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FRAMMENTARIETA' O UNITOTALITA' ?

Ultimo Aggiornamento: 23/01/2011 22:33
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23/01/2011 22:20
 
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(di Mons.Biffi)

A ben guardare, il nostro disagio nasce dal fatto che non solo di complessità molte volte si tratta, ma anche di eterogeneità: le voci che risuonano nei moderni areopaghi sono spesso del tutto estranee tra loro e incomunicabili, sicché il dialogo - da tutti invocato - quando non è superficiale e retorico, è senza approdi gratificanti.

È notevole che si tratta, per così dire, di una "eterogeneità soddisfatta". È una confusione delle lingue dove tutti sono benvenuti. Quanto più eterogeneo è il multiloquio, tanto più appare esaltato e si radica nelle coscienze il solo assioma che nessuno oggi contesta - una specie di verità di fede senza Rivelazione - e cioè la "relatività assoluta" (per così dire) di ogni affermazione e la certezza dell'impossibilità a raggiungere delle vere certezze.

In questo affollato circolo culturale - dove più gente entra più lo spettacolo si fa agli occhi di molti piacevole e interessante - i soli a non essere graditi e a venire guardati con sufficienza, perché ritenuti intolleranti e dogmatici (e quindi impresentabili nella società moderna e postmoderna), sono quelli che contestano la "verità di fede" di cui si parlava e rifiutano l'indiscutibilità delle premesse relativistiche e scettiche.

Quanto ai dogmatismi, sarebbe onesto riconoscere che ciascuno ha i suoi, e li ritiene indiscutibili, mentre biasima fieramente quelli degli altri. In realtà, senza qualche certezza preliminare e fondante, non si può dire alcunché, neppure la tavola pitagorica; non si può scrivere neppure il sillabario.

Una differenza sostanziale però c'è tra i così detti dogmatismi: ci sono certezze che, appoggiate sul niente, avviano l'uomo al niente; e ci sono certezze che provengono dall'Essere che si manifesta, e guidano verso la vita eterna.


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23/01/2011 22:21
 
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Una causa ancora più profonda del malessere del nostro tempo sta nel fatto che, nella generale diversità dei pareri, ci sono in particolare modi disparati e anzi opposti nell'affrontare la "molteplicità delle cose".

Il problema è antico; anzi, accompagna dall'inizio la storia del pensiero.

Sotto un certo profilo, si può dire che la filosofia è consistita per larga parte nei tentativi di oltrepassare, unificandola in qualche maniera, la pluralità degli esseri, così da preservare l'uomo dal disagio della dispersione e dello smarrimento.

Mi par di ricordare che qualche volta il superamento della molteplicità è avvenuto addirittura con la sua negazione: a cominciare da Parmenide, fino a Spinoza e, in tempi a noi vicini, nell'attualismo idealistico gentiliano e, con cifra contraria, nel monismo materialistico.

Nell'ambito della filosofia cristiana - nutrita di tutti i guadagni del platonismo, dell'aristotelismo e del neoplatonismo - la soluzione è stata invece cercata nell'affermazione di un Essere assoluto e totalizzante, verso il quale i molteplici esistenti - pur esistendo realmente, sia pure in forma analogica - sono delle pure relazioni, non sommabili ad esso.

Ma in questa vicenda compaiono ogni tanto anche quelli che si accontentano della frammentazione, e anzi ritengono che il "frammento" sia il solo oggetto concreto della nostra attenzione. Perciò, sdegnando di prendere in considerazione qualunque ipotesi unificatrice dei fenomeni che non sia non parziale, studiano ad uno ad uno i singoli elementi, i singoli fatti, le singole realtà.

Secondo questo modo di vedere - che è largamente presente anche nella mentalità scientista - per comprendere utilmente e adeguatamente un dato, bisogna prenderlo per se stesso, isolandolo e ignorando le sue estrinseche relazioni. Questa - dicono - è la sola forma conoscitiva non illusoria; ogni altra è un'astrazione senza valore.

In un simile contesto, la filosofia finisce col non avere altri compiti se non quelli della chiarificazione e della corretta analisi del linguaggio.

È un atteggiamento che si riscontra nelle varie proposte positivistiche e in quel filone dell'esistenzialismo che rifiuta di coniugarsi con lo spiritualismo.

Ma davanti a questa accettata frammentazione della realtà, le reazioni dell'uomo sono fatalmente di angoscia - l'angoscia dell'esserci (Heidegger) - o di nausea - la nausea del percepirsi contingente (Sartre) - perché a ritenersi immersi e confusi in un'accozzaglia di rottami noi ci sentiamo in esilio e come alienati.

La straordinaria novità di questi ultimi decenni è invece la scomparsa del dramma: non c'è più angoscia e non c'è più nausea. Col così detto "pensiero debole" siamo arrivati a una frantumazione compiaciuta e giuliva.

Sicché c'è quasi da auspicare un po' di tristezza e un po' di disperazione: potrebbero diventare l'amara ma salutare premessa di redenzione del pensiero contemporaneo.


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23/01/2011 22:22
 
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Ritengo che tutti - credenti o non credenti - possiamo convenire che c'è davanti all'uomo che pensa un dilemma ineludibile.

O l'universo è costituito da una congerie di singolarità, ciascuna delle quali sussiste senza necessari legami con il resto della realtà, oppure è un tutto compaginato e unificato in un disegno, al quale le cose - tutte e ciascuna - sono intrinsecamente ordinate.

Nel primo caso ogni creatura - cioè ogni essere, ogni esperienza, ogni accadimento - è veramente e compiutamente se stessa quando è sciolta da ogni connessione e difesa da ogni condizionamento, sicché è da ritenere che qualsivoglia sopraggiunta relazione alteri l'identità originaria e attenti o rischi di attentare al bene supremo dell'individualità, a meno che non sia superficiale ed esteriore.

Nel secondo caso ogni creatura - cioè ogni essere, ogni esperienza, ogni accadimento - quando è sottratta al concerto degli esseri non è più se stessa in senso vero e compiuto e, una volta avulsa, si snatura, perché la connessione e l'inserimento entrano a costituire la sua natura e a determinare il suo significato.

L'uomo si attiene necessariamente all'uno o all'altro corno del dilemma e ne fa la ragione ispiratrice del suo comportamento: o tende a lasciarsi prendere dall'individualismo più coerente (e quindi più arido) e dal piacere di rovesciarsi e disperdersi interamente nella molteplicità (cioè nella frantumazione), o trova nella comunione, nel raccoglimento e nella sintesi (vale a dire, nell'amore) la legge della propria esistenza.

Il primo atteggiamento, a ben guardare, fa credito all' "assurdo"; cioè alla contraddizione di istituire rapporti con le singole realtà, negando la realtà (o almeno la valenza e il senso) di ogni rapporto. Il secondo atteggiamento fa credito al "mistero": cioè all'esistenza di una realtà concreta e universale, non percepibile come tale, nella quale tutti i frammenti si compongono e si unificano come elementi di un solo progetto.

A indicare la portata e la rilevanza della seconda scelta - quella in cui l' uomo può sperare di salvarsi - mi avvalgo adesso del termine di "unitotalità" (vseédinstvo), caratteristica della riflessione di Vladimr Sergeevic Solovev.

Questa parola - che i nostri vocabolari non registrano - ci dice che tutto ciò che è, a misura che è veramente, entra in unità con quanto esiste. L' "unitotalità" è dunque la forma della verità dell'essere; e pertanto le cose separate - considerate proprio come separate - non sono "vere". Il male è perciò essenzialmente divisione e separazione, perché è decadenza dalla "unitotalità".

A questo punto si capisce - se non ci si accontenta delle espressioni superficiali - che tutto questo ragionamento più che offrire delle asserzioni si risolve in una richiesta: l'uomo cerca e postula che ci sia un principio unificante di tutto, diversamente tutto si spezzetta e si banalizza ; ed egli si sente scompaginato e perso.

L'evento cristiano è appunto la risposta di Dio a questa fondamentale domanda dell'uomo. La risposta è la realtà di Gesù Cristo, "nel quale tutte le cose sussistono" (Col 1, 17).

Gesù è l'unico Salvatore del mondo, ieri, oggi e sempre, proprio in quanto è il principio compaginatore di tutto ciò che esiste e il senso onnicomprensivo di tutto ciò che avviene: "In Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra" (Col 1, 16).

* * *

Pensare è faticoso e talvolta è addirittura spossante, anche perché è molto di più ciò che non si capisce di ciò che si arriva a capire. "Hanc occupationem pessimam dedit Deus filiis hominum, ut occuparentur in ea" (Eccle 1,13), dice il Qoelet , sempre incoraggiante.

"Occupazione pessima", ma ci viene da Dio; e, se si conserva illibata l'onestà intellettuale, porta immancabilmente a Dio. Pensare è, come si è visto, più che altro indagare; è più che altro anelare alla verità; è più che altro implorare la luce. Pensare, in fondo, è pregare.

Pensando, imploriamo una luce che ci è già stata donata, come dice il Prologo di Giovanni : "Venne la luce vera, quella che illumina ogni uomo" (cf Gv 1, 9).


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23/01/2011 22:33
 
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Vladimir S. Solov’ëv (1853-1900), che per primo ha ultilizzato il termine "UNITOTALITA' " è un pensatore-mistico-poeta di origine russa che ha saputo mostrare, unitamente ad un’eccezionale intensità e profondità di visione, una straordinaria universalità di interessi e contenuti. Personalità ‘unitotale’ ha sempre cercato nell’unità tra pensiero e vita, la sintesi tra ideale e reale, infinito e finito, eterno e tempo. Spaziando in ogni campo dello scibile, ha studiato con rigore e passione la filosofia e la teologia, le scienze e le arti, l’occidente e l’oriente, l’antichità e i Padri greci e latini, la modernità e le sue derive. Si è impegnato concretamente per l’unità tra le diverse Chiese cristiane ed è morto pregando in ebraico per gli ebrei. Ha vissuto esperienze di tipo mistico (tre volte è stato visitato dalla Sofia, la sapienza di Dio) e ha dimostrato un eroico senso di carità, donando ai poveri beni e averi. E’ stato considerato precursore del simbolismo e ha ispirato la rinascita spirituale russa all’inizio del Novecento (si pensi per es. a Florenskij e Berdjaev).
Ma cosa ha da dirci questa singolare e dimenticata figura di intellettuale che, pur citata da Giovanni Paolo II nell’enciclica “Fides et ratio”, non è stata ancora riconosciuta in tutta la sua grandezza ? Innanzitutto, va rilevato, Solov’ëv è un pensatore di vivissima attualità. Anticipando profeticamente i tempi, ci ha consegnato temi e riflessioni che suonano per noi oggi come intuizioni o veri e propri ammonimenti. Il cristianesimo ridotto a morale, privato della divino-umanità di Cristo. La lotta ‘apocalittica’ tra il bene e la sua falsificazione: il trionfo e la sconfitta dell’Anticristo; l’impossibilità di una liberazione etico-razionalistica dal male, al di fuori della morte e resurrezione di Cristo. Il problema, cosiddetto ‘teocratico’, riguardante l’impegno storico-politico dei cristiani all’interno della società civile e dello stato. La questione ecumenica e l’unità dei cristiani. L’universalità di Cristo in rapporto a tutte le altre religioni, quelle di India e Cina comprese. La storia e le caratteristiche dell’islamismo. La diaspora ebraica e i simboli della vicenda di Israele. E altro ancora.
Come è stato autorevolmente scritto, ciò che Tommaso d’Aquino ha rappresentato per l’epoca medioevale, rappresenta, allo stesso modo, in età moderna, il pensatore-visionario cristiano Solov’ëv . Egli “accanto a Tommaso d’Aquino è il più grande artefice di ordine e di organizzazione nella storia del pensiero” e la sua è “la più universale creazione speculativa dell’epoca moderna” (H. U. von Balthasar). Mostrando un atteggiamento né di pura accettazione, né di puro rifiuto, ma di critico inveramento e superamento delle linee portanti del pensiero moderno (razionalismo/ idealismo/spiritualismo, da un lato, ed empirismo/positivismo/materialismo, dall’altro lato) Solov’ëv pone le basi per affrontare e disinnescare le suggestioni e provocazioni del nichilismo, esito estremo del processo di autodissoluzione della stessa modernità. La stessa tragica vicenda di Nietzsche gli appare, da questo punto di vista, “esemplare ed istruttiva”.
Già a soli ventuno anni comprende chiaramente che “la crisi della filosofia occidentale”, causata dalle divisioni attuatesi tra ragione e fede, coscienza ed essere, pensiero e vita, richiede, per essere superata, la necessità di una nuova ‘teo-sofia’, capace di unire insieme forma razionale e ricchezza esistenziale, apertura religiosa e senso cosmico-storico.
Ma qual è il cuore della proposta filosofica di Solov’ëv , il quale procedendo al di là di ogni unilateralità ed esclusivismo, adotta come criterio quello della massima integrazione possibile ? In estrema sintesi, potremmo dire, che esso consiste, gnoseologicamente, nel principio della ‘conoscenza integrale’ e, ontologicamente, nel principio della ‘unitotalità dell’essere’. Ciò significa che esperienza esterna  Ragione-Fede costituiscono modalità differenti, ma non separate di un’unica, universale apertura coscienziale.
    Allo stesso modo, contro ogni riduzionismo, scienza-filosofia-religione rappresentano forme conoscitive complementari e non opposte di un unico sapere integrale aperto alla unitotalità della realtà. Reale, infatti, è l’unità positiva del tutto: ogni cosa esiste soltanto nella sua correlazione con il tutto, senza che ciò comporti alcuna risoluzione del particolare nell’universale.
 “La piena libertà delle parti costitutive nella perfetta unità dell’intero” costituisce l’idea o logos dell’essere: i particolari non si escludono, ma solidarizzano reciprocamente tra di loro; non sono fagocitati dall’universale, ma, anzi, il loro essere particolare si fonda su un unico principio assoluto che offre loro, in se stesso, spazio e libertà.
Nella sua assoluta perfezione, tre sono le caratteristiche dell’unitotalità: Bene, Verità e Bellezza. Dal punto di vista morale, per la volontà, l’unitotalità è il bene assoluto. Dal punto di vista conoscitivo, per l’intelletto, essa è la verità nella sua interezza. Dal punto di vista estetico, invece, per la sensibilità o il sentimento, l’unitotalità è la bellezza assoluta. Essa è “la forma sensibile del bene e della verità”. Come tale, si realizza o incarna nell’ambito dell’“essere materialmente percepibile”. Ma poiché questa realizzazione nella “nostra realtà esterna” non è ancora data pienamente, il compito affidato all’umanità è portare a compimento questo processo di attuazione. Se già il divenire cosmico è un processo estetico, in quanto la bellezza nella ‘natura’ è già una modalità di manifestazione dell’idea unitotale, scopo della vita dell’uomo è partecipare attivamente a questo processo di incarnazione dell’ideale nel reale. Ciò avviene nell’‘arte’, nella bellezza artistica, opera di trasfigurazione della realtà, capace, attraverso la spiritualizzazione della materia, di rendere immortale il mortale, ricreando l’unità del divino, dell’umano e del naturale. Occorre, tuttavia, senso di discernimento: esiste una spiritualità falsa, che è negazione della carne ed una autentica, che è “la sua rigenerazione, la sua salvezza, la sua resurrezione”. Contro ogni forma di estetismo e di utilitarismo, Solov’ëv (con l’amico Dostoevskij) afferma, infatti, che, quando è veramente tale, “la bellezza salverà il mondo”. L’arte, cioè, rivela un valore di carattere ‘teurgico’: prefigura profeticamente, se non sacramentalmente, una condizione di pienezza. Anche se nella storia essa può essere più anticipata che compiuta, il suo esito ultimo è “la resurrezione universale dei corpi”. Secondo Solov’ëv, questo è anche il significato personalistico, e non naturalistico, dell’amore: l’arte delle arti, il cui paradigma, rispetto a tutti gli altri amori, risulta essere la relazione di unità e differenza tra l’uomo e la donna, chiamati al reciproco perfezionamento attraverso il sacrificio del loro egoismo. Qui, tra amore-passione e amore-fede non c’è nessun contrasto. La forza di ‘eros’ è vedere la persona amata “in una luce ideale”, scoprendo in lei l’immagine di Dio, ciò che Dio da sempre ama. In questo modo, l’amore ‘erotico’ diventa anche ‘agapico’, partecipazione all’amore di Dio e, quindi, impegno per la attuazione dell’idealità divina nella realtà dell’amato. Analogicamente questo amore è destinato a manifestarsi in ogni altra realtà storica e cosmica: lavoro, sfera economico-sociale, umanità, natura. Si comprende ora meglio la vera chiave di tutto questo processo di realizzazione dell’unitotalità: il dono dell’incarnazione della divino-umanità di Cristo e, attraverso di Lui, della universalità della sua Chiesa. “Dio si è fatto uomo in Cristo, perché l’uomo diventasse Dio”. Solo in Lui abita corporalmente la pienezza della Divinità: solo la potenza della sua croce rende possibile la resurrezione della carne, la bellezza autentica e perfetta contro ogni elemento di separatezza, male e morte.
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Questa è la vita: che conoscano Te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo. Gv.17,3
 
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