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La presenza di Dio

Ultimo Aggiornamento: 12/06/2020 09:44
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18/10/2010 19:49
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?
… Benedetto XVI entusiasma i giovani …


"Se Dio non viene più percepito la vita diventa vuota"



La presenza di Dio


Città del Vaticano, 18 ott - C'è ancora bisogno di santi e di preti? A porre la domanda è Benedetto XVI di fronte alle canonizzazioni che ha presieduto in piazza San Pietro e nella lettera ai seminaristi. E la questione è radicale, perché riguarda la presenza di Dio nel mondo. I sei santi proclamati dal Papa - tra loro ben quattro donne, tra cui la prima australiana, Mary MacKillop, leader davvero eccezionale e coraggiosa - lo hanno capito, lasciando trasparire e risplendere questa presenza.

Nel buio della follia nazista si era convinti che la nuova Germania non avrebbe più avuto bisogno di preti, ha ricordato Benedetto XVI ai seminaristi. In un testo, diretto e importante, che non è rivolto esclusivamente a chi sta preparandosi al sacerdozio perché parla della fede, come nel versetto del vangelo di Luca (18, 8) commentato dal Papa nella messa per le canonizzazioni: "Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?".

Il tono della lettera di Benedetto XVI è ancora una volta quasi confidenziale, e lascia trasparire un'esperienza personale profonda. Di fronte alle convinzioni che i preti appartengano al passato il Papa risponde che al contrario anche oggi c'è bisogno di loro, cioè di "uomini che esistono per lui e che lo portano agli altri". Se Dio infatti non viene più percepito "la vita diventa vuota". Ecco perché vale la pena diventare sacerdoti. In un cammino che non si fa da soli - ecco la sapienza del seminario - ma in comunità.
Benedetto XVI descrive il prete essenzialmente come "uomo di Dio". Che non è però uno sconosciuto ritiratosi dopo il big bang, ma colui che si è mostrato in Gesù, il Dio vicino. E il sacerdote, che non è un amministratore qualsiasi, è il suo messaggero. Per questo il prete deve "non perdere mai il contatto interiore con Dio": così va compresa - spiega il Papa - l'esortazione del Signore a pregare "in ogni momento".

Ma come concretamente? Iniziando e concludendo la giornata con una preghiera, leggendo e ascoltando la Scrittura, divenendo sensibili ai propri errori ma anche al bello e al bene. Celebrando l'Eucaristia e comprendendo come la liturgia della Chiesa è cresciuta nel tempo, formata da innumerevoli generazioni, in una continuità ininterrotta. Accostandosi umilmente al sacramento della Penitenza per "opporsi all'abbrutimento dell'anima".

È davvero un'agenda del prete - ma utile a ogni credente - quella che Benedetto XVI descrive nella lettera, con indicazioni che s'impongono per la loro semplicità e sapienza. Raccomandando sensibilità per la pietà popolare e nello stesso tempo mostrando l'importanza dello studio, che non è altro se non "conoscere e comprendere la struttura interna della fede": attraverso la conoscenza della Scrittura nella sua unità, dei Padri e dei grandi concili, nell'approfondimento delle varie articolazioni della teologia, in un orientamento sulle grandi religioni, nello studio della filosofia e del diritto canonico, definito "condizione dell'amore" con un coraggio controcorrente.
C'è da aspettarsi che l'attenzione dei media sia ancora una volta attirata da quanto il Papa scrive sullo scandalo degli abusi sessuali di bambini e giovani da parte di sacerdoti.

Ma Benedetto XVI punta più in alto, sottolineando che la dimensione della sessualità deve essere integrata nella persona, perché altrimenti "diventa banale e distruttiva". Come mostrano gli esempi innumerevoli di preti autentici - e dei santi - che proprio per questo sono convincenti. Nel lasciare soprattutto trasparire la luce di Dio che illumina ogni uomo.



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19/10/2010 01:23
 
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Re: ... c'è ancora bisogno di santi e di preti?

Certo che c'è ne bisogno, oggi più che mai: senza di loro Dio non esisterebbe

__________________

fabius039
19/10/2010 14:12
 
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Re: Re: ... c'è ancora bisogno di santi e di preti?
fabius039, 19/10/2010 1.23:


Certo che c'è ne bisogno, oggi più che mai: senza di loro Dio non esisterebbe.



perchè usi il condizionale?? [SM=x44613]


19/10/2010 14:31
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?



fabius039, 19/10/2010 1.23:


Certo che c'è ne bisogno, oggi più che mai: senza di loro Dio non esisterebbe.


Mmm … ecco perché gli empi, che fin dall’inizio hanno in odio Dio, così pensano di Lui e così agiscono contro i giusti (i Santi e i Preti) durante il tempo della loro terrena vita:

«Gli empi invocano su di sé la morte con gesti e con parole, ritenendola amica si consumano per essa e con essa concludono alleanza, perché son degni di appartenerle. Dicono fra loro sragionando:
"La nostra vita è breve e triste; non c'è rimedio, quando l'uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati. È un fumo il soffio delle nostre narici, il pensiero è una scintilla nel palpito del nostro cuore. Una volta spentasi questa, il corpo diventerà cenere
e lo spirito si dissiperà come aria leggera. Il nostro nome sarà dimenticato con il tempo e nessuno si ricorderà delle nostre opere. La nostra vita passerà come le tracce di una nube, si disperderà come nebbia scacciata dai raggi del sole e disciolta dal calore.
La nostra esistenza è il passare di un'ombra e non c'è ritorno alla nostra morte, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera, coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano; nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza. Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte.
Spadroneggiamo sul giusto povero, non risparmiamo le vedove, nessun riguardo per la canizie ricca d'anni del vecchio. La nostra forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile. Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge e ci rinfaccia le mancanze contro l'educazione da noi ricevuta. Proclama di possedere la conoscenza di Dio e si dichiara figlio del Signore. È diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita è diversa da quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade. Moneta falsa siamo da lui considerati, schiva le nostre abitudini come immondezze. Proclama beata la fine dei giusti e si vanta di aver Dio per padre. Vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio, egli lo assisterà, e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti, per conoscere la mitezza del suo carattere e saggiare la sua rassegnazione. Condanniamolo a una morte infame, perché secondo le sue parole il soccorso gli verrà".

La pensano così, ma si sbagliano; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i segreti di Dio; non sperano salario per la santità né credono alla ricompensa delle anime pure.
» (Sap 1, 16; 2, 1-22).


… ed ecco anche uno dei motivi per cui Dio – che tanto ha amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (Gv 3, 16) – ha preso forma umana incarnandosi nella persona di Gesù Cristo, che a sua volta, udendo i propositi malvagi degli empi, disse loro:

«“Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti, non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori.”» (Mt 9, 12-13; Mc 2, 17; Lc 5, 31-32).




















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19/10/2010 21:41
 
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Categorie di teisti

Ci sono due categorie di teisti:

- quelli che sfruttano il richiamo di un dio per arrogarsi una posizione privilegiata sugli altri esseri umani, quelli che dicono "io e solo io posso parlare con la divinità, e quindi sono superiore a tutti voi, sono un semidio infallibile e mi dovete rispetto e riverenza". Ovviamente questa categoria è degna del massimo disprezzo.

- quelli che hanno bisogno di credere in qualcosa, perchè altrimenti si sentono deboli. Come una pianticella di pomodoro può crescere solo appoggiandosi ad un tutore, queste persone cercano un sostegno esterno, a volte in questa o quella religione, a volte cadendo vittime di inganni anche più atroci. A questi va tutta la mia comprensione, solidarietà e simpatia, e cercherò di tenere protette queste fragili pianticelle da tutti i venti, anche quello vorticoso della verità.

Naturalmente chi è saldo nella sua natura, come ulivo centenario, può sostenere qualsiasi tempesta senza appoggio di alcuno, e senza opprimere nessuno.
[Modificato da fabius039 19/10/2010 21:42]

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fabius039
20/10/2010 17:44
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?


fabius039, 19/10/2010 21.41:


Categorie di teisti

Ci sono due categorie di teisti:

- quelli che sfruttano il richiamo di un dio per arrogarsi una posizione privilegiata sugli altri esseri umani, quelli che dicono "io e solo io posso parlare con la divinità, e quindi sono superiore a tutti voi, sono un semidio infallibile e mi dovete rispetto e riverenza". Ovviamente questa categoria è degna del massimo disprezzo.

- quelli che hanno bisogno di credere in qualcosa, perchè altrimenti si sentono deboli. Come una pianticella di pomodoro può crescere solo appoggiandosi ad un tutore, queste persone cercano un sostegno esterno, a volte in questa o quella religione, a volte cadendo vittime di inganni anche più atroci. A questi va tutta la mia comprensione, solidarietà e simpatia, e cercherò di tenere protette queste fragili pianticelle da tutti i venti, anche quello vorticoso della verità.

Naturalmente chi è saldo nella sua natura, come ulivo centenario, può sostenere qualsiasi tempesta senza appoggio di alcuno, e senza opprimere nessuno.


Mmm … tuttavia, queste due categorie di teisti, o più precisamente, di a-teisti hanno in comune la stessa peccaminosa superbia: non di sentirsi talvolta “deboli”, ma di non voler mai riconoscersi per quello che sono realmente, cioè disgraziati, indigenti, poveri. In altre parole, uomini, creature bisognose di tutto ciò che viene in sovrabbondanza dal loro Creatore …
Pertanto in questi nemici di Dio, del suo Cristo e della sua Chiesa – anziché prima che ostili ai preti e ai santi - si avvera la Parola di Dio annunciata dalla Vergine Maria nel suo Magnificat: ”… ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore” (Lc 1, 51b).

Ma in certuni palesi atei c’e anche di peggio e di assai più disonesto!
Giustappunto, giacché la caratteristica degli empi su citati, come ricorda la Sapienza, è di sragionare (Sap 2, 1a), essi si convincono più degli altri di bastare a se stessi e quindi di auto-salvarsi. Pertanto, da una parte disprezzano i loro simili, e dall’altra e secondo i propri estri, presumono addirittura di poterli aiutare con le proprie effimere quanto false certezze. Tali superbi frodatori della Verità e figli del Buffone (Gen 3, 1a) poiché più di altri si ostinano a non volerne sapere di essere degli infelici, dei miserabili, dei poveri ciechi e nudi, pontificano allora, dall’alto della loro stoltezza, di se medesimi:
"Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla" (Ap 3, 17).
Costoro, in sostanza, da iniqui e di consuetudine in fedeltà al loro religiosissimo Ateismo, hanno fatto della propria immanente ma capricciosa e pervertita “ragione” il loro unico dio.

A onore dunque della verità, va invece puntualizzato che l’uomo, sebbene decaduto per propria insipiente colpa e quantunque ancora saldo nella sua natura creata, per l’appunto, a ”immagine e somiglianza” del proprio Creatore (Gen 1, 26), è anche saldissimo nella propria intrinseca fede – come quella dei Santi e dei Sacerdoti consapevoli, per infusa Grazia divina, della loro naturale nullità. Ciò ben sapendo che soltanto dal Signore, l’uomo tutto riceve, e quindi allora tutto può fare. Anzitutto di amare e di servire; tutto è capace di accogliere gratuitamente da Dio e così anch’egli, da vero uomo figlio di Dio, tutto può dare ai propri simili; tutto è capace di ritornare in umiltà al suo Creatore e al suo prossimo … ciò sempre per la maggiore gloria e magnificenza incommensurabile dell’Altissimo.



















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21/10/2010 22:05
 
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OK, quindi dalla tua risposta è evidente che appartieni alla seconda categoria, innocua e che conviene lasciare nelle sue convinzioni.

D'altronde è solo dai testi che citi copiosamente che trai la tua ragione di vita.

In questi casi guai cercare di togliere questi supporti, non si sa cosa potrebbe succedere di negativo al soggetto ed a chi gli sta intorno.

Meglio un paranoico monomaiacale innocuo che grida nel suo cortile, ma che comunque trae da quello in cui crede una sua ragione di vita, che uno sradicato, spaesato e privo di coscienza critica autonoma, che potrebbe fare danni ad altri ed a sè stesso.

Se uno non ammazza, non ruba, non stupra solo perchè così dicono i comandamenti, è meglio lasciare che continui a crederci, altrimenti persa la sua cieca fede e privo di proprio senso morale ucciderebbe, ruberebbe e stuprerebbe.

Quindi, caro Bestion, va benissimo che tu continui così, ai ragione, ai ragione tu, ma calmati, tranquillo, e soprattutto non gridare!

So long, farewell, vale.

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fabius039
22/10/2010 15:25
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?


fabius039, 21/10/2010 22.05:

OK, quindi dalla tua risposta è evidente che appartieni alla seconda categoria, innocua e che conviene lasciare nelle sue convinzioni.

D'altronde è solo dai testi che citi copiosamente che trai la tua ragione di vita.

In questi casi guai cercare di togliere questi supporti, non si sa cosa potrebbe succedere di negativo al soggetto ed a chi gli sta intorno.

Meglio un paranoico monomaiacale innocuo che grida nel suo cortile, ma che comunque trae da quello in cui crede una sua ragione di vita, che uno sradicato, spaesato e privo di coscienza critica autonoma, che potrebbe fare danni ad altri ed a sè stesso.

Se uno non ammazza, non ruba, non stupra solo perchè così dicono i comandamenti, è meglio lasciare che continui a crederci, altrimenti persa la sua cieca fede e privo di proprio senso morale ucciderebbe, ruberebbe e stuprerebbe.

Quindi, caro Bestion, va benissimo che tu continui così, ai ragione, ai ragione tu, ma calmati, tranquillo, e soprattutto non gridare!

So long, farewell, vale.


Mmm … è plausibile pensare che il ricco epulone sia finito nei perenni tormenti dell’inferno non perché era ricco, bensì perché, come i suoi fratelli increduli – tanto gli ha ricordato il padre Abramo, al quale il disperato si rivolgeva supplicandolo troppo tardivamente -, non ha mai voluto ascoltare né Mose né i Profeti (Lc 16, 19-31). Questo "ricco" invece, da altrettanto religiosissimo ateo, ha odiato Dio e ha fatto della sua transitoria ricchezza la propria unica ragione di vita. Non curandosi, fra l’altro, degli altri poveri e non badando così, mentre era in vita, anche alla sua più consistente indigenza della quale, Lazzaro, ne era pure per questo festaiolo epulone il segno più tangiile.

Quindi, «Ascoltate oggi la sua voce: “Non indurite il cuore …”» (Sal 95, 8).
Senno, di quanti restano ostinati nel loro maligno Ateismo, avverte la Sapienza:

«… vedendolo [il Giusto] saranno presi da terribile spavento, saranno presi da stupore per la sua salvezza inattesa.

Pentiti, diranno fra di loro, gemendo nello spirito tormentato: "Ecco colui che noi una volta abbiamo deriso e che stolti abbiamo preso a bersaglio del nostro scherno; giudicammo la sua vita una pazzia e la sua morte disonorevole. Perché ora è considerato tra i figli di Dio e condivide la sorte dei santi? Abbiamo dunque deviato dal cammino della verità; la luce della giustizia non è brillata per noi, né mai per noi si è alzato il sole.
Ci siamo saziati nelle vie del male e della perdizione; abbiamo percorso deserti impraticabili, ma non abbiamo conosciuto la via del Signore.

Che cosa ci ha giovato la nostra superbia? Che cosa ci ha portato la ricchezza con la spavalderia? Tutto questo è passato come ombra e come notizia fugace, come una nave che solca l'onda agitata, del cui passaggio non si può trovare traccia, né scia della sua carena sui flutti. Oppure come un uccello che vola per l'aria e non si trova alcun segno della sua corsa, poiché l'aria leggera, percossa dal tocco delle penne e divisa dall'impeto vigoroso, è attraversata dalle ali in movimento, ma dopo non si trova segno del suo passaggio. O come quando, scoccata una freccia al bersaglio, l'aria si divide e ritorna subito su se stessa e così non si può distinguere il suo tragitto: così anche noi, appena nati, siamo già scomparsi, non abbiamo avuto alcun segno di virtù da mostrare. Siamo stati consumati nella nostra malvagità"».
(Sap 5, 2-13)





















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26/10/2010 13:52
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?


IOR, l’affondo di Gotti Tedeschi sulla crisi:
"Colpa di preti e di chi non fa figli"




“Il veemente attacco alla credibilità
della Chiesa in corso da quando
è stata pubblicata l’Enciclica
Caritas in Veritate”


CITTA’ DEL VATICANO, 26 ott - ''L'attacco veemente alla credibilita' della Chiesa e' iniziato appena sei mesi dopo l'uscita dell'Enciclica 'Caritas in veritate', con gli attacchi alla persona del Papa, i fatti legati alla pedofilia e continua ancora adesso con le vicende che mi vedono coinvolto''. A Fermo, per la conferenza sull'ultima Enciclica papale, il presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, coinvolto nell'inchiesta sulla presunta violazione - da parte dell'istituto vaticano - delle norme antiriciclaggio, non parla esplicitamente della vicenda ma fa questo accenno.

Un riferimento-flash da cui il numero uno dell'istituto vaticano prende subito il largo affrontando tematiche a lui care e per lo piu' incentrate sull'attuale crisi economica. ''Se c'e' la crisi - esordisce senza mezzi termini -, la colpa e' dei preti, perche' non hanno piu' insegnato la dottrina e il senso della vita. Vogliamo uscire dalla crisi? Che i preti ricomincino a insegnare la dottrina. Se non superiamo la cultura nichilista e avviamo un rinnovamento dell'uomo rapidamente non riusciremo ad andare avanti e per questo rinnovamento non possiamo fare a meno dei preti''.

Gotti Tedeschi rilancia poi il tema del calo demografico, alla base, a suo dire, del crollo dello sviluppo economico. E l'occasione e' buona per un affondo molto duro all'indirizzo del politologo Giovanni Sartori. ''Mi criminalizza sul fatto che io sostengo che e' necessario fare figli per uscire dalla crisi e mi attacca continuamente sui giornali. Secondo lui, bisognerebbe non fare figli e distruggere anche quelli che ci sono, ma se cominciasse con se stesso non sarebbe male''. ''Se la popolazione non cresce - insiste il Presidente dello Ior -, non cresce neanche il Pil. E per farlo crescere, se non c'e' aumento demografico, bisogna consumare di piu' e la conseguenza e' il cambiamento della struttura sociale e la necessita' di compensare la crescita dei costi fissi attraverso l'aumento delle tasse''.

Poi un'attenta disamina del debito pubblico, che contiene anche un monito: ''Per la riduzione del debito le strade sono poche: la bancarotta, come il modello Argentina; l'inflazione (in Italia siamo esperti); creare una nuova bolla economica, ma in Italia siamo capaci solo per quelle immobiliari e l'ultima, l'austerita'. E sappiamo tutti che questa e' l'unica strada percorribile. Eppure gli italiani continuano a spendere in beni superflui''.

Nella sua analisi dello scenario attuale Gotti Tedeschi riprende i temi del consumismo, che - rimarca - ha diviso il mondo tra chi consuma e non produce e chi produce e non ha potere d'acquisto, e che ''ha diviso l'uomo in tre dimensioni economiche in conflitto tra loro: produttore, consumatore e investitore''. Guardando al futuro, la prospettiva e' quella di recuperare il valore dell'uomo: ''La banca etica e la finanza etica non esistono. Quando ascoltate queste affermazioni vi stanno imbrogliando, perche' uno strumento in se' non puo' essere etico, ma e' l'uomo che gli da' il valore etico''.


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28/10/2010 15:04
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?



«con Dio o senza Dio cambia tutto»


"Creazione di Adamo e Eva"
Lorenzo Ghiberti - 1401
(Battistero di San Giovanni - Porta Esterna - Firenze)



Dio: una grande domanda
e una ancor più grande presenza

Camillo Ruini


Inizio con una domanda: la gente oggi crede ancora o non crede più in Dio? La risposta prevalente tra i sociologi della religione qualche decennio fa era che molta gente ci crede ancora ma la fede in Dio sta diminuendo ed è difficilmente compatibile con lo sviluppo moderno della cultura e della società, almeno in Occidente. Perciò la fede in Dio sarebbe destinata praticamente a scomparire, o a sopravvivere in qualche gruppo che si isoli in se stesso e rifiuti la modernità. Grosso modo, era questa la tesi della «secolarizzazione» come esito fatale della modernità.

Oggi questa tesi è molto contestata e per lo più abbandonata, di fronte al fatto evidente della ripresa delle grandi religioni – in particolare della loro nuova rilevanza sulla scena pubblica – e anche del rinnovato vigore del senso e della ricerca religiosa tra la gente in Occidente. Ma come stanno realmente le cose? Per rispondere faccio riferimento soprattutto all’opera imponente del filosofo, storico e sociologo canadese Charles Taylor L’età secolare. Egli nega che esista un rapporto automatico tra modernità e perdita o diminuzione della fede in Dio. Ciò può essere vero per alcuni Paesi, come ad esempio quelli del Nord-Europa, ma non per tutti: ad esempio non è vero per gli Stati Uniti. La netta distinzione tra politica e religione, come anche tra la religione e le altre dimensioni dell’esistenza (economiche, scientifiche, artistiche, ricreative…), è ormai una caratteristica comune delle attuali società democratiche, che può restringere la presenza di Dio nella nostra esperienza di vita ma non contrasta necessariamente con la fede in lui. Il cambiamento decisivo avvenuto in questo campo può invece riassumersi così: dalla metà dell’800, quindi ormai da più di 150 anni, siamo passati da una società nella quale era «virtualmente impossibile non credere in Dio, ad una in cui, anche per il credente più devoto, credere in Dio è solo una possibilità umana tra le altre». Il vero nucleo della secolarizzazione, secondo Taylor, sta proprio qui: nel considerare la fede in Dio come un’opzione tra le altre.

Personalmente mi ritrovo in questa analisi e anche nelle indicazioni di massima che Taylor ricava da essa. Secondo lui si è affermata in Occidente, non solo tra le persone di cultura ma ormai anche tra la gente comune, la convinzione di un «fiorire dell’uomo», cioè di un ideale di pienezza della vita, che sarebbe possibile senza Dio. È questa oggi per la fede la sfida decisiva, una sfida chiaramente non solo intellettuale ma spirituale, morale, esistenziale, alla quale non si può rispondere limitandosi a criticare la sensibilità attuale e a mettere in evidenza i suoi indubbi limiti, ma piuttosto attingendo alla ricchezza della proposta cristiana su Dio e sull’uomo per offrire a questa sensibilità una possibilità di realizzazione ben più piena e ben più grande. Alla base sta la certezza, confermata anche dagli sviluppi attuali della storia, che il rapporto dell’uomo con la religione e con Dio è tanto profondo che, quando cambiano anche radicalmente i contesti sociali e culturali, la domanda religiosa non si estingue, ma si ricompone in forme più adatte alla nuova situazione.

All’interno di questo quadro vorrei precisare, in modo un po’ più organico, l’atteggiamento con il quale va posta la questione di Dio. Anzitutto dobbiamo rinunciare alla pretesa di un approccio "neutrale", puramente oggettivo o scientifico. La questione di Dio, infatti, coinvolge inevitabilmente la persona, il soggetto che la pone, poiché ha a che fare con il senso e la direzione della nostra vita e con il modo in cui interpretiamo noi stessi e tutta la realtà. Non è esagerato, dunque, affermare che «con Dio o senza Dio cambia tutto». Inoltre, la stessa impossibilità di un approccio neutrale alla questione di Dio non costituisce soltanto un nostro limite. Al contrario, racchiude un significato fortemente positivo, che consiste proprio nel totale coinvolgimento di noi stessi, della nostra esperienza di vita, della libertà e degli affetti, insieme all’intelligenza e alle sue capacità critiche. È vera specialmente a questo riguardo la parola di sant’Agostino: «Si conosce veramente solo ciò che si ama veramente». Specialmente quando si tratta di Dio è sbagliato unque rinchiudersi in una prospettiva razionalistica. (...)

Termino riprendendo il suggerimento di Charles Taylor che ci invita a mettere l’apertura a Dio in collegamento con il «fiorire dell’uomo». Esiste un profondo parallelismo tra l’approccio a Dio e l’approccio a noi stessi, in quanto soggetti intelligenti e liberi. In entrambi i casi siamo sottoposti, nel nostro tempo, alla pressione di un forte e pervasivo scientismo e naturalismo materialistico, che vorrebbero dichiarare Dio inesistente, o quanto meno razionalmente non conoscibile, e ridurre l’uomo a un oggetto della natura tra gli altri. Oggi, come forse mai in precedenza, appare chiaro dunque che l’affermazione dell’uomo come soggetto e l’affermazione di Dio stanno in piedi insieme o cadono insieme. Ciò del resto è profondamente logico: da una parte infatti è ben difficile fondare un vero e irriducibile emergere dell’uomo rispetto al resto della natura se la natura stessa è l’unica realtà; dall’altra parte è ugualmente difficile lasciare aperta una via che conduca razionalmente al Dio personale, intelligente e libero – in modo vero anche se superiore ad ogni concetto della nostra mente – se non si riconosce anzitutto al soggetto umano questo irriducibile carattere personale.

Poniamoci ora da un punto di vista più storico ed esistenziale. La "svolta antropologica" attraverso la quale, nell’epoca moderna, l’uomo, il soggetto umano, si è posto al centro della realtà, si è sviluppata storicamente come "emancipazione", anzitutto nei confronti di Dio. Attualmente però, al fine di potersi reggere e proseguire nella storia, la svolta verso il soggetto ha bisogno di Dio. Questo emerge proprio dalla critica che la "postmodernità" ha condotto nei confronti della modernità e della sua pretesa di autosufficienza del soggetto umano. Emblematica è, a questo riguardo, l’affermazione con cui Jean-Paul Sartre conclude il suo libro L’essere e il nulla: «L’uomo è una passione inutile». In effetti, se Dio non esiste e quindi l’uomo – ogni singola persona e l’intero genere umano – è solo nell’universo, viene semplicemente dalla natura e alla natura ritorna (una natura che non sa niente di lui e non si cura di lui), è difficile pensare che sia possibile per noi soddisfare in qualche modo quell’«anelito di pienezza» che è inserito nel nostro essere ed è quindi presente in ciascuno di noi.


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31/10/2010 14:53
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?



, 21/10/2010 22.05:

Meglio un paranoico monomaiacale innocuo che grida nel suo cortile, ma che comunque trae da quello in cui crede una sua ragione di vita ...



«chi sceglie il finito, segue il destino del finito
e il destino del finito è di trascinare il finito nel finito, infinitamente»

(Cornelio Fabro, sacerdote, teologo, neotomista e filosofo italiano 1911-1995)


"La scuola di Atene 1509-1511"
Raffaello Sanzio
Palazzo Vaticano, Stanza della Signatura



«Caro ateo, sapere aude!»
Carlo Caffarra

Nel suo limpido pensiero Tommaso ha scritto: «Si deve dire che i doni della grazia si aggiungono alla natura in modo non da sopprimerla, ma piuttosto da perfezionarla; perciò anche il lume della fede che viene infuso in noi per grazia, non distrugge il lume della ragione naturale posto in noi da Dio» [Commento al libro di Boezio sulla Trinità q.2, a 3 c].
Il testo esprime la chiave di volta di ogni cultura cristiana: il naturale vincolo della fede colla ragione. Un vincolo naturale in forza del quale l’una perfeziona l’altra. Una fede non pensata – solo esclamata e mai interrogata – finisce col restare ai margini della vicenda umana: il momento di elevazione-evasione dalle brutte faccende feriali, che tali restano, e brutte e feriali. Una ragione che si precluda l’interrogativo ultimo sul fondamento dell’intero, finisce col chiudersi dentro un’ontologia e un’etica del finito privo di fondamento. E «chi sceglie il finito, segue il destino del finito e il destino del finito è di trascinare il finito nel finito, infinitamente» [Cornelio Fabro]. E questo si chiama disperazione, anche se vissuta gaiamente.
Ma che cosa significa per noi oggi il fatto «che la fede non distrugge il lume della ragione naturale posto in noi da Dio»? Certamente significa che la decisione di credere è una decisione ragionevole, poiché esistono ragioni rigorosamente argomentate che persuadono ad una tale decisione. Non voglio ora soffermarmi su questo significato, benché sia di notevole importanza. Certamente significa che l’ingresso del sapere della fede dentro all’universo del sapere della ragione non toglie a quest’ultimo la sua piena autonomia. In sostanza si tratta di due inquilini che abitano nello stesso condominio – la vita dello spirito umano – ma ciascuno a casa propria. Anche questa posizione del rapporto ragione-fede è importante. L’averla dimenticata è stata una delle cause non ultime del drammatico «caso Galileo».
Ambedue le posizioni teoretiche precedenti in fondo lasciano ragione e fede estranee l’una all’altra, anche se non confliggenti. Ma il testo tommasiano e il Magistero dell’attuale Pontefice, in approfondita continuità coll’enciclica Fides et ratio, ci invitano a riflettere sull’intrinseca connessione e reciproca fecondazione di fede e ragione. San Tommaso infatti parla di «perfezionamento». In che senso?
Scrive san Bonaventura: «quando la fede assente… per amore di colui a cui dà il proprio assenso, desidera comprendere [habere rationes]» [Commento alle Sentenze, Proemio q.2].

La fede è l’incontro con una Persona nel suo agire e nelle sue dichiarazioni di amore. Ogni amante desidera conoscere colui che ama. La fede stessa quindi mette in azione la ragione perché questa evidenzi le ragioni intime dell’amore divino. Perché il credente sia introdotto sempre più profondamente dentro il Mistero, deve ricorrere alla sua ragione, obbligandola ad un uso sovra-eminente della sua capacità. Nessuna ragione ha osato tanto quanto la ragione dei credenti.
In questo modo, e solo in questo modo, il credente sarà in grado di mostrare a chi si trova ancora nell’atrio dei gentili l’intima ragionevolezza dell’universo della fede.
Non solo, ma in questo modo la ragione è anche guarita da quella malattia mortale da cui oggi è colpita, quella di essere ridotta alla capacità di ottenere conseguenze efficaci a partire da posizioni e interessi assunti in maniera pregiudiziale; quella di essere ridotta a misurare e commisurare gli effetti alle cause.
Ma anche la fede ha bisogno della ragione. Da almeno due punti di vista.
La divina Rivelazione a cui la fede dà il suo assenso, è prima di tutto un evento linguistico: è parola di Dio detta all’uomo. È quindi veicolo di un senso, non semplicemente di emozioni. È dunque necessario un rigoroso lavoro di purificazione perché il «senso divinamente inteso e rivelato» entri nella comunità cristiana. La perfetta uguaglianza nella divinità fra il Padre e il Figlio, per fare un esempio, rivelataci da Gesù, ha esigito per essere correttamente espressa e confessata una fatica concettuale straordinaria. In ordine al culto che l’uomo deve a Dio non è indifferente ciò che l’uomo pensa di Dio. Il primo atto di culto è che di Dio si pensi con verità.

Ma la fede ha bisogno della ragione da un altro punto di vista. La fede cristiana è fede in Dio che si incarna, e dunque essa esige di dirsi – cioè di ispirare – in ogni ambito della vita umana: anche l’ambito della civitas. Attraverso un faticoso percorso, non solo di pensiero, l’Occidente ha compreso che questa esigenza della fede non poteva tradursi immediatamente nella costruzione della civitas. La fede cristiana è laica. In quanto tale quando entra nella piazza della civitas ha bisogno di essere argomentata in modo tale che anche il non-credente possa ritrovarsi in quell’argomentazione: per acconsentirvi o respingerla. È la ragione che opera la necessaria mediazione di una fede che voglia, come deve, essere presente nell’edificazione della civitas.

Ma anche in questo ambito si dà una feconda reciprocità. Una città che in linea di principio escludesse dal dibattito pubblico la fede [laicismo escludente], rischierebbe di privarsi di quella matrice religiosa senza della quale nessuna società può a lungo sussistere. Forse qualcuno potrebbe pensare che queste considerazioni sono… di accademia. Non è così.

La rottura del vincolo ragione-fede ha avuto e sta avendo effetti devastanti. Il concepimento di una nuova persona umana da mistero da venerare si è trasformato in problema da risolvere [donde la procreativa artificiale]. L’ontologia e l’etica del finito senza fondamento ha creato un tale deserto di senso da rendere ormai impossibile la narrazione della vita di generazione in generazione [donde l’emergenza educativa]. L’incapacità di fondare un’etica pubblica sta portando progressivamente le nostre società a essere solo provvisorie convergenze di opposti interessi. Termino con un pensiero di Pavel Florenskj sulla situazione di un uomo che ha pensato e voluto vivere come se Dio non ci fosse, fondando se stesso su se stesso. L’autore russo chiama questa posizione «aseità». «Ormai l’aseità è in preda a se stessa, è definitivamente cieca, avendo disprezzato la purezza del cuore. La tragicità sta proprio nel fatto che l’aseità impazzita non avrà l’intelletto per capire ciò che le succede: per lei esiste solo il "qui" e "ora"» [La colonna e il fondamento della verità, edizioni San Paolo].
Beati i piedi di coloro che vengono ad annunciare il Vangelo della grazia e della misericordia!


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01/11/2010 17:03
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?






Cardinale Angelo Bagnasco:
«C'e' bisogno di Santi
nel mondo che ha perso la bussola»


(ASCA) - Roma, 1 nov - Il mondo ha ancora bisogno dei Santi e della loro coerenza di vita perche' ''e' vecchio'', ma soprattutto perche' ''non si vuol bene ed ha perso la bussola''. Lo ha detto il presidente della Cei e arcivescovo di Genova, card. Angelo Bagnasco nella sua omelia per la messa di Ognisanti. ''Non parlo, chiaramente, del popolo nel suo complesso, della gente che vive con dignita' e impegno i doveri quotidiani, che vive la fede e l'amore alla Chiesa senza far chiasso.

Questo popolo esiste ed e' grande: Dio lo conosce! - ha aggiunto il porporato - Parlo, invece, di quel modo di pensare che possiamo riassumere con la nota espressione di Pirandello: 'Cosi' e' se vi pare'! Quel modo che ogni giorno alza la voce per farsi sentire e, ancor piu', per imporre se stesso, i propri punti di vista''. Un mondo, ha poi detto il card. Bagnasco, ''arrogante in modo scomposto o in modo tacito, che vuole condizionare le menti e far credere che quel modo di pensare e di vivere e' gia' di tutti''.

Una sanita', ha quindi sottolineato il presidente della Cei, che quando serve ''va contro corrente, parla fuori dal coro, e' giudizio e richiamo alla salvezza''. ''I Santi sono, nella loro varieta', la prova che e' possibile un mondo diverso. - ha concluso - Non importa se esso e' distratto e superficiale, se rincorre illusioni e bugie. Gesu', nel Vangelo, ci insegna che il gesto va posto, la parola donata, il seme gettato, il resto verra'. Dio e' sempre all'opera con i suoi tempi''.


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02/11/2010 23:14
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?
io dico la mia [SM=x44597] poi "io nu saccio nente"
ma non e' che il 16 e i suoi debbano chiudere il cesso in tutti i sensi [SM=x44598] che secondo me' devono fare i conti con un "verdone"(spiego il significato di verdone [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44603] [SM=x44603] verdone-----> catarro bronchiale)

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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
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03/11/2010 01:57
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti e di sole?
scusate mi sono dimenticato le sole [SM=x44599]


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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
03/11/2010 14:41
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?



«Allora gli furono portati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse;
ma i discepoli li sgridavano.
Gesù però disse loro: "Lasciate che i bambini vengano a me,
perché di questi è il regno dei cieli"».
(Mt 19, 13-15)




Festa, gioia, entusiasmo dei 100.000 da Benedetto


Ragazzi e giovanissimi di Ac,
chiamati alla santità

Chiara Santomiero


ROMA, 3 nov (ZENIT.org) - “Questi ragazzi non vogliono mediocrità o adattamenti. La misura che proponiamo è la santità, niente di meno”. E’ volato subito “alto” l’incontro nazionale dei ragazzi e giovanissimi dell’Azione cattolica italiana (Aci), tenutosi a Roma sabato 30 ottobre in piazza S. Pietro, già attraverso l’indirizzo di saluto al Santo Padre Benedetto XVI di mons. Domenico Sigalini, assistente generale Aci.

Subito nel cuore di quel “C’è di più. Diventiamo grandi insieme” che è stato lo slogan della manifestazione, ritornello ritmato nell’inno ufficiale dell’incontro e lettere stampate a colori su felpe, magliette, zainetti, foulard. “Sì, perché ogni tempo è propizio per diventare santi – ha aggiunto il presidente nazionale Aci, Franco Miano – ogni momento della vita, ogni età. Il Signore è con noi nella vita semplice di tutti i giorni, se sappiamo ascoltare la sua voce e seguire il suo messaggio”.

Il grande entusiasmo dei 100 mila dell’Azione cattolica ha riempito piazza S. Pietro contagiando anche il Santo Padre: “in mezzo a tanta gioia ed entusiasmo – ha detto Benedetto XVI – anch’io sono pieno di gioia, mi sento ringiovanito!”. Tanto da attingere ai suoi ricordi personali: “Alla vostra età – ha affermato il Papa rispondendo alla domanda di Francesco Porro, un ‘acierrino’ della diocesi di Nuoro – nella mia classe ero uno dei più piccoli e ho desiderato essere un giorno molto grande, non solo nell’altezza. Volevo fare qualcosa di grande della mia vita”. Essere grandi “vuole dire amare tanto Gesù e anche farlo conoscere agli altri, dicendo che è bello essere amici di Gesù”.

Amare Gesù, amare gli altri, di amore si parla molto nel nostro tempo: ma cosa significa amare fino in fondo, come si impara ad amare davvero, hanno chiesto i giovanissimi di Ac con le parole di Anna Bulgarelli, della diocesi di Carpi. “Voi non potete e non dovete – ha sottolineato con fermezza Benedetto XVI – adattarvi ad un amore ridotto a merce di scambio, da consumare senza rispetto per sé e per gli altri, incapace di castità e purezza”.

Molto dell’amore proposto dai media o da internet, in realtà “non è amore, ma è egoismo, chiusura”. “E’ l’illusione di un momento – ha incalzato il Papa – ma non vi rende felici, non vi fa grandi” e, al contrario “vi lega come una catena che soffoca i pensieri e i sentimenti più belli, gli slanci veri del cuore, quella forza insopprimibile che è l’amore e trova in Gesù Cristo la sua massima espressione”.

L’amore “genuino, bello, vero” dei santi che sono diventati “grandi” in Azione cattolica: “il beato Pier Giorgio Frassati, il beato Alberto Marvelli; un amore che arriva anche al sacrificio della vita, come la beata Pierina Morosina e la beata Antonia Mesina”. Un cammino di santità: aderire all’Azione cattolica, secondo Benedetto XVI, significa accettare questa proposta.

“Voi sapete bene – ha proseguito Benedetto XVI rivolto agli educatori – che non siete padroni dei ragazzi ma servitori della loro gioia a nome di Gesù”. Essere educatori significa semplicemente “avere una gioia nel cuore e comunicarla a tutti per rendere bella e buona la vita” ma esige “contatto personale e quotidiano con Gesù nella preghiera, nella meditazione sulla Parola di Dio, nella fedeltà ai sacramenti” e condividere nella Chiesa “le difficoltà, ma anche le bellezze e le sorprese della vita di fede”.

Troppo impegnativo? E’ la sottolineatura del discorso del Papa che i partecipanti all’incontro hanno sentito più vicina. “E’ proprio così – ha concordato Alessandra Scutti, della diocesi di Chieti-Vasto, educatrice di un gruppo di ragazzi tra i 9 e gli 11 anni -; per dare qualcosa ai ragazzi è necessario continuare sempre a crescere personalmente anche accettando ciò che gli stessi ragazzi ti insegnano: non siamo solo noi ad accompagnare loro, è un cammino fatto insieme”.

“Significa ‘essere’ e non mettersi in mostra - ha tradotto così l’invito del Papa, Giuseppe Masciopinto di Palo, nella diocesi di Bari-Bitonto, che a 14 anni è co-animatore di un gruppo di ragazzi -: è bello condividere con loro tanti momenti di incontro, discutere insieme, dà gioia”.

“E’ particolarmente importante in questo tempo di emergenza educativa – ha affermato don Giosi Mangialardi, assistente diocesano per il Settore adulti di Ac della diocesi di Bari-Bitonto – ricordare la necessità per gli educatori di formarsi per primi. L’Azione cattolica, in questa prospettiva, è particolarmente efficace perché offre una proposta formativa per tutte le età che sa coniugare la formazione umana con quella di fede”.

“Il Papa ci ha ricordato che non siamo soli – ha affermato Chiara Davoli, della diocesi di Reggio Emilia, educatrice di un gruppo di ragazzi di terza media e I superiore -: bisogna collaborare e non pretendere di essere autosufficienti”. “Ci ha invitati a vivere uno spirito ecclesiale di gruppo – ha aggiunto Vincenzo Comitini, della diocesi di Nocera-Sarno, animatore di un gruppo giovanissimi – e soprattutto a vivere il nostro servizio con gioia e serenità”.

E’ d’accordo Paolo Fabris, animatore di un gruppo di II e III superiore a Piovene Rocchette, diocesi di Padova: “la fede non è tristezza ma gioia, festa come quella di oggi. Educare è trasmettere questa gioia che hai dentro e gli educatori hanno il dovere di interrogarsi su cosa ‘essere’ piuttosto che su cosa ‘avere’ nel proprio servizio, perché è il requisito che rischia di far andar male tutto il cammino del gruppo”.

Una grande festa di musica e colori quella dei ragazzi e dei giovanissimi di Ac che da piazza S. Pietro, dopo l’incontro con il Papa, è “tracimata” attraverso le vie del centro di Roma verso piazza del Popolo per i giovanissimi e piazza di Siena per i ragazzi dell’Acr.

“E’ bello vedere che si è in tanti – ha affermato Francesca Guidetti, al primo anno di un istituto tecnico di Reggio Emilia -: l’Ac è questo, stare con gli amici e stare con Gesù”. Filippo Pascucci, di 16 anni, di Foligno, è ancora emozionato per essere stato scelto per stringere la mano al Papa “anche se – ha aggiunto – mia mamma era più emozionata di me. Oggi è una festa bellissima che riunisce tutta l’Italia, coinvolge tutti”.

“Mi piace tutto – ha confessato Sabrina Slijivic, 16 anni, di Thiene, in difficoltà nello scegliere l’aspetto più bello dell’incontro nazionale -. C’è molta gioia ed è bello ritrovarsi in tanti che condividono l’esperienza dell’Azione cattolica”. “L’importanza di questi eventi di incontro – ha sottolineato don Giovanni Rossi, della diocesi di Reggio Emilia – è di rappresentare il coronamento di un cammino che si vive quotidianamente nelle parrocchie e nelle diocesi, come una linfa che scorre nascosta”.

“Il valore dell’esperienza di Azione cattolica – ha aggiunto Rossi – sta nell’essere associazione di laici formati non solo per conoscere la Chiesa, ma per esserne corresponsabili: la garanzia della continuità in ogni comunità parrocchiale al di là dei sacerdoti che vi si avvicendano”. “Anch’io sono cresciuto in Azione cattolica – ha ricordato don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera, chiamato a concludere l’incontro di piazza del Popolo – e l’Ac mi ha dato una direzione per trovare le ragioni di un impegno per la giustizia”.

Lo stesso impegno che ha legato nella morte Rosario Livatino e don Pino Puglisi, vittime della mafia, per i quali è stato aperto il processo di beatificazione e proposti durante l’incontro di Ac attraverso la lettura di alcuni testi da parte dell’attore Luca Zingaretti. “Il loro tragico destino – ha affermato Ciotti – non deve indurci a pensare che assumere una responsabilità sia solo per gli eroi”.

“Siate persone non superficiali ma con la voglia di conoscere perché è la cultura che dà la sveglia alle coscienze – ha invitato il presidente di Libera raccogliendo gli applausi della piazza – e abbiate come riferimento il Vangelo, con il suo messaggio di amore e giustizia, e la Costituzione italiana dove sono dichiarati i doveri ma anche i diritti dei cittadini”. “L’impegno per la giustizia - ha concluso Ciotti – è una scelta alla portata di tutti, a cominciare dai piccoli gesti. Non lo delegate. Abbiate coraggio, adesso”.

Chiamati alla santità e all’impegno per la giustizia: il cammino dei centomila ragazzi e giovani di Ac riparte, anzi continua, da qui.


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04/11/2010 16:04
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?



«Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò». (Mt 11, 28)



... assieme ai loro preti e ai loro pastori,
una marea incontenibile e festante di giovani a San Pietro
per incontrare l'amico Gesù, il Cristo Signore



Se i giovani di Azione Cattolica
diventano invasori


Lettrice: Lucia Palladino - Caro direttore, domenica scorsa di buon mattino ho scoperto che Roma era stata offesa tragicamente da un’orda barbarica. Ne ho avuto notizia sfogliando "Repubblica", giornale che sono abituata a comprare abbastanza spesso (visto che Avvenire non ha cronaca cittadina), ma credo che cambierò abitudine… La grande doppia pagina iniziale della cronaca romana di questo giornale era infatti dedicata all’«Invasione dei centomila» e a ciò che aveva significato: «Il centro paralizzato per ore». Punto e basta. Insomma una requisitoria contro i ragazzi dell’Azione cattolica che si erano riuniti per andare dal Papa e avevano «mandato in tilt la città». Dei veri attentatori della tranquillità pubblica! Il loro responsabile era intervistato con fare accusatorio, un amministratore locale veniva chiamato a spiegare perché si fosse permesso tutto questo. Non ho mai visto e letto una cosa del genere, neanche dopo cortei di gruppi e gruppuscoli capaci di bloccare il cuore di Roma, d’imbrattare muri di case, musei e chiese e qualche volta di provocare tensioni pesanti e persino scontri con le forze dell’ordine. Io ho invece visto quei ragazzi: non erano barbari e si sono comportati con straordinaria civiltà. Uno spettacolo bello e confortante. Che dia fastidio il semplice fatto che ci sono e si sono fatti vedere? Un cordiale saluto

Direttore: Marco Tarquino - Ho recuperato gli articoli di giornale di cui lei parla, gentile amica. E sono rimasto a mia volta sbalordito, anche perché Repubblica è un quotidiano importante e, pur dichiarando e mantenendo un’ottica ben delineata e a volte militante, ha una seria tradizione di oggettività. Sono rimasto colpito perché da quelle righe emerge un fastidio palese e una malcelata ostilità contro la «processione» dei giovani, sentita evidentemente come scandalosa. Ma anche per il falso senso civico con cui questi sentimenti sono stati ammantati, per la vibrante indignazione a causa – udite, udite – dell’«onda d’urto» che il «fiume umano» ha scatenato sulla città eterna, da Piazza San Pietro al quartiere Prati-Borgo sino alla Cassia e alla Nomentana... I millecinquecento pullman citati come capo d’accusa. I colpi di clacson di automobilisti «furibondi», «urlanti» e pronti a salire con tutte le ruote sui marciapiedi, portati come aggravanti. Devo dire che, dalla lettura di questa impressionate prosa giornalistica ho imparato definitivamente due cose. La prima (ma lo sapevo già) è che centomila persone "vere" che si muovono a piedi per Roma sono tantissime e, dunque, le milionate (o le centinaia e centinaia di migliaia) periodicamente ed entusiasticamente raccontate in occasione della discesa in piazza di questo o quel "popolo" variamente colorato sono favole per creduloni, strumentali a ben precise operazioni politiche. La seconda è che, in certi ambienti, il tasso di intolleranza nei confronti dei cattolici può superare di slancio il limite del ridicolo e può arrivare a negare l’evidenza. E l’evidenza è che a Roma, sabato 30 ottobre, l’Azione cattolica italiana ha mostrato a Papa Benedetto e alla città un volto giovane, bello e pulito della nostra Italia. I composti spostamenti per le vie della città hanno ribadito che c’è un altro modo di manifestare e manifestarsi anche come moltitudine. I gesti, le parole, i canti, di centomila ragazzi assieme a quelli degli adulti, dei sacerdoti e dei vescovi che hanno camminato al loro fianco, hanno insomma raccontato fede e gioia, speranza e consapevolezza. Su Avvenire di domenica scorsa – con Davide Rondoni, Mimmo Muolo e Laura Badaracchi – abbiamo dato il senso, la freschezza e la profondità di tutto questo. E con il resoconto integrale dell’intenso dialogo tra il Santo Padre e i protagonisti dell’incontro abbiamo offerto a tutti forti motivi di riflessione. Grazie, cara signora Lucia, per avermi dato l’occasione di sottolinearlo di nuovo. La saluto con cordialità anch’io, con un’annotazione finale: all’offensivo fastidio di certuni sarebbe sbagliato dare troppo peso, ma è giusto registrarlo. E tenerne conto.

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05/11/2010 20:54
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?


Benedetto XVI esorta il laicato cattolico a lavorare per un ordine sociale giusto...



«Tra i valori da testimoniare in campo sociale ci sono la dignità trascendente dell’uomo,
la difesa della vita umana sin dal suo concepimento fino alla morte naturale e la libertà religiosa»



«L'annuncio di Cristo
primo fattore di sviluppo»


Roma, 5 nov - «Non solo le singole persone, ma i popoli e la grande famiglia umana attendono - a fronte di ingiustizie e forti diseguaglianze - parole di speranza, pienezza di vita, l'indicazione di Colui che può salvare l'umanità dai suoi mali radicali»: lo scrive il Papa in un messaggio, diffuso oggi dalla Sala stampa vaticana, in occasione dell’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, e rivolto al suo presidente, il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson. In apertura del testo, Benedetto XVI ribadisce uno dei concetti centrali dell'enciclica Caritas in veritate, cioé che «l’annuncio di Gesù Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo. Grazie ad esso, infatti, si può camminare sulla strada della crescita umana integrale». Tale traguardo esige che le comunità e i singoli credenti si alimentino della «assidua meditazione della Parola di Dio, la regolare partecipazione ai Sacramenti e la comunione con la Sapienza che viene dall’alto... abbiamo bisogno di questo insegnamento sociale, per aiutare le nostre civiltà e la nostra stessa ragione umana a cogliere tutta la complessità del reale e la grandezza della dignità di ogni persona. Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa aiuta, proprio in questo senso, a intravedere la ricchezza della sapienza che viene dall'esperienza di comunione con lo Spirito di Dio e di Cristo e dall'accoglienza sincera del Vangelo».

«L'ormai prossimo anniversario dell'enciclica Mater et magistra del Beato Giovanni XXIII - prosegue il Papa - ci sollecita a considerare con costante attenzione gli squilibri sociali, settoriali, nazionali, quelli tra risorse e popolazioni povere, tra tecnica ed etica».«Nell'attuale contesto di globalizzazione, tali squilibri non sono affatto scomparsi - aggiunge sempre Benedetto XVI -. Sono mutati i soggetti, le dimensioni delle problematiche, ma il coordinamento tra gli Stati - spesso inadeguato, perché orientato alla ricerca di un equilibrio di potere, piuttosto che alla solidarietà - lascia spazio a rinnovate disuguaglianze, al pericolo del predominio di gruppi economici e finanziari che dettano - e intendono continuare a farlo - l'agenda della politica, a danno del bene comune universale».


Benedetto XVI esorta quindi il laicato cattolico a «lavorare per un ordine sociale giusto... per promuovere una retta configurazione della vita sociale, nel rispetto della legittima autonomia delle realtà terrene». Tali fedeli impegnati in campo sociale dovranno «trovare al loro fianco sacerdoti e Vescovi capaci di offrire un’instancabile opera di purificazione delle coscienze, insieme con un indispensabile sostegno e aiuto spirituale alla coerente testimonianza laicale nel sociale». Tra i valori da testimoniare in campo sociale ci sono la «dignità trascendente dell’uomo», la «difesa della vita umana sin dal suo concepimento fino alla morte naturale» e la «libertà religiosa».

Concludendo il suo messagio il Papa esorta il dicastero per la Giustizia e la Pace a continuare «nell’elaborazione di sempre nuovi aggiornamenti della dottrina sociale della Chiesa, ma anche nella loro sperimentazione». Tale dottrina andrà diffusa e condivisa – scrive – «non solo nei tradizionali itinerari formativi ed educativi cristiani di ogni ordine e grado, ma anche nei grandi centri di formazione del pensiero mondiale – quali i grandi organi della stampa laica, le università e i numerosi centri di riflessione economica e sociale – che negli ultimi tempi si sono sviluppati in ogni angolo del mondo».


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11/11/2010 19:56
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?


il Cristianesimo non è una religione del libro



ma annuncio che la Parola eterna si è fatta carne



La specificità cristiana

Città del Vaticano, 11 nov - Forse è una coincidenza, ma a ben guardare non è senza significato che nel giorno in cui viene reso noto il documento nato dall'assemblea sinodale sulla Parola di Dio e intitolato Verbum Domini sia pubblicato anche il messaggio papale al cardinale archivista e bibliotecario per la riapertura della Vaticana, l'istituzione culturale più antica e preziosa della Chiesa di Roma. Entrambi i testi, pur non comparabili, ruotano infatti intorno al tema che costituisce la specificità cristiana: l'annuncio che la Parola eterna si è fatta carne.

Su questo argomento si è riunito nel 2008, per volontà e con la partecipazione assidua di Benedetto XVI, il sinodo, espressione odierna della collegialità cattolica. Ai lavori intervenne, tra gli altri, il patriarca Bartolomeo che tenne una meditazione, e per la prima volta fu invitato un rabbino a significare il legame peculiare che unisce la Chiesa all'ebraismo: "un legame - ribadisce ora l'esortazione apostolica Verbum Domini - che non dovrebbe essere mai dimenticato", così come la "differenza profonda e radicale non implica affatto ostilità reciproca". Con una volontà di confronto e amicizia che il documento estende ai musulmani e ad altre religioni.
La Parola divina, rivelata nelle Scritture e soprattutto incarnata in Gesù di Nazaret, non è una parola del passato. Al contrario, è una Parola viva, da leggere secondo la tradizione e nella Chiesa. E la Parola torna a incarnarsi nel cuore di chi incontra Cristo - lui è il regno di Dio (autobasilèia), secondo la suggestiva immagine di Origene - e ascolta le sue parole. Per questo il cristianesimo non è una religione del libro. Anche se la necessità di comunicare e trasmettere la Parola (lògos) l'ha subito resa una tradizione religiosa legata ai libri.

A mostrarlo è la storia delle numerosissime biblioteche cristiane, spesso fatalmente disperse, e in particolare quella dell'istituzione legata alla Chiesa di Roma, modernamente concepita e voluta da Niccolò v nello splendore dell'umanesimo e rinnovata per la contemporaneità da Pio xi, nella stagione d'oro dei cardinali Ehrle e Mercati. Con immutata generosità e ampiezza nei confronti di "tutti i ricercatori della verità", come si legge nel messaggio papale. Che nella pluralità delle parole invita a guardare all'unica Parola che non passa.



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12/11/2010 20:28
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?


L'esortazione papale «Verbum Domini»:



... sfida di verità che trasformi in Buona Notizia le cattive novelle ...


Una sola Parola ci salva
dalle parole senza senso

Gennaro Matino

Città del Vaticano, 12 nov - La Parola di Dio è il cuore della vita credente. Grazie alla Parola la Chiesa cresce e, forte di Cristo, nel suo nome è capace di navigare i tempi della storia, in attesa della beata speranza.

Nella XII assemblea sinodale (5-26 ottobre 2008) i Padri, successori degli Apostoli, provenienti da tutti i continenti e raccolti intorno alla Parola posta simbolicamente al centro, si proposero di riscoprire ciò che nel quotidiano è dato per scontato: Dio parla a ogni uomo, risponde alle domande di ciascuno. Benedetto XVI, in ascolto di quella solenne assise, ieri ha donato alla Chiesa e a tutti gli uomini l’esortazione post-sinodale Verbum Domini allo scopo di «indicare alcune linee fondamentali per una riscoperta, nella vita della Chiesa, della divina Parola, sorgente di costante rinnovamento», desiderio di una rinascita ecclesiale che nella Parola stessa trovi il cuore di ogni iniziativa pastorale. Riscoperta e rinascita, rimando di parole che non nascondono la preoccupazione del Papa per una pastorale dell’annuncio imbrigliata nel tempo del non ascolto: una preoccupazione che si evince già dal magistero degli ultimi pontefici che dal Concilio Vaticano II – dalla splendida pagina della costituzione Dei Verbum a oggi – vogliono dare slancio a una nuova evangelizzazione, riproporre con estrema autenticità la sfida del Vangelo a un tempo e a un mondo sempre più provocati da parole senza senso. Sfida di verità che trasformi in Buona Notizia le cattive novelle di un uomo senza speranza, di un mondo senza futuro e di una storia senza appelli di riscatto, sfida per una Parola che «continui a dimorare, a vivere e a parlare a noi lungo tutti i giorni della nostra vita».

Nell’esortazione di Papa Benedetto la giusta preoccupazione per un mondo da trasformare, per una gioia da annunciare nella difficoltà di un tempo da rievangelizzare, si unisce tuttavia alla consapevolezza di una Chiesa viva e operosa, forte di una Pentecoste perenne che racconta di vivacità di esperienze, di lingue, di storie di uomini e donne che, grazie alla Parola, sanno dare significato ai loro giorni. Una Chiesa in cui sono presenti i «molteplici modi dell’esperienza di Dio e del mondo, la ricchezza delle culture», dove è possibile rintracciare la vastità dell’esistenza umana e, «a partire da essa, la vastità della Parola di Dio». Formidabile attributo, vastità, per descrivere un avvenimento, la Parola, che mentre rivela trasforma, che dice rinvigorendo, che professa la Verità rinnovando la faccia della terra.

Scambio di lettere per ricostruire il tessuto umano, la Parola dona Dio all’uomo e l’uomo a Dio. Benedetto XVI lo afferma, e ricorda che proprio l’annuncio della Parola «crea comunione e realizza gioia», e per questo è urgente rimettere la Parola al centro degli avvenimenti per rilanciare l’avvento della gioia possibile: una gioia profonda, «dono ineffabile che il mondo non può dare. Si possono organizzare feste, ma non la gioia». Per questo è necessario, dice il Papa, che le conclusioni del Sinodo possano essere capaci di influire sulla vita della Chiesa, «sul personale rapporto con le Sacre Scritture, sulla loro interpretazione nella liturgia e nella catechesi, come anche nella ricerca scientifica». Tutto questo perché la Parola, la sola che può riconsegnare la gioia al vissuto umano, «non rimanga una Parola del passato, ma una Parola viva e attuale».

Sfida che parte da lontano, l’evangelizzazione è il cuore dell’avvenimento che invia gli Apostoli tra gli uomini a raccontare del futuro, a incoraggiare nel presente, a dare significato a ogni memoria passata. Oggi come sempre la Chiesa accoglie il comando del Maestro perché la Parola finalmente corra veloce.



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17/11/2010 23:12
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?




... l'uomo è capace di agire male,
ma è incapace di liberarsi dal male compiuto ...



"Cristo e l’adultera"
Aert de Gelder - 1683 (Museo Thyssen Bornemisza - Madrid)


frutto della negazione di Dio è la liberazione da ogni legge morale, tanto
da convincere l’ateo che quanto è contro-natura ( eutanasia, suicidio, aborto,
omosessualità, eccetera) sia in sé naturale e finanche sinonimo di emancipazione



Non date al peccato
l’ultima parola

Carlo Caffarra

L'uomo oggi – intendo l’uo­mo occidentale – sta male, anche se cerca di vivere gaiamente il suo malessere, perché si è interdetto l’esperienza del per­dono da parte di Dio, e quindi l’e­sperienza della sua misericordia. L’uomo non può vivere una buona vita senza questa esperienza. Egli è capace di agire male, ma è incapace di liberarsi dal male compiuto. Non dico di porre rimedio alle conse­guenze che la sua azione ha causato in sé e su gli altri. C’è un testo man­zoniano che ci aiuta a capire questo paradosso dell’uomo che può agire male e non può liberarsi dal male compiuto.

È la famosa notte dell’Innominato, nel momento in cui egli passa in rassegna tutte le sue scelleratezze. «Erano tutte sue; erano lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quelle immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione» [ Promessi Sposi , cap. XXI]. Ed anche nelle Osservazioni sulla morale cattolica: «Il reo sente nella sua coscienza quella voce terribile: non sei più innocente; e quell’altra più terribile ancora, non potrai esserlo più» [ VIII, 3]. Con le proprie scelte ciascuno di noi genera se stesso, e diventa genitore di se stesso: sei quello che decidi di essere. Gli atti di ingiustizia non erano solo atti di cui l’Innominato era responsabile: «erano lui». Esiste una misteriosa ma reale progressiva identificazione del nostro io con le scelte della nostra libertà. Se penso a un triangolo, non divento un triangolo. Se compio un furto, divento un ladro. Posso certo e devo restituire ciò di cui mi sono indebitamente impossessato, ma ciò non toglie il mio essere stato ciò che sono stato. Esiste come un’identificazione della persona coi suoi atti: «attaccata a tutti», come dice Manzoni.

La soluzione, la via di uscita sa­rebbe quella di un «ricomin­ciare da capo», come una sorta di rinascita e di rigenerazione. Ma «come può un uomo nascere quan­do è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» [Gv 3,4]. Ma poiché l’uomo non può compiere questo miracolo, ha elaborato e in­ventato altre vie palliative di libera­zione dal male. Sono stati inventati vari surrogati dell’unico atto che potrebbe rigenerare l’uomo: il per­dono di Dio. Non li enumero tutti. Mi limito a qualche riflessione sul tentativo più tragico, più disperato che l’uomo abbia mai compiuto di vivere senza il perdono di Dio: la ne­gazione del male morale. È un ten­tativo che è andato di pari passo con la negazione [dell’esistenza] di Dio. Intendo dire di un Dio coinvol­to nel destino della persona umana. Ciò non è avvenuto per caso. La ne­gazione di Dio non ha coinciso ca­sualmente con la negazione del ma­le morale. I due, esistenza del male morale nell’uomo ed esistenza di Dio, stanno o cadono insieme. Nes­suno come Dostoevskij ci ha fatto riflettere su questo, soprattutto in due grandiosi romanzi, Delitto e ca­stigo e I fratelli Karamazov. «Se Dio non esiste tutto è permesso»: il frut­to della negazione di Dio per il vero ateo è la liberazione da ogni legge morale. Ma cosa accade in uomini come Raskolnikov o come Ivan Ka­ramazov? Vengono distrutti, alla fi­ne, dal delitto che hanno compiuto. Elimina Dio dalla vita e la voce della coscienza si farà sempre meno im­periosa. Non sono certo la società e lo Stato ad impegnare la coscienza dell’uomo, a «legare» la sua libertà. È il cuore del dramma dell’uomo di oggi.
Ma c’è qualcosa nell’uomo che ha peccato che gli impedisce alla fi­ne di accontentarsi dei vari surroga­ti al perdono di Dio. È il trovarsi con se stesso, con un se stesso divorato dalla potenza distruttiva del rimor­so. Il castigo che segue al peccato – come hanno ben visto Manzoni e Dostoevskij – «precede la condanna di ogni tribunale ed è più terribile di ogni condanna. È questo 'castigo' la prova di Dio. Il peccatore può non riconoscere Dio nel suo castigo, ma se l’uomo non può impunemente offendere la legge, senza che il delit­to ricada su di lui, la distruzione psi­cologica che segue al delitto afferma ugualmente la 'divinità della leg­ge' » (Divo Barsotti, Dostoevskij. La passione per Cristo , ed. Messaggero di Padova). Ma forse oggi si è già im­boccata un’altra strada. Si cerca di spiegare l’emergere del nostro esse­re coscienti di noi stessi, in prima persona, e quindi l’emergere della nostra libertà da una realtà di tipo neurobiologico, come si spiega un effetto con la sua causa. «Il mistero della coscienza verrà progressiva­mente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscien­za » ( John Searle, Il mistero della co­scienza, Cortina).

L’evento cristiano è la possibilità of­ferta all’uomo di essere rigenerato mediante il perdono di Dio: di na­scere di nuovo e di cominciare di nuovo. Il cristianesimo è la possibi­lità di dire in qualunque circostan­za: «ora ricomincio da capo», per­ché è il perdono di Dio sempre of­ferto all’uomo, ad ogni uomo. Dire 'Dio perdona' non significa: Dio decide di non tenere in conto le scelte della tua libertà, con una sor­ta di dissimulazione. Egli prende tremendamente sul serio le nostre scelte sbagliate, e ne assume il peso fino in fondo. L’assunzione di tutte le scelte sbagliate di ogni uomo è la Croce di Cristo. Ma nello stesso tempo il perdono di Dio consiste A nell’azione di Dio che trasforma la nostra libertà e rinnova alla radice il nostro io. Questo atto è più divino, è più grande dello stesso atto della creazione. All’accusa degli uomini, al loro peccato, Dio risponde col suo perdono. Esiste un limite contro il quale si infrange la potenza del male: il perdono e la misericordia di Dio.

Ancora Dostoevskij ha e­spresso mirabilmente la for­za rigeneratrice del perdono di Dio, nel discorso di un ubriaco, incapace di liberarsi dal vizio del bere che ha portato la sua famiglia nella miseria più nera, nel discorso di Marmeladov, il padre di Sonia, in Delitto e castigo. Marmeladov chie­de pietà. «Colui che ebbe pietà di tutti gli uomini, colui che tutto e tutti comprese avrà pietà di noi, egli è il solo giudice, egli verrà nell’ulti­mo giorno … Tutti saranno giudicati da lui ed egli perdonerà a tutti: ai buoni e ai tristi, ai santi e ai man­sueti … E quando avrà pensato agli altri, allora verrà il nostro turno: 'Avvicinatevi anche voi', ci dirà, 'avvicinateci, voi beoni, avvicinate­vi, voi disperati'. E ci avvicineremo tutti senza timore… E i saggi e i benpensanti diranno: 'Signore, per­ché accogli costoro?'. 'Io li accol­go… Perché nessuno di loro si è cre­duto degno di questo favore'. E ci tenderà le braccia e noi ci precipite­remo e scoppieremo in singhiozzi e comprenderemo tutto… E capire­mo tutto… Signore venga il tuo Re­gno ». La pagina, a mio giudizio fra le più alte della letteratura cristiana di ogni tempo, sembra la filigrana della pagina evangelica che narra il pianto della prostituta perdonata e che ha solo il coraggio di baciare i piedi del Signore. E chi vide quel­l’incontro non poté non accusare Cristo di comportarsi come fosse Dio. È nella sua misericordia che E­gli rivela la sua divinità.


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Re: ... c'è ancora bisogno di santi e di preti?
Bestion., 17/11/2010 23.12:





... l'uomo è capace di agire male,
ma è incapace di liberarsi dal male compiuto ...





puo'sempre scrivere un libro [SM=x44600]
ad esempio io ho intenzione di scriverne uno [SM=x44606] [SM=x44599] [SM=x44600] uno stralcio [SM=x44597]
......cadeva colpito dal tiranno quando con fare preoccupato una voce femminile lo chiamo' col mio nome, era la mia donna......
un bestseller vedo gia gli articoli sul giornale [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]


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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
26/11/2010 23:37
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?



«La forma ultima dell’avvenire del Signore si ri-vela proprio nel suo Silenzio»


"Il sacrificio di Isacco"
Michelangelo Merisi Caravaggio (1605) - Collezione Barbara Piasecka Johnson (Princeton - New Jersey)


«Ma chi è sordo al Silenzio, neppure saprà davvero ascoltare,
e non sapendo ascoltare neppure potrà entrare in autentico colloquio»




Ssst! Sta parlando
il silenzio di Dio

Massimo Cacciari

La «voce di vento leggero» che si rivolge a Elia (1Re 19,12) suona nell’originale ebraico, secondo André Neher, come «la voce sottile del silenzio». La voce del silenzio, oltre ancora quella del soffio più impercettibile, è per lui la forma più autentica del manifestarsi del Signore. La sua è, letteralmente, una teo-logia del Silenzio, ovvero una teologia che fa del Silenzio il Logos stesso di Dio.

Questo Silenzio va anzitutto ascoltato. Non basta insistere sul fatto che l’imperativo non riguarda il credere o l’imparare. Il vero paradosso sta nell’ascoltare il Silenzio, poiché il Silenzio soltanto è in-finito, non si lascia catturare da alcun logos, né de-finire «filosoficamente» come sostanza o fondamento. La tradizione è anch’essa, a pieno titolo, rivelazione del Signore, ed inizia già con le sue prime parole. Il Silenzio, dunque, parla, e proprio nel suo «tradirsi» in parola interpretante ri-vela se stesso.

Al Silenzio inaccessibile dell’Arché divina il profeta si rivolge colmo di fiducia; egli spera incrollabilmente proprio in colui che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe (Is 8,17). Potremmo dire che il profeta è essenzialmente chi giunge non solo ad ascoltarne, ma a vederne il Silenzio (Is 6,1). La sua parola diviene così lode del Silenzio stesso e dialogo ininterrotto col suo eterno manifestarsi – che è presidio contro ogni preghiera idolatrica, contro ogni esigere risposta. Quello di Giobbe può essere definito da Neher il libro del Silenzio per antonomasia proprio perché è, a suo giudizio, testimonianza del più drammatico dialogo tra mortale e Silenzio di Dio.

L’istanza radicale che muove la ricerca di Neher consiste nell’intendere il Silenzio come dimensione essenziale della stessa Rivelazione, non come momento, non come momentanea eclisse della Parola, non come il semplice effetto del «peccato» di Israele che allontana da lui il suo Signore. Non è il Silenzio un segno dell’«ira» di Dio. È vero, invece, che Israele è sordo alla sua chiamata, che ha appunto luogo attraverso la «voce sottile del Silenzio». E tale sordità non potrà essere compiutamente eliminata che all’ultimo.

La perfetta capacità di ascolto è infatti promessa escatologica, come il vedere il Signore. Ma chi è sordo al Silenzio, neppure saprà davvero ascoltare, e non sapendo ascoltare neppure potrà entrare in autentico colloquio. In questi nessi si gioca il drama, o play, come dice Neher, tra uomo e Dio: il Dio nascosto esige d’essere cercato; l’uomo non sa cercarlo perché cerca soltanto parole-risposte, perché non sa ascoltare l’abissalità del suo Silenzio. Dio ama il cuore di coloro che cercano – ma non per ricevere, come dall’idolo, consolanti certezze, rassicurazioni, fondamenti. La forma ultima dell’avvenire del Signore si ri-vela proprio nel suo Silenzio, che nessuna parola può annichilire, che a nessun dis-correre appare riducibile.

Così, grandiosamente, esso si manifesta nel Libro di Giobbe. (...) Libertà è il «luogo» cui si rivolge il Silenzio. A essa, nel suo libero agire, in silentio Dio stesso si rivolge. Nel suo essere libero egli riflette la Libertà ineffabile da cui proviene. E allora, davvero, tace. Il suo Silenzio è, allora, il thauma, lo «spettacolo» più tremendo. Nell’istante che tace, nell’istante che perviene a questa estrema misura del Silenzio, l’Esistente rimane sospeso tra il Logos e il ritirarsi nel Chaos.

Di questo istante supremo la traccia non si trova nel libro di Giobbe, ma nel sacrificio di Abramo. Né comunque la «prova» cui Abramo è chiamato è comparabile con quella di Giobbe; nessuna sofferenza eguaglia quella che colpisce Abramo. A Giobbe è sottratta ogni cosa – a Abramo lo stesso futuro. I doni di cui Giobbe aveva goduto sono meno che polvere, bona impedimenta, avrebbero detto i Padri, metafisicamente distinti dal bene ricevuto da Abramo, suo figlio Isacco. Abramo, l’uomo dell’«eccomi!», del perfetto ascolto, fa-esodo ancora una volta, e questa volta verso la miseria estrema, lo svuotamento totale.

Lo fa in perfetto silenzio, a immagine del Silenzio del suo Dio. Nulla dice al figlio, come nulla gli dice il Signore, dopo il tremendo comando. Un deserto di Silenzio li accomuna, li stringe in un patto di cui nessun altro deve sapere. Questo è il Silenzio decisivo. Abramo non può che tacere sulla libertà del Signore che comanda e fa-essere ciò che liberamente vuole. Solo il suo silenzio può corrispondere all’ineffabile della libertà divina. Ma essa è ineffabile poiché espressione della Libertà da cui proviene. Il Signore tace ad Abramo.

La tragica scena non è disturbata dal rumore degli «amici» che pretendono di parlare al posto di Dio e di Giobbe: ma neppure dal lamento di Giobbe o da retoriche teofanie conclusive. Breviloquio insuperabile, dove tutto l’essenziale mostra sé nel Silenzio: Abramo mostra nel suo silenzio che Dio non è determinabile-calcolabile, che il suo stesso «amore» non è nulla di necessario, che la sua Parola è traccia di una libertà che eccede ogni «logica».

Dio non parla a Abramo durante quell’itinerario di morte non perché nulla voglia dirgli, per lasciarlo solo, ma perché nulla può dire e perché è solo di fronte alla Libertà da cui proviene. Questo vincolo di Silenzio li serra insieme.



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Re: ... c'è ancora bisogno di santi e di preti?
[SM=x44599] poca dimestichezza con le serpi [SM=x44603] [SM=x44603] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602] [SM=x44602]

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non bisogna avere paura di un Popolo che non ha Potere ma di chi detiene il Potere di Quel Popolo
anche perché la MORTE non accetta una lira
28/11/2010 17:11
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?

«L'impulso umano primordiale che nessuno può negare
e a cui, ultimamente, nessuno può opporsi,
è il desiderio di felicità»

Joseph Ratzinger




«Mi ha colpito molte volte il pensiero che nasciamo con un senso di Dio,
ma poi veniamo convinti dal mondo e da noi stessi
che è troppo bello per essere vero»

John Waters



lo scrittore irlandese Waters:
«Avevo ucciso Dio
sull’altare del ’68»

Lorenzo Fazzini

Prima la triste vicenda degli abusi sessuali di minori da parte di preti cattolici, con la forte opera di espiazione promossa da Benedetto XVI, ora la crisi finanziaria col rischio di "bancarotta pubblica". Questi due fatti hanno riacceso le luci della ribalta sull’Irlanda, paese considerato "tout court" cattolico. La nazione "verde" è un esempio emblematico di un certo cattolicesimo "popolare", ma stretto nella morsa di una tradizione che non interloquisce più con il popolo e un mainstream culturale progressista, che svilisce la religione nel suo afflato di verità. In questa tenaglia è caduto (ma si è pure liberato), John Waters, uno dei giornalisti e commentatori più apprezzati a Dublino, arrivato a scrivere dopo un’esistenza avventurosa in cui ha fatto diversi lavori manuali (magazziniere, benzinaio, …), amico degli U2 e già compagno di Sinead O’Connor, la celebre e trasgressiva pop star.

Quella di Waters è una vita «da profugo a pellegrino», come recita il sottotitolo della sua appassionante autobiografia Lapsed Agnostic (Marietti, pagine 230, euro 22), sentenza che gioca sull’ambiguità del termine "lapsed", "rinnegato", usato di solito da chi si allontana dalla fede. Nella vicenda di Waters si nota la parabola di molta intellighenzja europea rispetto al cattolicesimo, transitata dagli sberleffi giovanili del ’68 alla sofferta decisione di ritornare a casa: «Mi ha colpito molte volte il pensiero che nasciamo con un senso di Dio, ma poi veniamo convinti dal mondo e da noi stessi che è troppo bello per essere vero.

Ci vogliono anni di punizione per ridurci a una condizione a causa della quale non ci viene lasciata altra opzione se non quella di riscoprire questo senso perduto». Il j’accuse di Waters (già intervenuto al Meeting di Rimini grazie alla conoscenza "libraria" con don Giussani) è ferocemente ironico verso quella che lui chiama "generazione Peter Pan", gli ex sessantottini ora ascesi nelle stanze del potere, culturale, mediatico, politico. Per i quali «Dio, essendo loro imposto da una generazione che sono giunti a disprezzare, dovrebbe essere abolito». Così nascono altri idoli, ad esempio «l’ossessione per la giovinezza» o la «cultura orizzontale» invece di quella «verticale», basata solo su «musica pop, film, televisione».

Ma la morte di Dio, o meglio «l’assassinio di Dio perpetrato nella cultura post-sessantottina», non ha liberato l’uomo: «La responsabilità grava solo sulle mie spalle, e questo mi provoca un’ansia e una paura così intollerabili che non sono capace di fare neanche le cose più ordinarie senza incappare in ulteriori fonti di stress». Profetiche, rispetto alla crisi economico-finanziaria di questi giorni nella terra di San Patrizio, queste parole del commentatore: «Benché godiamo di una maggiore ricchezza, di cure sanitarie più avanzate, di un ambiente più sicuro e di un assortimento di congegni risparmia-fatica più vasto che mai, una serie di ansie ostacola la crescita della vera soddisfazione.

Enormi guadagni in termini di ricchezza materiale non hanno conseguito alcun aumento significativo di felicità». L’angoscia, per Waters, ha avuto il volto della dipendenza dall’alcol fino ai 35 anni: «Tutti gli alcolisti hanno ceduto alla tentazione di togliere Dio dal Suo trono e di sedercisi loro». Dal rifiuto della bottiglia per l’editorialista dell’Irish Times è iniziato un cammino di conversione che l’ha portato a una drammatica confessione di fede: «La mia esperienza mi dice che possiamo giungere a Dio solo non credendo in Lui. Possiamo trovarLo solo quando lo abbiamo rifiutato e siamo tornati, abbattuti, alla disperata speranza di esserci sbagliati».

Dalla sua esperienza Waters trae poi linfa per nuovi giudizi circa il valore pubblico della religione. Ne è prova Soggetti smarriti (Lindau, pagine 312, euro 26), un poderoso saggio in cui il commentatore d’Irlanda riflette su «come siamo diventati troppo intelligenti per ricercare Dio e il nostro stesso bene». L’autore prende a testimone il grande dissidente cecoslovacco Vaclav Havel, il quale soleva dire: «Io ho la fede, una condizione di apertura costante e produttiva, un continuo interrogarsi, il bisogno di "sperimentare il mondo" ancora e ancora». Come i credenti devono rispondere alla sfida di un mondo post-secolare? Andando «oltre la consolazione» (titolo originario del testo di Waters) e offrire la speranza: «C’è qualcosa di sbagliato nella nostra cultura se consente a qualcuno di rivendicare come razionalità superiore una interpretazione della realtà basata solo sullo scetticismo, sul pessimismo, sul cinismo e sulla disperazione. Ogni giorno questo rumore di fondo culturale schiaccia l’individuo in cerca di una via per esprimere la sua dimensione infinita. Il risultato è una popolazione che ha fame di qualcosa che non sa più esprimere, avendo perso le parole con cui sperare».


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28/11/2010 23:32
 
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... c'è ancora bisogno di santi e di preti?


«... non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini»
(Fil 2, 6-7)



"Natività"
Giotto (1303-1305) - Cappella degli Scrovegni (Padova)



DALL' INCARNAZIONE
un nuovo sguardo sull'uomo

Benedetto XVI

Cari fratelli e sorelle, con questa celebrazione vespertina, il Signore ci dona la grazia e la gioia di aprire il nuovo Anno Liturgico iniziando dalla sua prima tappa: l’Avvento, il periodo che fa memoria della venuta di Dio fra noi. Ogni inizio porta con sé una grazia particolare, perché benedetto dal Signore. In questo Avvento ci sarà dato, ancora una volta, di fare esperienza della vicinanza di Colui che ha creato il mondo, che orienta la storia e che si è preso cura di noi giungendo fino al culmine della sua condiscendenza con il farsi uomo. Proprio il mistero grande e affascinante del Dio con noi, anzi del Dio che si fa uno di noi, è quanto celebreremo nelle prossime settimane camminando verso il santo Natale. Durante il tempo di Avvento sentiremo la Chiesa che ci prende per mano e, ad immagine di Maria Santissima, esprime la sua maternità facendoci sperimentare l’attesa gioiosa della venuta del Signore, che tutti ci abbraccia nel suo amore che salva e consola. Mentre i nostri cuori si protendono verso la celebrazione annuale della nascita di Cristo, la liturgia della Chiesa orienta il nostro sguardo alla meta definitiva: l’incontro con il Signore che verrà nello splendore della gloria. Per questo noi che, in ogni Eucaristia, “annunciamo la sua morte, proclamiamo la sua risurrezione nell’attesa della sua venuta”, vigiliamo in preghiera. La liturgia non si stanca di incoraggiarci e di sostenerci, ponendo sulle nostre labbra, nei giorni di Avvento, il grido con il quale si chiude l’intera Sacra Scrittura, nell’ultima pagina dell’Apocalisse di san Giovanni: “Vieni, Signore Gesù!” (22,20).

Cari fratelli e sorelle, il nostro radunarci questa sera per iniziare il cammino di Avvento si arricchisce di un altro importante motivo: con tutta la Chiesa, vogliamo celebrare solennemente una veglia di preghiera per la vita nascente. Desidero esprimere il mio ringraziamento a tutti coloro che hanno aderito a questo invito e a quanti si dedicano in modo specifico ad accogliere e custodire la vita umana nelle diverse situazioni di fragilità, in particolare ai suoi inizi e nei suoi primi passi. Proprio l’inizio dell’Anno Liturgico ci fa vivere nuovamente l’attesa di Dio che si fa carne nel grembo della Vergine Maria, di Dio che si fa piccolo, diventa bambino; ci parla della venuta di un Dio vicino, che ha voluto ripercorrere la vita dell’uomo, fin dagli inizi, e questo per salvarla totalmente, in pienezza. E così il mistero dell’Incarnazione del Signore e l’inizio della vita umana sono intimamente e armonicamente connessi tra loro entro l’unico disegno salvifico di Dio, Signore della vita di tutti e di ciascuno. L’Incarnazione ci rivela con intensa luce e in modo sorprendente che ogni vita umana ha una dignità altissima, incomparabile.

L’uomo presenta un’originalità inconfondibile rispetto a tutti gli altri esseri viventi che popolano la terra. Si presenta come soggetto unico e singolare, dotato di intelligenza e volontà libera, oltre che composto di realtà materiale. Vive simultaneamente e inscindibilmente nella dimensione spirituale e nella dimensione corporea. Lo suggerisce anche il testo della Prima Lettera ai Tessalonicesi che è stato proclamato: “Il Dio della pace – scrive san Paolo – vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (5,23). Siamo dunque spirito, anima e corpo. Siamo parte di questo mondo, legati alle possibilità e ai limiti della condizione materiale; nello stesso tempo siamo aperti su un orizzonte infinito, capaci di dialogare con Dio e di accoglierlo in noi. Operiamo nelle realtà terrene e attraverso di esse possiamo percepire la presenza di Dio e tendere a Lui, verità, bontà e bellezza assoluta. Assaporiamo frammenti di vita e di felicità e aneliamo alla pienezza totale.

Dio ci ama in modo profondo, totale, senza distinzioni; ci chiama all’amicizia con Lui; ci rende partecipi di una realtà al di sopra di ogni immaginazione e di ogni pensiero e parola: la sua stessa vita divina. Con commozione e gratitudine prendiamo coscienza del valore, della dignità incomparabile di ogni persona umana e della grande responsabilità che abbiamo verso tutti. “Cristo, che è il nuovo Adamo – afferma il Concilio Vaticano II – proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione ... Con la sua incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Cost. Gaudium et spes, 22).

Credere in Gesù Cristo comporta anche avere uno sguardo nuovo sull’uomo, uno sguardo di fiducia, di speranza. Del resto l’esperienza stessa e la retta ragione attestano che l’essere umano è un soggetto capace di intendere e di volere, autocosciente e libero, irripetibile e insostituibile, vertice di tutte le realtà terrene, che esige di essere riconosciuto come valore in se stesso e merita di essere accolto sempre con rispetto e amore. Egli ha il diritto di non essere trattato come un oggetto da possedere o come una cosa che si può manipolare a piacimento, di non essere ridotto a puro strumento a vantaggio di altri e dei loro interessi. La persona è un bene in se stessa e occorre cercare sempre il suo sviluppo integrale. L’amore verso tutti, poi, se è sincero, tende spontaneamente a diventare attenzione preferenziale per i più deboli e i più poveri. Su questa linea si colloca la sollecitudine della Chiesa per la vita nascente, la più fragile, la più minacciata dall’egoismo degli adulti e dall’oscuramento delle coscienze. La Chiesa continuamente ribadisce quanto ha dichiarato il Concilio Vaticano II contro l’aborto e ogni violazione della vita nascente: “La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura” (ibid., n. 51).

Ci sono tendenze culturali che cercano di anestetizzare le coscienze con motivazioni pretestuose. Riguardo all’embrione nel grembo materno, la scienza stessa ne mette in evidenza l’autonomia capace d’interazione con la madre, il coordinamento dei processi biologici, la continuità dello sviluppo, la crescente complessità dell’organismo. Non si tratta di un cumulo di materiale biologico, ma di un nuovo essere vivente, dinamico e meravigliosamente ordinato, un nuovo individuo della specie umana. Così è stato Gesù nel grembo di Maria; così è stato per ognuno di noi, nel grembo della madre. Con l’antico autore cristiano Tertulliano possiamo affermare: “E’ già un uomo colui che lo sarà” (Apologetico, IX, 8); non c’è alcuna ragione per non considerarlo persona fin dal concepimento.

Purtroppo, anche dopo la nascita, la vita dei bambini continua ad essere esposta all’abbandono, alla fame, alla miseria, alla malattia, agli abusi, alla violenza, allo sfruttamento. Le molteplici violazioni dei loro diritti che si commettono nel mondo feriscono dolorosamente la coscienza di ogni uomo di buona volontà. Davanti al triste panorama delle ingiustizie commesse contro la vita dell’uomo, prima e dopo la nascita, faccio mio l’appassionato appello del Papa Giovanni Paolo II alla responsabilità di tutti e di ciascuno: “Rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana! Solo su questa strada troverai giustizia, sviluppo, libertà vera, pace e felicità” (Enc. Evangelium vitae, 5). Esorto i protagonisti della politica, dell’economia e della comunicazione sociale a fare quanto è nelle loro possibilità, per promuovere una cultura sempre rispettosa della vita umana, per procurare condizioni favorevoli e reti di sostegno all’accoglienza e allo sviluppo di essa.

Alla Vergine Maria, che ha accolto il Figlio di Dio fatto uomo con la sua fede, con il suo grembo materno, con la cura premurosa, con l’accompagnamento solidale e vibrante di amore, affidiamo la preghiera e l’impegno a favore della vita nascente. Lo facciamo nella liturgia - che è il luogo dove viviamo la verità e dove la verità vive con noi - adorando la divina Eucaristia, in cui contempliamo il Corpo di Cristo, quel Corpo che prese carne da Maria per opera dello Spirito Santo, e da lei nacque a Betlemme, per la nostra salvezza. Ave, verum Corpus, natum de Maria Virgine!




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