghi dovettero lasciar da parte archi e giavellotti e impugnare le spade per dar manforte ai dreg, ormai alle strette. E tuttavia fu necessario l’intervento del khanzada stesso per alleggerire ancora la pressione, che si stava facendo sempre più pesante: i bizantini erano riusciti, pur a prezzo di alte perdite, a togliere ai kipchaq quella mobilità che ne era l’arma principale, bloccandoli in un scontro poco congeniale e con la sicurezza che i rinforzi stavano arrivando; già si vedevano garrire in lontananza gli stendardi, infatti.
Ma Konchak Osen aveva un asso nella manica, una mossa che si era tenuta non per preveggenza – mai avrebbe pensato che gli arcieri della milizia bizantina avrebbero avuto tanto ardore da caricare spada alla mano i suoi dreg! – ma per impostazione tattica della battaglia: mentre lo scontro infuriava, la cavalleria pesante kipchaq era uscita da Sofya dall’altra porta e, avendo fatto finalmente il giro delle mura, si trovava in una perfetta posizione per lanciare una carica devastante. Giovanni Angelo-Ducas si accorse del pericolo e cercò di arginarlo, mettendosi in gioco egli stesso con la propria guardia; ma aveva semplicemente troppo pochi uomini in riserva per poterci riuscire. I cavalieri kipchaq irruppero nelle linee bizantine come la fiamma nei campi, portando la distruzione al loro passaggio;





e il nemico cedette in più punti di schianto, generando un effetto domino che fu solamente ingigantito dalla morte in mischia di Giovanni Angelo-Ducas, raggiunto alla gola da un colpo di spada.





Così, invece di trovare alleati, l’armata bizantina di rinforzo trovò ad attenderla la cavalleria kipchaq e, dopo essere stata presa di mira da dreg e peceneghi, venne travolta anch’essa dalla furia kipchaq e si volatilizzò in breve tempo.



A metà pomeriggio anche l’ultimo bizantino era sparito dalla vista, i fieri destrieri kipchaq erano spossati, le braccia dei soldati ormai pendevano inerti per la fatica. Era una vittoria grande quella che era stata ottenuta, ma il prezzo pagato non era di poco conto: più di 2.000 valenti soldati kipchaq giacevano sul campo, oltre il 40% della forza totale a disposizione del khanzada.


05/07/2011 17:18
 
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Complimenti Frederick! Meno male che con i cumani è abbastanza facile asfaltare i bizantini.. io sto facendo una campagna in parallello alla tua.. e sto provando a reggere i Mongoli.. maledetti loro e le loro frecce all'uranio impoverito!!!! Ho già capito che dovrò regalare l'est ai Rus e andare a trovare quei simpaticoni di Magiari..
[SM=x1140487]
20/07/2011 23:31
 
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Spero di leggere anche il seguito.

21/07/2011 00:26
 
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Arriverà, arriverà....con un po' di calma, ma non intendo assolutamente abbandonare la campagna [SM=x1140443]
29/07/2011 16:59
 
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La vittoria a Sofya permise ai kipchaq di mantenere una posizione strategicamente fondamentale; ma soprattutto generò una vera e propria voragine nelle difese romee, che Konchak Osen si affrettò quanto prima a occupare. Nello stesso 1165 Tolon Kunbek venne inviato con un corpo di cavalleria a razziare l’intero territorio serbo, da poco riconquistato da Bisanzio; l’incapacità romea di difendersi portò i contadini della zona a simpatizzare vieppiù con i kipchaq e a stringere con loro accordi di varia natura, che diedero sicurezza ai prime e informazioni ai secondi. Proprio grazie a questa collaborazione Tolon Kunbek fu in grado di sorprendere il governatore bizantino di Ras e di strappare la fortezza al controllo dei Comneni. Perfino Amastris riuscì a respingere un primo tentativo d’assedio.

Ma la vera mazzata venne inflitta nel 1166 da Kotian Terter-Oba. Dopo Sofya Konchak aveva avanzato profferte di pace a Manuele Comneno, vedendosele respinte come era accaduto a suo fratello; anzi, il basileus aveva lasciato la capitale e si era diretto a Thessalonike per fare della città un centro di raduno di ogni soldato disponibile dalle regioni greche e adriatiche. Approfittando della sua assenza Kotian Terter-Oba lanciò un vasto raid contro le lande attorno alla capitale romea, saccheggiando i villaggi, bloccando le vie commerciali e spingendosi fino a vedere in lontananza le possenti mura di Konstantinoupolis.

Manuele Comneno, avvisato nel corso dell’estate di ciò, decise di rientrare quanto prima e inviò ordini precisi affinché l’armata del capitano Andronico gli venisse incontro. Ma il messaggero venne intercettato dai razziatori peceneghi e il plico del basileus non arrivò mai al capitano Andronico; finì invece a Kotian Terter-Oba, che colse al volo l’occasione. Nell’ottobre 1166 Manuele Comneno cadde in un’imboscata e venne ucciso assieme al nobile Costantino Paleologo e a tutta la sua guardia.







La morte di Manuele venne vista in tutto il khanato come un grande trionfo e Konchak, convinto che il nuovo basileus avrebbe avuto più senno e meno vano orgoglio del suo predecessore, tornò ad avanzare profferte di pace. Tuttavia Michele Paleologo era tutto fuorché interessato a stringere trattati di alcun genere con coloro i quali gli avevano ammazzato diversi parenti; inoltre una rivolta ad Amastris riconsegnò la città ai bizantini e questo indusse il nuovo basileus a proseguire la politica di Manuele.

Fra il 1166 inoltrato e il 1168 l’intera area balcanica venne spazzata da venti di guerra, con armate che andavano e venivano, villaggi che bruciavano, cadaveri che imbiancavano al sole, urla di morte nell’aria.





Adrianoupolis venne attaccata a ripetizione e Kotian Terter-Oba si creò una fama di grande comandante per la strenua difesa che fece sia della città che dell’area circostante, assicurando continui contatti con Sofya a settentrione. I peceneghi di stanza nella città dovettero confrontarsi perfino con i temutissimi Hetairoi, i cavalieri della guardia del basileus, che pur in netta inferiorità numerica, andarono nel corso della battaglia combattuta nel 1168 a un passo dal far crollare l’ala sinistra kipchaq, cosa che venne impedita unicamente dal tempestivo intervento di Kotian in persona.







Tuttavia la situazione generale non andava a favore di un impero romeo orgoglioso, combattivo, ma ormai a corto di uomini e mezzi. Nel 1167 il khanato kipchaq arrivò a un accordo di alleanza con la Repubblica di Venezia, assicurandosi ulteriore tranquillità alle frontiere settentrionali. Soprattutto Konchak Osen sposò la bellissima Elisabetta Arpad, figlia di Geza II, sovrano d’Ungheria, un matrimonio che univa strettamente i due popoli e faceva cadere qualunque possibilità di un accordo fra magiari e bizantini.

Nel corso del 1168 il sultanato di Rum attaccò a sorpresa Amastris, riuscendo a conquistarla e l’anno dopo le armate dell’Islam assediavano Nikaia.

Nello stesso 1168 il khanato si impadroniva anche della rocca di Orsova, ribellatasi tempo prima ai magiari, e occupò con un audace raid navale la città di Chandax e in breve l’intera isola di Creta: la flotta bizantina riuscì ad avere la meglio sulla controparte kipchaq, ma non a impedire che questa prima sbarcasse le truppe che aveva trasportato.



Nel marzo 1169 si spense Sharukan Osen, khan dei Kipchaq. Dalla sua fortezza di Sarkel – dalla quale non si era mai mosso – aveva saputo gestire uno stato molto esteso e dilaniato da rivalità tribali tutt’altro che sopite, portandolo a diventare un’entità potente, temuta e rispettata, capace di confrontarsi da pari a pari con i Romei, ottenendo frequentemente la vittoria. Morì senza essere riuscito a realizzare il suo sogno, quella conquista di Maghas e dell’Ossezia che il giovane Lavor dei Rus avrebbe avviato un mese dopo.



Alla guida del khanato assurse Konchak Osen, certamente l’uomo più indicato per condurre i kipchaq a nuove vittorie.
Il suo primo atto fu quello di nominare l’anziano Sevench Terter-Oba reggente, in attesa che Elisabetta gli desse un erede. Poi si concentrò su come costringere l’imperatore romeo ad accettare una pace di cui chiaramente il suo regno aveva bisogno anche se egli faceva di tutto per non rendersene conto. Era evidente che allo stato attuale il romeo si considerava abbastanza forte da resistere e che, dunque, riteneva la pace un’umiliazione. Così Konchak stese un piano per ridurre con la forza a più miti consigli l’arroganza romea.

Nella primavera del 1169 due armate mossero da Ras, una puntando verso Ragusa, l’altra verso Dyrrachion. Una terza, guidata da lui in persona, lasciò Sofya e puntò a sud su Thessalonike, mentre a Chandax si facevano preparativi per un eventuale raid contro le coste meridionali della Grecia se queste fossero rimaste troppo sguarnite.
Ma i romei, pur ridotti allo stremo, si dimostrarono una volta di più tenaci e subdoli. Se da un lato né Athenai né Monemvassia vennero sguarnite al punto da poter essere prese con un raid, dall’altro il nobilotto che guidava le truppe dirette a Dyrrachion si lasciò corrompere dalla malia dell’oro romeo e disertò, lasciando i suoi uomini senza guida e alla mercé del nemico.

Inoltre l’armata inviata verso Ragusa, che era composta da tre compagnie di fanti croati e due di arcieri balcanici, spalleggiati da uno squadrone di calarisi e guidati da Tetrobich Kumcheg, scoprirono che la guarnigione della città non era, come avevano riferito gli informatori, fatta da miliziani, ma annoverava un battaglione di varangoi e uno di skoutatoi, accompagnati da un contingente di arcieri di morea e da una compagnia della guardia imperiale. Oltre a qualche miliziano croato.

Tuttavia, come detto, l’impero era troppo debole per poter approfittare di un attacco condotto sulla base di informazioni lacunose e le singole guarnigioni dovettero cavarsela per conto proprio. Certamente quella di Ragusa si comportò degnamente e, tentata la sortita, costrinse i kipchaq a una battaglia quanto mai complicata a livello tattico. Purtroppo Tetrobich Kumcheg si rivelò un decente stratega: utilizzò i calarisi per stornare l’attenzione dei varangoi e si occupò personalmente di ridurre le fila della fanteria nemica con un paio di cariche mordi e fuggi ben assestate;



quindi mandò uno dei tre contingenti di croati a impegnare frontalmente la controparte, mentre gli arcieri balcanici si scambiavano salve con gli avversari.





Questo scontro, così incerto, indusse i bizantini a far intervenire la guardia imperiale per far pendere dalla loro la bilancia; e a gettarsi inconsapevolmente nella trappola tesa da Tetrobich. Infatti il comandante kipchaq ordinò agli altri due contingenti croati di scivolare sulle ali e di caricare all’unisono la guardia, prendendola a tenaglia. L’attacco, violentissimo, si rivelò devastante e dissolse più di metà della guardia al primo impatto, lasciando il resto dei soldati in una situazione troppo complicata.





Bastarono un paio di altre cariche a scompaginare gli arcieri per chiudere vittoriosamente la giornata.

Egual sorte, ma con molti meno problemi, ebbe Dyrrachion. Dopo il tradimento della prima spedizione, il khanzada Sevench Terter-Oba ne mise rapidamente in piedi una seconda e con questa marciò sulla città, difesa unicamente dal synbasileus Giovanni Comneno. Che ovviamente poco poté quando i kipchaq attaccarono.

Boccone un po’ più grosso si rivelò Thessalonike, in quanto i bizantini cercarono in tutti i modi di preservarla; ma avevano contro il miglior esercito kipchaq di tutti i Balcani, guidato dal miglior generale del khanato; e in una serie di sanguinosi scontri ogni tentativo romeo fallì e nel 1171 la città si arrese.











La vittoria, che spaccava in due l’impero bizantino e consegnava di diritto il dominio sui Balcani ai kipchaq, venne festeggiata a lungo e allietata dalla notizia che la regina Elisabetta aveva partorito il tanto agognato erede, a cui era stato posto nome Gza.



Ci rivediamo a settembre con il proseguio! [SM=x1140443]
29/07/2011 19:49
 
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Bellissima campagna!! ci sono le premesse per creare un grande impero
aspetterò con impazienza settembre per assistere alle prossime imprese del khan [SM=x1140485]
30/07/2011 11:34
 
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campagna stupenda! come e sempre! ;) ps ma ke diamine è successo ai crociati?!!
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Bernhard Rothmann (Munster, 13 Gennaio 1534) :i vecchi credenti non vogliono permettere a nessuno di scegliere quale vita condurre, vogliono che voi lavoriate per loro e siate contenti della fede che vi consegnano i dottori. la loro è una fede di condanna, è la fede spacciataci dall'antiscristo! ma noi, fratelli, noi vogliamo redenzione! noi vogliamo libertà e giustizia per tutti! noi vogliamo leggere liberamente la parola del signore e liberamente scegliere chi deve parlarci dal pulpito e chi rappresentarci in consiglio! chi infatti decideva i destini della città prima che lo scacciassimo a pedate? il vescovo. e chi decide ora? i ricchi, i notabili borghigiani, illustri ammiratori di lutero solo perchè la sua dottrina consente loro di resistere al vescovo! e voi, fratelli e sorelle, voi che fate vivere questa città, non potete mettere parola nelle loro sentenze. voi dovete soltanto ubbidire, come sbraita lo stesso lutero dalla sua tana principesca.i vecchi credenti vengono a dirci che i buoni cristiani non possono occuparsi del mondo, che devono coltivare la loro fede in privato, seguitando a subire in silenzio i soprusi, perchè tutti siamo peccatori condannati a espiare. ma il tempo è giunto! i potenti della terra saranno spodestati, i loro scrani cadranno, per mano del signore. cristo non viene a portarci la pace, ma la spada. le porte sono ora aperte per coloro che sapranno osare. se penseranno di schiacciarci con un colpo di spada, con la spada pareremo quel colpo per restituirne cento!!!
30/07/2011 11:45
 
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Oltre ai complimenti, inutil anche che te li faccia ormai ci conosciamo [SM=g27964]

perché li hai chiamati i signori della steppa se sei arrivato ormai a costantinopoli? [SM=x1140520] [SM=x1140520]

mi sarei aspettato una buona campagna tra le steppe [SM=g27980]

ma strategicamente ovviamente queste sono le mosse giuste cn i cumani

devi continuare!!




30/07/2011 13:56
 
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Romolo Augustolo, 30/07/2011 11.34:

ps ma ke diamine è successo ai crociati?!!



Diciamo che la situazione in Oriente è calda e continuamente mutevole, ci saranno sviluppi decisamente interessanti nell'area [SM=g27960] Anche se la zona con la maggior sorpresa non è affatto quella....la verità alla prossima cartina!
08/09/2011 16:40
 
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Nonostante la pesante serie di sconfitte i bizantini non erano però intenzionati a cedere. Anzi, si impegnarono per fortificare al meglio tanto la Grecia quanto la capitale, la cui difesa venne assunta dal basileus Giorgio Paleologo in persona.
Dal canto Konchak si riteneva di diritto il signore dei Balcani e il suo carattere irruento non accolse troppo bene le notizie sui movimenti romei: subito ordinò che venissero approntate spedizioni per strappare loro le roccaforti di Naupaktos e Monemvassia; inoltre inviò un rapido corriere a Adrianoupolis, con l’ordine esplicito per Kotian Terter-Oba di attaccare la possente capitale romea se ne avesse avuto l’occasione.
Attaccati da tutte le parti le guarnigioni romee poterono solo opporre una debole resistenza e in breve l’intera area greca passò sotto il controllo dei vittoriosi kipchaq.



Poi, finalmente, Kotian Terter-Oba vide l’occasione e lanciò un massiccio attacco contro la capitale bizantina. Il basileus, deciso a ottenere almeno un alloro sul campo di battaglia, guidò le proprie truppe allo scontro frontale. Fu una battaglia dura e cruenta, in cui entrambi i generali non si risparmiarono, dando ogni stilla di energia e sangue pur di ottenere la vittoria finale. E la battaglia fu decisa in modo singolare, da autentico poema cavalleresco: Giorgio Paleologo e Kotian Terter-Oba a un certo punto si scagliarono l’uno contro l’altro, impegnandosi in un mortale duello sotto gli occhi dei rispettivi soldati.







La prima spada a colpire a fondo fu quella del kipchaq e la fine del basileus comportò la fuga di quanto restava dell’armata romea e la dissoluzione di ogni difesa di Konstantinoupolis, in cui il vittorioso Kotian Terter-Oba entrò all’inizio del 1173.





Informato del trionfo, Konchak Osen lasciò l’area greca sotto il controllo del proprio anziano erede Sevench Terter-Oba e marciò con le migliori truppe fino al Bosforo, per congratularsi personalmente con l’uomo che aveva avuto ragione delle mura che per oltre cinque secoli avevano bloccato qualunque attacco. Ma arrivato a Konstantinoupolis ebbe l’amara sorpresa di scoprire che i bizantini, più testardi di una mandria di muli, rifiutavano le magnanime offerte di pace avanzate dai kipchaq e che il nuovo basileus, appartenente alla famiglia dei Mavrodoukas, stava ammassando truppe a Nikaia. Profondamente irritato, il khan decise che era tempo di usare la mano davvero pesante: nell’aprile 1174 sbarcò con un poderoso esercito sulle coste dell’Asia Minore e puntò risoluto su Nikaia. La città venne stretta d’assedio e dopo sole due settimane Konchak Osen comandò un attacco con scale e arieti, per risolvere il prima possibile la questione.
Le milizie bizantine, incoraggiate dal basileus, fecero quanto potevano, ma non riuscirono a impedire alle truppe professionali dell’armata del khan di sfondare e sciamare nella città. Nikaia venne sottoposta a un atroce saccheggio, la popolazione passata a fil di spada, il Mavrodoukas sgozzato e esposto a perenne monito. A questo punto, con le lame delle spade ancora lorde di sangue, i kipchaq inviarono una nuova offerta di pace. I Bizantini, ridotti alla pallida ombra di quello che erano solo dieci anni prima, sconvolti dal fato di Nikaia e con i Turchi di Rum in piena offensiva, finalmente cedettero. Il trattato di pace venne ufficialmente firmato davanti alle rovine di Nikaia, che tornava possesso di Bisanzio. Due settimane dopo Konchak Osen sbarcava a Istanbul assoluto vincitore e l’eco del suo trionfo (nonché della sua sanguinarietà) fece rapidamente il giro d’Europa.



La vittoria contro Bisanzio, sancita davanti al mondo intero col trattato di Nikaia, chiuse un’epoca. Il khanato dei Kipchaq usciva da questi dieci anni pesantemente rafforzato, padrone incontrastato di tutti i Balcani e con una floridezza economica in crescita esponenziale. Le frontiere settentrionali erano tranquille e i vicini – il regno magiaro e la repubblica di Venezia – erano entrambi legati da trattati di alleanza col khanato. Più a oriente il potente stato rus era impegnato in una lunga guerra con il regno di Polonia, e comunque era da tempo immemore un alleato fedele. Konchak Osen si trattenne alcuni mesi a Istanbul, per dare un ordinamento alle recenti conquiste e pianificare una politica economica da tempo di pace. Le ingenti forze armate del khanato cominciarono ad essere distribuite sul vasto territorio controllato, con guarnigioni più forti nei punti strategici.
Ormai privo di nemici esterni, il khanato pareva andare incontro a un lungo periodo di pace. Ma purtroppo questa situazione non doveva durare tanto. Infatti un nemico stava tramando all’interno, direttamente nella capitale del khanato. Kotian Terter-Oba, l’uomo che aveva validamente difeso Adrianoupolis da ogni tentativo bizantino di riprenderla, l’uomo che aveva sconfitto ben due basileioi e, infine, colui al quale le mura di Konstantinoupolis non avevano saputo offrire degna resistenza era rientrato a Olese nel 1173, accolto con onori più adeguati a un dio che a un semplice mortale. Questo, lungi dall’appagarlo, ne aveva invece fatto crescere l’ambizione, un desiderio di potere e gloria personale che egli riteneva negato dal clan degli Osen. Come se questo non fosse sufficiente, Kotian era caduto nella nemmeno troppo velata trappola amorosa di una nobildonna georgiana, ambasciatrice del suo paese presso la corte kipchaq. Questa infuocata relazione aveva infine convinto il nobile a imbastire una congiura che aveva come scopo quello di rovesciare gli Osen, massacrandoli tutti, e insediare il proprio clan al loro posto. Con, ovviamente, l’influenza della nobiltà georgiana alle spalle.
Ma Kotian Terter-Oba, che pure aveva preso tutte le precauzioni necessarie a non essere scoperto fino al momento di colpire, aveva nella sua arroganza dimenticato che la caduta di Konchak Osen non avrebbe comportato solo la fine della potenza del clan, ma anche messo in pericolo il giovane principe, all’epoca di appena tre anni. Fu una damigella della regina a scoprire, in modo casuale, cosa tramava il potente Terter-Oba; e Elisabetta comprese subito quale pericolo mortale si stesse addensando sulla propria famiglia e informò immediatamente il marito, che ancora si trovava a Istanbul.
Nella fredda notte del 9 dicembre 1175 truppe fedeli agli Osen circondarono la capitale e uomini inviati appositamente dal khan iniziarono ad arrestare i sospettati di far parte della congiura. Kotian Terter-Oba, allertato da uno schiavo fedele, riuscì a eludere la sorveglianza e fuggì dalla città assieme alla sua georgiana e a pochi cavalieri che gli avevano giurato eterna lealtà, lasciandosi alle spalle alcune sentinelle uccise. Ben presto si accorse che non poteva dirigersi verso oriente e la salvezza rappresentata dalle pur lontane terre di Georgia, non sarebbe mai riuscito a sgusciare fra gli accampamenti militari senza essere avvistato; inoltre né il governatore di Saqsin – che era un Kunbek – né quello di Tmutarakan gli erano fedeli; e quest’ultimo, Zehyan del Kirghiz, avrebbe anzi potuto cercare di farsi un nome con la sua cattura. Così puntò verso nord, sperando di poter ottenere asilo o dai Rus o, meglio ancora, ai Polacchi.
Ma la sua fuga non durò a lungo ed egli venne intercettato dalla cavalleria kipchaq meno di dieci giorni dopo, mentre avanzava faticosamente verso il confine settentrionale. Riportato in catene a Olese, Kotian Terter-Oba ebbe ancora tempo di assaggiare l’ira di un khan ferito: venne infatti impalato nella pubblica piazza e il suo corpo smembrato venne inviato ai quattro angoli del khanato, perché tutti sapessero cosa accadeva a chi osava sfidare il suo signore.
Mentre i suoi sottoposti sistemavano l’infame traditore, Konchak Osen stava facendo vela per quella che un tempo era conosciuta come Colchide; se lo scoprire che un uomo come Kotian aveva tramato contro di lui era stata una pugnalata profonda – tanto da farlo, nella solitudine delle sue notti, piangere – la notizia che a spalleggiarlo c’erano i presunti alleati georgiani aveva dato al khan furente un perfetto bersaglio sui cui sfogare la sua ira. Sapeva poco della situazione interna della Georgia – che si estendeva dall’Abkhazeti lungo tutto il Caucaso meridionale fino a Ganja, con un caposaldo avanzato in Armenia, ad Ani – e ancor meno sulla forza e qualità del suo esercito. Ma non gli importava affatto. Aveva al suo comando un’armata di professionisti temprati da mille scontri, uomini che avevano lottato al suo comando contro l’elite degli eserciti imperiali romei, uomini che avevano più volte visto in faccia la morte e che ora la guardavano non già come una nemica, ma come un’alleata che combatteva al loro fianco, dando forza ai loro fendenti e rendendo più precise le loro frecce. Una seconda armata era stata mobilitata fra Sarkel e Tmutarakan, una terza si preparava a marciare da Maghas verso i valichi del Caucaso: presto i georgiani avrebbero conosciuto in pieno ciò che Kotian aveva appena assaggiato nei suoi ultimi istanti di vita: l’ira del khan!



Forse il sovrano di Georgia avrebbe dovuto immediatamente tentare qualche mossa diplomatica; ma la verità è che non ne ebbe materialmente il tempo. La notizia dell’esecuzione di Kotian Terter-Oba era appena giunta a Sokhumi quando le vedette portuali avvistarono una vasta flotta battente bandiera kipchaq al largo. Alcune ore dopo le navi iniziarono a vomitare torrenti di uomini sulle spiagge a nord della città e in breve tempo le forze kipchaq erano troppo superiori di numero perché la guarnigione della città potesse fare qualcosa. Messi vennero diramati per tutto il regno, ma il destino di Sokhumi venne sigillato nel momento stesso in cui fu cinta d’assedio: la Georgia non disponeva di forze sufficienti per mettere insieme un’armata di soccorso adeguata a scontrarsi coi veterani di Konchak e, soprattutto, praticamente da ogni avamposto del Caucaso arrivavano notizie di minacciosi movimenti nemici.
Dal canto loro i kipchaq si presero tutto il tempo di cui abbisognavano per costringere Sokhumi a una incruenta resa per fame, una tattica che li portò a qualche piccola scaramuccia con isolati reparti e che diede tempo ad altre armate kipchaq di arrivare nel teatro delle operazioni. Nell’inverno 1177, dopo quasi un anno di blocco, il re di Georgia non poté fare altro che arrendersi e affrontare Konchak Osen: il quale dimostrò di non aver del tutto sbollito la sua rabbia facendolo decapitare sui due piedi.
L’esecuzione del sovrano indusse i georgiani a reagire con una serie di operazioni militari, principalmente incentrate sulla grande rocca di Kutaisi. Che ovviamente divenne il principale obbiettivo dell’offensiva kipchaq del 1178.
Konchak Osen lasciò una piccola guarnigione a Sokhumi e marciò lungo la costa verso il fortilizio avanzato di Batumi, dove Vakhtang Bagration stava ammassando truppe; contemporaneamente Zeyhan del Kirghiz, assunto il comando dell’armata di Maghas, passò il Caucaso e puntò risolutamente su Kutaisi istessa.



La rocca era difesa dai 6.500 uomini del principe Kirkish, un esercito composto da un buon nucleo di fanteria e di arcieri, sostenuta da ampi squadroni di mercenari peceneghi e con una discreta forza di cavalleria pesante, quasi tutta a contorno del principe e del castellano di Kutaisi. L’assenza dei temibili cavalieri Monaspa, vanto dell’esercito georgiano, era da imputarsi al fatto che Vakhtang li aveva requisiti quasi tutti per l’armata con cui intendeva riprendere Sokhumi. Armata che Konchak Osen stava per imbottigliare a Batumi.
Comunque la forza a difesa di Kutaisi non era indifferente, benché Zeyhan avesse il vantaggio del numero: la sua armata, composta in prevalenza da truppe khazare e peceneghe, era forte infatti di quasi 10.000 uomini; soprattutto possedeva quegli squadroni di cavalleria pesante di cui il nemico difettava pericolosamente.



E infatti su questo aspetto si giocò la battaglia: l’armata georgiana si dispose in modo tale da poter subito costringere il nemico a mettersi a portata di tiro e i duelli fra i peceneghi infiammarono le prime fasi dello scontro.





Mentre i dardi volavano da ogni parte, la fanteria georgiana avanzò e attaccò con foga la linea dei lancieri khazari, che però resse benissimo e non cedette un metro di terreno.





A questo punto i georgiani non avevano ancora utilizzato solamente le guardie del principe e del castellano, mentre Zeyhan poteva contare su ben quattro squadroni di cavalieri khazari al massimo della forma; inoltre i peceneghi al servizio della Georgia erano pesantemente in inferiorità numerica e la cosa cominciava a farsi sentire.





L’ingresso nella battaglia dei khazari rappresentò l’inzio della fine per i pur coraggiosi georgiani: attaccati da ogni lato e sempre di meno, resistettero finché il cuore e l’incitamento di Kirkish lo permisero; poi cedettero di schianto e l’intera armata si dissolse.





I numeri della disfatta si rivelarono catastrofici per la Georgia: 6.000 fra caduti e prigionieri, il principe ucciso nelle fasi finali dello scontro, il castellano ridotto a un puntaspilli, la rocca di Kutaisi quasi priva di ogni difese e le forze di Vakhtang, già in una situazione spinosa, tagliate fuori da ogni possibile aiuto.



Tuttavia le forze kipchaq non riuscirono ad impadronirsi della rocca, giacché il coraggioso Jirar Bagration – fratello dell’appena diventato principe Vakhtang – riuscì a far passare fra le linee nemiche un corpo di soldati, fra cui due squadroni di Monaspa, e a raggiungere per primo Kutaisi. Fu uno smacco piuttosto evidente, che Konchak Osen cancellò nel sangue georgiano a Batumi, quando Vakhtang ebbe la malaugurata idea di tentare una sortita e sprecò tutta la sua cavalleria nell’inutile tentativo di spezzare le linee nemiche, esponendo il fior fiore della nobiltà di Georgia alle micidiali raffiche di frecce dei peceneghi e – incredibile a dirsi – agli attacchi mordi e fuggi della cavalleria leggera alana, che compì autentiche stragi. Konchak non dovette nemmeno far intervenire la sua guardia personale, la Guardia del Khan, per vincere lo scontro.







A questo punto i georgiani provarono a chiedere la pace, ma davanti alle richieste di Konchak – la cessione di Kutaisi e un giuramento di vassallaggio – rifiutarono e decisero di proseguire la lotta. Nuove truppe vennero ammassate a Tbilissi, per poi farle correre in soccorso di Kutaisi ormai assediata. Ma l’insipienza dei comandanti georgiani rallentò le operazioni a tal punto che Jirar Bagration si vide costretto a tentare una disperata sortita per non morire d’inedia. Dei suoi 3000 uomini nessuno rientrò nella rocca, ma un numero quasi uguale di kipchaq e khazari rimase sul terreno e la conquista di Kutaisi si rivelò un affare estremamente sanguinoso.









Un sangue col quale però Konchak ottenne ciò che voleva: infatti i georgiani si piegarono e giurarono in massa fedeltà al khan.

Ed ecco la situazione internazionale al 1181:


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