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MEDITIAMO LE SCRITTURE (Vol.2)

Ultimo Aggiornamento: 30/06/2011 08:20
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24/04/2011 08:41
 
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padre Raniero Cantalamessa
Non si è cristiani se non si crede che Gesù è risorto

Alle donne recatesi al sepolcro, il mattino di Pasqua, l'angelo disse: "Non abbiate paura. Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto!". Ma è veramente risorto, Gesù? Quali garanzie abbiamo che si tratta di un fatto realmente accaduto, e non di una invenzione o di una suggestione? San Paolo, scrivendo a non più di venticinque anni di distanza dai fatti, elenca tutte le persone che lo hanno visto dopo la sua risurrezione, la maggioranza dei quali era ancora in vita (1 Cor 15,8). Di quale fatto dell'antichità abbiamo testimonianze così forti come di questo?

Ma a convincerci della verità del fatto è anche un'osservazione generale. Al momento della morte di Gesù i discepoli si sono dispersi; il suo caso è dato per chiuso: "Noi speravamo che fosse lui...", dicono i discepoli di Emmaus. Evidentemente, non lo sperano più. Ed ecco che, improvvisamente, vediamo questi stessi uomini proclamare unanimi che Gesù è vivo, affrontare, per questa testimonianza, processi, persecuzioni e infine, uno dopo l'altro, il martirio e la morte. Che cosa ha potuto determinare un cambiamento così totale, se non la certezza che egli era veramente risorto?

Non possono essersi ingannati, perché hanno parlato e mangiato con lui dopo la sua risurrezione; e poi erano uomini pratici, tutt'altro che facili a esaltarsi. Essi stessi sulle prime dubitano e oppongono non poca resistenza a credere. Neppure possono aver voluto ingannare gli altri, perché, se Gesù non era risorto, i primi ad essere stati traditi e a rimetterci (la stessa vita!) erano proprio loro. Senza il fatto della risurrezione, la nascita del cristianesimo e della Chiesa diventa un mistero ancora più difficile da spiegare che la risurrezione stessa.

Questi sono alcuni argomenti storici, oggettivi, ma la prova più forte che Cristo è risorto, è che è vivo! Vivo, non perché noi lo teniamo in vita parlandone, ma perché lui tiene in vita noi, ci comunica il senso della sua presenza, ci fa sperare. "Tocca Cristo chi crede in Cristo", diceva sant'Agostino e i veri credenti fanno l'esperienza della verità di questa affermazione.

Quelli che non credono nella realtà della risurrezione hanno sempre avanzato l'ipotesi che si sia trattato di fenomeni di autosuggestione; gli apostoli hanno creduto di vedere. Ma questo, se fosse vero, costituirebbe, alla fine, un miracolo non meno grande di quello che si vuole evitare di ammettere. Suppone infatti che persone diverse, in situazioni e luoghi diversi, abbiano avuto tutte la stessa allucinazione. Le visioni immaginarie arrivano di solito a chi le aspetta e le desidera intensamente, ma gli apostoli, dopo i fatti del venerdì santo, non aspettavano più nulla.

La risurrezione di Cristo è, per l'universo spirituale, quello che fu per l'universo fisico, secondo una teoria moderna, il Big-bang iniziale: un'esplosione tale di energia da imprimere al cosmo quel movimento di espansione che dura ancora oggi, a distanza di miliardi di anni. Togli alla Chiesa la fede nella risurrezione e tutto si ferma e si spegne, come quando in una casa cade la corrente elettrica. San Paolo scrive: "Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (Rom 10,9). "La fede dei cristiani è la risurrezione di Cristo", diceva sant'Agostino. Tutti credono che Gesù sia morto, anche i pagani, gli agnostici lo credono. Ma solo i cristiani credono che è anche risorto e non si è cristiani se non lo si crede. Risuscitandolo da morte, è come se Dio avallasse l'operato di Cristo, vi imprimesse il suo sigillo. "Dio ha dato a tutti gli uomini una prova sicura su Gesù, risuscitandolo da morte" (Atti 17,31).

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26/04/2011 08:48
 
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Eremo San Biagio
Commento Giovanni 20,11-18

Dalla Parola del giorno
Donna, perché piangi? Chi cerchi?

Come vivere questa Parola?
Il vangelo odierno torna a presentarci Maria, colei che aveva portato ai discepoli la sconvolgente notizia del sepolcro vuoto. La presenza dei messaggeri celesti, la certezza maturata nel cuore di Giovanni non la rassicurano, non la convincono: vuole il suo Signore e basta! Chiusa nel suo dolore non riesce ad intendere altro. Sulle sue labbra non fiorisce che una domanda: dove lo hanno posto? E Gesù è là. Vuole tirarla fuori dal suo dolore: «Perché piangi? Chi cerchi?». Maria cerca Gesù, non il Risorto. Per questo i suoi occhi restano chiusi e il suo cuore inquieto. È facile per noi, oggi, parlare del Risorto, ma cosa c'è dietro questa parola? Chi cerchiamo? Se il Signore anche per noi deve aggiungere: «Perché piangi?» non è forse segno che pasqua è diventata per noi solo una bella festa, di cui non percepiamo più la sconvolgente portata? Se i nostri occhi non riescono a spaziare su orizzonti di speranza e noi restiamo abbarbicati a un mondo fatto di apparenze, dove conta solo il successo immediato il possesso facile il soddisfacimento sfrenato e dove il dolore resta cupamente chiuso in se stesso, "chi cerchiamo?". Il brano odierno degli Atti dice che all'udire l'annuncio pasquale i Giudei "si sentirono trafiggere il cuore". Che Dio, in Gesù, sia morto e risorto per me, non è normale: è semplicemente sconvolgente. Non posso restare indifferente. Non posso prenderla alla leggera! Se abbiamo il coraggio di rientrare in noi stessi e di sostare in silenzio presso "la tomba vuota" del nostro cuore, forse potremo nuovamente percepire il nostro nome sussurrato con infinita tenerezza da Colui che da sempre ci abita. Ascoltiamone il dolce rimprovero che ci invita a una fede robusta, capace non solo di riconoscerlo nella trama del nostro vivere, ma anche di lanciarci in un rinnovato e deciso impegno di testimonianza.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, mi chiederò che senso abbia per me la Pasqua. Verificherò i miei atteggiamenti, le mie reazioni di fronte alla prova, le mie valutazioni pratiche. Tutto questo dice che per me Lui è risorto?

Rafforza la mia fede, Signore! Che il mio credere non sia un'adesione astratta a verità che non toccano la mia vita, ma una certezza che illumina e dà senso alla mia esistenza.

La voce di un biblista francescano
La resurrezione di Cristo è, per l'universo dello spirito, quello che fu per l'universo fisico, la cosiddetta "grande esplosione" iniziale. Essa è l'attimo in cui la morte si trasformò in vita e il tempo in eternità.
Padre Raniero Cantalamessa

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27/04/2011 09:28
 
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Eremo San Biagio


Dalla Parola del giorno
Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?”

Come vivere questa Parola?
Col volto triste e gli occhi incapaci di riconoscere Gesù, i due discepoli di Emmaus avevano camminato accanto al Maestro ma senza prenderne coscienza. Solo quando, seduti a tavola accanto a Lui, lo vedono “spezzare il pane” e di quel pane si nutrono, cessa l’opacità dei loro occhi e ravvisano il Maestro con una gioia che la narrazione dell’evangelista non dice ma trapela dal racconto. Importantissimo quell’accompagnarsi di Gesù coi discepoli svelando loro le Scritture, anzitutto quanto “cominciando da Mosè e dai profeti” riguardava Lui, il suo mistero di morte e resurrezione. E non è questo quello che succede durante la Messa, alla liturgia della Parola? Quando poi il sacerdote consacra l’Ostia e dopo averla spezzata ci nutre del pane eucaristico, davvero siamo chiamati a lasciarci intimamente toccare da Gesù, adorato con amore.
È allora che gli occhi del cuore si aprono e noi riconosciamo che quel Gesù di cui la Parola ci ha detto, è ora una misteriosa ma reale presenza in noi. E il cuore ne “arde”.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, mi lascio vivificare e interpellare da questa pagina che riguarda non solo i discepoli di Emmaus, ma anche la mia esperienza di fede. Com’è il mio rapporto con la santa Messa? Cado nell’abitudinarietà che genera freddezza? Oppure il cuore si fa attento e vigile nella liturgia della Parola diventando un cuore conrisorto con Gesù nella liturgia eucaristica e specialmente nella comunione? Sosto in silenziosa preghiera adorante dopo la comunione o sono di quelli che anche a Messa sono divorati dalla fretta?
Con Tommaso acclamo a Gesù che mi si dona:

Signore mio e Dio mio!

La voce di un profeta dei nostri tempi
Le Scritture si riferiscono a Lui: ma anche le piccole scritture delle nostre esperienze si chiariscono in Lui e prendono significanza in Lui. Unicamente. Emmaus è la strada di ognuno perché Lui è la “strada”; una strada che continua anche quando io mi fermo e cerco di fermare il Signore dove mi fermo.
Primo Mazzolari

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28/04/2011 14:50
 
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Paolo Curtaz
Commento Luca 24,35-48

Tre sono gli aspetti che vengono coinvolti dalla venuta del Signore risorto: uno intellettuale ("aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture"), uno affettivo ("per la grande gioia") e uno operativo ("Di questo voi siete miei testimoni"). Sono tre aspetti essenziali della fede, perché Gesù non resti un "fantasma", qualcuno di evanescente, ma diventi, per ciascuno di noi, un commensale, un compagno di viaggio. L'aspetto intellettuale anzitutto: nel nostro mondo iper-specializzato, in cui sono necessari vent'anni di studio per ottenere una qualifica, lasciamo la fede nel mondo dell'approssimativo e dell'infantile. Quante cene ho passato discutendo con adulti che mi parlavano di fede con tre cognizioni imparate al catechismo delle elementari! Quanti sensi di inferiorità ho visto in cristiani incapaci di rendere conto della speranza che è in loro! Il Signore ci apre la mente all'intelligenza delle Scritture: dedichiamo tempo a leggere e capire la Parola, a renderla viva nella nostra vita. Questa lettera d'amore che è la Bibbia troppo spesso giace impolverata nel fondo dei ripiani delle nostre librerie! Abbiamo il coraggio dell'ascolto, del capire, come i discepoli di Emmaus che in quel crepuscolo ricevettero da Cristo stesso la spiegazione delle Scritture. Un secondo aspetto viene coinvolto dalla presenza del Cristo: quello affettivo; i discepoli provano una grande gioia, quasi un turbamento, nel vedere il Signore. Ne stiamo parlando molto in questi giorni: la fede non può rimanere su di un piano di adesione esteriore ("conosco" la fede) ma deve necessariamente coinvolgere il nostro cuore, i nostri affetti. Finché non saremo conquistati dalla bellezza e dalla gioia che scaturisce dalla presenza del Cristo, non potremo veramente dirci cristiani. Infine l'aspetto della testimonianza, della concretezza, del contagio: la fede diventa testimonianza. Attenti: niente crociate con il crocifisso in mano, per carità, ma la capacità di rendere ragione del nostro comportamento. Il Signore è venuto per portarci la pace interiore, il perdono che è la profonda riconciliazione con noi stessi e con gli altri. Lasciamoci raggiungere senza paura: il Signore ancora oggi ci ripete: "sono proprio io!"

Tu sei vivo in mezzo a noi, Signore, e ci doni la pace perché anche noi la portiamo al mondo. A te onore e gloria, Signore Gesù vivente nei secoli!

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01/05/2011 08:21
 
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don Marco Pratesi
Il popolo della Pasqua

Negli Atti degli Apostoli leggiamo dei brani, detti "sommari", nei quali Luca traccia un quadro della comunità cristiana, quale è scaturita dalla Pasqua del Signore. I più importanti sono tre: At 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16. Come si vede, la prima lettura di oggi ci propone il primo. È la Chiesa nata dalla Pentecoste, appena narrata (vv. 1-14). Lo Spirito infatti "per tutta la chiesa e per tutti e singoli credenti è principio di aggregazione e di unità nella dottrina degli Apostoli e nella comunione, nella frazione del pane e nelle preghiere" (Lumen Gentium 13). Si tratta di altrettante epifanie dello Spirito, che manifestano un popolo vivente di un principio nuovo, frutto della Pasqua, vivente "non più per se stesso" (cf. preghiera eucaristica III), nell'egocentrismo, ma "per lui, morto e risorto per noi". La celebrazione della Pasqua non è solo celebrazione della vicenda pasquale di Cristo, ma anche della vita nuova che da essa scaturisce per tutti e singoli i rinati nell'acqua battesimale. Il testo ne presenta alcuni tratti, tracciando un identikit della comunità cristiana. Già questo ci dice che tale vita nuova non è più solo individuale, ma inserisce la persona in un popolo avente un unico principio aggregativo.
In primo luogo si menziona l'ascolto della testimonianza apostolica, perché essa è fondamento della fede: si diviene (e ci si mantiene) cristiani accogliendo la testimonianza di chi, scelto da Dio, è stato testimone della Pasqua (cf. At 10,39-43). In questo momento si tratta ancora di una predicazione orale, che ben presto sarà immessa negli scritti che saranno poi i Vangeli e il Nuovo Testamento, dono permanente dello Spirito alla Chiesa. Non per caso dopo la Pentecoste Luca presenta il primo discorso di Pietro (vv. 15-36), testimonianza apostolica del Crocifisso Risorto, che genera un movimento di conversione e di rinascita battesimale edificante la comunità (vv. 37-41).
Lo Spirito genera la comunione fraterna. È un tratto essenziale per la comunità pasquale, talvolta illegittimamente messo in ombra da un pur doveroso amore universale, per i poveri, etc. Vivere la comunione non è accessorio, ma frutto primo della Pasqua. Ed è da questa comunione - "un solo corpo e un solo spirito", ancora la III preghiera eucaristica - che deve nascere il dinamismo ad extra, se non vuol essere espressione di individualismo e protagonismo mondano.
Lo Spirito spinge infine ad una vita di preghiera, che può (anzi deve) essere anche personale, ma che è sempre un fatto ecclesiale: quando prego, anche da solo, non sono mai solo, mi inserisco in un grande movimento corale. Momento forte di questa vita di preghiera è la frazione del pane, la Messa, memoria viva della Pasqua: è normale che la comunità dei rinati a Pasqua celebri con continuità e fedeltà l'evento dalla quale essa è nata e che continuamente la rigenera e la fa crescere.
C'è abbondante materiale per la verifica, sia personale che comunitaria; ma, ancor prima, per la lode a Dio di fronte a un mistero di comunione - la Chiesa - che è meraviglia dell'amore di Dio (cf. salmo responsoriale), dove il Signore effonde per sempre la sua benedizione (cf. Sal 133,3).

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04/05/2011 10:23
 
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Eremo San Biagio


Dalla Paola del giorno
In quel tempo, Gesù disse a Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”.

Come vivere questa Parola?
L’evangelista Giovanni, riportando le parole di Gesù a Nicodemo, nel cuore di una notte di colloquio, ci trasmette, con espressioni semplici ed essenziali, quella che deve essere stata la commozione del Maestro nel proiettare davanti a sé e al suo interlocutore il film del suo destino. Egli segnala se stesso a Nicodemo e a tutti noi come colui che si offre per la nostra salvezza. Gesù crocifisso è il segno inequivocabile dell’amore di Dio per il mondo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna”. C’è in queste parole un messaggio di valore universale. Non si tratta di un amore limitato a un numero di persone scelte, ai buoni, ma al mondo. Nel donare il Figlio, Dio pensa ad ogni uomo. Il suo è un amore di Padre che vuole la salvezza di tutti. Cristo crocifisso è la rivelazione dell’amore infinito, misterioso di Dio per gli uomini.
La fede che salva è fede nell’amore di Dio rivelato nella croce. Qui sta la scelta fondamentale per l’uomo; la sua sorte dipende dalla sua fede o dal suo rifiuto di fronte all’amore che si è rivelato in Gesù.
C’è qui un invito a uscire da una religiosità impersonale, superficiale, rituale e a maturare un rapporto personale con il Signore. Non siamo stati salvati in serie, ma amati uno ad uno. Così il dono della salvezza provoca una risposta personale al Signore, una risposta di fede e di amore. Nell’ultima parte del brano Gesù rivela verità importanti sul giudizio.
C’è innanzi tutto una affermazione consolante: Dio ha mandato il Figlio Gesù non per condannare il mondo ma per salvarlo. Di fronte ai pessimismi contemporanei, questa affermazione è una luce di speranza. La gloria di Dio è pur sempre l’uomo vivente.

Nei momenti di silenzio e preghiera, oggi ringrazierò Gesù per il suo amore totale e universale, che vuole tutti salvi .

La voce di un religioso
Nella nostra esistenza quotidiana, a volte grigia, a volte tragica, a volte molto complicata, nella quale dobbiamo badare a cento cose che ci urgono da ogni parte, la luce di Dio è l’amore. Verso questa luce dobbiamo orientarci se non vogliamo fallire il vero scopo della nostra esistenza. Noi vorremmo tanto poter dire: «Ecco Dio; Dio è così…». Ma non è possibile. Dio stesso esce dai quadri e dalle icone e si nasconde in chiunque ha bisogno di noi e dice: «Eccomi qui!». Si nasconde nei piccoli della terra e dice: «Cercatemi qui!».
Ermes Ronchi

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05/05/2011 13:30
 
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Paolo Curtaz
Commento Giovanni 3,31-36

Gesù dice a Nicodemo, chiamato a conversione, della sua vera identità. Gesù, dunque, è stato mandato dal Padre e proferisce le parole di Dio e dona lo Spirito senza misura. Chi crede a questa parola, dice il Rabbì, vive la vita eterna, la possiede. E' così, amici, ve lo ripeto alla nausea: noi non crediamo in Dio, ma nel Dio di Gesù Cristo. Noi crediamo che Gesù è il Figlio di Dio ed è stato mandato dal Padre per raccontare il vero volto di Dio, non quello sbiadito e approssimativo delle nostre devozioni. La nostra vita, come quella di Nicodemo, è una continua conversione dal Dio in cui credo di credere al Dio che Gesù è venuto ad annunciare. Spesse volte l'idea di Dio e di noi stessi che abbiamo è profondamente disturbata dal nostro carattere, dalle nostre esperienze. Quanto è liberante poter avvicinarci al Dio di Gesù Cristo lasciando perdere le tante, troppe rappresentazioni che abbiamo di lui! E, avvicinandoci a Gesù, riceviamo lo straordinario dono della Parola e dello Spirito: la parola di Gesù che, meditata, ci permette di accedere al vero volto di Dio, e lo Spirito Santo, primo dono ai credenti, che ci aiuta a rendere sempre presente il Maestro Gesù. Questo incontro ci permette di vivere una vita eterna, cioè piena, colma. La vita eterna è già iniziata, per ciascuno di noi, non dobbiamo proiettarla in un ipotetico, quanto lontano futuro. La vita eterna è già cominciata per ciascuno di noi. Certo: dovrà crescere fino alla pienezza della trasfigurazione in Dio, ma già sin d'ora possiamo percepirne la forza che ci riempie il cuore.
Un ultimo appunto, poi, in questa memoria di san Giuseppe lavoratore. Che il nostro lavoro quotidiano, così come ci è chiesto dal Signore, sia un segno della dignità e dell'aiuto che offriamo al Signore per terminare l'opera della Creazione. Solo così, vivendo da salvati anche nel lavoro che ci rende operosi, simili a Dio, torneremo ad avere un lavoro dignitoso e bello da vivere.

La tua Parola e il tuo Spirito, Signore, ci donano la vita vera, la vita eterna. Lode a te, Signore Gesù!

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06/05/2011 07:32
 
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Monaci Benedettini Silvestrini
Gesù e la nostra fame

La folla che segue Gesù, quella di allora e quella di oggi, è gente affamata. È normale che ci attendiamo da lui il nutrimento necessario alla nostra vita. C'è però il rischio di ridurre così la sua opera nei nostri confronti alle sole dimensioni umane. Da sempre coloro che sono capaci di procurarci da mangiare, soprattutto quando i morsi della fame si fanno sentire con maggiore intensità, hanno conquistato consensi e sono stati ritenuti salvatori. Sono questi i pensieri della gente e anche degli stessi apostoli e Gesù li mette alla prova: «Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». I doni di Dio non si comprano con il denaro; il comprare è una dimensione ed una esperienza solo umana, la missione di Cristo trascende le nostre quotidiane misure ed Egli perciò non si lascia sfuggire occasione per ribadire la novità e la ricchezza che viene a portare agli uomini. La prima ricchezza riguarda la fede in lui, quella che consente di andare oltre i calcoli e le misure, per immergerci nella potenza di Dio. È la fede nella provvidenza divina, capace di autentici miracoli. È ciò che Gesù sta per compiere. «Prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero». È facile scorgere, da gesti e dalle parole del Signore, un intimo legame, ai gesti e alle parole della prima grande eucaristia; quella di oggi potremmo definirla l'eucaristia della solidarietà o dell'amore che sfama gli affamati, quella che meglio prepara all'intima comunione con Cristo e che da quella comunione trae origine. I testimoni e i beneficiari del prodigio non sono in grado di comprenderne il significato, ora è affidato a noi, perché sappiamo dedurne motivi di fede, motivi di operosa solidarietà per realizzare nella vita di credenti quel legame tra eucaristia dell'altare e eucaristia dell'amore e della carità.

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08/05/2011 08:50
 
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Commento su Lc 24,13-35

Mosè l'aveva posto come condizione: "Se il tuo volto non camminerà con noi, non farci salire di qui". E Dio lo aveva promesso: "Il mio volto camminerà con voi e ti darò riposo". A Èmmaus il Signore cammina con i discepoli, ma anche qui, come tante volte durante l'Esodo, i due discepoli non lo riconoscono; si stanno allontanando da Gerusalemme perché quello che speravano ora sembra loro illusione; alla fine torneranno indietro, verso Gerusalemme, dopo l'incontro con il Signore del Vangelo, il Risorto finalmente riconosciuto. È questo riconoscimento che cambia la direzione del viaggio, il senso della vita. Sono due gli elementi decisivi per questa illuminazione: le Scritture e il Cristo che ce le ricorda attraverso la sua stessa persona. Non cambia solo la conoscenza, ma il rapporto. All'inizio sembrava un forestiero disinformato, alla fine i due discepoli non possono fare a meno della sua presenza. Da Gerusalemme a Èmmaus è un cammino di persone che hanno smesso di sperare (speravamo), tristi. Quando lui si affianca, la tristezza si scioglie, la luce scaccia il buio, la vita ritrova senso, i dolori sono doglie di parto, la vita vince.

La svolta avviene "nello spezzare il pane", un modo nuovo e colmo della sua presenza in loro, nei loro cuori, molto più che attraverso gli occhi e gli orecchi. I discepoli hanno chiesto al viandante che li accompagnava di rimanere con loro e nello spezzare il Pane riconoscono il Signore in mezzo a loro. L'Eucaristia è il vero modo di "rimanere" di Gesù in noi e di noi in lui.

La Risurrezione va creduta e raccontata. Nessuno era presente nel momento in cui Cristo usciva dal sepolcro. Il fatto della Risurrezione di Gesù è stato annunciato e trasmesso da amici. Le donne lo hanno saputo dall'Angelo e i discepoli dalle donne; poi il Risorto lo hanno visto i due di Èmmaus, infine gli undici nel cenacolo e un gran numero di discepoli. Noi stessi lo abbiamo saputo da altri cristiani. E auguriamoci che altri l'abbiano saputa da noi, con le parole e ancor più con la testimonianza di una vita risorta, piena di senso.

Quelli della via. Così erano chiamati i discepoli, prima di esser detti cristiani. Gente che cammina, che segue una strada, come Israele nel deserto. I cristiani andranno pure nel deserto, ma non senza una guida, essi vanno dietro il Signore; il camminare del Vangelo non è un vagare, vagabondare. Spesso il cammino è come quello dei discepoli di Èmmaus: prima col volto triste, ma poi rifatto pieni di gioia.

Èmmaus è l'esemplare del dialogo della verità. Verso Èmmaus camminano due persone che, nonostante la delusione, hanno ancora il coraggio di stare insieme. La loro interrogazione è sulla morte: lo hanno crocifisso, è finita e loro ci speravano tanto! Non hanno elementi per superare la tristezza; avevano creduto, sperato, ma ora sono disperati. Ecco però un terzo che si affianca al loro cammino, commenta la Parola e li invita al banchetto. Questo terzo è la verità, il vero interprete (ermeneuta) che apparecchia la cena, dando se stesso in cibo. I due torneranno gioiosi nella comunità-chiesa. Il loro dialogo - dia-logos - è stato il luogo nel quale il Logos ha parlato. I discepoli di Èmmaus hanno vissuto un'esperienza di verità e questa verità è coincisa con l'amore di avere Gesù in mezzo a loro. Questa sarà la loro testimonianza.

Commento a cura di don Angelo Sceppacerca

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10/05/2011 13:26
 
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padre Lino Pedron


I giudei pretendono di fondare la loro fede sull'esperienza di prodigi straordinari. Nella mentalità giudaica i segni sono visti nella linea delle opere e devono essere simili a quelli operati da Mosè quando liberò Israele dalla schiavitù dell'Egitto.
I galilei citano uno dei prodigi dell'esodo per indicare a Gesù in quale direzione deva operare i suoi segni per esigere la loro fede. Egli deve compiere un prodigio simile a quello della manna. Il testo più vicino alla citazione è il Sal 78,24: "Fece piovere loro la manna da mangiare e diede loro il pane del cielo".
Il cibo divino della rivelazione escatologica piena e perfetta non è dono di Mosè, ma è offerto dal Padre nel dono del suo Figlio. Questo pane dal cielo è chiamato veritiero perché contiene la verità, cioè la rivelazione definitiva della vita divina che si identifica con la persona di Gesù. Questo pane dal cielo è dunque una persona: è Gesù che dà la vita al mondo. Tutti gli uomini possono trovare vita e salvezza nel Figlio di Dio.
La replica finale dei giudei (v. 34) sembra piena di fede. In realtà non credono affatto in Gesù e intendono il pane dal cielo come alimento terreno; non hanno afferrato per nulla il senso della rivelazione del Verbo incarnato nella sua persona divina. Appena il Maestro chiarirà ulteriormente il suo pensiero, proclamandosi come il pane della vita disceso dal cielo (vv. 36 ss), i giudei manifesteranno la loro incredulità (Gv 6,41-42).
Gesù chiarisce il suo pensiero dichiarando esplicitamente di essere il pane di Dio, fonte della vita. Ora non ci sono più equivoci: il pane di Dio, disceso dal cielo per dare la vita all'umanità, è Gesù.
La frase: "Io sono il pane della vita" confrontata con "Io sono… la verità e la vita" (Gv 14,6) ci fa comprendere che il pane dal cielo è la parola, la rivelazione di Gesù, ossia la verità. Gesù è la verità della vita eterna, manifesta e comunica la vita di Dio.
Il Verbo incarnato è l'unica persona che può spegnere la fame e la sete di vita e di salvezza. Per questo motivo esorta tutti ad andare da lui per appagare il bisogno di felicità (Gv 7,37).
"Chi viene a me" e "Chi crede in me" sono espressioni dell'unico atteggiamento di fede. La fede è l'orientamento della vita verso la persona di Gesù.

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12/05/2011 08:40
 
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Eremo San Biagio


Dalla Parola del giorno
Alzati, e va' verso il mezzogiorno, sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza; essa è deserta.

Come vivere questa Parola?
L'episodio che ci viene proposto dalla prima lettura odierna ha come protagonisti l'apostolo Filippo e un funzionario etiope, "eunuco". Un pagano, quindi, e per di più con una menomazione fisica che gli impediva di entrare tra i seguaci della fede ebraica. Quest'uomo, nonostante la sua situazione, si dimostra particolarmente disponibile ad accogliere la verità. Sta tornando da Gerusalemme dove si era recato per "adorare", e durante il viaggio è immerso nella lettura di un passo biblico per lui molto oscuro. Dio, che non giudica secondo gli uomini ma scruta il cuore, volge il suo sguardo misericordioso verso quest'uomo e gli invia Filippo. Il luogo dell'incontro è tutt'altro che mistico e l'ora tra le più inopportune: siamo "per strada" "verso mezzogiorno". "Per strada", cioè nel vivo della storia di ognuno nel quotidiano più usuale, magari segnato dal "deserto" di un'esistenza infeconda, e nell'ora in cui l'arsura si fa maggiormente sentire. Sete di senso da dare alla propria esistenza, sete di amore autentico, sete di verità, sete di Dio. Ma è qui, in questo deserto che Dio ha fissato il suo appuntamento. Filippo non sa di essere lo strumento scelto per portare luce e gioia a quest'uomo di cui ignora anche l'esistenza, ma è docile, disponibile e Dio può usarlo. La storia di ogni tempo conosce "eunuchi", persone che trascinano pesantemente la loro esistenza in una sterilità spaventosa riarsi da una sete che invano cercano di tacitare. I corsi d'acqua non mancano: Parola di Dio, Sacramenti... Ciò che maggiormente urge è trovare dei "Filippo" che, abbandonati pregiudizi e chiusure, abbiano il coraggio di recarsi lungo le "strade deserte" a qualunque ora, per spezzare il pane della verità e della fraternità, per condividere la gioia.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, proverò a far passare davanti agli occhi del mio cuore persone forse segnate a dito perché non rispondono ai nostri canoni di "giustizia", ma che nascondono in sé un'inconfessata sete di Dio. Ascolterò l'invito del Signore a farmi sulla loro strada. Mi chiederò: come concretamente posso far loro sentire la prossimità di Dio-Amore?

Donami, Signore, il coraggio di andare incontro a ogni uomo, qualunque sia la strada che egli batte, per "salire sul suo carro", ascoltare ciò che gli urge in cuore e tendere rispettosamente la mano. Che nessuno si allontani da me senza sperimentare la gioia di sentirsi amato.

La voce di una testimone dei nostri giorni
Solo l'Amore può ridare speranza a chi, colpito dalle terribili sferzate della vita, giace prostrato nella disperazione. Solo l'Amore può far germogliare la GIOIA DI VIVERE nei deserti dell'umanità!!!
Chiara Amirante

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13/05/2011 08:16
 
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Monaci Benedettini Silvestrini
Se no... non avrete in voi la vita

Il discorso di Gesù su se stesso, come pane del mondo e medicina di immortalità, continua. Questo pane è Gesù stesso, la sua persona umano-divina, che reca la vita nuova a chi lo accoglie con fede, ne ascolta la parola, lo ospita in sé. Fino a questo punto l'immagine del pane, nutrimento indispensabile a chi vuol vivere e crescere, è servita a far capire quanto Gesù sia necessario per la vita piena dei suoi discepoli. Con l'accento alla sua carne data a favore del mondo, perché viva, vi è un esplicito riferimento alla passione e morte di Gesù, liberamente accettata, in vista della salvezza dell'umanità. Il passaggio dalla figura del pane a quella della carne offre il supporto sacramentale per il discorso sul pane della vita. Ma la non accettazione dei giudei è ancora molto forte e vanifica tutto: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?" come si poteva credere o accettare una proposta di questo genere? "In verità, in verità vi dico, se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo, e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita". Penso che non ci si possa sorprendere che non si parli di pane e di vino, bensì di carne e di sangue, ma nella fede presupposta da Giovanni gli elementi del banchetto sono visti nella loro effettiva significazione sacramentale, rimandando il tutto alla concreta esistenza storica di Gesù – il suo corpo, carne; la sua morte redentrice, il sangue. Possiamo dire di trovarci dinanzi ad una delle pagine più straordinarie del Vangelo. Sapere che Dio manda il suo Figlio a salvarci, a dare la vita per noi, donandoci perfino la possibilità di partecipare intimamente al mistero del suo Figlio, Gesù.

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15/05/2011 13:25
 
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padre Antonio Rungi
Il buon pastore che offre la vita per le sue pecore

Celebriamo oggi la quarta domenica del tempo di Pasqua. E' la domenica del Buon Pastore ed è la domenica per le vocazioni speciali, soprattutto alla vita sacerdotale. Il motivo di questa speciale attribuzione a questa domenica lo ricaviamo dal testo del Vangelo di Giovanni nel quale è riportato il passo in cui Gesù di definisce la porta dell'ovile, l'ingresso principiale ed unico, senza via di fuga o di uscita che è appunto Lui.
Il testo è un forte richiamo alla realtà dei credenti in Cristo, a quella Chiesa che qui è simboleggiata nel gregge, nell'ovile. In questa realtà spirituale bisogna entrare con libertà di una scelta di vita, con la semplicità e la verità. Non si può entrare come un brigante, ovvero uno che vuole assaltare il gregge, mettere scompiglio in esso e sterminarlo. Il pastore che ha a cuore il gregge o l'ovile se ne prende cura e tra le sue pecore vi entra per quell'unica porta aperta simbolicamente nel cuore di chi compone questo gregge, appunto il fedele. Solo la fede autentica in Cristo permette di fare ingresso nella sua chiesa e di permanervi nell'autenticità delle intenzioni e dei sentimenti.
In questa realtà così configurata ci sono responsabilità diverse e soprattutto la maggiore responsabilità ricade proprio su colui che è la guida del gregge stesso, quel pastore che deve precedere nel cammino della santità, dell'impegno, della coerenza, del coraggio coloro che il Signore ha affidato alle sue cure. E qui non può non essere considerato il ruolo e la missione del sacerdote nella chiesa e nel mondo, ma anche del Vescovo e del Papa, pastore universale della Chiesa di Cristo. Tutti coloro che il Signore ha chiamato a sé mediante la speciale vocazione presbiterale hanno un grande compito da svolgere per il bene della Chiesa e della società: essere guide illuminate e certe sulle strade della verità, della carità, della giustizia, del rispetto della vita, della fedeltà, dell'onestà, della rettitudine morale.
Mai come in questi ultimi tempi alcun sacerdoti, in varie parti del mondo, stanno dando scandalo con il loro comportamento. Non sono affatto di esempio e di guida agli altri, perché le loro debolezze umane e le loro fragilità buttano fango sulla chiesa e sulla credibilità di essa davanti al mondo e a questo mondo, che si scandalizza della debolezza di qualche prete e non si scandalizza affatto delle tante perversioni morali che sono presenti in altre categorie di persone. Certamente qui sono in gioco alcuni fondamentali valori, quale la santità del pastore e la sua fedeltà alla vocazione, ma è anche giusto considerare che qualche mela marcia può uscire anche in un ottimo raccolto. Questo tuttavia non ci deve far abbassare la guardia nel vigilare sul comportamento dei nostri pastori, sulla loro adeguata formazione e preparazione alla missione, soprattutto nei seminari e nelle facoltà teologiche.
I giovani o i meno giovani che sentono la chiamata alla vita sacerdotale, soprattutto nella Diocesi e nelle parrocchie devono essere preparati in modo adeguato alle nuove sfide della pastorale e della società. Perciò risulta di grande utilità sia per i sacerdoti che per i fedeli laici riflettere, oggi e sempre, sul brano della seconda lettura di questa domenica, che è tratto dalla prima lettera di san Pietro apostolo.
E' il Cristo il modello unico e irripetibile di ogni buon pastore e sacerdote. A lui bisogna ispirarsi soprattutto quando si ha la responsabilità di una comunità parrocchiale, di vita consacrata, Diocesana o della chiesa universale. E' la paternità e la disponibilità al servizio, ma anche il coraggio di fare scelte radicali per il Vangelo che deve guidare l'azione del pastore, quello di oggi e quello di sempre. Un pastore docile, umile e seppure umiliato non reagisce, ma comprende i disegni di Dio e cammina lungo la strada della santità, che come si sa è la strada del Calvario, ma anche della glorificazione.
L'altra e non meno importante missione che il pastore ha nel mondo di oggi e nella storia della chiesa è quella dell'evangelizzazione. Il testo degli Atti degli Apostoli che leggiamo oggi ci immerge in quel clima di impegno missionario a tutto raggio e campo in cui erano situati gli apostoli, all'inizio della diffusione del Vangelo, carichi di quel fervore interiore e spirituale per far conoscere Cristo al mondo e chiamare gli uomini a vera conversione, dopo essersi loro convertiti e diventati coraggiosi testimoni di Gesù nel mondo.
Quanto sia importante essere dei discepoli credenti e credibili per chiamare altri alla fede e alla sequela di Cristo lo si comprende chiaramente dal questo testo. Oggi abbiamo bisogno nella Chiesa di persone che oltre a predicare bene sappiano praticare bene il Vangelo, fino a donare la vita per il Signore. Per la verità non mancano uomini e donne coraggiose che vivono ed annunciano il Vangelo in ogni angolo della Terra, fino al martirio, a conferma che in questi 2000 anni di storia Cristo rimane ancora il vero Maestro di una scuola di vita che è scuola di amore e di misericordia.
Da qui la nostra umile preghiera al vero ed unico pastore del nostro gregge: "Dio onnipotente e misericordioso, guidaci al possesso della gioia eterna, perché l'umile gregge dei tuoi fedeli giunga con sicurezza accanto a te, dove lo ha preceduto il Cristo, suo pastore". Amen.

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17/05/2011 08:31
 
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Eremo San Biagio


Dalla Parola del giorno
Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano.

Come vivere questa Parola?
Queste parole sono pronunciate da Gesù durante la solennità ebraica della dedicazione del tempio, in un clima di grande gioia e luce. Eppure i farisei rimangono nell'"inverno" della loro incredulità anche se si mostrano esteriormente impazienti di voler sapere se Gesù è il Cristo, il grande Atteso e promesso dai profeti. Il salto di qualità tra l'atmosfera di questo finto e arido voler sapere senza credere e l'atmosfera di chi appartiene al Signore e di Lui si fida è enorme. Come passare da una calotta di ghiaccio a un caldo e profumato giorno di primavera! Gesù attribuisce ai suoi seguaci l'epiteto di pecore. E, tutto il calore, la tenerezza di questo termine, noi possiamo coglierlo solo collocandolo in quell'epoca e in quel luogo dove la pastorizia era largamente praticata dai contemporanei di Gesù. C'è un'intimità naturale tra il pastore e le sue pecore che ne riconoscono la voce così come da lui sono riconosciute, ad una ad una. Così questa intimità, liberata dall'immagine delle pecore eloquentissima ieri e non oggi, diventa fortemente rivelatrice di un amore che le parole seguenti ancora più esprimono. "Io do loro la vita eterna. Non andranno mai perdute". Che cosa significa oggi per me? E che mi dice quell'aggiunta "nessuno potrà mai strapparmele di mano"? La vita: ecco il dono più grande! La vita come lo snodarsi dei giorni in un'esperienza sempre nuova del mio "esserci" e rapportarmi con tutto, e aprirmi a orizzonti che non finiscono mai di farmi crescere, se so credere e stupirmi. Perché questa vita tu me l'hai data a prezzo del tuo sangue e non solo vita ma vita eterna. Quello che è già buono qui, sarà un incanto di pienezza dopo. La vita al sicuro. Nessun maleficio, e neppure il diavolo me la potrà mai rapire. Purché io resti aggrappato al "Vivente". Meglio: se non fuggo dal suo abbraccio d'amore.

A questo voglio pensare oggi, nella mia pausa contemplativa. Sto quieto nelle sue mani, abbandonato alla volontà del Padre.

Gesù Risorto, Tu mi vivifichi amandomi. Niente e nessuno mi convinca a lasciarti.

La voce del fondatore dell'"Opus Dei"
Tu stesso l'hai detto: Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Tu ci conosci bene; sai che vogliamo udire, ascoltare sempre con attenzione i tuoi richiami di Pastore Buono, e assecondarli, perché questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo.
Josemaria Escriva

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19/05/2011 08:34
 
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Dalla Parola del giorno
Dopo che ebbe lavato i piedi ai discepoli, Gesù disse loro: “In verità, in verità vi dico: chi accoglie colui che io manderò accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato.”


Come vivere questa Parola?
Il gesto che Gesù fa è di estrema importanza ed è la ‘porta’ (per così dire) per comprendere il valore e il senso profondo di un atteggiamento tanto necessario (soprattutto oggi!) per realizzare una relazionalità guarita da esclusivismi, discriminazioni, pregiudizi, condanne e altro.
Gesù, il Maestro per eccellenza, si china a terra e lava quel che quotidianamente (soprattutto allora che si camminava a piedi nudi o coi sandali) s’insudicia. È un gesto tipicamente emblematico. Simboleggia una profonda umiltà e un atteggiamento di servizio. Ed è qui che la Parola oggi mi aiuta a cogliere quello che, soprattutto nella nostra epoca, è la premessa indispensabile a vivere in pace e con letizia i rapporti interpersonali, a cominciare da quelli all’interno della famiglia.
Non è forse la radice di tanti malumori quel legarsi al dito le piccole offese o incomprensioni? Non è suscettibilità orgogliosa il pretendere dall’altro che riconosca per primo di aver sbagliato? Quel disinvolto lavare i piedi sporchi dei discepoli da parte di Gesù, il Maestro per eccellenza è illuminante sulla necessità di quell’umiltà che non è mai, assolutamente mai avvilimento o misconoscimento della nostra dignità. Anzi ci fa capire che è un lasciar circolare liberamente quel venticello di grazia, di amore, di riconciliazione, di pace e di gioia che sono, in confronto dell’ACCOGLIERE L’ALTRO, come il soffio del venticello primaverile che, nel sole, dischiude i fiori.

Signore, dischiudi il mio cuore. Spaccane le durezze di orgoglio e di pretese egoiche. Fa' che scopra nell’atteggiamento del servizio un aspetto concomitante all’accogliere vivo di amore.

La voce di un dottore della Chiesa
Dobbiamo scendere dalla vanità dell'orgoglio fino all'umiltà, per elevarci di lì fino a conquistare i vertici della vera grandezza; ma questo proposito non poteva esserci ispirato in modo tanto più brillante quanto più delicato, in modo che la nostra arroganza fosse repressa non con la violenza ma con la persuasione, se il Verbo non fosse intervenuto.
S. Agostino

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21/05/2011 09:18
 
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Eremo San Biagio


Dalla Parola del giorno
Disse Filippo a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre».

Come vivere questa Parola?
Interloquendo con Gesù, Filippo, che forse aspirava a una visione religiosa più alta e più dimostrativa, dice: «Signore, mostraci il Padre». E il Maestro risponde: «Chi ha visto me ha visto il Padre». Con ciò ribadendo che Lui, la sua persona e la sua vita, è lo spazio in cui Dio si è reso visibile e conoscibile.
Questa straordinaria opportunità scaturita dal mistero dell'incarnazione, che l'evangelista Giovanni esprime con profonda elevatezza, lasciando trasparire lo sguardo mistico del contemplativo, rende pienamente possibile la ricerca di Dio, in ogni tempo e ad ogni latitudine.
Ma chiediamoci: dove e come incontrare il Signore, ora, nel tempo della Chiesa, in attesa del suo ritorno? Dove e come fare ancora esperienza di Dio? Certo, nell'ascolto della sua Parola, nella continua memoria della sua vita: in fondo è per questo che gli evangelisti hanno scritto i loro Vangeli. Ma la risposta resterebbe incompiuta se non aggiungessimo un'espressione che si trova nella prima lettera di Giovanni: «Nessuno ha mai visto Dio, ma se ci amiamo scambievolmente, Dio dimora in noi». Dunque Dio continua a farsi presente nell'amore vicendevole: Dio è amore ed è solo in un'esperienza di autentico amore, come quella di Cristo, che l'uomo può entrare in comunione con di Dio.

A quest'intimità aneliamo con cuore ardente mentre oggi, nella nostra sosta contemplativa, ripetiamo al cuore, con fede:

In Cristo, incarnato morto e risorto, anch'io sono nel Padre, e la mia vita glorifica il Suo Nome.

La voce di un teologo russo
L'Incarnazione è il precetto fondamentale della vita; l'Incarnazione, con cui si può misurare la verità e il valore di se stessi, è realizzare le proprie potenzialità nel mondo, accogliere in sé il mondo e formare la materia di sé.
Pavel Florenskij

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24/05/2011 09:13
 
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Monaci Benedettini Silvestrini
Vi lascio la pace

La pace è il dono di Cristo redentore del mondo. Dopo la sua gloriosa risurrezione, egli ripetutamente, apparendo ai suoi, li saluta dicendo: «Pace a voi». Poi mostra loro le mani forate dai chiodi e il costato aperto dalla lancia. Vuole così ricordare loro e annunciare a tutti noi che quel dono è scaturito dalla sua passione, dalla sua morte e dalla sua gloriosa risurrezione. Vuole così tracciare il percorso sicuro e indicare il prezzo della pace vera, affermando che è dono di Dio, che non la si raggiunge se non attraverso la sofferenza e l'umiliazione, che sempre costa sangue, che sgorga dalla croce e infine che è dono di una illuminazione dello Spirito Santo. Non può quindi realizzarsi soltanto con le astuzie e gli artifici umani, non può essere frutto di momentanei accomodamenti o di instabili equilibri. È frutto di un amore, che giunge fino alla passione, fino alla croce di Cristo, che comporta sempre anche sofferenze e passioni per gli uomini. Comprendiamo così come e quanto sia difficile per gli uomini diventare costruttori e testimoni di pace se non affidano a Cristo il compito di realizzarla definitivamente. Ecco perché Gesù oggi ci ripete: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi». La pace di Cristo è riconciliazione piena con Dio, è la ritrovata fraternità tra gli uomini, è il suo amore riversato nei nostri cuori, è la visione sapiente del valore dei beni terreni e la predilezione per quelli del cielo. Egli ci fa intravedere l'intima ed indissolubile connessione tra la sua passione, la sua morte, la sua risurrezione, la sua ascensione al cielo e la discesa dello Spirito Santo e il dono della pace. Gesù vuole dirci che tutta la sua opera è orientata alla definitiva costruzione della pace tra gli uomini, è un dono messianico. Purtroppo costatiamo, non senza rammarico, che ancora non siamo capaci di stabilirci nella pace, nell'ordine e nella concordia perché manca la nostra libera adesione al progetto che Dio ha già realizzato per noi. Il mondo si sta condannando ad una riprovevole solitudine da Dio e ne sta sperimentando tutte le più funeste conseguenze. È ancora attuale il lamento di un salmista che dice: «Parlano di pace al loro prossimo, ma hanno la malizia nel cuore». Dobbiamo rimuovere la malizia e lasciarci irrorare dalla grazia.

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26/05/2011 14:31
 
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Paolo Curtaz
Commento Giovanni 15,9-11

L'essere nel cuore di qualcuno, essere apprezzato e stimato per quello che si è in profondità, non per quello che si appare o si costruisce, l'essere prezioso nella memoria di qualcuno, essere avvolto da una tenerezza che fa dimenticare il dolore, questo e solo questo è il pieno destino dell'uomo. Viviamo la nostra vita elemosinando amore. Viviamo la nostra vita nella segreta speranza di vedere il nostro cuore colmato di gioia. Ebbene, tenetevi forte: Dio la pensa allo stesso modo. Gesù è venuto perché (lo dice lui!) la nostra gioia sia piena (non a pezzettini) e per farlo dona la sua vita (e scusate se è poco). L'unico problema: trovarci. Già, spesse volte il circuito d'amore viene interrotto dalle nostre lentezze e chiusure, dalla nostra fatica e dal nostro peccato. Se capissimo che Dio ci chiede soltanto di lasciarci amare! Di lasciarci raggiungere dalla sua misericordia! Ed è ovvio che l'amore cambia, mi cambia. Già lo fa l'amore di una persona, figuriamoci l'amore di Dio! Amare l'altro (chiunque esso sia) significa mettere lui al centro della mia attenzione. Significa lasciare che la sua vita, i suoi interessi, il suo modo di essere venga rispettato, accolto, valorizzato. Così facendo il mondo, invece di essere un circuito di gente che si sbrana, potrebbe essere già un pezzo di Regno in cui, nella concretezza del nostro limite e del perdono da dare e ricevere, uno potrebbe sinceramente stare a proprio agio. Essere cristiani significa guardare l'altro (chiunque esso sia) negli occhi e dirgli: "Ti voglio bene". Magari non sono d'accordo su come la pensi, su cosa fai, ma ti voglio bene. E il sentirsi amati, credetemi, sposta il mondo. Fratelli: o la nostra comunità, nella coscienza dei propri limiti, si lascia avvincere dall'amore di Dio per diventare testimone credibile di questo amore, o la nostra fede diventa inutile osservanza. Se il nostro cuore non brucerà più d'amore, il mondo morirà di freddo.

Tu vuoi che la nostra gioia sia piena, tu per noi desideri il bene: insegnaci ad accogliere questa tua splendida volontà, o Signore!

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29/05/2011 07:44
 
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mons. Ilvo Corniglia


Questa pagina di Vangelo fa seguito a quella della scorsa domenica. Nell'Ultima Cena, un interrogativo inquietante stringe di angoscia il cuore dei discepoli: se la morte porta via il loro Maestro, come sarà il loro futuro senza di Lui? Gesù li assicura: nel tempo che seguirà la sua morte e risurrezione, il loro rapporto con Lui continuerà. Anzi, avrà un vertice di intensità. La sua presenza, infatti, non sarà tolta. Ma sarà reale, più profonda -anche se diversa da prima- e si arricchirà di altre "presenze".

Il brano si apre e si chiude con una dichiarazione di Gesù sull'amore personale che i discepoli gli portano: Se mi amate...Chi ama me... (vv. 15.21). Gesù rimane una persona viva e presente. Ecco perché i suoi, coloro che Egli amò sino alla fine (Gv. 13,1), possono amarlo e crescere in una relazione di amicizia con Lui. Gesù ci tiene al loro amore. Ne è felice. Un amore da non sentire come un peso, ma come un dono: quale fortuna e quale gioia poterlo amare! Tale amore si esprime sicuramente con le parole: le dichiarazioni d'amore piacciono a Gesù. Per es. dopo la risurrezione, godrà nel sentirsi ripetere da Pietro: Signore, tu lo sai che ti amo! (Gv. 21, 15-17). Ma l'amore sincero e genuino si manifesta con i fatti: Se mi amate, osserverete i miei comandamenti...Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. L'amore a Gesù si prova con l'obbedienza alla volontà del Padre, che il Maestro ha rivelato nel Vangelo sintetizzandola nell'amore concreto a Dio e al prossimo. Si prova con l'attuare le parole di Gesù, i suoi comandamenti che, all'inizio del suo discorso nell'Ultima Cena, Egli ha già riassunti nell'amore scambievole: Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri (Gv. 13, 34). Quando i cristiani sono attenti a compiere in ogni momento e con perfezione ogni volontà di Dio, appena conosciuta; quando si esercitano nell'"arte di amare" curando anche le più piccole sfumature nel rapporto fraterno tra di loro e con ogni altra persona: ogni volta Gesù riceve e sperimenta con gioia il loro amore personale.

Questo amore provocherà come risposta un nuovo amore da parte di Gesù e quindi un dono smisurato che Gesù otterrà per i suoi: E io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre. E' il primo dei cinque testi in cui Gesù, nel suo discorso di addio, annuncia in diverse riprese la venuta dello Spirito Santo. Nei passi successivi Egli preciserà le funzioni e l'opera che questa Persona svolgerà. In questo primo annuncio si sottolinea il fatto che è un Dono, il Dono del Padre, che Gesù ottiene con la sua preghiera (Io pregherò il Padre ed Egli vi darà) ed è una presenza, una compagnia permanente (perché rimanga con voi per sempre). I termini con cui Gesù lo descrive dicono già qualcosa della sua identità: un altro Paraclito, cioè un "Avvocato difensore" che assisterà, proteggerà i discepoli. "Un altro" rispetto a Gesù, che rimane il primo "Paraclito". Colui che il Padre sta per donare continuerà l'opera di Gesù, sarà come "un altro Gesù", in relazione strettissima con Lui. Una persona che appare chiaramente distinta dal Padre e da Gesù.
Lo Spirito della verità. Un nuovo titolo che getta luce sulla sua realtà e sul ruolo che deve svolgere. Gesù è la "Verità", cioè l'unica rivelazione, piena e definitiva, del Padre e del suo amore per gli uomini (cfr. Gv14, 1-12: scorsa domenica). Lo "Spirito" (cioè l'alito vitale di Dio e del suo Figlio, il loro respiro, la loro forza infinita d'amore) con la sua azione interiore farà capire, penetrare in profondità e assimilare tale rivelazione di Gesù, che è contenuta nel Vangelo. In tal modo "difenderà" e rafforzerà la loro fede in Gesù. Il "mondo" (cioè gli uomini che si ostinano nel rifiutare la rivelazione di Gesù) "non lo può ricevere". Ma per i discepoli è una Persona amica e inseparabile (rimane con voi sempre), vicina e in relazione continua con loro (rimane presso di voi), presente dentro di essi (sarà in voi) quale radice e fonte del loro credere e del loro amare.
Lo Spirito subentra come aiuto al posto di Gesù. Ma in realtà non rende superflua e non elimina la presenza di Gesù: non è alternativo a Gesù. Con la tenerezza di un padre verso i figli, Gesù li assicura: Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Letteralmente: "Vengo a voi". Questa promessa - che ha già fatto ai discepoli all'inizio del discorso (cfr. scorsa domenica)- si compie la sera di Pasqua quando il Risorto incontra i suoi (Gv. 20, 19.24.26: venne...viene Gesù) e si compie per noi ogni volta che siamo riuniti per l'Eucaristia.
Gesù qui sottolinea la novità stupefacente di tale esperienza. Con la sua morte Egli sprofonda nel nulla per il mondo: il mondo sa soltanto che Egli è morto in croce. Ma i discepoli lo "vedranno", perché Gesù tornerà esclusivamente da loro, si mostrerà loro come il "Vivente" ed essi prenderanno parte alla sua stessa vita: Voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In questo rapporto nuovo con Gesù risorto capiranno veramente quale comunione profonda c'è tra Lui e il Padre: In quel giorno saprete che io sono nel Padre mio. E riconosceranno -una scoperta sconvolgente!- quale intima comunione li lega con Lui (e voi in me e io in voi) e quindi col Padre.
Ancora una volta Gesù richiama il mezzo per giungere alla perfetta comunione con Lui. Volgendo lo sguardo oltre la cerchia dei suoi diretti discepoli, afferma per tutta l'umanità e per tutti i tempi: Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi pratica questo amore operoso attirerà l'amore del Padre, che lo accoglierà nella comunione con Lui: sarà amato dal Padre mio. E troverà anche l'amore di Gesù: e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui. Gesù gli rivelerà la sua persona, la sua realtà di Figlio che dimora nel Padre. Anzi, lo trascinerà sempre più con Lui nel vortice d'amore della sua relazione col Padre. L'amore è fonte di luce: ama e capirai. Non si entra nella verità che attraverso la carità (Sant'Agostino).

Pietro nella sua prima lettera (3,15-18: II lettura) riprende in sintesi il tema della relazione d'amore dei discepoli con Gesù durante il tempo della Chiesa: Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. L'adorazione – che è l'"estasi dell'amore – a Cristo si esprime nella testimonianza coraggiosa a Lui, data però con dolcezza e rispetto, in spirito di vero dialogo.

Il brano degli Atti (8, 5-17: I lettura) mostra, poi, l'attuazione della promessa di Gesù riguardante il dono dello Spirito: gli Apostoli lo hanno ricevuto dal Risorto (cfr.Gv 20, 22) e a loro volta lo comunicano ad altri.
Una nuova tappa si registra nel cammino missionario della Chiesa. Una violenta persecuzione, scoppiata in occasione della lapidazione di Stefano, sembrava segnare la morte della giovane comunità. In realtà realizzava il disegno di Dio. Infatti quelli che sono fuggiti da Gerusalemme, dovunque arrivano, annunziano il Vangelo. È il caso di Filippo, uno dei "Sette", che gli Apostoli avevano scelto come collaboratori. Egli giunge in una città della Samaria. Gli abitanti di questa regione dai giudei erano considerati stranieri ed eretici. Ma il Vangelo non conosce frontiere. Filippo predicava il Cristo. E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo. Non c'è soltanto l'ascolto attento di ciascuno, ma c'è l'ascolto "corale", comunitario di persone che sono unite tra loro dall'amore. È un'indicazione precisa per noi in ogni forma di approccio alla parola di Dio.

La Chiesa-madre di Gerusalemme, avuta notizia della nuova comunità, avverte l'esigenza di verificare la purezza della sua fede e di consolidare il suo legame di comunione con gli Apostoli. Per questo due di essi, Pietro e Giovanni, la visitano, completando l'opera di Filippo: pregando e imponendo le mani conferiscono ai neo-battezzati il dono dello Spirito Santo. Si ripete, così, come una nuova "Pentecoste". Possiamo pensare al Sacramento della Confermazione. Ogni comunità cristiana ha bisogno dello Spirito Santo, ma nello stesso tempo non può nascere e crescere senza l'opera degli Apostoli e la comunione con essi e con i loro successori (Papa e Vescovi).

La nostra esistenza di cristiani è piena di queste presenze che si intrecciano e si compenetrano: la presenza dello Spirito Paraclito, di Gesù risorto, del Padre. E' relazione vertiginosa con loro. Di questa realtà i "mistici", per grazia di Dio, sono arrivati a fare un'esperienza inebriante. Tutti, però, sono chiamati a viverla nella fede. Assaporarla a un livello sempre più profondo dipende dall'amore.

Ciò che Gesù in questo brano ci rivela sullo Spirito Santo, su di Lui, sul Padre e sul loro rapporto con noi mi interessa veramente? Cerco di capirlo? Mi dà gioia, speranza e carica per impegnarmi con più gusto?

Mi chiederò ogni tanto: in questo momento sto amando Gesù? Glielo sto provando con i fatti?

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31/05/2011 08:31
 
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Monaci Benedettini Silvestrini


L'"Ave Maria", la preghiera con cui salutiamo ed invochiamo la Vergine, iniziata dall'Angelo Gabriele, è oggi proseguite a completata da Elisabetta. La prescelta da Dio per essere la madre del Signore, colei che concepirà il Figlio di Dio per opera dello Spirito Santo, ha saputo dal messo divino che anche Elisabetta, che tutti dicevano sterile, è ormai prossima alla maternità. La Madre di Dio, che si era professata "la serva del Signore", ora la vediamo salire in fretta verso la montagna per raggiungere la sua parente e diventare la sua serva. Splende l'umiltà di Maria, brilla di luce vera nel suo cuore purissimo l'amore del Signore; è piena di grazia, lo Spirito Santo è sceso su di lei, la potenza dell'Altissimo l'ha adombrata, ora sollecita e quasi ignara della sublime dignità a cui Dio stesso l'ha innalzata, deve testimoniare lo stesso amore ad Elisabetta, deve prestare a lei quegli umili servizi di cui ogni mamma ha bisogno prima del parto. Proprio da questa testimonianza è della completa disponibilità di Maria, proprio nel dare gratuitamente amore, anche ciò che è arcano, velato nel mistero e chiuso nel segreto del cuore, si svela in un incontro di due anime votate a Dio e illuminate dallo steso Spirito. Al saluto di Maria esulta il bambino nel grembo di Elisabetta. Lei, piena di Spirito Santo, riconosce nella giovane parente "la madre del Signore" e la proclama "benedetta fra tutte le donne" perché ha creduto alla parola del Signore. Esplode in un canto di lode e di ringraziamento la vergine Maria: canta e magnifica il Signore, esulta in Dio salvatore, perché ha posato il suo sguardo di compiacenza sulla sua povertà. Ora più nulla può nascondere Maria e la sua "beatitudine" dovrà essere proclamata nei secoli futuri. La misericordia divina sta per espandersi sul nostro mondo per tutti coloro che, con la stessa umiltà di Maria, accoglieranno i doni di Dio. L'incarnazione del Verbo viene a cancellare la superbia degli uomini e ad esaltare gli umili. La grande promessa di salvezza definitiva ed universale, scandita da Dio sin dal principio, ora si compie, sta per nascere nel grembo della vergine Maria. I motivi della gioia vengono lanciati dal quel canto a tutta l'umanità, l'esultanza di Maria si trasferisce alla chiesa del suo Bambino, che ancora ogni giorno al calar del sole, con le stesse parole, con la stessa gioia canta il suo "Magnificat". Abbiamo imparato da lei e ci verrà confermato da Cristo stesso che i privilegi divini non vengono dati per una personale esaltazione, ma per la gloria di Dio e per l'edificazione del nostro prossimo. Maria, la benedetta fra tutte le donne, la Madre del Signore, prima del suo Gesù, insieme a lui, portato in grembo, sale la montagna per essere la serva di Elisabetta e la nostra serva, assumendo così il suo ruolo di madre della chiesa, prima ancora che il suo Figlio, morente sulla croce, la proclamerà tale.

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02/06/2011 08:52
 
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Movimento Apostolico - rito romano
Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia

È questa l'onnipotenza del nostro Dio: cambiare il nostro pianto il gioia, la nostra disperazione in speranza, la nostra morte in vita, la solitudine in comunione, la povertà in ricchezza, la miseria in abbondanza, la sconfitta in vittoria eterna.
Ma è anche questa l'Onnipotenza del nostro Dio: cambiare la gioia effimere del mondo in pianto, la speranza fallace in disperazione eterna, la vita vana in morte per sempre, la compagnia mondana in solitudine infernale, la ricchezza in penuria, l'abbondanza in miseria, la vittoria del peccato in sconfitta senza mai più rinascita.
Questa verità dell'Onnipotenza di Dio, che è anche la verità della sua giustizia, è stata abolita, cancellata, radiata dalla mente e dal cuore dei suoi discepoli.
Chi ha fatto questo, novello Satana e Seduttore dei suoi fratelli, non è il mondo dei pagani che non possiede la vera fede nel Dio di Gesù Cristo, sono stati invece gli stessi cristiani, che da veri profeti della verità del loro Dio e Signore si sono strasformati in falsi profeti, falsi maestri, falsi dottori, falsi teologi, falsi insegnanti, falsi catechisti, falsi catecheti, falsi educatori.
Le verità di Dio è oggi maltrattata, umiliata, flagellata, schernita, condannata a morte, crocifissa come il suo Autore Cristo Gesù, Signore nostro.
I danni di ogni verità abolita e cancellata sono ingenti. Le catastrofi spirituali e materiali che una sola verità cancellata produce è più di mille uragani che si abbattono sulla nostra terra. Più che mille terremoti e maremoti distruttori della nostra vita del corpo.
Ogni verità cancellata attesta la non abitazione dello Spirito Santo in noi. Chi è nella pienezza dello Spirito Santo è nella verità piena di Cristo Gesù. Chi è tempio vivo dello Spirito Santo è anche tempio vivo di tutta la verità di Gesù Signore.
La falsità della nostra teologia, del nostro essere teologi, catechisti, catecheti, maestri, dottori, attesta e rivela che noi non siamo nello Spirito Santo di Dio. Siamo invece con il nostro spirito traviato e contorto. Ma se lo Spirito Santo di Dio non abita in noi è un cattivo, brutto segno: in noi abita e regna il peccato. Abita e regna la trasgressione dei Comandamenti. Abita e regno il vizio, dal più semplice al più cattivo e nefando.
È un falso teologo e un falso maestro chi cancella anche una sola delle verità di Cristo Gesù. Cancellata una sola verità, tutte le altre perdono di valore e di significato.


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04/06/2011 09:16
 
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Eremo San Biagio


Dalla Parola del giorno
Arrivò a Efeso un giudeo, di nome Apollo, nativo di Alessandria, uomo colto, esperto nelle Scritture. Questi era stato istruito nella via del Signore e, con animo ispirato, parlava e insegnava con accuratezza ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni.

Come vivere questa Parola?
Di Apollo nativo di Alessandria il testo sacro dice che era giudeo: uomo colto, che possedeva bene la Sacra Scrittura, cioè l'Antico Testamento. Non si sa da chi questo uomo di alto livello fosse stato istruito anche circa il Signore Gesù. C'è però un particolare: Apollo entra perfino nella sinagoga a parlare di Gesù, però non ha ricevuto il battesimo cristiano, ma solo quello di Giovanni Battista. Che strana figura è mai questo Apollo! Ciò che per noi è di grande interesse risulta dal fatto che Priscilla e Aquila, due ferventi cristiani della prima ora, non si lasciano intimorire dai sospetti, non si oppongono allo zelo di questo cristiano sui generis, non stanno - insomma sulle difensive. D'altro canto non peccano neppure di faciloneria né d'ingenuità. Il testo sacro dice che ascoltarono Apollo, lo presero con sé e con quel tatto e quella franchezza che viene alle persone quando praticano con tutto il cuore il vangelo, lo aiutarono a colmare i vuoti della sua parziale espressione cristiana. Lo incoraggiarono poi a perseguire il suo desiderio di raggiungere la Grecia a scopo di apostolato. E quando ciò avvenne, fu evidente che il sincero slancio di Apollo corroborato dall'aiuto fraterno e generoso di Priscilla e Aquila ebbe come splendido risultato sia l'accoglienza fraterna dei Giudei che già conoscevano Gesù, sia l'efficace predicazione di Apollo che, ormai preparatissimo, confutava gli errori e completava nelle menti quella conoscenza di Cristo salvatore che ha bisogno sempre di profondità e di perseverante apertura del cuore alla luce.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, mi spalanco interiormente all'ammirazione dell'atteggiamento di questi personaggi: il coraggio e lo slancio di Apollo, la fede che diventa accoglienza e aiuto del tutto gratuito di Priscilla e Aquila.

Signore dammi un cuore grande e il coraggio di approfondire sempre di più la conoscenza di Gesù e dei suoi misteri.

La voce di un medico santo
Ho pensato che fosse debito di coscienza istruire i giovani, aborrendo dall'andazzo di tenere misterioso gelosamente il frutto della propria esperienza, ma rivelarlo a loro
S.Giuseppe Moscati

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05/06/2011 09:52
 
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don Fulvio Bertellini
Squilibrati verso le genti

Il monte eccentrico

L'appuntamento fissato da Gesù sul monte in Galilea ha una duplice valenza simbolica: indica una relazione speciale con Dio e una particolare attitudine verso l'uomo. Il monte richiama il monte delle Beatitudini, che a sua volta richiama il Sinai, luogo della rivelazione di Dio. Sul monte il Risorto conferma di essere il vero rivelatore di Dio, colui che ha definitivamente mostrato il suo volto di Padre e che continua ad assicurare, dopo la sua risurrezione, la sua presenza nella storia dell'umanità. Come il Sinai, il monte situato in Galilea è decentrato rispetto al monte santo di Gerusalemme, sede del tempio di Dio, capitale del popolo di Israele. Ora è il Risorto stesso che ha la funzione del tempio (permettere l'accesso al Padre), e di conseguenza cambia il rapporto tra il nuovo Israele (rappresentato dai discepoli) e gli altri popoli: si verifica un movimento di apertura, di espansione, di rottura dei confini. La Chiesa è decentrata all'esterno di se stessa.

Una storia incompiuta

Mentre noi saremmo interessati a tutti i dettagli dell'apparizione, alle modalità esatte dell'apparizione del Risorto, la narrazione si presenta estremamente sintetica e riassuntiva. Il finale del Vangelo resta aperto, come una storia non ancora completata, in cui non solo resta insoddisfatta la curiosità del lettore, ma permangono anche i dubbi dei discepoli. Che peraltro sono anche i nostri dubbi. Per cui vale la pena di riflettere: che cosa si nasconde dietro al dubitare nostro e dei discepoli? E come può essere superato? Leggendo il Vangelo siamo sorpresi dal fatto che dubbio e adorazione coesistono, e Gesù sembra non prendere in considerazione questa difficoltà, ma dice soltanto "Andate".

La sua forza

La missione quindi non si basa sulla forza dei discepoli, sulla loro fede forte e coerente, priva di punti deboli, sulla loro rocciosa disponibilità. "A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra" dice il Risorto, invitando i discepoli a fidarsi della sua forza, non della loro personale attitudine. Come nella prima lettura, il rischio dei discepoli è cadere nella tentazione di "costruire il Regno di Israele", rispondente alle loro aspettative umane; come nella seconda lettura, il rischio potrebbe essere lasciarsi impaurire da "principati, autorità, dominazioni, nomi che si possono nominare": invece i discepoli non devono costruire il loro regno, con le loro forze, annunciando le proprie convinzioni. Sono chiamati ad "ammaestrare" le genti con un messaggio che non è loro, battezzando in nome di Dio (e non della loro autorità), insegnando ciò che Gesù ha comandato.
Decentrati verso il mondo, i discepoli sono chiamati a decentrarsi anche da se stessi, dalle proprie paure, dalle proprie incertezze.

Il contenuto della missione

Dopo aver quindi chiarito l'atteggiamento corretto del discepolo, esaminiamo più da vicino la loro missione. All'inizio e alla fine sta un mandato di insegnamento: "far discepole le genti" e "insegnare ad osservare ciò che Gesù ha comandato". Si tratta di una attenzione costante del vangelo di Matteo, sempre attento alla figura di Gesù come Maestro, e alla valenza morale dell'evento della Salvezza. Ma non si tratta di una riduzione dottrinale e moralistica: "fare discepoli" significa instaurare una relazione personale di discepolato, creare un rapporto vivo; e anche l'osservanza dei "comandi" (si usa qui il vocabolario giudaizzante dell'osservanza della Legge) è legata alla persona viva di Gesù: non è un libro, o una Legge scritta il punto di riferimento, ma Gesù stesso, "ciò che io vi ho comandato".
Tra i due estremi, l'incarico di battezzare, in posizione centrale. Tra il discepolato e l'osservanza, sta l'evento di salvezza del Battesimo. Non è possibile diventare pienamente discepoli, e neppure osservare pienamente i comandi di Gesù, se non si entra a far parte della vita divina, del Padre, del Figlio, dello Spirito. Sta qui il cuore della missione che Gesù affida ai discepoli. Ed è anche l'ultima parola del Vangelo di Matteo: "io sono con voi sempre...", che richiamano il nome divino rivelato a Mosè: "io sono colui che sono". Viene così data anche una risposta al dubbio dei discepoli: proprio partendo per la loro missione, testimoniando il Risorto, potranno sperimentare in maniera tangibile la presenza effettiva del risorto nella loro vita e nella storia del mondo.


Flash sulla I lettura

"... parlando loro del Regno di Dio". Gesù spiega ai discepoli "le cose del Regno", tutto ciò che riguarda il progetto con cui Dio intende "regnare" sulla terra. Tuttavia la domanda finale dei discepoli mostra che essi non hanno ancora capito completamente il progetto divino: essi pensano ancora alla ricostituzione del "regno di Israele". Il fraintendimento deve essere superato: i discepoli sono chiamati risolutamente a camminare secondo una mentalità nuova, abbandonando le loro antiche idee, che ostinatamente riemergono.
"... attendere che si adempisse la promessa del Padre": si usa qui il vocabolario della promessa, profondamente radicato nell'Antico Testamento. Ad Abramo Dio aveva promesso una terra e una discendenza; a Mosè il possesso della terra e la benedizione, in concomitanza con il dono della Legge; a Davide una stirpe regale che avrebbe sempre regnato su Israele. I profeti avevano di volta in volta rinnovato l'annuncio delle promesse divine, anche nei momenti più oscuri della storia del popolo. I discepoli sono ora chiamati a scoprire la realizzazione di ciò che era stato soltanto annunciato: non più un soltanto un regno terreno, non più l'elezione soltanto di un popolo, ma il dono dello Spirito, che rende presente Dio stesso nell'intimo dei discepoli. Attraverso lo Spirito, la promessa si apre a tutti i popoli, al di là dei confini di Israele.
"fino agli estremi confini della terra": non si tratta dunque di ricostituire un regno assecondando i propri sogni di potenza umana, ma di partire con la forza dello Spirito, che ridefinisce le antiche promesse. Non si tratta di rafforzare l'entità chiusa di Israele, ma di aprirsi a tutti i popoli della terra, secondo un movimento di espansione. Che a sua volta non corrisponde a una logica umana di conquista, ma alla logica dell'amore sempre traboccante di Dio. Potrebbe essere interessante confrontare alla luce delle parole di Gesù le nostre aspirazioni e i nostri progetti: viviamo anche noi, nelle nostre comunità, la tentazione di crearci il nostro "regno"? o la tentazione di chiuderci in un gruppo ristretto di "eletti"? Come viviamo la tensione missionaria?

Flash sulla II lettura

"... a quale speranza... quale tesoro di gloria... quale la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti...": occorre lasciarsi "illuminare gli occhi della mente" per comprendere la grandezza della nostra vocazione di credenti. Il rischio che la lettera agli Efesini ha di fronte è la svalutazione e la banalizzazione della fede, rischio che cominciava ad emergere nelle prime comunità, dopo l'entusiasmo iniziale della conversione, e che rischia di impastoiare anche noi, dopo due millenni di storia della Chiesa. Abbiamo ricevuto un tesoro enorme, qualcosa di grande e bello, che dà pienezza alla nostra vita e allarga l'orizzonte della nostra speranza. Tuttavia gli "occhi della nostra mente" potrebbero essere miopi, o del tutto ciechi, di fronte al dono ricevuto.
"al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione, non solo nel secolo presente, ma anche in quello futuro". Infatti, ciò che vediamo più immediatamente sono altre realtà, che appaiono più forti, immediatamente vincenti, dotate di grande capacità di seduzione. Per noi si tratta del potere economico, del potere politico, del fascino dei mezzi di comunicazione... per gli Efesini si trattava di altri poteri (quello dell'imperatore, quello dei dominatori locali, e soprattutto le varie credenze religiose, legate al paganesimo o alla mistica filosofica, di entità demoniache o angeliche intermedie tra Dio e l'uomo, che si affiancavano alla figura di Cristo), ma il messaggio resta identico allora come oggi: non c'è nessun potere, nessuna autorità che ci possa separare da Gesù e prendere il suo posto, o anche soltanto affiancarlo. Il cristiano, nella misura in cui resta unito a Cristo, è libero dalla soggezione reverenziale, dal senso di inferiorità, dall'angoscia di doversi confrontare con un potere esterno.

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07/06/2011 08:44
 
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Eremo San Biagio


Dalla Parola del giorno
Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di dare testimonianza al vangelo della grazia di Dio. E ora, ecco, io so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunciando il Regno.

Come vivere questa Parola?
In questa frase è l'apostolo, l'uomo che, chiamato da Cristo, ha consacrato tutta la sua vita alla causa del vangelo. Cristo, l'avvento del suo Regno, la diffusione del suo messaggio di amore, è il tutto che assorbe i suoi interessi, il resto, come dichiarerà egli stesso, a confronto è ritenuto spazzatura.
Un atteggiamento disfattista, carico di disprezzo per le altre realtà? Leggendo attentamente Pao-lo non si direbbe. Egli parla con un giustificato orgoglio delle sue origini e del suo passato di integerri-mo fariseo, pieno di zelo per Dio. Ma tutto questo non regge al confronto con l'esperienza di Cristo.
Conquistato dal suo amore, folgorato dalla sua luce, egli non può più tacere. È ben cosciente che quanto ha ricevuto non è un bene ad uso privato: egli è solo depositario di un dono destinato a tutti gli uomini. Non ha il diritto di sottrarsi al compito, talvolta ingrato, di farsene latore. Ed eccolo, docile allo Spirito, "farsi tutto a tutti", affrontare rifiuti, persecuzioni e la stessa morte, perché si realizzi il desiderio del Padre: che tutti siano salvi.
È la stessa carità di Cristo che lo spinge sulle vie dell'apostolato, quelle stesse vie che oggi si schiudono dinanzi ai passi di ogni battezzato perché la Parola continui a fecondare la storia, fugandone le tenebre che ancora tentano di avvilupparlo.

Oggi, nella mia pausa contemplativa, invocherò dallo Spirito Santo il coraggio di testimoniare Cristo, anche se questo mi richiedesse di pagare di persona.

Donami, Signore, il coraggio di non trattenere per me il tuo dono d'amore, ma di portarlo ai fratelli che, forse inconsapevolmente, ne sono assetati.

La voce di una testimone
Dio ci ha fatti alleanza. È per tutti che ciascuno riceve la fede. Una volta che la Parola di Dio è incarnata in noi, non abbiamo il diritto di conservarla per noi: noi apparteniamo, da quel momento, a coloro che l'attendono.
Madeleine Delbrêl

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09/06/2011 13:37
 
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Monaci Benedettini Silvestrini
Siano perfetti nell'unità

Dopo aver pregato per i suoi discepoli, Gesù prega ora per tutte le generazioni dei credenti. I discepoli non debbono isolarsi nella loro fede religiosa come in una torre d'avorio. Sono la cellula che si svilupperà in una comunità sempre più vasta di credenti, mediante la fede attinta al Vangelo, predicato dai primi discepoli in poi sotto la forza dello Spirito Santo. Così attraverso la loro predicazione che i credenti di sempre, anche di oggi, vengono misteriosamente a contatto col verbo, che si è fatto carne per la salvezza di tutti e formano con lui e con il Padre una unità perfetta. Questa unità fra i discepoli non è solo una forte aggregazione, basata su comunanze cultuali e culturali, ma deve avere una connotazione teologale ben precisa. Deve essere una unità come esiste fra il Padre e il Figlio, e una comunione di tutti con il Padre e il Figlio. Tale unità realizzata nei discepoli è condizione "perché il mondo creda che il Padre ha inviato Gesù" come suo Figlio, salvatore degli uomini. "Io in loro e tu in me, affinché siano perfetti nell'unità, e il mondo conosca che tu mi hai mandato, e li hai amati come hai amato me". Questa comunione è possibile solo nell'amore: solo con l'amore una persona può essere nell'altra. L'incarnazione di Dio in Cristo e nei credenti dev'essere un argomento di credibilità per il mondo. Il mondo crederà in Dio solo quando lo vedrà in coloro che lo attestano. Ma si tratta sempre di una comunione di vita da cercare, da realizzare progressivamente fino al compimento. Gesù ha pregato per l'unità dei discepoli ai quali ha trasmesso le parole udite dal Padre, ai quali invia lo Spirito Santo per guidarli alla verità tutta intera e che sono conservati in questa fede dall'amore del Padre e dalla preghiera del Figlio. Noi non troviamo in ciò una risposta ai nostri attuali problemi ecumenici, ma siamo posti nel clima nel quale sperare e operare per l'unità intesa da Gesù.

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11/06/2011 08:33
 
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don Elio Dotto
Il grido dell'uomo e il soffio dello Spirito

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani

Fratelli, sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo [...].

Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio.

Dal Vangelo secondo Giovanni

Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno».

Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato.

Il grido dell'uomo e il soffio dello Spirito

Sembra quasi di sentirlo quel grido della creazione di cui parla san Paolo nella lettera ai Romani (8,22-27), e che ci viene riproposto nella seconda lettura della Messa vigiliare di Pentecoste. «Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto». Sembra quasi che quel grido prenda forma e voce negli innumerevoli gemiti della nostra storia, nei sospiri e nelle sofferenze della nostra vita, nell'attesa a volte spasmodica del nostro cuore.

Sì, anche noi gridiamo interiormente: «anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente, aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo». C'è infatti un senso di paura e di insicurezza che sempre percorre le nostre giornate. In fondo, ci sentiamo sempre un po' orfani e spaesati davanti a questa nostra vita: abbiamo bisogno di un padre, di un redentore, di una guida che dia finalmente sicurezza e futuro ai nostri passi incerti.

Proprio come accadde un giorno al popolo di Israele, durante la traversata del deserto narrata nel libro dell'Esodo: troppo lontana sembrava a loro quella terra promessa da Dio, lontana al punto da apparire più un miraggio che una realtà. Fu allora che il popolo alzò la sua voce, e gridò contro il Signore e contro Mosé.

Quel grido di dolore era certo un grido giustificato, in quanto esprimeva tutta la sofferenza dei profughi di Israele, costretti a vagare nel deserto, assetati e affamati. E tuttavia quel grido di dolore era anche il grido di un popolo smemorato, che più non ricordava le grandi opere compiute dal Signore in Egitto, quando avevano attraversato illesi il Mar Rosso. «Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me» (cfr Es 19,3-8.16-20: prima lettura della Messa vigiliare di Pentecoste). Avevano certo visto gli israeliti queste grandi opere del Signore; ma già se ne erano scordati, e ora gridavano la loro sofferenza contro Dio e contro Mosé.

Appunto la mancanza di memoria rende disperato il grido dell'uomo; appunto quando non siamo più capaci di ricordare la bontà del Signore ci accade di smarrire il nostro futuro, e di gridare senza speranza contro Dio e contro i fratelli.

Non così invece fu il grido di Gesù sulla croce, quando si trovò faccia a faccia con la morte. L'evangelista Giovanni, testimone autorevole di quella morte, lo ricorda con nettezza: non fu la disperazione a far risuonare il grido di Gesù morente, ma fu lo Spirito Santo a gridare in lui. E fu un grido carico della memoria di Dio, un grido che si ricordava del Padre, ed affidava al Padre quella vita straziata, nella certezza della sua misericordia.

Ebbene, questo grido dello Spirito oggi è donato anche a noi. La promessa di Gesù è chiara: «Chi ha sete venga a me e beva... Fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno» (cfr Gv 7,37-39: Vangelo della Messa vigiliare di Pentecoste). Anche noi, assetati e stanchi, possiamo cambiare il nostro grido disperato e senza memoria con il grido dello Spirito Santo, che ci dona una speranza, ricordandoci la bontà del Signore. Anche per noi lo Spirito Santo può diventare il soffio che dà finalmente voce ai nostri silenzi, alla frenesìa del nostro desiderio, al pianto dei nostri cuori... Anche noi, oggi e sempre, possiamo ripetere il grido pasquale di Gesù che si abbandona al Padre.

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12/06/2011 10:31
 
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don Bruno Maggioni
Pentecoste, lo Spirito chiama all’universalità

Luca descrive la venuta dello Spirito (Atti 2,1-11) utilizzando i simboli classici che accompagnano l'azione di Dio: il vento, il terremoto e il fuoco. Ma nel suo racconto c'è un simbolo in più: le lingue si dividono e si posano su ciascuno dei presenti, cosicché «incominciarono a parlare in altre lingue». Con questo diventa chiaro il compito di unità e di universalità a cui lo Spirito chiama la sua Chiesa. Luca si dilunga anche nel dire che la folla accorsa era composta di uomini di varie nazionalità (2,19-11). E aggiunge: «Ciascuno li sentiva parlare nella sua propria lingua» (2,8). È come dire che lo Spirito non ha una sua lingua, né si lega a una lingua o a una cultura particolare, ma si esprime attraverso tutte. Con la venuta dello Spirito a Pentecoste e la nascita della comunità cristiana inizia in seno all'umanità una storia nuova, rovesciata rispetto alla storia di Babele. Nell'antico racconto (Genesi 11,1-9) si legge che gli uomini hanno voluto, come conquista propria e non come dono, raggiungere Dio. È l'eterna tentazione dell'uomo di voler costruire una città senza Dio e cercare salvezza in se stessi. Ma al di fuori di Dio l'uomo non trova che confusione e dispersione. A Babele uomini della stessa lingua non si intendono più. A Pentecoste invece uomini di lingue diverse si incontrano e si intendono. Il compito che lo Spirito affida alla sua Chiesa è di imprimere alla storia umana un movimento di riunificazione. Ma nello Spirito, nella libertà e attorno a Dio.
Lo Spirito trasforma un gruppo di persone racchiuse nel Cenacolo, al riparo, in testimoni consapevoli e coraggiosi. Apre i discepoli sul mondo e dà loro il coraggio di proporsi in pubblico, raccontando davanti a tutti «le grandi opere di Dio». Tuttavia lo Spirito non sottrae la Chiesa all'incomprensione e al dissenso. Rende efficace l'annuncio, ma non lo sottrae alla discussione: «Alcuni erano stupiti e perplessi... altri li deridevano» (2,12-13). Come nella Pentecoste lucana, anche nel breve passo evangelico di Giovanni (20,19-23) è detto che lo Spirito ricrea la comunità degli apostoli e l'apre alla missione. Ma con più precisione di Luca, Giovanni afferma che lo Spirito è il dono del Cristo: «ricevete lo Spirito Santo». Gesù risorto non soltanto dona lo Spirito in vista della missione, ma anche in vista del perdono dei peccati. Viene da Giovanni posta una stretta relazione fra lo Spirito, la comunità dei discepoli e il perdono. La remissione dei peccati è una trasformazione che solo lo Spirito può compiere.

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16/06/2011 08:14
 
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Eremo San Biagio

Dalla Parola del giorno
Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole.

Come vivere questa Parola?
Gesù stabilisce un paragone tra la preghiera dei cristiani e quella dei pagani invitando a non "sprecare parole" come fanno loro.
Da sempre l'uomo cerca un contatto con il divino. Bisogno che si acuisce nei momenti in cui si sperimenta la propria fragilità e impotenza. È allora che si cerca di afferrarsi a una mano capace di sottrarre alla prova.
Fin qui nessuna differenza. Eppure il richiamo di Gesù orienta verso una riappropriazione della preghiera che la situi a un livello qualitativamente diverso.
Innanzitutto il riferimento ai pagani orienta verso una particolare concezione di Dio, ridotto a idolo da propiziarsi e da manipolare, mentre Gesù ce ne ha rivelato il volto personale e paterno. Nel primo caso la preghiera scade facilmente a ritualismo magico che tenta di piegare la volontà di un Dio impassibile e lontano. Nel secondo caso, invece, Dio è Padre previdente e preveniente. La preghiera può allora esprimersi in un semplice moto dell'anima, in un gesto di umile e confidente abbandono, in una semplicissima parola: Abbà!
L'accento sull'inutile verbosità spinge poi a risalire alla sorgente segreta della preghiera: a quel silenzio abitato che è dentro di noi. Qui nella solitudine adorante, nella nudità dell'essere in cui si coglie la verità profonda di se stessi e di Dio nasce la preghiera.
A questo punto ci si accorge che nella preghiera siamo tutti principianti, che in ognuno di noi c'è uno spazio pagano da cui liberarci. Non resta che dire con gli apostoli: Maestro, insegnaci a pregare!

Nella mia pausa contemplativa, proverò a fare esercizio di silenzio, inabissandomi nelle profondità del mio cuore dove sono certo di incontrare Dio-Amore. Proverò poi a riassumere tutta la mia preghiera in quest'unico grido:
Abbà, Padre mio!

La voce di una beata
Bisogna che tutti noi troviamo il tempo di restare in silenzio e di contemplare, soprattutto se viviamo nelle metropoli. Dio è amico del silenzio: dobbiamo ascoltare Dio perché ciò che conta non è quello che diciamo noi, ma quello che Egli dice a noi e attraverso di noi.
Madre Teresa di Calcutta
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18/06/2011 10:02
 
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Eremo San Biagio


Dalla Parola del giorno
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.

Come vivere questa Parola?
"Guardate" "Osservate": due verbi che richiedono la capacità di fermarsi e di contemplare, sfuggendo alla frenesia dell'efficientismo o alla paralisi della noia. Sono proprio efficientismo e noia i due opposti che oggi schiavizzano la società opulenta dell'Occidente postmoderna e postcristiana. E Gesù, anche con questa parola, interviene in maniera fortemente terapeutica. L'esistenza "malata" di oggi può esserne guarita. "Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete; e anche per il vostro corpo, di quello che indosserete: la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Gesù va all'essenziale, ti porta al cuore della vita. Ti snebbia lo sguardo interiore. La tua vita non la nutri solo di soldi o comunque solo di realtà da possedere. "La vita vale di più". E quel Dio che si prende cura degli uccelli e dei gigli del campo "farà assai di più" per te, per me, per noi. Gesù vuol trarre fuori da noi l'uomo e la donna liberi che rischiano di essere asserviti al sistema, anche solo per incapacità di osservare, di riflettere, di pregare, e poi di scegliere. Se sei confuso, rischi di vivere affannosamente servendo il Dio Mammona: la ricchezza qualsiasi possa essere, fosse anche il tuo crederti a posto, migliore degli altri, con un bel "gruzzolo" di cose che sai o di virtù che possiedi e tieni strette. Ma nessuno può servire due padroni. Non puoi servire Dio e la ricchezza, dice il Signore.

Oggi decido di avere un po' di tempo per fermarmi e "contemplare". Un albero o un filo d'erba, un uccello o il manto verde di una montagna, ecco io li guardo con gli occhi del cuore illuminati dall'Alto, dallo Spirito Santo, li guardo in chiave contemplativa.

Mio Signore, Tu nutri gli uccelli dentro la loro semplice vita, libera da ogni preoccupazione. Mio Dio, Tu vesti i fiori meglio di come si vestiva Salomone. Liberami dunque dall'affannosa preoccupazione. Che io rispetti il ritmo del mio vivere non schiavizzato da nessuno e da niente perché colmo di fiducia in te, di pieno abbandono all'unica ricchezza vera: il tuo AMORE.

La voce di un Padre della Chiesa
Cristo non proibisce di seminare, ma dice che non dobbiamo affannarci, nemmeno per quanto ci è necessario. Non ci vieta di lavorare, ma non vuole che siamo senza fiducia e che ci maceriamo nell'inquietudine e nelle preoccupazioni. Ci comanda infatti di nutrirci: ma non vuole che tale pensiero ci tormenti e crei difficoltà allo spirito.
Giovanni Crisostomo

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20/06/2011 08:37
 
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a cura dei Carmelitani


1) Preghiera

Dona al tuo popolo, o Padre,
di vivere sempre nella venerazione e nell’amore
per il tuo santo nome,
poiché tu non privi mai della tua guida
coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...




2) Lettura

Dal Vangelo secondo Matteo 7,1-5
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati; e con la misura con la quale misurate sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”.



3) Riflessione

• Nel vangelo di oggi continuiamo a meditare sul Discorso della Montagna che si trova nei capitoli da 5 a 7 del vangelo di Matteo. Durante la 10a e l'11a Settimana del Tempo Ordinario abbiamo visto i capitoli 5 e 6. Durante questi giorni vedremo il capitolo 7. Questi tre capitoli, 5, 6 e 7 offrono un’idea di come si faceva la catechesi nelle comunità dei giudei convertiti nella seconda metà del primo secolo in Galilea ed in Siria. Matteo unisce ed organizza le parole di Gesù per insegnare come deve essere il modo nuovo di vivere la Legge di Dio.
• Dopo aver spiegato come ristabilire la giustizia (Mt 5,17 a 6,18) e come restaurare l’ordine della creazione (Mt 6,19-34), Gesù insegna come deve essere la vita in comunità (Mt 7,1-12). Alla fine, presenta alcune raccomandazioni e consigli (Mt 7,13-27). A continuazione, ecco uno schema di tutto il Discorso della Montagna:
Matteo 5,1-12: Le Beatitudini: apertura solenne della nuova Legge
Matteo 5,13-16: La nuova presenza nel mondo: Sale della terra e Luce del mondo
Matteo 5,17-19: La nuova pratica della giustizia: rapporto con l’antica legge
Matteo 5, 20-48: La nuova pratica della giustizia: osservando la nuova Legge
Matteo 6,1-4: La nuova pratica delle opere di pietà: l’elemosina
Matteo 6,5-15: La nuova pratica delle opere di pietà: la preghiera
Matteo 6,16-18: La nuova pratica delle opere di pietà: il digiuno
Matteo 6,19-21: Il nuovo rapporto con i beni materiali: non accumulare
Matteo 6,22-23: Il nuovo rapporto con i beni materiali: visione corretta
Matteo 6,24: Il nuovo rapporto con i beni materiali: Dio o il denaro
Matteo 6,25-34: Il nuovo rapporto con i beni materiali: aver fiducia nella Provvidenza
Matteo 7,1-5: La nuova convivenza comunitaria: non giudicare
Matteo 7,6: La nuova convivenza comunitaria: non disprezzare la comunità
Matteo 7,7-11: La nuova convivenza comunitaria: la fiducia in Dio genera la condivisione
Matteo 7,12: La nuova convivenza comunitaria: la Regola d’Oro
Matteo 7,13-14: Raccomandazioni finali: scegliere il cammino sicuro
Matteo 7,15-20: Raccomandazioni finali: il profeta si conosce dai frutti
Matteo 7,21-23: Raccomandazioni finali: non solo parlare, ma anche praticare
Matteo 7,24-27: Raccomandazioni finali: costruire la casa sulla roccia
• Il vissuto comunitario del vangelo (Mt 7,1-12) e la prova essenziale. É dove si definisce la serietà dell’impegno. La nuova proposta di vita in comunità abbraccia diversi aspetti: non osservare la pagliuzza nell’occhio del fratello (Mt 7,1-5), non gettare le perle ai porci (Mt 7,6), non aver paura di chiedere cose a Dio (Mt 7,7-11). Questi consigli culminano nella Regola d’Oro: fare all’altro ciò che ti piacerebbe che l’altro facesse a te (Mt 7,12). Il vangelo di oggi presenta la prima parte: Matteo 7,1-5.
• Matteo 7,1-2: Non giudicate e non sarete giudicati. La prima condizione per una buona convivenza comunitaria è non giudicare il fratello o la sorella, ossia, eliminare i preconcetti che impediscono la convivenza trasparente. Cosa significa questo concretamente? Il vangelo di Giovanni dà un esempio di come Gesù viveva in comunità con i discepoli. Gesù dice: “Non vi chiamo servi, perché il servo non sa cosa fa il padrone; io vi chiamo amici perché vi ho comunicato tutto ciò che ho udito dal Padre mio” (Gv 15,15). Gesù è un libro aperto per i suoi compagni. Questa trasparenza nasce dalla sua totale fiducia nei fratelli e nelle sorelle ed ha la sua radice nella sua intimità con il Padre che gli dà la forza di aprirsi totalmente agli altri. Chi vive così con i suoi fratelli e sorelle, accetta l’altro come è, senza preconcetti, senza imporgli condizioni previe, senza giudicarlo. Mutua accettazione, senza finzioni. E’ una trasparenza totale! Ecco l’ideale della nuova vita comunitaria, nata dalla Buona Novella che Gesù ci porta: Dio è Padre e Madre e, quindi, tutti noi siamo fratelli e sorelle. E’ un ideale difficile ma molto bello ed attraente come l’altro: ”Siate perfetti come il Padre del cielo è perfetto” (Mt 5,48).
• Matteo 7.3-5: Vedi la pagliuzza e non la trave. Subito Gesù dà un esempio: “Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. Nell’udire questa frase siamo soliti pensare ai farisei che disprezzavano la gente considerandola ignorante e loro si consideravano migliori degli altri (cf. Gv 7,49; 9,34). In realtà, la frase di Gesù serve a tutti noi. Per esempio, oggi molti di noi cattolici siamo meno fedeli al vangelo che i non cattolici. Osserviamo la pagliuzza nell’occhio dei nostri fratelli e non vediamo la trave di orgoglio prepotente collettivo nei nostri occhi. Questa trave fa sì che oggi molte persone hanno difficoltà a credere nella Buona Novella di Gesù.



4) Per un confronto personale

• Non giudicare l’altro ed eliminare preconcetti: su questo punto qual è la mia esperienza personale?
• Pagliuzza e trave: qual è la trave in me che rende difficile la mia partecipazione alla vita in famiglia e in comunità?




5) Preghiera finale

Signore, dirigimi sul sentiero dei tuoi comandi,
perché in esso è la mia gioia.
Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti
e non verso la sete del guadagno.
(Sal 118)

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