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La presenza di Dio

Ultimo Aggiornamento: 12/06/2020 09:44
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05/01/2011 19:54
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


«Riscattare questo tempo natalizio
da un rivestimento troppo moralistico e sentimentale»



“Adorazione dei magi"
Sandro Botticelli (1482) - National Gallery of Art di Washington


«La notte di Natale è profondamente legata
alla grande veglia notturna della Pasqua, quando la redenzione
si compie nel sacrificio glorioso del Signore morto e risorto»



La luce del tempo di Natale
Benedetto XVI

Ancora circondati dalla luce del Santo Natale, che ci invita alla gioia per la venuta del Salvatore, siamo oggi alla vigilia dell'Epifania, in cui celebriamo la manifestazione del Signore a tutte le genti. La festa del Natale affascina oggi come una volta, più di altre grandi feste della Chiesa; affascina perché tutti in qualche modo intuiscono che la nascita di Gesù ha a che fare con le aspirazioni e le speranze più profonde dell'uomo. Il consumismo può distogliere da questa interiore nostalgia, ma se nel cuore c'è il desiderio di accogliere quel Bambino che porta la novità di Dio, che è venuto per donarci la vita in pienezza, le luci degli addobbi natalizi possono diventare piuttosto un riflesso della Luce che si è accesa con l'incarnazione di Dio.

Nelle celebrazioni liturgiche di questi giorni santi abbiamo vissuto in modo misterioso ma reale l'ingresso del Figlio di Dio nel mondo e siamo stati illuminati ancora una volta dalla luce del suo fulgore. Ogni celebrazione è presenza attuale del mistero di Cristo e in essa si prolunga la storia della salvezza. A proposito del Natale, il Papa san Leone Magno afferma: "Anche se la successione delle azioni corporee ora è passata, come è stato ordinato in anticipo nel disegno eterno..., tuttavia noi adoriamo continuamente lo stesso parto della Vergine che produce la nostra salvezza" (Sermone sul Natale del Signore 29, 2), e precisa: "perché quel giorno non è passato in modo tale che sia anche passata la potenza dell'opera che allora fu rivelata" (Sermone sull'Epifania 36, 1). Celebrare gli eventi dell'incarnazione del Figlio di Dio non è semplice ricordo di fatti del passato, ma è rendere presenti quei misteri portatori di salvezza. Nella Liturgia, nella celebrazione dei Sacramenti, quei misteri si rendono attuali e diventano efficaci per noi, oggi. Ancora san Leone Magno afferma: "Tutto ciò che il Figlio di Dio fece e insegnò per riconciliare il mondo, non lo conosciamo soltanto nel racconto di azioni compiute nel passato, ma siamo sotto l'effetto del dinamismo di tali azioni presenti" (Sermone 52, 1).

Nella Costituzione sulla sacra liturgia, il Concilio Vaticano ii sottolinea come l'opera della salvezza realizzata da Cristo continua nella Chiesa mediante la celebrazione dei santi misteri, grazie all'azione dello Spirito Santo. Già nell'Antico Testamento, nel cammino verso la pienezza della fede, abbiamo testimonianze di come la presenza e l'azione di Dio sia mediata attraverso i segni, ad esempio, quello del fuoco (cfr. Es 3, 2ss; 19, 18). Ma a partire dall'Incarnazione avviene qualcosa di sconvolgente: il regime di contatto salvifico con Dio si trasforma radicalmente e la carne diventa lo strumento della salvezza: "Verbum caro factum est", "il Verbo si fece carne", scrive l'evangelista Giovanni e un autore cristiano del iii secolo, Tertulliano, afferma: "Caro salutis est cardo", "la carne è il cardine della salvezza" (De carnis resurrectione, 8, 3: PL 2, 806).

Il Natale è già la primizia del "sacramentum-mysterium paschale", è cioè l'inizio del mistero centrale della salvezza che culmina nella passione, morte e risurrezione, perché Gesù comincia l'offerta di se stesso per amore fin dal primo istante della sua esistenza umana nel grembo della Vergine Maria. La notte di Natale è quindi profondamente legata alla grande veglia notturna della Pasqua, quando la redenzione si compie nel sacrificio glorioso del Signore morto e risorto. Lo stesso presepio, quale immagine dell'incarnazione del Verbo, alla luce del racconto evangelico, allude già alla Pasqua ed è interessante vedere come in alcune icone della Natività nella tradizione orientale, Gesù Bambino venga rappresentato avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia che ha la forma di un sepolcro; un'allusione al momento in cui Egli verrà deposto dalla croce, avvolto in un lenzuolo e messo in un sepolcro scavato nella roccia (cfr Lc 2, 7; 23, 53). Incarnazione e Pasqua non stanno una accanto all'altra, ma sono i due punti chiave inseparabili dell'unica fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio Incarnato e Redentore. Croce e Risurrezione presuppongono l'Incarnazione. Solo perché veramente il Figlio, e in Lui Dio stesso, "è disceso" e "si è fatto carne", morte e risurrezione di Gesù sono eventi che risultano a noi contemporanei e ci riguardano, ci strappano dalla morte e ci aprono ad un futuro in cui questa "carne", l'esistenza terrena e transitoria, entrerà nell'eternità di Dio. In questa prospettiva unitaria del Mistero di Cristo, la visita al presepio orienta alla visita all'Eucaristia, dove incontriamo presente in modo reale il Cristo crocifisso e risorto, il Cristo vivente.

La celebrazione liturgica del Natale, allora, non è solo ricordo, ma è soprattutto mistero; non è solo memoria, ma anche presenza. Per cogliere il senso di questi due aspetti inscindibili, occorre vivere intensamente tutto il Tempo natalizio come la Chiesa lo presenta. Se lo consideriamo in senso lato, esso si estende per quaranta giorni, dal 25 dicembre al 2 febbraio, dalla celebrazione della Notte di Natale, alla Maternità di Maria, all'Epifania, al Battesimo di Gesù, alle nozze di Cana, alla Presentazione al Tempio, proprio in analogia con il Tempo pasquale, che forma un'unità di cinquanta giorni, fino alla Pentecoste. La manifestazione di Dio nella carne è l'avvenimento che ha rivelato la Verità nella storia. Infatti, la data del 25 dicembre, collegata all'idea della manifestazione solare - Dio che appare come luce senza tramonto sull'orizzonte della storia -, ci ricorda che non si tratta solo di un'idea, quella che Dio è la pienezza della luce, ma di una realtà per noi uomini già realizzata e sempre attuale: oggi, come allora, Dio si rivela nella carne, cioè nel "corpo vivo" della Chiesa peregrinante nel tempo, e nei Sacramenti ci dona oggi la salvezza.

I simboli delle celebrazioni natalizie, richiamati dalle Letture e dalle preghiere, danno alla liturgia di questo Tempo un senso profondo di "epifania" di Dio nel suo Cristo-Verbo incarnato, cioè di "manifestazione" che possiede anche un significato escatologico, orienta cioè agli ultimi tempi. Già nell'Avvento le due venute, quella storica e quella alla fine della storia, erano direttamente collegate; ma è in particolare nell'Epifania e nel Battesimo di Gesù che la manifestazione messianica si celebra nella prospettiva delle attese escatologiche: la consacrazione messianica di Gesù, Verbo incarnato, mediante l'effusione dello Spirito Santo in forma visibile, porta a compimento il tempo delle promesse e inaugura i tempi ultimi.

Occorre riscattare questo Tempo natalizio da un rivestimento troppo moralistico e sentimentale. La celebrazione del Natale non ci propone solo degli esempi da imitare, quali l'umiltà e la povertà del Signore, la sua benevolenza e amore verso gli uomini; ma è piuttosto l'invito a lasciarci trasformare totalmente da Colui che è entrato nella nostra carne. San Leone Magno esclama: "il Figlio di Dio... si è congiunto a noi e ha congiunto noi a sé in modo tale che l'abbassamento di Dio fino alla condizione umana divenisse un innalzamento dell'uomo fino alle altezze di Dio" (Sermone sul Natale del Signore 27, 2). La manifestazione di Dio è finalizzata alla nostra partecipazione alla vita divina, alla realizzazione in noi del mistero della sua incarnazione. Tale mistero è il compimento della vocazione dell'uomo. Ancora san Leone Magno spiega l'importanza concreta e sempre attuale per la vita cristiana del mistero del Natale: "le parole del Vangelo e dei Profeti... infiammano il nostro spirito e ci insegnano a comprendere la Natività del Signore, questo mistero del Verbo fatto carne, non tanto come un ricordo di un avvenimento passato, quanto come un fatto che si svolge sotto i nostri occhi... è come se ci venisse ancora proclamato nella solennità odierna: "Vi do l'annunzio di una grande gioia, che sarà per tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore che è il Cristo Signore"" (Sermone sul Natale del Signore 29, 1). Ed aggiunge: "Riconosci, cristiano, la tua dignità, e, fatto partecipe della natura divina, bada di non ricadere, con una condotta indegna, da tale grandezza, nella primitiva bassezza" (Sermone 1 sul Natale del Signore, 3).

Cari amici, viviamo questo Tempo natalizio con intensità: dopo aver adorato il Figlio di Dio fatto uomo e deposto nella mangiatoia, siamo chiamati a passare all'altare del Sacrificio, dove Cristo, il Pane vivo disceso dal cielo, si offre a noi quale vero nutrimento per la vita eterna. E ciò che abbiamo veduto con i nostri occhi, alla mensa della Parola e del Pane di Vita, ciò che abbiamo contemplato, ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo fatto carne, annunciamolo con gioia al mondo e testimoniamolo generosamente con tutta la nostra vita. Rinnovo di cuore a tutti voi e ai vostri cari sentiti auguri per il Nuovo Anno e vi auguro una buona festività dell'Epifania.


Fonte -



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06/01/2011 00:20
 
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perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole?????
Bestion., 26/12/2010 23.23:







La carità è la forza che cambia il mondo:




[SM=x44599] dopo un lunga meditazione tutto sommato [SM=x44597] ne basta uno per cambiare il mondo [SM=x44600] perche' le patate nascono sotto terra [SM=x44603] (o crescono gia' su gli alberi [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] ) e bestion tu sai come sono importanti le buccie di patate nei campi [SM=x44603] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]
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[Modificato da paul_65 06/01/2011 00:21]

__________________

non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
06/01/2011 13:15
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


«L'universo non è il risultato del caso,
come alcuni vogliono farci credere»




«Nella bellezza del mondo, nel suo mistero, nella sua grandezza e
nella sua razionalità non possiamo non leggere la razionalità eterna,
e non possiamo fare a meno di farci guidare da essa fino
all'unico Dio, creatore del cielo e della terra»



«La bellezza dell'universo
ci guida all'unico Dio»

Redazione

Lo ha ribadito Benedetto XVI nell'omelia della messa dell'Epifania celebrata questa mattina in San Pietro. "Non dovremmo lasciarci limitare la mente - ha suggerito ai fedeli - da teorie che arrivano sempre solo fino a un certo punto e che, se guardiamo bene, non sono affatto in concorrenza con la fede, ma non riescono a spiegare il senso ultimo della realtà".

Secondo il Pontefice, "nella bellezza del mondo, nel suo mistero, nella sua grandezza e nella sua razionalità non possiamo non leggere la razionalità eterna, e non possiamo fare a meno di farci guidare da essa fino all'unico Dio, creatore del cielo e della terra".

Nell'omelia, il Papa teologo ha indicato come esempio da seguire per un corretto atteggiamento verso la scienza quello dei Re Magi che, ha ricordato, "erano probabilmente dei sapienti che scrutavano il cielo, ma non per cercare di 'leggere' negli astri il futuro, eventualmente per ricavarne un guadagno; erano piuttosto uomini 'in ricercà di qualcosa di più, in ricerca della vera luce, che sia in grado di indicare la strada da percorrere nella vita. Erano persone certe che nella creazione esiste quella che potremmo definire la 'firma' di Dio, una firma che l'uomo può e deve tentare di scoprire e decifrare".

Contemplando l'Universo, ha osservato, "siamo invitati a leggervi qualcosa di profondo: la sapienza del Creatore, l'inesauribile fantasia di Dio, il suo infinito amore per noi". Infatti, "nella bellezza del mondo, nel suo mistero, nella sua grandezza e nella sua razionalità non possiamo non leggere la razionalità eterna, e non possiamo fare a meno di farci guidare da essa fino all'unico Dio, creatore del cielo e
della terra".

"Se avremo questo sguardo, vedremo che Colui che ha creato il mondo e Colui che è nato in una grotta a Betlemme e continua ad abitare in mezzo a noi nell'Eucaristia, sono - ha scandito Ratzinger - lo stesso Dio vivente, che ci interpella, ci ama, vuole condurci alla vita eterna".


Fonte -


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06/01/2011 17:38
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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06/01/2011 19:07
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!









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06/01/2011 19:36
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!







Dies irae
attribuito a Tommaso da Celano (1260 circa)


Dies iræ dies illa,
Solvet sæclum in favilla,
Teste David cum Sybilla.

Quantus tremor est futurus
Quando iudex est venturus,
Cuncta stricte discussurus!

Tuba mirum spargens sonum
Per sepulchra regionum
Coget omnes ante thronum.

Mors stupebit, et natura,
Cum resurget creatura
Iudicanti responsura.

Liber scriptus proferetur
In quo totum continetur
Unde mundus iudicetur.

Iudex ergo cum sedebit,
Quidquid latet apparebit:
Nil inultum remanebit.

Quid sum miser tunc dicturus,
Quem patronum rogaturus,
Cum vix iustus sit securus?

Rex tremendæ maiestatis
Qui salvandos salvas gratis,
Salva me, fons pietatis.

Recordare, Iesu pie,
Quod sum causa tuæ viæ:
Ne me perdas illa die.

Quærens me sedisti lassus,
Redemisti crucem passus:
Tantus labor non sit cassus.

Iuste iudex ultionis,
Donum fac remissionis
Ante diem rationis.

Ingemisco tamquam reus,
Culpa rubet vultus meus:
Supplicanti parce Deus.

Qui Mariam absolvisti,
Et latronem exaudisti,
Mihi quoque spem dedisti.

Preces meæ non sunt dignæ,
Sed tu bonus fac benigne
Ne perenni cremer igne.

Inter oves locum præsta
Et ab hædis me sequestra,
Statuens in parte dextra.

Confutatis maledictis,
Flammis acribus addictis,
Voca me cum benedictis.

Oro supplex et acclinis,
Cor contritum quasi cinis:
Gere curam mei finis.

Lacrimosa dies illa,
Qua resurget ex favilla
Iudicandus homo reus.

Huic ergo parce Deus:
Pie Iesu domine,
Dona eis requiem.

Amen



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06/01/2011 23:49
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


L’inno di lode all’Epifania:


“Adorato dai pastori"
Vannucci Pietro detto Perugino (1515) - Accademia Carrara, Bergamo


«Questa ricorrenza affascina più di altre grandi feste
perché fa intuire un po’ a tutti che la nascita di Gesù
ha a che fare con le nostre speranze»



Dio si rivela
nel corpo vivo della Chiesa

Redazione

L'Epifania, che coincide con l'ultimo giorno di vacanza per scolari e studenti, "affascina oggi come una volta, piu' di altre grandi feste della Chiesa; affascina perche' tutti in qualche modo intuiscono che la nascita di Gesu' ha a che fare con le aspirazioni e le speranze piu' profonde dell'uomo".Tuttavia, "il consumismo puo' distogliere da questa interiore nostalgia". Lo ha affermato il Papa nella catechesi tenuta durante la prima Udienza Generale dell’anno.

"Le luci degli addobbi natalizi possono diventare piuttosto un riflesso della Luce che si e' accesa con l'incarnazione di Dio", ha spiegato il Pontefice, esortando i fedeli a "vivere intensamente tutto il tempo natalizio come la Chiesa lo presenta e che si estende per quaranta giorni, dal 25 dicembre al 2 febbraio, dalla celebrazione della Notte di Natale, alla Maternita' di Maria, all'Epifania, al Battesimo di Gesu', alle nozze di Cana, alla Presentazione al Tempio, proprio in analogia con il tempo pasquale, che forma un'unita' di cinquanta giorni, fino alla Pentecoste". Dobbiamo riscattare, ha spiegato,"questo tempo natalizio da un rivestimento troppo moralistico e sentimentale".

"Alla vigilia dell'Epifania, in cui celebriamo la manifestazione del Signore a tutte le genti", il Papa teologo ha dunque sottolineato che "la celebrazione del Natale non ci propone solo degli esempi da imitare, quali l'umilta' e la poverta' del Signore, la sua benevolenza e amore verso gli uomini; ma e' piuttosto l'invito a lasciarci trasformare totalmente da Colui che e' entrato nella nostra carne". Ed anche che "la celebrazione liturgica del Natale non e' solo ricordo, ma e' soprattutto mistero; non e' solo memoria, ma anche presenza", ha ammonito il Papa, rammentando che il tempo liturgico natalizio e’ "la manifestazione di Dio nella carne e l'avvenimento che ha rivelato la verita' nella storia".

La stessa data del 25 dicembre, infatti, collegata all'idea della manifestazione solare per cui "Dio appare come luce senza tramonto sull'orizzonte della storia", ci ricorda che "non si tratta solo di un'idea, quella che Dio e' la pienezza della luce, ma di una realta' per noi uomini gia' realizzata e sempre attuale: oggi, come allora, Dio si rivela nella carne, cioe' nel corpo vivo della Chiesa peregrinante nel tempo". Gli stessi simboli delle celebrazioni natalizie, richiamati dalle letture e dalle preghiere - ha concluso Benedetto XVI - danno alla liturgia di questo tempo un senso profondo di epifania di Dio nel suo Cristo-Verbo incarnato, cioe' di manifestazione che possiede anche un significato escatologico, orienta cioe' agli ultimi tempi".


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07/01/2011 13:44
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Epifania: Caspare (o Gaspare), Melchiorre, Baldassarre


“Adorazione dei Magi"
Antonio Balestra (1704-1708) - Chiesa San Zaccaria, Venezia



Baldassarre
il 'mago' d’Africa

Franco Cardini

Una vecchia tradizione, ancora viva in molti paesi tra Mitteleuropa e Balcani ma non ignota nemmeno nel Settentrione italiano, vuole che le tre lettere CMB, dipinte o scolpite sulle porte o sulle pareti domestiche, proteggano gli abitanti della casa e portino loro fortuna. Si tratta delle iniziali dei nomi dei "tre re magi": Caspare (o Gaspare), Melchiorre, Baldassarre. Oggi tutti sanno che i misteriosi saggi venuti dall’Oriente secondo il vangelo di Matteo erano tre, ch’erano re, che i loro doni al Bambino erano oro, incenso e mirra, che erano di età diversa. Queste cose le sanno anche i bambini: anzi, cerchiamo di fare in modo che non le scordino. Il fatto è tuttavia che l’evangelista Matteo, tutte queste notizie, mica ce le dà.

Egli si limita ad affermare, nel suo testo greco (quello aramaico non ci è pervenuto), che di trattava di màgoi (sacerdoti persiani? O semplicemente indovini, ciarlatani?) venuti ef’anatolè (da oriente) e che portarono i tre tipi di doni che sappiamo. Ma non che fossero re, né quanti fossero, né come si chiamassero, né che età avessero. Tutte queste notizie ci pervengono dai vangeli apocrifi, di dubbia tradizione, taluni anche relativamente recenti.

Ma il tempo e la tradizione hanno consolidato e complicato i dati in nostro possesso, giungendo alla situazione che ormai conosciamo e che viene espressa in migliaia di rappresentazioni pittoriche e scultoree nonché nei nostri presepi. È anche piuttosto difficile attribuire ai magi i loro rispettivi nomi. Secondo il celebre mosaico di Sant’Apollinare Nuovo in Ravenna, Baldassarre era il magio di mezza età, Melchiorre il giovane, Caspare il vecchio.

Un dipinto catalano dell’XI secolo chiama invece Caspare quello di mezz’età, Baldassarre il giovane, Melchiorre il vecchio. Nella lunetta del battistero di Parma, Melchiorre è il giovane, Baldassarre quello di mezza età, Caspare il Vecchio (come a Ravenna). Insomma, si tratta di tradizioni incerte. Ma nel paese dove oggi, in senso assoluto, i "tre re" sono più celebri e cari alle consuetudini dell’Epifania, la Spagna – nelle grandi città nelle quali si organizzano ancora splendide feste e cavalcate tra il 5 e il 6 gennaio –, il più popolare è il giovane Baldassarre, ch’è quello che porta i doni ai bambini.

E ha un’altra particolarità: è nero. Lo si definisce, difatti, moro (un aggettivo d’origine etnica, indicante in origine gli abitanti della Mauritania, e passato in castigliano a indicare, in genere, prima gli arabo-saraceni, los moros, appunto, quindi il colore bruno della loro pelle): e dalla fine del Medioevo lo si raffigura dotato dei caratteri etnici degli africani, cioè non solo con la pelle nera, ma anche con i capelli crespi, il naso camuso, le labbra turgide. Quel che insomma da noi, prima dell’avvento del politically correct, si sarebbe detto "un negro".

Da dove proviene quest’usanza? In realtà, essa è venerabilissima, però complessa. Già un testo esegetico altomedievale sostiene che uno dei magi era fuscus, di pelle scura quindi; quando a partire da circa il XII-XIII secolo si volle vedere nei tre magi i sovrani dei tre continenti e delle tre razze umane, al più giovane si affidò il ruolo di re dell’Africa e si attribuì alla sua epidermide il colore nero.

Ma non fu così facile. Fino dalle Passiones dei martiri del II-III secolo, i "neri" (egizi, nubiani, etiopi) erano per il loro aspetto e il loro colore associati al diavolo. Neri erano raffigurati sovente gli infedeli al tempo delle crociate, come si vede in un mosaico di Vercelli e in molte miniature che narrano degli scontri epici tra guerrieri cristiani e saraceni. Anche lì, l’equivalenza nero-infedele-mostruoso-demoniaco era evidente.

La Chanson de Roland proclama che i nemici della fede sono «neri e cornuti come diavoli». Solo nel Basso Medioevo ebbe speciale impulso il culto di un gruppo di martiri-soldati dell’età di Diocleziano, la Legione Tebana, che provenivano dalla città di Tebe nell’Egitto meridionale, oggi Nubia. Si trattava quindi di nubiani, dalla pelle nera. Il nome del loro capo, ignoto, fu quindi Mauritius, cioè "il Mauritano", "il Nero". Inoltre, cominciavano allora a circolare notizie riguardanti il misterioso imperatore degli etiopi, il Negus, con il quale s’identificava la favolosa figura del "Prete Gianni", di cui parla anche Marco Polo, ma che fino ad allora era stato situato in Asia centrale.

Queste nuove tradizioni, che portavano gli uomini dalla pelle nera all’attenzione della cristianità europea, determinarono l’inserimento di uno di loro nel corteo dei re magi: come re d’Africa e della "razza camita", e in genere il più giovane dei tre. Il giovane "mago nero" è figura costante nelle scene d’adorazione medievali e rinascimentali più celebri. Tra esse, due del Mantegna e una nel "Trittico dell’Adorazione" di Hieronymus Bosch oggi conservato al Prado.

Con lo sviluppo del colonialismo e l’avvio della "tratta degli schiavi", anche i "santi-negri" si moltiplicarono, assumendo una funzione di patronato degli sventurati venduti come merce umana. Ma già il mosaico della chiesa dei Trinitari di Roma mostrava il Cristo in trono tra due schiavi, uno cristiano dalla pelle bianca e uno musulmano di color nero. Del resto, le avventure del mago Baldassarre non finiscono qui. La nobilissima famiglia provenzale dei Del Balzo, trapiantata in Italia meridionale, lo assunse a suo capostipite e pose la stella dei magi sulla sua arme araldica.

Tra Quattro e Cinquecento, ai magi si conferirono anche – com’era giusto, trattandosi di re – stemmi e bandiere. Nel Cinque-Settecento, i magi si videro abbigliati da ambasciatore turchi persiani, come ancora si riscontra negli splendidi presepi napoletani. Insomma, una tradizione inesauribile a illustrare un "semplice" testo evangelico che nell’arco dei secoli si è trasformato nella più bella leggenda di tutti i tempi.


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07/01/2011 23:30
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


I segni dell'Epifania spiegati da Benedetto XVI


“Natura morta con Bibbia"
Vincent Van Gogh (1885) - Van Gogh Museum, Amsterdam

«Il linguaggio del creato ci permette di percorrere un buon tratto di strada
verso Dio, ma non ci dona la luce definitiva. Per i Magi è stato indispensabile
ascoltare la voce delle Sacre Scritture: solo esse potevano indicare loro la via.
È la Parola di Dio la vera stella, che, nell'incertezza dei discorsi umani,
ci offre l'immenso splendore della verità divina»



Il cammino dei Magi

Benedetto XVI

Nella solennità dell'Epifania la Chiesa continua a contemplare e a celebrare il mistero della nascita di Gesù salvatore. In particolare, la ricorrenza odierna sottolinea la destinazione e il significato universali di questa nascita. Facendosi uomo nel grembo di Maria, il Figlio di Dio è venuto non solo per il popolo d'Israele, rappresentato dai pastori di Betlemme, ma anche per l'intera umanità, rappresentata dai Magi.
Ed è proprio sui Magi e sul loro cammino alla ricerca del Messia (cfr. Mt 2, 1-12) che la Chiesa ci invita oggi a meditare e a pregare. Nel Vangelo abbiamo ascoltato che essi, giunti a Gerusalemme dall'Oriente, domandano: "Dov'è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo" (v. 2). Che genere di persone erano, e che specie di stella era quella? Essi erano probabilmente dei sapienti che scrutavano il cielo, ma non per cercare di "leggere" negli astri il futuro, eventualmente per ricavarne un guadagno; erano piuttosto uomini "in ricerca" di qualcosa di più, in ricerca della vera luce, che sia in grado di indicare la strada da percorrere nella vita. Erano persone certe che nella creazione esiste quella che potremmo definire la "firma" di Dio, una firma che l'uomo può e deve tentare di scoprire e decifrare. Forse il modo per conoscere meglio questi Magi e cogliere il loro desiderio di lasciarsi guidare dai segni di Dio è soffermarci a considerare ciò che essi trovano, nel loro cammino, nella grande città di Gerusalemme.

Anzitutto incontrarono il re Erode. Certamente egli era interessato al bambino di cui parlavano i Magi; non però allo scopo di adorarlo, come vuole far intendere mentendo, ma per sopprimerlo. Erode è un uomo di potere, che nell'altro riesce a vedere solo un rivale da combattere. In fondo, se riflettiamo bene, anche Dio gli sembra un rivale, anzi, un rivale particolarmente pericoloso, che vorrebbe privare gli uomini del loro spazio vitale, della loro autonomia, del loro potere; un rivale che indica la strada da percorrere nella vita e impedisce, così, di fare tutto ciò che si vuole. Erode ascolta dai suoi esperti delle Sacre Scritture le parole del profeta Michea (5, 1), ma il suo unico pensiero è il trono.
Allora Dio stesso deve essere offuscato e le persone devono ridursi ad essere semplici pedine da muovere nella grande scacchiera del potere. Erode è un personaggio che non ci è simpatico e che istintivamente giudichiamo in modo negativo per la sua brutalità. Ma dovremmo chiederci: forse c'è qualcosa di Erode anche in noi? Forse anche noi, a volte, vediamo Dio come una sorta di rivale? Forse anche noi siamo ciechi davanti ai suoi segni, sordi alle sue parole, perché pensiamo che ponga limiti alla nostra vita e non ci permetta di disporre dell'esistenza a nostro piacimento?
Cari fratelli e sorelle, quando vediamo Dio in questo modo finiamo per sentirci insoddisfatti e scontenti, perché non ci lasciamo guidare da Colui che sta a fondamento di tutte le cose. Dobbiamo togliere dalla nostra mente e dal nostro cuore l'idea della rivalità, l'idea che dare spazio a Dio sia un limite per noi stessi; dobbiamo aprirci alla certezza che Dio è l'amore onnipotente che non toglie nulla, non minaccia, anzi, è l'Unico capace di offrirci la possibilità di vivere in pienezza, di provare la vera gioia.

I Magi poi incontrano gli studiosi, i teologi, gli esperti che sanno tutto sulle Sacre Scritture, che ne conoscono le possibili interpretazioni, che sono capaci di citarne a memoria ogni passo e che quindi sono un prezioso aiuto per chi vuole percorrere la via di Dio.
Ma, afferma sant'Agostino, essi amano essere guide per gli altri, indicano la strada, ma non camminano, rimangono immobili. Per loro le Scritture diventano una specie di atlante da leggere con curiosità, un insieme di parole e di concetti da esaminare e su cui discutere dottamente. Ma nuovamente possiamo domandarci: non c'è anche in noi la tentazione di ritenere le Sacre Scritture, questo tesoro ricchissimo e vitale per la fede della Chiesa, più come un oggetto per lo studio e la discussione degli specialisti, che come il Libro che ci indica la via per giungere alla vita? Penso che, come ho indicato nell'Esortazione apostolica Verbum Domini, dovrebbe nascere sempre di nuovo in noi la disposizione profonda a vedere la parola della Bibbia, letta nella Tradizione viva della Chiesa (n. 18), come la verità che ci dice che cosa è l'uomo e come può realizzarsi pienamente, la verità che è la via da percorrere quotidianamente, insieme agli altri, se vogliamo costruire la nostra esistenza sulla roccia e non sulla sabbia.

E veniamo così alla stella. Che tipo di stella era quella che i Magi hanno visto e seguito? Lungo i secoli questa domanda è stata oggetto di discussione tra gli astronomi. Keplero, ad esempio, riteneva che si trattasse di una "nova" o una "supernova", cioè di una di quelle stelle che normalmente emanano una luce debole, ma che possono avere improvvisamente una violenta esplosione interna che produce una luce eccezionale. Certo, cose interessanti, ma che non ci guidano a ciò che è essenziale per capire quella stella. Dobbiamo riandare al fatto che quegli uomini cercavano le tracce di Dio; cercavano di leggere la sua "firma" nella creazione; sapevano che "i cieli narrano la gloria di Dio" (Sal 19, 2); erano certi, cioè che Dio può essere intravisto nel creato.
Ma, da uomini saggi, sapevano pure che non è con un telescopio qualsiasi, ma con gli occhi profondi della ragione alla ricerca del senso ultimo della realtà e con il desiderio di Dio mosso dalla fede, che è possibile incontrarlo, anzi si rende possibile che Dio si avvicini a noi. L'universo non è il risultato del caso, come alcuni vogliono farci credere. Contemplandolo, siamo invitati a leggervi qualcosa di profondo: la sapienza del Creatore, l'inesauribile fantasia di Dio, il suo infinito amore per noi. Non dovremmo lasciarci limitare la mente da teorie che arrivano sempre solo fino a un certo punto e che - se guardiamo bene - non sono affatto in concorrenza con la fede, ma non riescono a spiegare il senso ultimo della realtà. Nella bellezza del mondo, nel suo mistero, nella sua grandezza e nella sua razionalità non possiamo non leggere la razionalità eterna, e non possiamo fare a meno di farci guidare da essa fino all'unico Dio, creatore del cielo e della terra. Se avremo questo sguardo, vedremo che Colui che ha creato il mondo e Colui che è nato in una grotta a Betlemme e continua ad abitare in mezzo a noi nell'Eucaristia, sono lo stesso Dio vivente, che ci interpella, ci ama, vuole condurci alla vita eterna.

Erode, gli esperti delle Scritture, la stella. Ma seguiamo il cammino dei Magi che giungono a Gerusalemme. Sopra la grande città la stella sparisce, non si vede più. Che cosa significa? Anche in questo caso dobbiamo leggere il segno in profondità. Per quegli uomini era logico cercare il nuovo re nel palazzo reale, dove si trovavano i saggi consiglieri di corte. Ma, probabilmente con loro stupore, dovettero costatare che quel neonato non si trovava nei luoghi del potere e della cultura, anche se in quei luoghi venivano offerte loro preziose informazioni su di lui. Si resero conto, invece, che, a volte, il potere, anche quello della conoscenza, sbarra la strada all'incontro con quel Bambino.
La stella li guidò allora a Betlemme, una piccola città; li guidò tra i poveri, tra gli umili, per trovare il Re del mondo. I criteri di Dio sono differenti da quelli degli uomini; Dio non si manifesta nella potenza di questo mondo, ma nell'umiltà del suo amore, quell'amore che chiede alla nostra libertà di essere accolto per trasformarci e renderci capaci di arrivare a Colui che è l'Amore. Ma anche per noi le cose non sono poi così diverse da come lo erano per i Magi. Se ci venisse chiesto il nostro parere su come Dio avrebbe dovuto salvare il mondo, forse risponderemmo che avrebbe dovuto manifestare tutto il suo potere per dare al mondo un sistema economico più giusto, in cui ognuno potesse avere tutto ciò che vuole. In realtà, questo sarebbe una sorta di violenza sull'uomo, perché lo priverebbe di elementi fondamentali che lo caratterizzano. Infatti, non sarebbero chiamati in causa né la nostra libertà, né il nostro amore. La potenza di Dio si manifesta in modo del tutto differente: a Betlemme, dove incontriamo l'apparente impotenza del suo amore. Ed è là che noi dobbiamo andare, ed è là che ritroviamo la stella di Dio.

Così ci appare ben chiaro anche un ultimo elemento importante della vicenda dei Magi: il linguaggio del creato ci permette di percorrere un buon tratto di strada verso Dio, ma non ci dona la luce definitiva. Alla fine, per i Magi è stato indispensabile ascoltare la voce delle Sacre Scritture: solo esse potevano indicare loro la via. È la Parola di Dio la vera stella, che, nell'incertezza dei discorsi umani, ci offre l'immenso splendore della verità divina.
Cari fratelli e sorelle, lasciamoci guidare dalla stella, che è la Parola di Dio, seguiamola nella nostra vita, camminando con la Chiesa, dove la Parola ha piantato la sua tenda. La nostra strada sarà sempre illuminata da una luce che nessun altro segno può darci. E potremo anche noi diventare stelle per gli altri, riflesso di quella luce che Cristo ha fatto risplendere su di noi.



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08/01/2011 22:14
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Epifania: manifestazione della divinità nella persona di Gesù


“Disputa di Gesù fra i dottori del Tempio"
Paolo Veronese (1562) - Museo Nacional del Prado, Madrid

«La venuta e l'adorazione dei Magi è il primo segno della singolare identità
del Figlio di Dio che è anche figlio della Vergine Maria.
Da allora cominciò a propagarsi la domanda che accompagnerà
tutta la vita di Cristo, e che in vari modi attraversa i secoli»


Chi è Gesù?

Benedetto XVI

Abbiamo celebrato nella Basilica la Festa dell'Epifania. Epifania vuol dire manifestazione di Gesù a tutte le genti, rappresentate oggi dai Magi, che giunsero a Betlemme dall'Oriente per rendere omaggio al Re dei Giudei, la cui nascita essi avevano conosciuto dall'apparire di una nuova stella nel cielo (cfr. Mt 2, 1-12).

In effetti, prima dell'arrivo dei Magi, la conoscenza di questo avvenimento era andata poco al di là della cerchia familiare: oltre che a Maria e a Giuseppe, e probabilmente ad altri parenti, esso era noto ai pastori di Betlemme, i quali, udito il gioioso annuncio, erano accorsi a vedere il bambino mentre ancora giaceva nella mangiatoia. La venuta del Messia, l'atteso delle genti predetto dai Profeti, rimaneva così inizialmente nel nascondimento. Finché, appunto, giunsero a Gerusalemme quei misteriosi personaggi, i Magi, a domandare notizie del "Re dei Giudei", nato da poco.
Ovviamente, trattandosi di un re, si recarono al palazzo reale, dove risiedeva Erode. Ma questi non sapeva nulla di tale nascita e, molto preoccupato, convocò subito i sacerdoti e gli scribi, i quali, sulla base della celebre profezia di Michea (cfr. 5, 1), affermarono che il Messia doveva nascere a Betlemme. E infatti, ripartiti in quella direzione, i Magi videro di nuovo la stella, che li guidò fino al luogo dove si trovava Gesù. Entrati, si prostrarono e lo adorarono, offrendo doni simbolici: oro, incenso e mirra. Ecco l'epifania, la manifestazione: la venuta e l'adorazione dei Magi è il primo segno della singolare identità del Figlio di Dio che è anche figlio della Vergine Maria. Da allora cominciò a propagarsi la domanda che accompagnerà tutta la vita di Cristo, e che in vari modi attraversa i secoli: chi è questo Gesù?

Cari amici, questa è la domanda che la Chiesa vuole suscitare nel cuore di tutti gli uomini: chi è Gesù? Questa è l'ansia spirituale che spinge la missione della Chiesa: far conoscere Gesù, il suo Vangelo, perché ogni uomo possa scoprire sul suo volto umano il volto di Dio, e venire illuminato dal suo mistero d'amore. L'Epifania preannuncia l'apertura universale della Chiesa, la sua chiamata ad evangelizzare tutte le genti. Ma l'Epifania ci dice anche in che modo la Chiesa realizza questa missione: riflettendo la luce di Cristo e annunciando la sua Parola. I cristiani sono chiamati ad imitare il servizio che fece la stella per i Magi. Dobbiamo risplendere come figli della luce, per attirare tutti alla bellezza del Regno di Dio. E a quanti cercano la verità, dobbiamo offrire la Parola di Dio, che conduce a riconoscere in Gesù "il vero Dio e la vita eterna" (1 Gv 5, 20).

Ancora una volta, sentiamo in noi una profonda riconoscenza per Maria, la Madre di Gesù. Ella è l'immagine perfetta della Chiesa, che dona al mondo la luce di Cristo: è la Stella dell'evangelizzazione. "Respice Stellam", ci dice san Bernardo: guarda la Stella, tu che vai in cerca della verità e della pace; volgi lo sguardo a Maria, e Lei ti mostrerà Gesù, luce per ogni uomo e per tutti i popoli.



Fonte -


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09/01/2011 16:05
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!





Benedictus
Cantico di Zaccaria (Vangelo San Luca 1, 68-79)

Benedictus Dominus, Deus Israel,
quia visitavit et fecit redemptionem plebis suae

et erexit cornu salutis nobis
in domo David pueri sui,

sicut locutus est per os sanctorum,
qui a saeculo sunt, prophetarum eius,

salutem ex inimicis nostris
de manu omnium, qui oderunt nos;

ad faciendam misericordiam cum patribus nostris
memorari testamenti sui sancti,

iusiurandum, quod iuravit ad Abraham patrem nostrum, daturum se nobis,
ut sine timore, de manu inimicorum liberati, serviamus illi

in sanctitate et iustitia coram ipso
omnibus diebus nostris.

Et tu, puer, propheta Altissimi vocaberis:
praeibis enim ante faciem Domini parare vias eius,

ad dandam scientiam salutis plebi eius
in remissionem peccatorum eorum,

per viscera misericordiae Dei nostri,
in quibus visitabit nos oriens ex alto,

illuminare his, qui in tenebris et in umbra mortis sedent,
ad dirigendos pedes nostros in viam pacis.




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09/01/2011 16:59
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!

L'inno di vespro per il Battesimo del Signore


“Battesimo di Cristo"
Perugino(1482) - Cappella Sistina, Città del Vaticano

«Disceso dall'alto dei cieli, egli immerge nel Giordano
la nostra umanità carica di peccato, prosciogliendola dalla morte,
adombrata dalle onde del fiume spettatore di tante meraviglie divine»


Acque di morte
per tuffarci nella vita

di Inos Biffi
Il battesimo nel Giordano è tra i misteri principali della vita di Cristo. Perciò non sorprende che vi sia dedicata tutta una festività, a chiusura del tempo natalizio, anche se il motivo battesimale non manca di toccare già l'Epifania. Quel mistero tocca il Signore e riguarda noi tutti.

L'inno di vespro - di fattura modesta e di autore ignoto del secolo x, in dimetri giambici acatalettici e ritmici - si apre cantando l'Unigenito di Dio che viene a noi dal Padre "per consacrarci con l'acqua del battesimo e rigenerarci nella fede". Disceso dall'alto dei cieli, egli immerge nel Giordano la nostra umanità carica di peccato, prosciogliendola dalla morte, adombrata dalle onde del fiume spettatore di tante "meraviglie divine". Riceviamo, così, come dono un'esistenza nuova e gioiosa, a sua volta essa stessa prelusa dal risalire di Gesù dal sepolcro delle acque. Proseguiamo nell'inno: "Tu prendi la forma dell'uomo e, riscattando la creatura dalla morte, le infondi le gioie della vita". Già quel lavacro è inizio e figura della passione e della risurrezione del Signore, sul quale, appena battezzato, si aprono i cieli, mentre discende come una colomba lo Spirito, e il Padre lo proclama suo Figlio, "l'amato", in cui ogni sua compiacenza è riposta.

Nel Giordano - scrive sant'Ambrogio - "Cristo istituì la forma del lavacro salutare (In Iordane baptizatus est Christus, quando formam lavacri salutaris instituit)" (De interpellatione Iob et David, 4, 4).
D'altra parte, evocava tanti eventi di salvezza. A cominciare dal passaggio per il nuovo esodo con Giosuè: Gesù discende in quelle acque di morte e di vita come un nuovo Giosuè, che guida il nuovo Popolo di Dio verso la terra definitiva della libertà.
Permaneva poi su quel fiume il ricordo del suo attraversamento a piedi asciutti, da parte dei profeti Elia ed Eliseo; e quello della prodigiosa immersione nelle sue acque di Naaman siro, risanato dalla lebbra.

Sono grazie che supplichiamo a conclusione dell'inno: "Vieni benevolo in noi, o Redentore, e infondi nei nostri cuori la chiara luce divina"; "Resta con noi; allontana la notte oscura, detergici ogni colpa, e donaci la tua pietosa medicina".
La vita di Gesù è iscritta indissolubilmente nella memoria e nel cuore della Chiesa, che, nelle ricorrenti festività dell'anno liturgico, la riprende e la rimedita con rinnovato rendimento di grazie e non mai esaurito stupore. Essa, infatti, non tanto mira ad accrescerne la conoscenza esteriore dell'esistenza di Gesù, quanto a riviverla o, secondo l'esortazione di Bernardo ai suoi monaci di Clairvaux, a nutrirsene e a gustarne la soavità (Sermoni d'Avvento, 3, 2).

Rievocando il battesimo di Cristo, siamo più intimamente, e quasi sperimentalmente, iniziati al mistero della sua figliolanza divina, apparsa e ascoltata nell'epifania trinitaria che accompagna l'umile sottoporsi al ministero dell'allibito Precursore che esita a seppellire nelle acque chi è più grande di lui.
Scoprendo in quel gesto di abbassamento il preavviso della croce e della risurrezione sentiamo la solidarietà di Cristo con la nostra umanità peccatrice, mentre il pensiero si porta al nostro battesimo, quando, resi conformi a Gesù Primogenito di molti fratelli, anche sopra di noi il cielo si apre, riceviamo lo Spirito e siamo, a nostra volta, dal Padre chiamati suoi figli nel Figlio.
E così la vita si rinnova nella Chiesa: è il fine e il frutto delle celebrazioni liturgiche.



Fonte -


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[Modificato da Bestion. 09/01/2011 17:06]
09/01/2011 19:40
 
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10/01/2011 13:56
 
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10/01/2011 14:01
 
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10/01/2011 14:04
 
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10/01/2011 14:07
 
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10/01/2011 14:12
 
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10/01/2011 14:39
 
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10/01/2011 23:08
 
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10/01/2011 23:09
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Natale: «Il Figlio dell’eterno Padre dovette scendere
dalla gloria del cielo, perché il mistero dell’iniquità aveva avvolto la terra»



Natività ----------------------------------- Deposizione ----------------------------------- Risurrezione
Rogier van der Weyden (“Pala di Maria o Miraflores" 1440) - Staatliche Museen, Berlino


«I misteri del cristianesimo sono un tutto indivisibile. Chi ne approfondisce uno,
finisce per toccare tutti gli altri. Così la vita che si diparte da Betlemme
procede inarrestabilmente verso il Golgota, va dalla mangiatoia alla croce»


Incarnazione e umanità

Edith Stein

Avvento e Natale

Quando i giorni diventano via via più corti, quando, nel corso di un inverno normale cadono i primi fiocchi di neve, timidi e sommessi si fanno strada i primi pensieri del Natale. Questa semplice parola emana un fascino misterioso, cui ben difficilmente un cuore può sottrarsi. Anche coloro che professano un’altra fede e i non credenti, cui l’antico racconto del Bambino di Betlemme non dice alcunché, preparano la festa e cercano di irradiare qua e là un raggio di gioia. Già settimane e mesi prima un caldo flusso di amore inonda tutta la terra. Una festa dell’amore e della gioia, questa è la stella verso cui tutti accorrono nei primi mesi invernali.

Ma per il cristiano e in particolare per il cristiano cattolico essa è anche qualcos’altro. La stella lo guida alla mangiatoia col Bambinello, che porta la pace in terra. L’arte cristiana ce lo pone davanti agli occhi in innumerevoli e graziose immagini, mentre antiche melodie, da cui risuona tutto l’incantesimo dell’infanzia, lo cantano.

Nel cuore di colui che vive con la Chiesa le campane del Rorate e i canti dell’Avvento risvegliano una santa e ardente nostalgia, e a chi si disseta alla fonte inesauribile della sacra liturgia il grande profeta dell’incarnazione ripete, giorno dopo giorno, le sue grandiose esortazioni e promesse: “Stillate, cieli, dall’alto, e le nubi piovano il Giusto! Il Signore è vicino! Adoriamolo! Vieni, Signore, e non tardare! Esulta, Gerusalemme, sfavilla di gioia, perché viene a te il tuo Salvatore!”. Dal 17 al 24 dicembre le grandi antifone ‘O’ del Magnificat (O sapienza, O Adonai, O radice di Jesse, O chiave della città di Davide, O Oriente, O re delle nazioni) gridano con un desiderio e ardore crescente il loro “Vieni a salvarci”. E sempre più cariche di promesse risuonano le parole : “Ecco, tutto è compiuto” (ultima domenica di Avvento). E infine “Oggi saprete che il Signore viene e domani contemplerete la sua gloria”. Sì, quando la sera gli alberi di Natale luccicano e ci si scambiano i doni, una nostalgia inappagata continua a tormentarci e a spingerci verso un’altra luce splendente, fintanto che le campane della messa di mezzanotte suonano e il miracolo della notte santa si rinnova su altari inondati di luci e di fiori :”E il Verbo si fece carne”. Allora è il momento in cui la nostra speranza si sente beatamente appagata.

I seguaci del Figlio incarnato di Dio

Ognuno di noi ha già sperimentato una simile felicità del Natale. Ma il cielo e la terra non sono ancora divenuti una cosa sola. La stella di Betlemme è una stella che continua a brillare anche oggi in una notte oscura. Già all’indomani del Natale la Chiesa depone i paramenti bianchi della festa e indossa il colore del sangue e, nel quarto giorno, il violetto del lutto : Stefano, il protomartire, che seguì per primo il Signore nella morte, e i bambini innocenti, i lattanti di Betlemme e della Giudea, che furono ferocemente massacrati dalle rozze mani dei carnefici, sono i seguaci che attorniano il Bambino nella mangiatoia. Che significa questo? Dov’è ora il giubilo delle schiere celesti, dov’è la beatitudine silente della notte santa? Dov’è la pace in terra? Pace in terra agli uomini di buona volontà. Ma non tutti sono di buona volontà.
Per questo il Figlio dell’eterno Padre dovette scendere dalla gloria del cielo, perché il mistero dell’iniquità aveva avvolto la terra.

Le tenebre ricoprivano la terra, ed egli venne come la luce che illumina le tenebre, male tenebre non l’hanno compreso. A quanti lo accolsero egli portò la luce e la pace; la pace col Padre celeste, la pace con quanti come essi sono figli della luce e figli del Padre celeste, e la pace interiore e profonda del cuore; ma non la pace con i figli delle tenebre. Ad essi il Principe della pace non portala pace, ma la spada. Per essi egli è la pietra d’inciampo, contro cui urtano e si schiantano. Questa è una verità grave e seria, che l’incanto del Bambino nella mangiatoia non deve velare ai nostri occhi. Il mistero dell’incarnazione e il mistero del male sono strettamente uniti. Alla luce, che è discesa dal cielo, si oppone tanto più cupa e inquietante la notte del peccato. Il Bambino protende nella mangiatoia le piccole mani, e il suo sorriso sembra già dire quanto più tardi, divenuto adulto, le sue labbra diranno :”Venite a me voi tutti che siete stanchi e affaticati”. Alcuni seguirono il suo invito. Così i poveri pastori sparsi per la campagna attorno a Betlemme che, visto lo splendore del cielo e udita la voce dell’angelo che annunciava loro la buona novella, risposero pieni di fiducia : “Andiamo a Betlemme” e si misero in cammino; così i re che, partendo dal lontano Oriente, seguirono con la stessa semplice fede la stella meravigliosa. Su di loro le mani del Bambino riversarono la rugiada della grazia, ed essi “provarono una grandissima gioia”.
Queste mani danno e esigono nel medesimo tempo; voi sapienti deponete la vostra sapienza e divenite semplici come i bambini; voi re donatele vostre corone e i vostri tesori e inchinatevi umilmente davanti al re dei re; prendete senza indugio su di voi le fatiche, le sofferenze e le pene che il suo servizio richiede. Voi bambini, che non potette ancora dare alcunché da parte vostra: a voi le mani del Bambino nella mangiatoia prendono la tenera vita prima ancora che sia propriamente cominciata; il modo migliore di impiegarla è quello di essere sacrificata per il Signore della vita. “Seguitemi”, così dicono le mani del Bambino, come più tardi diranno le labbra dell’uomo adulto. Così dissero esse al giovane amato dal Signore e che ora fa anche parte della schiera disposta attorno alla mangiatoia. E san Giovanni, il giovane dal cuore puro e infantile, lo seguì senza domandare: Dove? A che scopo? Abbandonò la barca del padre e andò dietro al Signore su tutte le sue strade fino al Golgota. “Seguimi”, questo invito percepì anche il giovane Stefano. Egli seguì il Signore nella lotta contro le potenze delle tenebre, contro l’accecamento della testarda mancanza di fede; gli rese testimonianza con le sue parole e col suo sangue; lo seguì anche nel suo spirito, nello spirito dell’amore, che combatte il peccato, ma ama il peccatore e intercede per l’assassino davanti a Dio anche in punto di morte. Figure luminose sono quelle che si inginocchiano attorno alla mangiatoia: I bambini teneri e innocenti, i pastori fiduciosi, i re umili, Stefano, il discepolo entusiasta, e Giovanni, l’apostolo dell’amore; essi seguirono tutti la chiamata del Signore.
Di fronte ad essi sta la notte dell’indurimento e dell’accecamento incomprensibile: gli scribi, che sono in grado di dare informazioni sul tempo e sul luogo in cui il Salvatore del mondo deve nascere, ma che non deducono da qui alcun “Andiamo a Betlemme!”; il re Erode, che vuole uccidere il Signore della vita. Di fronte al Bambino nella mangiatoia gli spiriti si dividono. Egli è il Re dei re e il Signore della Vita e della morte, pronuncia il suo “Seguimi”, e chi non è per lui è contro di lui. Egli lo pronuncia anche per noi e ci pone di fronte alla decisione di scegliere fra luce e tenebre.

Il corpo mistico di Cristo

Dove il Bambino divino intenda condurci sulla terra è cosa che non sappiamo e a proposito della quale non dobbiamo fare domande prima del tempo. Una cosa sola sappiamo, e cioè che a quanti amano il Signore tutte le cose ridondano in bene. E inoltre che le vie, per le quali il Salvatore conduce, vanno al di là di questa terra.

O scambio mirabile! Il Creatore del genere umano ci conferisce, assumendo un corpo, la sua divinità. Per quest’opera mirabile il Redentore è infatti venuto nel mondo. Dio è diventato un figlio degli uomini, affinché gli uomini potessero diventare figli di Dio. Uno di noi aveva lacerato il legame della figliolanza divina, uno di noi doveva di nuovo riannodarlo e pagare per il peccato. Ma nessun discendente di questa progenie antica, malata e imbastardita, era in grado di farlo. Su di essa andava innestato un ramoscello nuovo, sano e nobile. Uno di noi egli è divenuto, anzi di più ancora, perché è divenuto una cosa sola con noi. Questa è infatti la cosa meravigliosa del genere umano, il fatto che siamo tutti una cosa sola. Se le cose stessero diversamente, se noi esistessimo liberi e indipendenti gli uni accanto agli altri come esseri singoli, autonomi e separati,. La caduta dell’uno non si sarebbe tirata dietro la caduta di tutti gli altri. Dall’altra parte qualcuno avrebbe poi potuto pagare per noi il prezzo dell’espiazione e metterlo sul nostro conto, ma la sua giustizia non sarebbe trapassata nei peccatori e nessuna giustificazione sarebbe stata possibile. Egli invece venne per essere un corpo misterioso con noi: egli è il nostro capo, noi le sue membra. Se mettiamo le nostre mani nelle mani del Bambino divino e rispondiamo con un “sì” al suo “Seguimi”, allora siamo suoi, e libera è la via perché la sua vita divina possa riversarsi in noi.

Questo è l’inizio della vita divina in noi. Essa non è ancora la contemplazione beata di Dio nella luce della gloria; è ancora l’oscurità della fede, però non è più di questo mondo ed è già un’esistenza nel regno di Dio. Il regno di Dio cominciò sulla terra quando la Vergine santissima pronunciò il suo fiat, ed ella ne fu la prima serva. E quanti prima e dopo la nascita del Bambino professarono la loro fede in lui con le parole e le azioni – San Giuseppe, Santa Elisabetta, suo figlio e tutti coloro che circondavano la mangiatoia – entrarono similmente in esso. Tale regno sopravvenne in maniera diversa da come celo si era immaginato in base ai salmi e ai profeti. I romani rimasero i padroni del paese, e i sommi sacerdoti e gli scribi continuarono a tenere il popolo povero sotto il loro giogo. Chiunque apparteneva al Signore portava invisibilmente il regno di Dio in sé. Egli non si vide alleggerito dei pesi dell’esistenza terrena, anzi ne vide aggiungere degli altri; ma dentro era sorretto da una forza alata, che rendeva dolce il giogo e leggero il peso.
Così avviene anche oggi per ogni figlio di Dio. La vita divina, che viene accesa nell’anima, è la luce che è venuta nelle tenebre, il miracolo della notte santa. Chi la porta in sé capisce quando se ne parla. Invece per gli altri tutto quel che possiamo dire al riguardo è solo un balbettio incomprensibile. Tutto il vangelo di Giovanni è un balbettio del genere a proposito della luce eterna, che è amore e vita. Dio in noi e noi in lui, questa è la nostra partecipazione al regno di Dio, che ha nell’incarnazione la sua base.

Essere una cosa sola in Dio

Essere una cosa sola con Dio: questa è la prima cosa. Ma una seconda ne segue immediatamente. Se nel corpo mistico Cristo è il capo e noi le membra, allora noi siamo membra gli uni degli altri, e tutti insieme siamo una cosa sola in Dio, una vita divina. Se Dio è in noi e se egli è amore, allora non possiamo che amare i fratelli. Per questo il nostro amore del prossimo è la misura del nostro amore di Dio. Ma si tratta di un amore diverso dall’amore naturale per gli uomini. L’amore naturale si dirige verso questo o verso quello, verso chi è a noi legato da vincoli di sangue, da affinità di carattere o da interessi comuni. Gli altri sono “estranei”, di essi “non ce ne importa alcunché”, anzi possiamo addirittura provare avversione nei loro riguardi a motivo della loro indole, per cui ci guardiamo bene dall’amarli. Per il cristiano non esiste alcun “estraneo”. Nostro “prossimo” è chi sta via via davanti a noi e ha più bisogno di noi, sia egli o meno nostro parente, ci “piaccia” o no, sia “moralmente degno” o meno del nostro aiuto. L’amore di Cristo non conosce confini, non viene mai meno, non si ritrae di fronte all’abbiezione morale e fisica. Cristo è venuto per i peccatori e non per i giusti. E se il suo amore vive in noi, allora agiamo come lui e andiamo dietro alla pecorella smarrita.

L’amore naturale tende ad avere per sé la persona amata e a possederla nella maniera più indivisa possibile. Cristo è venuto per riportare al Padre l’umanità perduta; e chi ama col suo amore vuole gli uomini per Dio e non per sé. Questa è naturalmente nello stesso tempo la via più sicura per possederli eternamente; quando infatti abbiamo posto in salvo una persona in Dio, siamo con lei in Dio una cosa sola, mentre il desiderio di conquistarla conduce spesso – anzi prima o poi sempre – alla sua perdita. Ciò vale per l’altrui anima come per la propria e per ogni bene esteriore: chi si dedica alle cose esteriori per conquistarle e conservarle, le perde. Chi ne fa dono a Dio, le guadagna.

Sia fatta la tua volontà!

Tocchiamo così un terzo segno della figliolanza divina. Essere una cosa sola con Dio era il primo. Il fatto che tutti sono una cosa sola in Dio il secondo. Il terzo :”Da questo riconoscerò che mi amate, se osserverete i miei comandamenti”. Essere figlio di Dio significa camminare dando la mano a Dio, fare la volontà di Dio e non la propria, riportare nelle sue mani ogni preoccupazione e speranza, non affannarsi più per sé e per il proprio futuro. Questa è la base della libertà e della gioia del figlio di Dio. Quanti pochi anche di coloro che hanno fatto eroicamente l’offerta di sé stessi le posseggono! Essi camminano sempre chini sotto il grave peso delle loro preoccupazioni e dei loro doveri. Tutti conoscono la parabola degli uccelli del cielo e dei gigli del campo. Ma quando incontrano una persona che non possiede alcun bene, non ha alcuna pensione e alcuna assicurazione e tuttavia va incontro serena al suo futuro, scuotono il capo come se si trovassero di fronte a un tipo strano. Certo, chi si aspetta che il Padre celeste provvederà sempre al benessere e alle entrate che gli ritiene auspicabili, potrebbe sbagliarsi gravemente.
La fiducia in Dio rimane incrollabile solo se essa include la disponibilità ad accogliere qualunque cosa dalla sua mano. Dio solo infatti sa quel che è bene per noi. E se un giorno per noi dovessero esser meglio la miseria la privazione anziché un reddito sicuro, oppure l’insuccesso e l’umiliazione al posto dell’onore e del prestigio, dovremmo tenerci pronti anche a questo. Se lo facciamo, allora possiamo vivere il presente senza lasciarci turbare dal futuro.

Il “sia fatta la tua volontà”, in tutta la sua estensione, deve essere il criterio della vita cristiana. Esso deve scandire la giornata dal mattino alla sera, il corso dell’anno e tuta la vita. E deve quindi essere anche l’unica preoccupazione del cristiano. Tutte le altre il Signore le prende su di sé. L’unica che ci rimane è questa, fin quando viviamo. Oggettivamente parlando, noi non abbiamo la garanzia definitiva di rimanere sempre sulle vie di Dio. Come i primi uomini poterono perdere la figliolanza divina e allontanarsi da Dio, così ognuno di noi corre sempre sul filo fra il nulla e la pienezza della vita divina. E prima o poi lo sperimentiamo anche soggettivamente. Nell’età infantile della vita spirituale, quando abbiamo appena cominciato ad affidarci alla guida di Dio, sentiamo la sua mano forte e robusta che ci conduce; vediamo con estrema chiarezza quanto dobbiamo fare e tralasciare. Ma la situazione non rimane sempre così. Chi appartiene a Cristo deve vivere tutta la sua vita. Deve maturare fino all’età adulta di Cristo, imboccare un giorno la via della croce, dirigersi al Getsemani e al Golgota. E tutte le sofferenze che provengono dall’esterno sono un nulla a paragone della notte oscura dell’anima, allorché la luce divina non brilla più e la voce del Signore tace. Perché fa così? Siamo qui di fronte ai suoi misteri, misteri che non possiamo penetrare fino in fondo. Un po’ però li possiamo già perscrutare. Dio è divenuto uomo per farci di nuovo partecipare alla sua vita. Partecipazione che era al principio e che è l’ultimo fine.

Ma nell’intervallo c’è ancora qualcos’altro.. Cristo è Dio e uomo, e chi vuol partecipare alla sua vita, deve prender parte alla sua vita divina e umana. La natura umana da lui assunta gi diede la possibilità di soffrire e morire. La natura divina, da lui posseduta dall’eternità, conferì alla sua passione e morte un valore infinito e la capacità di compiere la redenzione. La passione e la morte di Cristo continuano nel suo corpo mistico e in ognuna delle sue membra. Ogni uomo deve soffrire e morire. Ma se egli è un membro vivo del corpo di Cristo, la sua sofferenza e la sua morte diventano, grazie alla divinità del capo, redentrici. Questo è il motivo oggettivo, per cui tutti i santi hanno aspirato a soffrire. Non si tratta di un desiderio malsano. Gli occhi della mente naturale lo vedono come una perversione. Ma alla luce del mistero della redenzione esso appare come estremamente ragionevole. E così colui che è unito a Cristo persevera incrollabile anche nella notte oscura della lontananza soggettiva da Dio e dell’abbandono soggettivo da parte sua; forse la provvidenza divina gli impone questo tormento per liberare uno oggettivamente incatenato. Diciamo pertanto: “Sia fatta la tua volontà!” anche e proprio per questo, nella notte più oscura.

Mezzi di salvezza

Ma possiamo ancora pronunciare questo “sia fatta la tua volontà” , quando non sappiamo più con certezza che cosa la volontà di Dio esige da noi? Possediamo mezzi per rimanere sulle sue vie, quando la luce interiore si spegne? Esistono mezzi del genere e mezzi così potenti che uno sbandamento, per quanto in linea di principio possibile, diventa in realtà infinitamente inverosimile. Dio è infatti venuto per redimerci, per unirci a sé, per rendere la nostra volontà conforme alla sua. Conosce la nostra natura. Ne tiene conto e ci ha quindi fatto dono di tutto ciò che può aiutarci a raggiungere il traguardo.

Il Bambino divino è diventato il Maestro e ci ha detto che cosa dobbiamo fare. Per permeare tutta una vita umana di vita divina non basta inginocchiarsi una volta all’anno davanti alla mangiatoia lasciarsi prendere dall’incanto della notte santa. A questo scopo bisogna stare quotidianamente in contatto con Dio per tutta la vita, ascoltare le parole che egli ha pronunciato e che ci soo state tramandate e metterle in pratica. Prima di tutto bisogna pregare così come il Salvatore ci ha insegnato a fare e ha continuamente e pressantemente raccomandato. “Chiedete e vi sarà dato”. E’ una sicura promessa di esaurimento. E chi recita quotidianamente di cuore il suo “Signore, sia fatta la tua volontà”, può confidare di non tradire la volontà divina anche quando non ne ha più alcuna certezza soggettiva.

Inoltre: Cristo non ci ha lasciati orfani. Ha inviato il suo Spirito, che insegna a tutti noi la verità. Ha fondato la Chiesa, che è guidata dal suo Spirito, e ha istituito in essa i suoi rappresentanti, dalla cui bocca il suo Spirito ci parla in parole umane. In essa egli ha unito i fedeli in una comunità e vuole che ognuno sia responsabile di ogni altro. Pertanto non siamo soli, e dove viene meno la fiducia nel proprio giudizio e anche nella propria preghiera siamo soccorsi dalla forza dell’obbedienza e della forza dell’intercessione.

“E il Verbo si fece carne”. Ciò è divenuto verità nella stalla di Betlemme. Ma si è adempiuto anche in altra forma. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”. Il Salvatore, ben sapendo che siamo uomini e rimaniamo uomini quotidianamente alle prese con le nostre debolezze, viene in aiuto della nostra umanità in maniera veramente divina. Come il corpo terreno ha bisogno del pane quotidiano, così anche la vita divina aspira in noi ad essere continuamente alimentata. “Questo è il pane vivo, che è disceso dal cielo”. Chi ne fa veramente il suo pane quotidiano, in lui si compie quotidianamente il mistero del Natale, l’incarnazione del Verbo. E questa è indubbiamente la via più sicura per conservare ininterrottamente l’unione con Dio e radicarsi ogni giorno sempre più saldamente e profondamente nel corpo mistico di Cristo. So bene che ciò apparirà a molti un’esigenza troppo radicale. In pratica essa comporta per la maggior parte di coloro che cominciano a soddisfarla un rivoluzionamento di tutta la loro vita interiore e esteriore. Ma appunto così dobbiamo fare!
Nella nostra vita dobbiamo far spazio al Salvatore eucaristico, affinché possa trasformare la nostra vita nella sua: è questa una richiesta esagerata? Abbiamo tempo per tante cose inutili: per leggere ogni genere di libri, riviste e quotidiani futili, per bighellonare da un caffé all’altro e passare quarti d’ora e mezzore a chiacchierare per la strada, tutte ‘distrazioni’ in cui sprechiamo e disperdiamo tempo e energie. Non ci è proprio possibile riservare ogni mattina un’ora, in cui non ci distraiamo, ma ci raccogliamo, in cui non ci logoriamo, ma accumuliamo energia per poi affrontare col suo aiuto i nostri compiti quotidiani?

Ma naturalmente ci vuolesi più di una semplice ora del genere. Essa deve animare tutte le altre, sì da rendersi impossibile “lasciarci andare”, foss’anche solo momentaneamente. Non possiamo sottrarci al giudizio di colui che frequentiamo quotidianamente. Anche se non dice una parola, sentiamo qual è il suo atteggiamento nei nostri riguardi. Cerchiamo di adattarci al nostro ambiente, e se la cosa non ci riesce, la convivenza diventa un tormento. Così succede anche nei rapporti quotidiani col Salvatore. Diventiamo sempre più sensibili nel discernere ciò che gli piace e gli dispiace. Se prima eravamo tutto sommato molto contenti di noi, ora le cose cambiano. Troveremo che molte cose sono cattive e nei limiti del possibile le cambieremo. E scopriremo alcune cose che non possiamo ritenere belle e buone, e che pur risulta tanto difficile cambiare. Allora diventiamo a poco a poco molto piccoli e umili, pazienti e indulgenti verso le pagliuzze presenti negli occhi altrui, perché abbiamo da fare con la trave presente nei nostri; e infine, impariamo anche a sopportarci nella luce inesorabile della presenza di Dio e ad affidarci alla sua misericordia, che può venire a capo di tutto ciò che si fa beffe delle nostre forze. Lungo è il cammino per passare dall’autocompiacimento del “buon cattolico”, che “compie i suoi doveri”, legge un “buon giornale”, “vota nella maniera giusta”, ecc., ma per il resto fa come gli piace, aduna vita che si lascia guidare per mano da Dio ed è caratterizzata dalla semplicità del bambino e dall’umiltà del pubblicano. Chi però l’ha imboccato una volta, non lo rifà più a ritroso

La vita filiale in Dio significa perciò divenire piccoli e nel medesimo tempo divenire grandi. Vivere eucaristicamente significa uscire spontaneamente dalla meschinità della propria vita e addentrarsi negli ampi spazi della vita di Cristo. Chi fa visita al Signore nella sua casa, non si occuperà più solo e sempre di sé e delle proprie faccende, ma comincerà ad interessarsi delle faccende del Signore. La partecipazione al sacrificio quotidiano ci immerge, senza che ce ne accorgiamo, nella vita liturgica. Le preghiere ei riti dell’altare ripropongono continuamente davanti alla nostra anima, nel corso dell’anno liturgico, la storia della salvezza e ce ne fanno penetrare sempre più profondamente il senso. E l’azione sacrificale ci impregna instancabilmente del mistero centrale della nostra fede, cardine della storia del mondo: del mistero dell’incarnazione e della redenzione. Chi può assistere con spirito e cuore aperto al santo sacrificio senza entrare a sua volta nel suo movimento, senza essere preso dal desiderio di inserire se stesso e la propria piccola vita personale nella grande opera del Redentore?

I misteri del cristianesimo sono un tutto indivisibile. Chi ne approfondisce uno, finisce per toccare tutti gli altri. Così la vita che si diparte da Betlemme procede inarrestabilmente verso il Golgota, va dalla mangiatoia alla croce. Quando la santissima Vergine presentò il Bambino al tempio, le fu predetto che la sua anima sarebbe stata trafitta da una spada, che quel bambino era posto per la caduta e la risurrezione di molti e come segno di contraddizione. Era l’annuncio della passione, della lotta fra la luce e le tenebre che si era manifestata già attorno alla mangiatoia!

In alcuni anni la Candelora e la Settuagesima, la celebrazione dell’incarnazione e la preparazione alla passione, cadono nello stesso giorno. Nella notte del peccato brilla la stella di Betlemme. Sullo splendore luminoso che irradia dalla mangiatoia cade l’ombra della croce. La luce si spegne nell’oscurità del venerdì santo, ma torna a brillare più luminosa, sole di misericordia, la mattina della risurrezione. Il Figlio incarnato di Dio pervenne attraverso la croce e la passione alla gloria della risurrezione. Ognuno di noi, tutta l’umanità perverrà col Figlio dell’uomo, attraverso la sofferenza e la morte, alla medesima gloria.



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11/01/2011 22:35
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Significato dell'adorazione eucaristica


“L'ultima Cena"
Tintoretto(1592-1594) - Chiesa di San Giorgio Maggiore, Venezia


«Subito dopo la consacrazione, in forza delle parole avviene
una conversione mirabile e singolare del pane e del vino nel
Corpo e nel Sangue di Cristo: conversione che la Chiesa cattolica
con termine appropriatissimo chiama transustanziazione»

(Concilio di Trento, "Decretum de sanctissima Eucharistia", capitolo 4, e canone 2)



Una Presenza
che continua

di Inos Biffi

"Subito dopo la consacrazione (statim post consecrationem)", "in forza delle parole (vi verborum)" - dichiara il concilio di Trento - avviene una "conversione mirabile e singolare" del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo: "conversione - prosegue lo stesso Tridentino - che la Chiesa cattolica con termine appropriatissimo chiama transustanziazione" (Decretum de sanctissima Eucharistia, capitolo 4, e canone 2).

Senza dubbio, l'esperienza sensibile non avverte alcun mutamento. La certezza che nel "santissimo sacramento dell'Eucaristia" - sempre secondo il Tridentino - "è contenuto veramente, realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, con l'anima e la divinità, e quindi Cristo tutto intero", non è attestata né dalla vista né dal tatto né dal gusto, come canta Tommaso d'Aquino nell'Adoro te devote, ma è tutta e interamente fondata sull'ascolto della parola del Signore, della quale nulla è più vero: Visus, tactus, gustus, in te fallitur, / sed auditu solo tute creditur. / Credo quicquid dixit Dei Filius, / nichil ueritatis verbo uerius.

Sono note la diffidenza e le reazioni al termine "transustanziazione", perché attinto al linguaggio di una filosofia superata e quindi da ritenersi inattuale. Trento, da parte sua, lo ritiene invece "appropriatissimo"; e lo è, infatti, per dire che, in virtù della potenza di Cristo e dell'opera dello Spirito Santo, l'identità del pane e del vino viene realmente mutata nell'identità del Corpo e del Sangue del Signore.
Del resto, ricorre nel linguaggio comune un significato di "sostanziale", che è di comprensione immediata, come quando ci si voglia riferire al livello profondo e sintetico di una realtà; senza dire che, per dilucidare e illustrare il significato di "transustanziazione" eucaristica, vi è apposta la catechesi, come per altri contenuti del dogma cristiano.

In ogni caso, termini come "transignificazione" e "transfinalizzazione", proposti da alcuni teologi come sostituivi, non solo non rendono, ma addirittura alterano il senso che la fede della Chiesa allega al concetto di "transustanziazione". Non basta ammettere che il pane e il vino con la consacrazione assumano un significato e una finalità nuovi; che si ritrovano, cioè, transignificati e trasfinalizzati; occorre invece affermare che sono a tal punto trasmutati, da essere diventati irreversibilmente "Corpo e Sangue del Signore", come li chiama Paolo (1 Corinzi, 11, 27).
Abbiamo accennato ad alcuni teologi. Non mancano poi liturgisti che non accettano le definizioni tridentine sulla transustanziazione dopo le parole della consacrazione, perché allora - dicono - si aveva una conoscenza storica ridotta, si ignoravano in particolare le antiche anafore col risalto dell'invocazione allo Spirito Santo, non si aveva la percezione della struttura unitaria della preghiera eucaristica, e si era inoltre legati allo schema superato materia-forma. Come a dire: tutta la tradizione occidentale patristico-liturgica espressa a Trento si è ingannata sul significato, o sulla vis, delle parole della consacrazione e quindi sulla fede nella presenza reale "peracta consecratione", prima che l'anafora fosse tutta conclusa. Ma qui a far difetto, prima che un'eventuale mancanza di fede e di senso teologico, mi pare sia il senso del ridicolo. Solo che il pensiero va alle tristi conseguenze per quanti fossero alla scuola di tali maestri.

Per continuare la riflessione: nell'istituzione dell'Eucaristia il pane è il Corpo di Cristo e il vino il suo Sangue unicamente a motivo dell'affermazione creatrice o del sermo operatorius (sant'Ambrogio) di Gesù che, pronunziato il rendimento di grazie e nel suo contesto, dichiara e quindi porge come suo Corpo il pane e come suo Sangue il vino. Ed è questa propriamente la novità della "Cena del Signore".
Il rendimento di grazie avveniva a ogni pasto; gli apostoli avvertono che in quello dell'ultima Pasqua di Gesù con loro si tratta del Corpo e del Sangue del Signore dalla sua esplicita ed efficace dichiarazione. Per altro, la stessa struttura liturgica conferita nei sinottici al racconto dell'istituzione dell'Eucaristia manifesta l'intenzione di porre in risalto come determinanti le parole di Cristo, a meno di ritenere che, in assenza dell'invocazione dello Spirito Santo, tali sue parole non abbiano avuto effetto.
Ora, in ogni messa è sempre Cristo il celebrante originario.
A consacrare non sono le parole in sé, distinte da lui, quasi magicamente concepite, ma è sempre lui personalmente, o la sua signoria, operante in comunione con lo Spirito Santo: il ministro agisce in persona Christi, "ripresentando" l'intenzione e l'azione stessa del Signore.

La tanto deprecata forma di cui si parla, in coppia con la materia, non intende indicare altro che la parola, ossia l'intenzione di Cristo, che imprime creativamente alla generica realtà del pane (materia) la condizione nuova e mirabile di essere il suo Corpo.
Ma torniamo alla fede nella presenza reale in virtù della transustanziazione, per osservare che è esattamente questa fede a non risaltare sempre con limpida e persuasa chiarezza. Un indice è il modo sbrigativo con cui le sacre specie talora vengono trattate durante la comunione o al termine della celebrazione eucaristica, anche se non è il caso di inseguire ossessivamente frammenti quasi invisibili, che hanno perduto il carattere di segni.
Viene in mente l'esortazione di Origene: "Voi che assistete abitualmente ai santi misteri sapete con quale rispettosa precauzione conservate il Corpo del Signore quando vi è consegnato con il timore che ne cada qualche briciola e che una parte del tesoro consacrato si perda. Vi sentireste colpevoli e avete ragione, se per vostra negligenza qualche cosa se ne perdesse" (In Exodum homiliae, 13, 3).
Di fronte alla disinvoltura appena ricordata è difficile sottrarsi all'impressione che a essersi annebbiata sia proprio la certezza che sotto i segni sacramentali, dopo la celebrazione, continui a essere personalmente presente Gesù Cristo, vero uomo e vero Figlio di Dio, adorabile come il Padre e come lo Spirito Santo.

D'altronde, anche il ridursi, fino quasi alla scomparsa, dei segni del culto e dell'adorazione, che sono una professione silenziosa ma non meno efficace di quella affidata alle parole - come la genuflessione, l'inchino, lo stare in ginocchio, il silenzio dopo il ringraziamento, come veniva chiamato - hanno contribuito e contribuiscono ad affievolire la convinzione nel prosieguo della presenza di Gesù, che si prolunga oltre la celebrazione.
Quando addirittura non venga da chiedersi se, a vacillare non siano, a monte, la fede in Gesù Figlio di Dio, unico e universale Salvatore di tutti, e la certezza che senza la conversione a lui e senza la grazia della croce non c'è salvezza per nessuno.

La pratica dell'adorazione eucaristica non fu un'alterazione ma un arricchimento della "devozione" cristiana. Ora sono definitivamente e giustamente superati i limiti di una sovrapposizione dell'adorazione alla celebrazione, che è la fonte della presenza di Gesù nei segni: l'adorazione accende la relazione personale con lui, stimola e approfondisce la meditazione sul sacrificio della Croce, fomenta la gioiosa sorpresa per la presenza sacramentale.

Adorare il Signore nell'Eucaristia, infatti, non equivale a un prosternarsi tremante e smarrito, o a una volontà di "annientamento" di fronte all'incombente divinità; significa invece un essere colmi dell'ineffabile e amoroso stupore di fronte alla tradizione del Figlio di Dio, al donarsi illimitato del Verbo divenuto "il Dio con noi", quasi "racchiuso" con la sua gloria nel sacramento. Per questo è incomparabilmente prezioso il tempo passato in adorazione, quella solenne e pubblica e quella privata e silenziosa, così come sono preziose per tutta la Chiesa le comunità di fratelli e di sorelle dediti all'adorazione "perpetua".



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12/01/2011 23:51
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


«Noi non possiamo fare tutto: dobbiamo lasciar parlare Dio,
lasciarlo divenire presente»



“Il buon samaritano"
Niccolò Malinconico (1706) - Galleria Martini dello Spedale di Prato


«Allora lasciare l’altro non è soltanto una presa di coscienza dolorosa che noi
non possiamo far tutto, lasciare è la gioiosa celebrazione di una certezza:
Dio è colui che rimane mentre noi ce ne andiamo»



L'essenza della compassione

Henry Nouwen

Che cosa significa, in profondità, “avere compassione”? Stare vicino a chi soffre, e continuare a credere che ne valga la pena anche quando non vediamo alcun risultato, alcun apparente miglioramento. Ma significa anche non pretendere di essere onnipotenti, e di riuscire a far fronte da soli all’immensità del dolore che vediamo ogni giorno intorno a noi. «Noi siamo esseri umani, solo Dio è Dio», avverte con lucidità Henry Nouwen, sacerdote olandese impegnato nell’assistenza ai disabili. Possiamo e dobbiamo combattere i sensi di colpa che ci assalgono quando non riusciamo a fare tutto ciò che vorremmo per coloro che ci sono affidati. Anzi, in un approccio alla vita davvero ispirato dal Vangelo, la nostra assenza non è solo l’inevitabile conseguenza di un’amara finitudine, un disvalore, un limite da tollerare a malincuore. Al contrario, il nostro accettare di farci da parte, il riconoscere con serenità che non tutto dipende da noi (certo, dopo aver speso con slancio ogni energia e rinnovando di giorno in giorno il nostro impegno) può creare lo spazio in cui la compassione stessa di Dio, infinitamente più potente ed efficace, si fa presente nella vita del malato: «Dio è colui che rimane mentre noi ce ne andiamo».

E’ evidente che una visione di questo tipo ha pienamente valore solo per chi concepisca Dio non come un concetto astratto, inconoscibile e indimostrabile (o come un doloroso inganno), ma come realtà viva e operante fra gli uomini. Solo così, infatti, si può arrivare a vedere, nel limite, un’opportunità, la “gioiosa celebrazione di una certezza”.

Tuttavia, ci sembra che questa sapienza della compassione, soprattutto laddove ci mette in guardia dal delirio di onnipotenza, possa essere eloquente anche per chi non ha fede, ma impegna se stesso in nome del principio etico della solidarietà: un principio, ricordiamolo, che prima di essere “religioso” è innanzitutto autenticamente umano. Per questo motivo dedichiamo il brano a tutti coloro che ogni giorno, quale che sia il loro credo, operano con dedizione al fianco dei sofferenti.

«Come esercitare nelle nostre vite il ministero della compassione? Da un punto di vista strettamente teologico esercitare un ministero non consiste nel fare ciò che fa Dio; piuttosto nel vivere in modo tale che la compassione di Dio si manifesti nelle nostre vite e in quelle degli altri, che la nostra vita riveli, renda visibile, faccia scoprire la compassione di Dio. Dio è presente oggi, anzi in questo momento stesso, e vogliamo che altri facciano l’esperienza della sua presenza, una presenza che guarisce, conforta, consola. In questo consiste il nostro ministero di compassione: nel manifestare, rivelare, rendere visibile la compassione di Dio, di questo Dio onnipotente che è diventato vulnerabile. Ma in che modo possiamo far questo? Come possiamo manifestare la compassione di Dio senza agire come se fossimo Dio?

Noi manifestiamo la compassione di Dio con il nostro desiderio di essere presenti agli altri. Ecco uno dei mezzi di guarigione più potenti: la nostra capacità di essere presenti agli altri. Dobbiamo prendere pienamente coscienza di questo potere di guarigione che ci è affidato. Noi manifestiamo la compassione di Dio quando crediamo che vale la pena di essere con un altro anche se non possiamo far nulla, anche se non vediamo nessun risultato, anche se non constatiamo nessun cambiamento (...)

Ma possiamo manifestare la compassione di Dio anche con la nostra assenza... Molti di noi si sentono in colpa di non poter fare abbastanza per gli altri. Abbiamo i nostri impegni personali che ci prendono molto tempo e spesso siamo coscienti dei bisogni di tanta gente, dei loro problemi, delle loro sofferenze, e ci rendiamo conto continuamente di non fare abbastanza per loro. Dovremmo vederli più spesso, andarli a trovare, essere maggiormente presenti, fare di più... e a poco a poco la nostra vita interiore si sovraccarica di sensi di colpa. La nostra vita è piena di promesse che siamo incapaci di mantenere. E ci sentiamo a disagio. Continuiamo a ripetere agli altri di sentirci in colpa per non riuscire a mantenere le promesse. Non siamo con loro, in realtà, ma con il nostro senso di colpa. Ci torturiamo di non essere Dio. E questa convinzione che dovremmo fare di più, essere migliori, rispondere a tutte le esigenze dell’evangelo, fa parte della nostra cultura, del nostro modo di vivere. Ma non è ciò che ci mostra l’evangelo.

L’evangelo ci dice che Dio solo è compassionevole, non noi. A noi spetta unicamente rivelare la sua compassione, e non solo con la nostra presenza, ma anche con la nostra assenza. Quando lasciamo l’altro, infatti non facciamo che riconoscere che noi siamo umani e che Dio solo è Dio. Attraverso i nostri limiti diventa manifesta la compassione di Dio. Noi non possiamo fare tutto: dobbiamo lasciar parlare Dio, lasciarlo divenire presente. Allora lasciare l’altro non è soltanto una presa di coscienza dolorosa che noi non possiamo far tutto, lasciare è la gioiosa celebrazione di una certezza: Dio è colui che rimane mentre noi ce ne andiamo. E’ quanto ha detto Gesù ai suoi discepoli: «E’ bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore» (Gv 16,7). In altre parole: «Ho vissuto la vostra vita, ho sofferto e sono morto con voi. Vi resto presente. Ma è bene che me ne vada, perché con la mia partenza vi rivelerò chi sono io e chi è Dio».

C’è qui l’essenziale del nostro ministero: noi riveliamo Dio non solamente con la nostra venuta, ma anche con la nostra partenza».



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13/01/2011 14:52
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Papa Benedetto torna a parlarci del Purgatorio


“Anime del Purgatorio"
Riccardo Spoto (2007) - Gruppo statuario in cartapesta di scuola leccese, Chiesa Madre di Santa Maria di Licodia


Il male va preso sul serio
come la vita (o la morte) eterna

Marina Corradi

Benedetto XVI ha parlato del purgatorio. Di come secondo la mistica santa Caterina da Genova sia non un fisico luogo di tormenti, ma piuttosto un fuoco interiore: la sofferenza dell’anima che percepisce quanto è lontana da Dio. Non uno spazio dunque, ma una condizione. Qualcosa di simile all’immagine di Platone, ricordata dal Papa nella <+corsivo_bandiera>Spe salvi<+tondo_bandiera>, secondo la quale un giorno le anime staranno nude davanti al giudice. Prima che condanna, il giorno del primo giudizio, quello della morte, sarebbe un vedersi finalmente, crudamente, per ciò che si "è".

Ci vuole un certo coraggio, per parlare di queste cose agli uomini del 2011. Perfino nelle chiese se ne predica spesso sottovoce, quasi si trattasse di miti arcaici. E chi segue una scolaresca in visita alla Cappella degli Scrovegni o davanti agli affreschi che costellano le nostre antiche chiese, potrebbe notare la curiosità quasi divertita con cui guarda alle scene di anime del purgatorio, e di bilance gravi sotto al peso dei peccati, e di oscuri demoni ansiosi di impadronirsene. Forse nulla, della tradizione cristiana, appare a noi del terzo millennio tanto irreale quanto quello scenario severo e possente, che era l’orizzonte dell’umanità medioevale.Lo ha detto apertamente lo stesso Benedetto in "Luce del mondo": a noi, oggi, queste cose appaiono irreali.

Abbiamo da secoli nel sangue l’eredità positivista che ha sostituito la fede nel Giudizio, inteso come giorno di giustizia e di salvezza, con quella nel progresso. E, a livello individuale, siamo da almeno una generazione figli magari inconsapevoli di un’altra rivoluzione, quella freudiana, che ha sostituito il concetto di peccato con il "senso di colpa"; che è soggettivo, labile, ed eliminabile – ci promettono – con adeguata terapia. Insomma, che davvero il giorno della morte ci si presenti un bilancio, che ci venga chiesto conto di male fatto e talenti sprecati, facciamo fatica a crederlo. Figli di padri permissivi e distratti, tendiamo a pensare che anche Dio – se poi c’è – sia di manica larga, e di memoria corta.

Su questo punto il Papa, nell’intervista a Seewald, mette gentilmente in guardia: dice che «effettivamente la possibilità di essere cacciati via» c’è, e che dovremmo prendere molto sul serio il male. Niente dell’anatema; ma un punto fermo, e una svolta. Qui come nelle frasi di ieri sul purgatorio, si coglie nel Papa un disegno mite nella forma ma audace, e netto nel porsi contro lo "spirito del tempo". Lui stesso ha parlato di «realismo escatologico»: cioè di riportare i novissimi, le cose ultime, nella dimensione della realtà. Ha detto che la Chiesa deve condurre le persone a guardare «oltre le cose penultime, e a mettersi alla ricerca delle ultime». Ma «con parole e modi nuovi, per sfondare il muro del suono del finito».Già, quel "finito" in cui siamo immersi e rischiamo di annegare, presi nella trama di necessità, urgenze, ambizioni, avidità.
Attenti a tutto fuorché a ciò che è l’essenziale: cioè che la morte, nostra, e dei nostri figli e di chi amiamo, non sia per sempre. Ci importa, di questo? Presi dagli affanni quotidiani, a questa domanda ritorniamo spesso solo da vecchi, o malati, o quando un lutto lacerante strappa via tutto ciò di cui vivevamo. Normalmente parlando, la vita eterna e dunque il giudizio sono lontani dai nostri pensieri. Insomma, ci diciamo, in ogni caso, quel giorno non sarà poi così terribile.

Infantile per noi, l’armamentario dell’iconografia medioevale di bilance, e diavoli punzecchianti. Ci occorrono altre parole. Il purgatorio come percezione della verità su di sé. Come le anime nude di Platone, o il «fuoco interiore» di Caterina – o la salvezza descritta da Paolo ai Corinzi, che verrà «come attraverso il fuoco». E sembra che il Papa faccia un grande sforzo da padre per dirci ancora, in modo a noi comprensibile, ciò che è vero da sempre. Per dirci, lui vecchio, lui ex ragazzo cresciuto nel nazismo, di prendere sul serio il male di cui, da uomini, siamo capaci; e il desiderio grande che, da uomini, ci portiamo dentro.




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14/01/2011 17:08
 
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... ecco perchè c'è ancora bisogno di santi e di preti!


Verso Dio e verso Satana
Gianfranco Ravasi

In ogni uomo, in ogni ora del giorno vi sono come due pulsioni simultanee e opposte, una verso Dio e l'altra verso Satana.
Aveva scritto che «la più grande astuzia del diavolo è farci credere che non esiste».
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Su questa scia il famoso poeta ottocentesco francese Charles Baudelaire ci ha anche proposto la considerazione sopra citata, tratta da Il mio cuore messo a nudo. Siamo di fronte a un ritratto che avrà spesso un esito negativo nella biografia e nei versi del poeta parigino: egli, infatti, si lascerà andare alla deriva nelle droghe, nell'alcol, nelle spese folli, in amori stravaganti fino a chiudere la sua vita a 46 anni nel 1867. In quel ritratto possiamo, però, un po' tutti rispecchiarci perché esso centra una realtà umana comune e costante: la Bibbia parla delle due vie che stanno di fronte alla nostra libertà, le vie del bene e del male, del vero e del falso, del giusto e dell'ingiusto.
Non basta saper distinguere la ben diversa qualità delle due scelte perché in noi agisce anche l'oscura forza della tentazione satanica che può sconvolgere lo stesso ordine razionale dei valori.
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Anche s. Paolo confessava: «Nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra» (Romani 7, 22-23). Eppure è lo stesso Apostolo a ricordarci che esiste anche un'altra forza in noi che non è solo quella della nostra libertà e della ragione: è la grazia divina che in quel crocevia decisivo non ci lascia soli ma ci sostiene perché la nostra scelta sia luminosa. Autonomi e responsabili nelle nostre opzioni morali, non siamo però soli.
E se c'è Satana che si insedia accanto a noi, c'è anche la mano di Dio salvatrice che non si ritrae.



Fonte - - Rubrica "Avvenire"


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