QUESTO FORUM E' CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO... A LUI OGNI ONORE E GLORIA NEI SECOLI DEI SECOLI, AMEN!
 
Innamoriamoci della Sacra Scrittura! Essa ha per Autore Dio che, con la potenza dello Spirito Santo solo, è resa comprensibile (cf. Dei Verbum 12) attraverso coloro che Dio ha chiamato nella Chiesa Cattolica, nella Comunione dei Santi. Predisponi tutto perché lo Spirito scenda (invoca il Veni, Creator Spiritus!) in te e con la sua forza, tolga il velo dai tuoi occhi e dal tuo cuore affinché tu possa, con umiltà, ascoltare e vedere il Signore (Salmo 119,18 e 2 Corinzi 3,12-16). È lo Spirito che dà vita, mentre la lettera da sola, e da soli interpretata, uccide! Questo forum è CONSACRATO ALLO SPIRITO SANTO e sottolineamo che questo spazio non pretende essere la Voce della Chiesa, ma che a Lei si affida, tutto il materiale ivi contenuto è da noi minuziosamente studiato perchè rientri integralmente nell'insegnamento della nostra Santa Madre Chiesa pertanto, se si dovessero riscontrare testi, libri o citazioni, non in sintonia con la Dottrina della Chiesa, fateci una segnalazione e provvederemo alle eventuali correzioni o chiarimenti!
 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

PARTE TERZA: i precetti del Decalogo (i Dieci Comandamenti)

Ultimo Aggiornamento: 26/08/2010 16:33
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
26/08/2010 16:24

Catechismo Tridentino
PARTE TERZA: I PRECETTI DEL DECALOGO


DEL DECALOGO IN GENERALE




298. Importanza del Decalogo


Sant'Agostino (cfr. II Super. Es ,9 Ex ,130) esalta apertamente il Decalogo come sintesi e riassunto di tutte le leggi: Molte cose aveva detto il Signore, eppure due sole tavole di pietra furono date a Mosè, dette tavole della testimonianza futura nell'arca; perché tutto il resto che il Signore aveva comandato si intende compreso nei dieci comandamenti incisi nelle due tavole. Come del resto i medesimi dieci comandamenti dipendono a loro volta dai due dell'amore di Dio e del prossimo, in cui sta in sintesi tutta la Legge e tutto l'insegnamento dei Profeti.

Essendo qui il nucleo di tutta la Legge, occorre che i Pastori attendano giorno e notte a meditarlo, non soltanto per uniformarvi la propria vita, ma anche per istruire nella disciplina del Signore il gregge loro affidato. Sta scritto: Le labbra dei sacerdoti custodiranno la scienza, e dalla loro parola sarà attinta la legge, poiché il sacerdote è l'angelo del Signore degli eserciti (Ml 2,7). Sentenza che si applica in modo particolare ai Pastori della nuova Alleanza che, essendo più vicini a Dio, devono ascendere di splendore in splendore, in virtù dello spirito del Signore (2Co 3,17). Avendoli Gesù Cristo insigniti del nome di luminari (Mt 5,14), è loro stretto compito fornire luce a coloro che giacciono nelle tenebre, costituirsi istruttori degli ignoranti, educatori dei fanciulli (Rm 2,19). Di più: essi che sono spirituali dovranno soccorrere chi sia irretito nel peccato (Ga 6,1). Inoltre essi sono giudici nella confessione ed emanano sentenze secondo la qualità e la gravita dei peccati. Perciò, se non vogliono essere imputati di incapacità, e non vogliono frodare gli altri, devono essere vigilantissimi nell'adempimento di tale compito ed esperti nella interpretazione dei divini precetti, in base ai quali hanno da giudicare ogni azione e omissione. Secondo l'ammonimento dell'Apostolo, impartiscano la sana dottrina (2Th 4,3), immune cioè da ogni errore; e curino le malattie dell'anima, i peccati, sicché il loro popolo sia accetto a Dio, e dedito alle opere buone (Tt 2,14).

299. Esposizione del Decalogo


In queste esposizioni il Pastore proponga a sé e agli altri argomenti capaci di indurre all'obbedienza alla Legge.

Ora, tra le ragioni che possono spingere gli spiriti degli uomini al rispetto dei precetti della Legge, quella che riveste maggiore forza è questa: Dio ne è l'autore. Sebbene si dica consegnata dagli angeli (Ga 3,19), nessuno può revocare in dubbio il fatto che Dio stesso ne è l'autore. Ne danno ampia testimonianza non solamente le parole dello stesso Legislatore che commenteremo fra poco, ma passi quasi innumerevoli delle Scritture, che agevolmente occorreranno ai Pastori. Del resto chi non sente una legge divina inserita nel cuore, in virtù della quale sa distinguere il bene dal male, l'onesto dal turpe, il giusto dall'ingiusto? E perché la forza regolatrice di questa legge naturale non è diversa affatto da quella scritta, chi mai oserà negare che come Dio è l'Autore della legge naturale, non lo sia anche della legge scritta?

Si deve dunque insegnare che, consegnando la Legge a Mosè, Dio non conferì una luce nuova, bensì rinnovo il fulgore di una luce che i costumi perversi e una diuturna negligenza avevano miseramente oscurato. Questo perché il popolo cristiano non creda di essere esonerato dal vincolo di queste leggi, perché la Legge di Mosè è stata abrogata. E certissimo infatti che dobbiamo obbedire a questi comandamenti, non perché sono stati imposti per mezzo di Mosè, ma perché scolpiti nell'anima di ciascuno, e da nostro Signore spiegati e ratificati. Ad ogni modo gioverà moltissimo e rivestirà una singolare virtù dimostrativa la considerazione che Dio, sulla sapienza e giustizia del quale non è lecito sollevare dubbi e alla cui infinita e vigorosa potenza non possiamo sottrarci, emano la Legge. Perciò, comandando per mezzo dei profeti di rispettare la Legge, Dio dichiarava apertamente chi era, e nell'esordio stesso del Decalogo leggiamo: Io sono il Signore Dio tuo (Ex 20,2). Altrove: Se io sono il Signore, dove è il timore a me dovuto? (Ml 1,6). Cotesto pensiero non solamente stimolerà le anime fedeli al rispetto dei precetti divini, ma anche ad azioni di grazie, per avere Iddio manifestata la sua volontà che è la via alla nostra salvezza.

Ripetute volte la sacra Scrittura, esaltando questo straordinario beneficio, ammonisce il popolo di riconoscere la propria dignità e la benevolenza del Signore. Nel Deuteronomio è scritto: Qui sta la vostra saggezza e la vostra prudenza di fronte ai popoli, che udendo questi comandamenti, esclameranno: Ecco un popolo saggio e prudente, ecco una grande nazione (Dt 4,6). E nei Salmi: Non si comporto cosi con nessun altro popolo e non rivelo ad altri i suoi voleri (Ps 117,10).

Se il Parroco additerà inoltre, sulla fede della Scrittura, il modo col quale la Legge fu consegnata, i fedeli comprenderanno anche più agevolmente con quanta pia devozione debba essere rispettata una legge ricevuta da Dio. Tre giorni prima infatti, per comando di Dio, tutti dovettero lavare le proprie vesti, astenersi dai rapporti coniugali, per meglio predisporsi a ricevere la Legge; il terzo giorno tutti si radunarono, ma, pervenuti al monte da cui il Signore voleva impartire loro le leggi per mezzo di Mosè, al solo Mosè fu concesso di salirvi. E allora Dio vi discese con grande maestà, fra tuoni, lampi, fuoco, dense nuvole, e cominciò a parlare a Mosè, consegnandogli le leggi (Ex XIX,10). Per una sola ragione la divina sapienza volle tutto ciò: mostrarci che la legge del Signore va accolta con animo casto ed umile; e che, trasgredendo i comandamenti, noi andiamo incontro a severe pene della giustizia divina.

Il Parroco mostrerà del resto come i precetti della Legge non implichino serie difficoltà; e lo potrà fare adducendo anche questa sola ragione di sant'Agostino: Chi, di grazia, vorrà definire impossibile per l'uomo l'amare, l'amare un Creatore benefico, un Padre amantissimo, e, in linea subordinata, la carne propria nei propri fratelli? Orbene, chi ama ha adempito la legge (Dei costumi della Chiesa, 25). E già l'apostolo Giovanni assicurava apertamente che i comandamenti di Dio non sono onerosi (1Jn 5,3); infatti secondo la frase di san Bernardo, non si sarebbe potuto chiedere all'uomo nulla di più giusto, di più dignitoso e di più fruttifero (Del dovere di amare Iddio, e. I).

Per questo, ammirando l'infinita bontà di Dio, S. Agostino esclama: Che cosa è mai l'uomo, che tu vuoi esserne amato, e minacci gravi pene a chi non voglia farlo, come se già non fosse pena immensa il non amarti? (Conf. I,5). Che se alcuno accampa a sua scusa l'infermità della natura che gli impedisce di amare Dio, gli si mostri come lo stesso Dio, il quale chiede amore, instilla nei cuori la capacità di amare, per mezzo dello Spirito santo, che dal Padre celeste viene concesso a chi lo invoca (Lc 11,13). E giusta quindi la formula di preghiera di sant'Agostino: Concedi quel che comandi e comanda quello che vuoi (Conf. 10,29). E poiché l'aiuto di Dio è a nostra disposizione, specialmente dopo la morte di nostro Signore Gesù Cristo, per merito della quale il sovrano di questo mondo è stato debellato, non c'è ragione di spaventarsi delle difficoltà dei precetti, poiché nulla è arduo a chi ama.

Del resto per esserne persuasi gioverà sopra tutto riflettere sulla necessità di obbedire alla Legge, non essendo mancato ai nostri tempi chi, empiamente e con massimo proprio danno, ha osato sostenere, che, facile o difficile, la Legge non è necessaria alla salvezza '. Il Parroco confuterà con le testimonianze bibliche questa insana ed empia opinione; riferendosi specialmente all'Apostolo, della cui autorità si cerca di abusare per sostenerla. Che cosa dice in sostanza l'Apostolo? Che non il prepuzio o la circoncisione valgono qualcosa, ma solamente il rispetto dei precetti di Dio (1Co 7,9). E ripetendo altrove la medesima sentenza, aggiunge che in Gesù Cristo conta solamente la nuova creatura (Ga 6,15), intendendo chiaramente di chiamare cosi colui, che si uniforma ai comandamenti divini. Chi infatti li conosce e li rispetta, ama Dio, come il Signore stesso dichiara in san Giovanni: Chi mi ama, osserverà le mie parole (Jn 14,21). Che se l'uomo può essere giustificato, e da malvagio divenire buono, anche prima di praticare nelle azioni esterne le singole prescrizioni della Legge; non può pero, chi abbia già l'uso della ragione, trasformarsi da peccatore in giusto, se non sia disposto a osservare tutti i comandamenti di Dio.

300. Frutti del Decalogo.


Infine, per non dimenticare nulla di ciò che può indurre il popolo fedele all'osservanza della Legge, il Parroco mostri quanto ricchi e dolci frutti essa produca. E lo potrà fare facilmente, ricordando quanto è scritto nel Salmo decimottavo, consacrato a cantare le lodi della Legge divina, fra cui massima appare la capacità di dare risalto alla gloria e alla maestà di Dio, molto più di quanto non possano fare i corpi celesti, con il loro splendore e il loro ordine. Questi infatti, strappando l'ammirazione alle genti più barbare, le portano a riconoscere la gloria, la saggezza e la potenza dell'Artefice primo d'ogni cosa. Cosi la Legge divina volge le anime a Dio (Ps 18,8); cosicché, scoprendo i suoi sentieri e la sua santa volontà attraverso la Legge, a Lui dirigiamo i nostri passi. E poiché sono veramente sapienti solo coloro che temono Dio, Dio ha dato alla Legge la capacità di infondere sapienza ai piccoli. In verità coloro che osservano la Legge di Dio, sono in possesso di autentici godimenti, della conoscenza dei misteri divini, e di intense gioie e ricompense, in questa vita come nella futura.

Del resto la Legge deve essere rispettata non solo per il nostro vantaggio, ma anche per l'onore di Dio, il quale manifesto in essa la sua volontà al genere umano. E se tutte le creature vi sottostanno, non è ancora più giusto che la rispetti l'uomo? Né va dimenticata la singolarissima clemenza e bontà di Dio verso di noi. Avrebbe potuto costringerci, senza la prospettiva di alcun premio, a servire alla sua gloria. Eppure volle armonizzare questa col nostro vantaggio, affinché la nostra utilità tornasse anche a onore di Dio. Particolare cotesto importantissimo, che il Parroco ricorderà con le parole del Profeta: Nel custodire i tuoi precetti, o Signore, generosa è la mercede (Ps 18,12). Esso non abbraccia solamente benedizioni riguardanti la felicità terrena, come la prosperità delle città e la fecondità dei campi (Dt 28,3), ma anche una mercede copiosa in cielo (Mt 5,12), una misura buona, pigiata, scossa e traboccante (Lc 6,38), meritata con le opere buone, compiute mediante l'aiuto della divina misericordia.

301. Istituzione del Decalogo


Sebbene questa Legge sia stata consegnata dal Signore sul monte agli Israeliti, tuttavia, essendo per virtù di natura impressa molto tempo prima nell'animo di tutti, e Dio avendo sempre voluto che tutti gli uomini vi si uniformassero, sarà bene spiegare con cura le parole con le quali da Mosè, strumento ed interprete, fu annunciata agli Ebrei, ricordando la storia Iraelitica che è tutta piena di misteri.

Esporrà dapprima come fra tutte le nazioni della terra Dio ne prescelse una, originata da Abramo, che egli volle pellegrino nella terra di Canaan. Di questa aveva promesso a lui il possesso; eppure tanto lui che la sua posterità andò vagando per più di quattrocento anni prima di potervi entrare ad abitarla. Mai pero lasciò di proteggerli durante il lungo vagare. Passarono infatti da popolo a popolo e da un regno all'altro; mai pero tollero che si recasse loro ingiuria; al contrario rintuzzo i re nemici.

Prima che essi scendessero in Egitto, mando innanzi a loro un uomo, che con la sua preveggenza doveva salvare dalla fame tanto essi che gli Egiziani.

In Egitto li circondo di una tale affettuosa tutela, che, nonostante l'ostilità e la perenne minaccia del Faraone, poterono moltiplicarsi in maniera mirabile. E quando le afflizioni toccarono il culmine, e cominciarono ad essere trattati durissimamente come schiavi, Dio suscito Mosè quale condottiero, capace di trarli a salvezza con mano energica. Precisamente questa liberazione è ricordata dal Signore sull'inizio della Legge, con le parole: "Io sono il Signore Dio tuo, che ti trassi fuori dalla terra d'Egitto, dalla casa della schiavitù".

Il Parroco porrà bene in luce questa circostanza: Dio prescelse una sola fra tutte le nazioni, per essere il suo popolo eletto, da cui farsi conoscere e venerare in modo speciale, non già perché superasse le altre in numero o virtù, come del resto il Signore stesso ricorda agli Ebrei, ma solo perché a Dio piacque di sostenere e arricchire una razza modesta e bisognosa, affinché la sua potenza e la sua bontà ne avessero maggior gloria e fama nell'universo. Appunto per quella loro condizione, si strinse con essi, li predilesse, non sdegnando neppure di esser detto loro Dio, affinché gli altri popoli fossero stimolati ad emulazione; e, constatando la felice condizione degli Israeliti, tutti gli uomini si convertissero al culto del vero Dio. Anche san Paolo afferma di aver voluto provocare ad emulazione la propria gente, prospettando la beatitudine e la vera conoscenza di Dio, che egli impartiva ai pagani.

Mostrerà poi ai fedeli come Dio permise che gli antichi ebrei peregrinassero a lungo, e che i loro posteri fossero premuti e vessati in durissima schiavitù, perché noi constatassimo che solo chi è pellegrino sulla terra e osteggiato dal mondo può divenire amico di Dio; sicché per essere accolti più agevolmente nella dimestichezza di Dio, occorre non aver nulla in comune col mondo. Inoltre, perché comprendessimo, una volta passati al vero culto di Dio, quanto più felici siano coloro che servono Dio, anziché il mondo. Ci ammonisce appunto Dio nella Scrittura: Servano pure ad essi, perché conoscano l'abisso che separa il mio servizio dal servizio dei re della terra (2 Par. 12,8).

Ricorderà inoltre che Dio anticipo più di quattrocento anni le sue promesse, affinché il popolo, si alimentasse costantemente di fede e di speranza, poiché Dio vuole che i suoi fedeli dipendano sempre da lui e collochino nella sua bontà tutta la loro fiducia, come diremo nella spiegazione del primo comandamento.

Infine indicherà il tempo e il luogo in cui il popolo di Israele ricevette questa Legge da Dio. Fu precisamente dopo l'uscita dall'Egitto e l'arrivo nel deserto, quando la memoria grata del recente beneficio e l'asprezza paurosa del luogo dove si trovava, lo rendevano particolarmente atto ad accoglierla. Infatti gli uomini si sentono in modo particolare vincolati a coloro di cui hanno sperimentato i benefici, e sogliono ricorrere all'aiuto di Dio quando si sentono abbandonati da ogni speranza umana. Da ciò è facile arguire che i fedeli saranno tanto più inclinati ad accogliere la celeste dottrina, quanto più si terranno lontani dalle gioie del mondo e dalle soddisfazioni carnali, secondo le parole del Profeta: A chi impartirà la scienza e a chi dischiuderà l'udito? A chi ha abbandonato il latte e si è staccato dalle mammelle (Is 28,9).
Compia il Parroco ogni sforzo perché il gregge fedele porti ognora scolpite in cuore le parole: Io sono il Signore Dio tuo. Per esse intenderà come il suo legislatore è lo stesso Creatore, da cui riceve l'esistenza e la conservazione. A buon diritto cosi potrà esclamare: Egli è il Signore Dio nostro: noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce (Ps 94,7). La ripetizione frequente e ardente di queste parole avrà la capacità di rendere i fedeli più pronti al rispetto della Legge, più disposti a star lontani dal peccato.

Per quanto riguarda le parole che seguono: Io t i trassi dalla terra d'Egitto, dalla casa della schiavitù, sebbene sembrino attagliarsi solamente agli Ebrei affrancati dal giogo egiziano, in verità, se si badi al significato spirituale della salvezza universale, appariranno molto più applicabili ai Cristiani. Essi sono strappati non già dalla schiavitù egiziana, bensi dal dominio del peccato, sottratti da Dio alla potenza delle tenebre e trasferiti nel regno del Figlio del suo amore. Intravedendo l'entità di tale beneficio, Geremia annunciava: Ecco, arrivano giorni, dice il Signore, nei quali non si dirà più: Vive il Signore che trasse fuori i figli d'Israele dalla terra d'Egitto, bensì: Vive il Signore che trasse i figliuoli d'Israele dalla terra boreale e da tutte le terre per cui li cacciai: io li raccoglierò nella terra, donata già ai loro padri. Ecco: invierò numerosi pescatori, dice il Signore, e li pescheranno, ecc. (Jr 16,14).

Il Padre misericordioso, mediante il Figlio suo, raduno i figli dispersi, affinché, non più schiavi della colpa ma della giustizia, lo serviamo nella santità e nel bene, apertamente, per tutti i giorni della nostra vita. Perciò i fedeli sapranno opporre come uno scudo a tutte le tentazioni la parola dell'Apostolo: Morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso? (Rm 6,2). Poiché non apparteniamo più a noi stessi, ma a colui che è morto per noi ed è risorto. Egli è il Signore nostro Dio che ci compro col suo sangue; come potremo peccare contro il Signore nostro Dio, e nuovamente crocifiggerlo? Realmente liberi, di quella libertà che ci è conferita da Gesù Cristo, come avevamo usato male le nostre membra quali strumenti di male, usiamole ormai quali strumenti di bene sulle vie della santità.
OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
26/08/2010 16:25

PARTE TERZA: I PRECETTI DEL DECALOGO


PRIMO COMANDAMENTO
Non avrai altro Dio fuori di me




302. Duplice valore del precetto


Il Parroco insegni anzitutto che il primo posto nel Decalogo spetta ai comandamenti che riguardano Dio; il secondo, a quelli che riguardano il prossimo; perché quanto facciamo al prossimo ha la sua ragione in Dio. Amiamo infatti il prossimo secondo lo spirito del comando divino, quando lo amiamo per amore di Dio. E tali precetti riguardanti Iddio sono formulati nella prima tavola. In secondo luogo spiegherà come nella formula surriferita è racchiuso un duplice comando: il primo positivo, l'altro negativo, poiché il comando: Non avrai altro Dio fuori che me, contiene anche l'aggiunta: rispetterai me come vero Dio, né presterai ossequio ad altri dèi.

Nella prima parte, a loro volta, sono impliciti i precetti della fede, della speranza, e della carità. Dicendo che Dio è immobile, immutabile, lo riconosciamo, a buon diritto, sempre uguale a se stesso e verace: dunque è necessario che, aderendo ai suoi oracoli, prestiamo pieno assenso alla sua autorità. Considerando poi la sua onnipotenza, la sua clemenza, la sua facilità a beneficare, come potremmo non riporre in lui tutte le nostre speranze? E, contemplando le ricchezze della sua bontà e del suo amore riversate su di noi, potremmo non amarlo? Di qui il preambolo e la conclusione che, nel formulare comandi, Dio usa costantemente nella Scrittura: Io, il Signore.

Ecco, poi, la seconda parte del comandamento: Non avrai altro Dio fuori che me. Il Legislatore ha usato tale formula non perché tale verità non fosse sufficientemente chiara nel precetto positivo: Onorerai me come solo Dio; poiché se è Dio, è unico; ma per la cecità dei moltissimi, che un tempo, pur credendo di venerare il vero Dio, prestavano culto a una moltitudine di dèi. Di tali ve ne furono molti pure tra gli Ebrei che, secondo il rimprovero di Elia, zoppicavano da due lati. Tali furono pure i Samaritani che onoravano contemporaneamente il Dio d'Israele e le divinità dei Pagani.

Spiegato ciò, il Parroco farà rilevare che questo è, fra tutti i comandamenti, il primo e più importante; non già per ordine di sola precedenza, ma per i suoi motivi, per la sua dignità, e la sua eccellenza. Dio infatti deve riscuotere da noi un affetto e un ossequio infinitamente maggiori di quelli a cui possano aver diritto re e padroni. Egli ci ha creati, ci governa, ci ha nutriti fin da quando eravamo nel seno di nostra madre, ci ha tratto alla luce; Egli ci fornisce il necessario alla vita e all'alimentazione.

Mancano a codesto comandamento coloro che non hanno fede, speranza e carità; e sono tanti! Infatti rientrano in questa categoria gli eretici, gli increduli circa le verità proposte dalla Chiesa, nostra santa madre; coloro che prestano fede ai sogni, ai presagi e a tutte le altre vane fantasie; quelli che perdono la speranza della propria salvezza, cessando di confidare nella divina bontà; coloro, infine, che contano unicamente sulle ricchezze, sulla salute e sulle forze del corpo. Questa materia è più largamente spiegata da coloro che hanno scritto intorno ai vizi e ai peccati.

303. Legittimità del culto dei Santi


Spiegando questo precetto, il Parroco insista nel mostrare come la venerazione e la invocazione dei santi angeli e delle anime beate ammesse al godimento della gloria celeste, oppure il culto dei corpi e delle ceneri dei santi, sempre ammesso dalla Chiesa cattolica, non lo trasgredisce. Sarebbe folle il supporre che, vietando il re a chiunque altro di prendere il proprio posto e di esigere onore e rispetto reali, per questo imponga di non tributare ossequio ai suoi magistrati. Si dice, è vero, che i cristiani adorano gli angeli, seguendo le orme dei santi dell'antico Testamento; ma non tributano loro la medesima venerazione attribuita a Dio. Che se leggiamo di angeli che talvolta hanno rifiutato la venerazione umana, si deve intendere che non vollero si mostrasse loro quell'ossequio che è dovuto unicamente a Dio (Ap 19,10 Ap 22,9). Il medesimo Spirito santo il quale proclama: A Dio solo onore e gloria (1Tm 1,17), comanda di circondare di onore i genitori e gli anziani (Ex 20,12 Dt 5,16 Lv 19,32).

Del resto, uomini santi che rispettavano l'unico vero Dio, adoravano, secondo la testimonianza biblica, i sovrani, vale a dire s'inchinavano supplichevoli dinanzi a loro (Gn 23,7-12 1S 24,9). Ora, se sono cosi onorati i re, per mezzo dei quali Dio governa il mondo, agli spiriti angelici, della cui opera Dio si serve per reggere non solo la sua Chiesa ma tutto l'universo, e che ci aiutano a liberarci ogni giorno dai più grandi pericoli dell'anima e del corpo, anche se non si mostrano visibili a noi, non renderemo un onore tanto più grande quanto più alta è la dignità di quelle intelligenze beate di fronte alla maestà dei regnanti?

Si tenga conto, inoltre, dell'intensa carità con cui essi ci amano. Ispirati da questa effondono preghiere, secondo la chiara testimonianza della Scrittura (Da 10,13), per le regioni cui sono preposti, ed assistono senza dubbio coloro dei quali sono custodi, offrendo le nostre preci e le nostre lacrime a Dio. Non disse forse il Signore nel Vangelo: Guai a coloro che scandalizzano i bambini, perché gli angeli vedono sempre il volto del Padre che è nei cieli? (Mt 18,6). Essi dunque si devono invocare, poiché sono continuamente al cospetto di Dio, e assumono ben volentieri il patrocinio della nostra salvezza loro affidato.

Di invocazioni agli angeli esistono nella santa Scrittura esempi significativi. Giacobbe chiede all'angelo, col quale aveva lottato, che lo benedica; lo costringe anzi a farlo, dichiarando che non lo lascerà libero, se non dopo averne ricevuta la benedizione (Gn 32,24). Né la vuole soltanto da colui che scorgeva, ma anche da quegli che non vedeva, quando dice: L'angelo che mi trasse da tutti i mali, benedica questi figliuoli (Gn 48,16).

Perciò è lecito anche dedurre che, lungi dal diminuire la gloria di Dio, l'onore tributato ai santi che si sono addormentati nel Signore, le invocazioni ad essi rivolte, la venerazione portata alle loro reliquie e alle loro ceneri, aumentano tanto più questa gloria, quanto meglio stimolano la speranza degli uomini, la rassodano spingendoli all'imitazione dei santi. Lo comprovano il secondo concilio Niceno, quelli di Gangra e di Trento, e infine l'autorità dei santi Padri. Per meglio riuscire alla confutazione di chi impugna questa verità, il Parroco legga lo scritto di san Girolamo contro Vigilanzio, e specialmente il Damasceno.

Quanto abbiamo detto è soprattutto confermato dalla consuetudine trasmessa dagli Apostoli, costantemente ritenuta nella Chiesa di Dio, e appoggiata alle testimonianze della Scrittura che celebra mirabilmente le lodi dei santi. Non si potrebbe desiderare nulla di più chiaro e di più solido. Di alcuni santi gli oracoli divini han tessuto l'elogio. Come gli uomini potrebbero rifiutare loro un onore particolare? (Eccli. XLIV).

Si rifletta che occorre invocarli e onorarli, anche perché essi offrono perennemente preci per la salvezza degli uomini; e molti benefici elargiti da Dio sono dovuti al loro merito e al loro favore. Se infatti si fa gran festa in cielo per un peccatore pentito (Lc 15,7), non si adopreranno i cittadini del cielo per aiutare i penitenti? E, se sono invocati e implorati, potranno non impetrare il perdono dei peccati, propiziandoci la grazia di Dio? Che se alcuni obietteranno essere superfluo il patrocinio dei santi perché è Dio che sovviene alle nostre preghiere senza bisogno d'interpreti, si risponderà a queste empie voci con le parole di sant'Agostino: Dio spesso non concede se non in seguito all'intervento efficace del mediatore che scongiura (Sull'Ex q. CXLIX). Il che è confermato dagli esempi eloquenti di Abimelech e degli amici di Giobbe ai quali Dio perdono le colpe per le preghiere di Abramo e di Giobbe (Gn 20 ;Gb 42). E se qualcuno osserverà che il ricorso ai santi, quali intermediari e patroni, è dovuto alla povertà e debolezza della propria fede, gli si replicherà con l'esempio del Centurione. Questi, pur essendo ricco di una fede la quale merito la più alta lode da nostro Signore, tuttavia invio a lui gli anziani dei Giudei perché volessero impetrare la guarigione al suo servo malato (Mt 8,10 Lc 7,9).

Senza dubbio confessiamo che uno solo è il nostro mediatore, Gesù Cristo, il quale ci riconcilio col Padre celeste col suo sangue (Rm 5,10), e, garantita l'eterna redenzione, una volta entrato nel Santuario, non cessa un istante di intercedere per noi (He 9,12). Ma da ciò non segue affatto che non sia lecito fare appello al favore dei santi. Se in realtà non fosse consentito di invocare il soccorso dei santi, perché abbiamo un solo patrono, Gesù Cristo, l'Apostolo non avrebbe davvero insistito nel volere che le preghiere dei fratelli viventi lo soccorressero presso il Signore (Rm 15,30). Dunque non solo la preghiera dei santi che sono in cielo, ma neppure quella dei giusti viventi, possono attenuare la gloria e la maestà del Cristo mediatore.

E chi non scorgerà prove luminose dell'obbligo di onorare i santi, e del patrocinio che essi assumono di noi, nei prodigiosi fatti che si compiono presso i loro sepolcri, con la restituzione di occhi, mani, membra di ogni genere a chi ne mancava, con la resurrezione di morti tornati in vita, col fatto di demoni cacciati dai corpi umani? Molti riferirono di averne udito il racconto; moltissimi, individui serissimi, di aver letto; né mancano testimoni ineccepibili, quali sant'Ambrogio e sant'Agostino, che attestarono nelle loro lettere di aver visto. Che più? se le vesti, i panni, e la stessa ombra dei santi ancora in vita scacciarono le malattie e ridonarono le forze, chi oserà porre in dubbio che Dio possa effettuare i medesimi portenti per mezzo delle ceneri, delle ossa e delle altre reliquie dei santi? Si ricordi quel cadavere che, portato per caso nel sepolcro di Eliseo, immediatamente rivisse a contatto del suo corpo (2R 13,21).

304. Norme sulla illiceità delle immagini


Seguono le parole: Non ti farai opere di scultura a immagine di cose esistenti nell'aria, sulla terra o nelle acque; non le adorerai, non presterai loro culto. Alcuni, ritenendo che fosse qui enunciato un secondo precetto, pensarono che i due ultimi precetti del decalogo ne formassero invece uno solo. Ma sant'Agostino, considerando quei due ultimi come distinti, afferma che le parole in questione appartengono al primo precetto (Sull'Ex q. LXXI); e noi adottiamo volentieri simile sentenza, che è comunissima nella Chiesa. Ma c'è di rincalzo l'ottima ragione che, nel testo biblico (Es. 20,5s.), premio e castigo per il precetto sono enunciati al termine di questa pericope in maniera unitaria come per ciascun precetto.

Né si creda che con tale precetto sia del tutto vietata l'arte di dipingere, di rappresentare, di scolpire. Leggiamo infatti nelle Scritture che, per comando divino, furono fatti simulacri e immagini di Cherubini (Ex 25,18 1R 6,23 1R 2) e del serpente di bronzo (Nb 21,8). Dobbiamo perciò interpretare la proibizione nel senso che, prestando ai simulacri un culto come a delle divinità, si viene a togliere qualcosa al vero culto di Dio.

Ed è chiaro che, nell'ambito di questo comandamento, in due modi possiamo gravemente ledere la divina maestà. In primo luogo, venerando come divinità idoli e simulacri, o ritenendo che dimori in essi qualche virtù divina, per cui si debba prestar loro venerazione, si possa chieder loro qualcosa, e riporre in essi quella fiducia che vi riponevano una volta i pagani, rimproverati spesso dalla Scrittura di collocare la loro speranza negli idoli. In secondo luogo, tentando di raffigurare con i mezzi dell'arte la forma della divinità, quasi che questa possa scorgersi con gli occhi corporei, o esprimersi con colori e figure. Esclama il Damasceno: Chi potrà esprimere un Dio che non cade sotto la presa dei sensi, non ha corpo, non può essere circoscritto in alcun termine, né descritto da alcuna rappresentazione? (La fede ort. 4,16).

Più ampiamente spiega la cosa il secondo concilio Niceno (Atti 3 e 4). Luminosamente l'Apostolo disse dei pagani che avevano deformato la gloria di Dio incorruttibile, riducendola alle immagini dell'uomo corruttibile, degli uccelli, dei quadrupedi, dei serpenti (Rm 1,23), venerando come divinità simulacri di questa foggia. Anche gli Israeliti, che dinanzi al simulacro del vitello gridavano: Ecco, o Israele, i tuoi dèi che ti trassero fuori dalla terra di Egitto (Ex 32,4), furono chiamati idolatri, avendo ridotto la gloria divina alle proporzioni di una bestia erbivora (Ps 105,20).

Avendo quindi il Signore rigorosamente vietato di prestar culto a divinità straniere per sopprimere ogni infiltrazione idolatrica, proibi pure di trarre dal bronzo o da qualsiasi altra materia rappresentazioni della divinità. Illustrando il divieto, Isaia esclama: A quale cosa avete voi rassomigliato Dio? quale immagine farete di lui? (Is 40,18). Che tale sentenza sia racchiusa in questo precetto risulta, oltre che dagli scritti dei santi Padri che, secondo l'esposizione del settimo Concilio (Atti 2 e 4), l'interpretano a questa maniera, anche dalle parole abbastanza esplicite del Deuteronomio, dove Mosè, volendo allontanare il popolo dall'idolatria, dice: Non vedeste nessuna immagine il giorno in cui il Signore, sull'Oreb, vi parlo di mezzo al fuoco (Dt 4,15). Cosi si esprimeva il sapientissimo legislatore, affinché, cadendo in errore, non si foggiassero un simulacro della divinità, e finissero col tributare a una cosa creata l'onore dovuto a Dio.

305. Utilità del culto delle immagini


Non si creda tuttavia che sia un mancare alla religione e un trasgredire la legge di Dio, l'esprimere con figure sensibili, adoperate cosi nel vecchio come nel nuovo Testamento, qualche Persona della santissima Trinità. Non v'è infatti individuo cosi grossolano il quale possa ritenere espressa da quella figura la divinità. Ad ogni modo il Parroco spieghi come, mediante quelle figure, siano significate proprietà o azioni attribuite a Dio. Cosi, quando, sulle indicazioni di Daniele (Da 7,9), si rappresenta l'Antico dei giorni seduto sul trono, con i libri aperti dinanzi, si vuole significare l'eternità e l'infinita sapienza di Dio, in virtù delle quali egli scorge tutti i pensieri e le azioni degli uomini per giudicarli.

Gli angeli, poi, vengono raffigurati in forme umane e con le ali perché i fedeli comprendano quanto essi siano ben disposti verso il genere umano e come siano pronti ad eseguire le incombenze volute dal Signore. Sono infatti spiriti al servizio di coloro che bramano l'eredità della salvezza (He 1,14). Il simbolo della colomba e le lingue di fuoco menzionati nel Vangelo (Mt 3,16 Mc 1,10 Lc 3,22 Jn 1,32) e negli Atti degli apostoli (Ac 2,3), quali proprietà esprimano dello Spirito santo è troppo noto perché occorra darne ampia spiegazione.

Siccome, poi, nostro Signore G. Cristo, la sua santa e purissima Genitrice e tutti i santi dotati di natura umana, ebbero naturalmente figura umana, non solo non è vietato dal presente precetto dipingerne e onorarne le immagini, ma è stato sempre considerato come atto che manifesta, in modo sicuro, animo grato e devoto. Lo confermano i monumenti dell'età apostolica, i concili ecumenici, innumerevoli scritti di Padri dottissimi e religiosissimi, tutti concordi fra loro.

Il Parroco insegnerà che non solo è lecito tenere immagini nelle chiese, onorarle e prestar loro culto, purché la venerazione prestata s'intenda diretta ai loro prototipi, ma mostrerà anche come ciò sia stato fatto sempre fino ad oggi, con grandissimo vantaggio dei fedeli, come si vede fra l'altro dal libro del Damasceno sulle immagini, e dal settimo concilio che è il secondo Niceno.

Ma l'avversario del genere umano si sforza sempre con le sue frodi e sofismi di pervertire le istituzioni più sante. Per questo il Parroco, nel caso che il popolo sgarri, cercherà di fare quanto è in lui per correggere gli abusi, secondo il decreto del concilio Tridentino, e, senz'altro, all'occasione ne commenterà il testo stesso. Mostri agl'incolti e a coloro che ignorano l'uso stesso delle immagini, che queste mirano a far conoscere la storia dei due Testamenti e ad alimentarne la memoria. Cosicché, stimolati dal ricordo delle divine gesta, siamo sempre più tratti a venerare e amare Dio. Insegnerà pure che le immagini dei santi sono poste nei templi affinché essi siano onorati, e noi, sulle loro orme, ne riproduciamo la vita e i santi costumi.

306. Pene contro i trasgressori del primo comandamento


Io sono il Signore Dio tuo, forte, geloso, che faccio ricadere la iniquità dei padri nei figli, fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano; e, nel medesimo tempo, misericordioso abbondantemente verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti (Ex 20,5)

Due cose vanno spiegate a proposito di quest'ultima parte del precetto. Innanzi tutto che, sebbene a causa della maggiore gravita della trasgressione del primo precetto e dell'inclinazione degli uomini a commetterla, la pena sia opportunamente qui menzionata, in realtà si tratta di un'appendice comune a tutti i precetti. Ogni legge infatti spinge gli uomini al rispetto delle prescrizioni col premio e con la pena. Per questo frequenti promesse divine sono disseminate nella sacra Scrittura. Tralasciando quelle pressoché innumerevoli contenute nel vecchio Testamento, ricordiamo le parole del Vangelo: Se vuoi entrare nella vita, rispetta i comandamenti (Mt 19,17); e altrove: Solo chi adempie il volere del Padre mio che è nei cieli entrerà nel regno celeste (Mt 7,21). In un altro luogo: Ogni albero che non fa buon frutto, sarà tagliato e gettato nel fuoco (Mt 3,10). Altrove: Chiunque si adira contro il suo fratello, sarà condannato in giudizio (Mt 5,22). Infine: Se non perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà a voi le vostre mancanze (Mt 6,15).

In secondo luogo, si ricordi che questa appendice deve essere spiegata in maniera molto diversa agli individui perfetti e a quelli carnali. Ai primi infatti, che operano sotto la guida di Dio (Rm 8,14) e a lui obbediscono con animo alacre e docile, esso parla quale annuncio di letizia e quale prova luminosa del volere divino, ben disposto verso di loro. Essi riconoscono cosi la premura di Dio, amantissimo di loro, il quale, ora con i premi, ora con le pene, quasi costringe gli uomini al proprio culto e alla religione. Ne scorgono cosi l'infinita bontà, e vedono che cosa comandi loro, e come voglia far convergere la loro opera verso la gloria del nome divino. Né solo riconoscono tutto ciò, ma nutrono speranza che Dio, come comanda ciò che vuole, cosi darà le forze necessarie per obbedire alla sua legge.

Per gli individui carnali, invece, non ancora affrancati dallo spirito del servaggio, e che si tengono lontani dal peccato più per timore delle pene che per amore della virtù, quell'appendice ha sapore di forte agrume. Perciò dovranno essere incoraggiati con esortazioni pie e quasi condotti per mano là dove vuole la Legge. Ogni volta che venga l'occasione di spiegare uno qualsiasi dei comandamenti, il Parroco tenga presenti queste considerazioni.

307. Due stimoli


Mirando agli uomini carnali come agli spirituali, egli adotterà i due pungoli o stimoli, contenuti nell'appendice del precetto, capaci di eccitare efficacemente gli uomini al rispetto della Legge.

In primo luogo, si spieghi l'inciso, in cui è detto che Dio è forte, con tanto maggiore diligenza, in quanto spesso la carne, meno colpita dai terrori delle divine minacce, va mendicando tutti i pretesti per sfuggire all'ira di Dio e alla pena stabilita. Chi pero tiene per fermo che Dio è forte, ricorda piuttosto il motto del grande David: Dove mi rifugerò lungi dal tuo spirito? dove, lungi dal tuo volto? (Ps 133,7). La stessa carne, diffidente talora delle divine promesse, si raffigura cosi forti i nemici da reputarsi incapace di resistenza. Invece la fede salda e sicura, nulla temendo, poggiata com'è sulla forza e la virtù divina, conforta e rafforza gli uomini, esclamando:Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi avrò paura? (Ps 26,1).

L'altro stimolo è rappresentato dalla stessa gelosia divina. Infatti gli uomini pensano talora che Dio non curi le cose umane, e non si preoccupi neppure del nostro ossequio, o della nostra disobbedienza alla Legge. Ne segue un grande disordine nella vita. Ma se noi ricordiamo che Dio si preoccupa di tutto, saremo più attenti al nostro compito. Naturalmente quella specie di gelosia che attribuiamo a Dio, non implica un turbamento dell'animo, ma solo quel divino amore e quell'alta carità, per cui Dio non tollera che un'anima si allontani impunemente da lui (Ps 72,27) e irrimediabilmente punisce quanti se ne allontanano. La gelosia è dunque in Dio quella sua serenissima e sincera giustizia, per la quale l'anima, corrotta dalle false opinioni e dalle perverse cupidigie, è ripudiata, e, quasi adultera, allontanata dal connubio divino.

Tale gelosia divina la sperimentiamo invece come un sentimento soavissimo e dolcissimo, quando l'alta e ineffabile volontà di Dio verso di noi si manifesta da questo stesso zelo per noi. Non v'è fra gli uomini amore più appassionato, unione più intima di quella che vien data dal vincolo coniugale. Orbene, Dio mostra di quale amore ci prediliga, quando, paragonandosi spesso allo sposo e al marito, si dichiara geloso. Il Parroco si fermi perciò a dimostrare come gli uomini debbano essere tanto preoccupati del culto e dell'onore divino, da essere detti anch'essi a buon diritto piuttosto gelosi che amanti, sull'esempio di colui, il quale ha detto di sé: Mi sono mostrato geloso dell'onore del Signore Iddio degli eserciti (1R 19,14). Imitino Cristo stesso che disse: Lo zelo per la tua casa mi divora (Ps 68,10 Jn 2,17).

Deve essere poi spiegata la sentenza di minaccia. Dio non tollera che i peccatori rimangano impuniti, ma li castigherà, come un padre fa con i figli, o li punirà duramente come un giudice severo. Volendo significare ciò, Mosè ha detto: Constaterai che il Signore Iddio tuo è Dio forte e fedele: egli rispetta il patto e usa misericordia a chi lo ama; rispetta i suoi precetti fino alla millesima generazione; ma anche ripaga senza indugio chi lo odia (Dt 7,9). E Giosuè: Non potrete servire il Signore, poiché Dio è santo e forte nel suo zelo; non perdonerà ai vostri scellerati peccati. Se abbandonerete il Signore e servirete a divinità straniere, Egli si rivolgerà contro di voi, tormentandovi e determinando la vostra rovina (Gios. 24,19).

Il Parroco ricordi al popolo che la maledizione divina si propaga fino alla terza e alla quarta generazione degli empi. Non già nel senso che i posteri debbano sempre necessariamente portare la pena delle colpe degli avi, ma nel senso che, se questi e i loro figli non hanno espiato, non tutta la loro posterità riuscirà a evitare l'ira e la pena divina. Va ricordato in proposito l'esempio del re Giosia. Dio gli perdono per la sua singolare pietà, e gli concesse di scendere in pace nel sepolcro dei padri per non assistere alle sciagure dei tempi imminenti, determinate su Giuda e su Gerusalemme dall'empietà di Manasse suo avo. Ma, dopo la sua morte, la vendetta di Dio raggiunse i suoi posteri, non risparmiando neppure i figli di Giosia (2R 32,2-19 2R 33,25-29).

In che modo poi queste parole della legge si possano conciliare con la sentenza del Profeta: L'anima che avrà peccato, perirà (Ez 8,4), lo mostra chiaramente l'autorità di san Gregorio, concorde in questo con tutti gli antichi Padri, dicendo: Chiunque imita l'iniquità di un malvagio genitore, è vincolato pure dalla colpa di lui; ma chi non ne imita la malvagità, non porta il suo carico morale; per questo il figlio cattivo di un cattivo padre non sconta solamente le colpe proprie, ma anche quelle di suo padre, non avendo temuto di accoppiare alla perversione paterna, contro cui sa irato il Signore, anche la propria malvagità.

E' giusto del resto che colui il quale, sotto lo sguardo di un giudice severo, non ha ritegno di battere le vie di un genitore malvagio, sia tenuto nella vita presente a scontare pure le colpe dell'iniquo suo padre (Mor. 15,51). Ricorderà pero il Parroco che la bontà e la misericordia di Dio superano la sua giustizia: rivela la sua ira infatti fino alla terza e alla quarta generazione, ma riversa la sua misericordia fino alla millesima.

L'inciso poi: " Di coloro che mi odiano ", vuole rilevare la gravita del peccato. Che cosa di più orribile e di più nefasto che odiare la Bontà per essenza e la Verità somma? Ciò vale per tutti i peccatori; perché, come chi rispetta i precetti di Dio, ama Dio (Jn 14,21); cosi chi disprezza la legge di Dio e non rispetta i suoi comandamenti, giustamente può dirsi che lo odia.

Infine la frase ultima: " A coloro che mi amano ", insegna il modo e il motivo del rispetto della Legge. E' infatti necessario che coloro i quali osservano la Legge di Dio siano indotti a obbedirgli dal medesimo amore che li spinge verso di lui: cosa che vedremo anche nella trattazione dei singoli comandamenti.
OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
26/08/2010 16:26

PARTE TERZA: I PRECETTI DEL DECALOGO


SECONDO COMANDAMENTO
Non nominare il nome di Dio invano



308. Importanza del secondo comandamento


Nel primo comandamento della Legge divina che comanda di onorare Dio piamente e santamente, è necessariamente incluso questo secondo che segue. Infatti, chi vuole che gli si tributi onore, chiede con questo stesso che si usino a suo riguardo sempre parole rispettose e si evitino le parole dispregiative, come apertamente ricordano le parole di Malachia: Il figlio rispetta il padre, e il servo il suo padrone: se io sono padre, dov'è l'onore che mi si deve? (Ml 1,6). Tuttavia, data l'importanza della cosa, Dio volle separatamente emanare e formulare questa Legge sull'onore dovuto al suo nome santissimo e divino.

Tragga di qui il Parroco la convinzione che non basta parlare di tale argomento in termini generici. Si tratta di un tèma su cui deve fermarsi a lungo, enumerando con ogni cura ai fedeli tutto ciò che vi si riferisce. Non tema mai di eccedere in diligenza, perché non mancano individui cosi accecati nelle tenebre dell'errore da osare di bistrattare, con le parole, Chi è glorificato dagli angeli. Non impressionati dalla Legge una volta emanata, costoro non ristanno dall'offendere senza vergogna ogni giorno, ogni ora anzi, e quasi ogni minuto, la maestà di Dio. Non udiamo tutt'intorno giuramenti sprecati per ogni quisquilia, discorsi tutti infiorati di imprecazioni e scongiuri, fino al punto che nulla si vende, si acquista o si contratta, senza far intervenire la solennità di un giuramento, senza usurpare migliaia di volte il nome santissimo di Dio nelle cose più sciocche e insignificanti? Usi dunque il Parroco tutta la sua diligenza nell'ammonire spesso i fedeli sulla gravita ripugnante di questa colpa.

Spiegando questo comandamento, non si dimentichi che la legge implicitamente accoppia alla proibizione l'imposizione di ciò che gli uomini devono fare. Proibizione e imposizione devono essere spiegate però separatamente. In primo luogo, perché più agevole ne sia l'esposizione, si indichi ciò che la Legge comanda, poi quello che proibisce. Comanda che il nome di Dio sia onorato e con esso non si facciano che giuramenti santi; proibisce poi di offenderlo, di invocarlo stoltamente, di giurare con esso alcunché di falso, di vano, di temerario.

309. Come si onora il nome di Dio


Spiegando ai fedeli la parte in cui si comanda di tributare onore al nome divino, il Parroco ricordi che col nome di Dio non si intendono solamente le lettere, le sillabe, il puro vocabolo; ma si faccia riflettere al suo valore che designa la maestà onnipotente ed eterna del Dio uno e trino. Si capisce quanto stolta fosse la superstizione di alcuni Giudei, i quali scrivevano il nome di Dio, ma non osavano pronunciarlo, quasi che tutto consistesse nelle quattro lettere ebraiche, anziché nella divina realtà. E sebbene sia detto al singolare: Non nominare il nome di Dio, il divieto deve applicarsi non ad un solo nome speciale, ma a tutti quelli che sogliono attribuirsi a Dio. Essi sono parecchi: ad esempio: Signore, Onnipotente, Signore degli eserciti, Re dei re, Forte, e altri simili, contenuti nella Scrittura, i quali tutti esigono uguale venerazione.

Insegnerà poi in quale modo debba prestarsi il debito onore al nome divino, perché il popolo Cristiano, le cui labbra devono sciogliere inni ardenti di lode a Dio, non può ignorare queste cose, utilissime, anzi necessarie alla salvezza. Molteplici sono le forme in cui può esprimersi la lode del nome divino. Ma in quello che siamo per dire sembra compresa l'importanza di tutte le altre.

Lodiamo innanzi tutto il Signore quando, al cospetto di tutti, lo riconosciamo fiduciosi come Dio e Signore nostro, professando insieme e proclamando che Gesù Cristo è l'autore della nostra salvezza. Lo stesso, quando attendiamo amorosamente alla conoscenza della parola, con cui si è espressa la volontà di Dio, meditandola assiduamente, studiandola con cura, leggendo o ascoltando, secondo le capacità e le incombenze di ciascuno di noi.

Parimente veneriamo e celebriamo il nome divino, quando celebriamo, per dovere o per sentimento di pietà, le lodi divine, e a Dio rendiamo grazie per ogni evento, prosperò o avverso che sia. Dice il profeta: Benedici, o anima mia, il Signore e non dimenticare le sue elargizioni (Ps 102,2). Sono parecchi i salmi davidici in cui sono soavissimamente cantate, con senso squisito, le lodi di Dio. Ed è sommamente eloquente il fatto di Giobbe esempio di pazienza, il quale, piombato in disgrazie terribili, non ristette giammai dal lodare Dio con animo invitto. Anche noi dunque, quando siamo afflitti dai dolori dei sensi e dello spirito, o siamo straziati dalla sventura, rivolgiamo le nostre forze alla lode alta di Dio, con la frase di Giobbe: Sia benedetto il nome del Signore (Jb 1,21).

Non si loda meno il Signore, però, invocandone fiduciosamente il soccorso affinché ci liberi dai mali, o almeno ci infonda forza e costanza per tollerarli serenamente. Il Signore stesso vuole che cosi facciamo: Invocami nel di della tribolazione; ti libererò e tu mi renderai onore (Ps 49,15). Implorazioni di questo genere trovano mirabili esempi in copiosi passi biblici e specialmente nei salmi 16, 43 e 118.

Infine noi onoriamo il nome di Dio quando, a garanzia della parola data, lo invochiamo a testimone. Simile maniera di onorarlo differisce notevolmente dalle precedenti. Quelle che abbiamo enunciato, infatti, sono di loro natura cosi commendevoli che nulla v'è per gli uomini di più beatificante e di più desiderabile del trascorrere in esse notte e giorno. David esclama: Canterò le lodi del Signore in ogni istante; la sua lode fiorirà incessantemente sulle mie labbra (Ps 33,2). Invece il giuramento per quanto buono in sé, non può essere lodevolmente usato di frequente. E la ragione della divergenza sta in ciò, che il giuramento fu istituito solo per essere un rimedio alla umana fragilità, quale strumento di prova per quanto asseriamo. Ora, come le medicine corporali vanno usate solo quando è necessario, e l'uso loro frequente rappresenta un pericolo, cosi il giuramento non può essere benefico, se non in caso di grave e seria opportunità. Se troppo spesso è ripetuto, lungi dal giovare, finisce col recare sensibile danno.

Opportunamente insegna san Giovanni Crisostomo che il giuramento entro nelle consuetudini umane molto tardi, quando nel mondo, non più giovane, ma adulto, il male si era propagato per lungo e per largo; tutto era fuori del proprio ordine; tutto era perturbato e sconvolto in una vasta confusione; e, per disgrazia più grande di ogni altra, gli uomini tutti erano caduti in una ripugnante schiavitù dinanzi agli idoli. Allora, poiché nessuno, in mezzo alla iniqua doppiezza universale, poteva credere alla parola altrui, fu giocoforza invocarvi sopra la testimonianza di Dio.

310. Definizione del giuramento


Nell'ambito di questa parte del comandamento, il fine principale è di istruire i fedeli sul modo di usare santamente il giuramento. Il Parroco quindi insegnerà innanzi tutto che giurare è chiamare Dio in testimonio, qualunque sia la formula adoperata per farlo. Dire: Dio mi è testimone, o: Per Iddio, è la stessa cosa. Si ha ancora giuramento quando, per ispirare fiducia, giuriamo nel nome di certe cose create, quali, ad esempio, i Vangeli sacri di Dio, la Croce, le reliquie dei santi, il loro nome e simili. Ma poiché simili cose di suo non sono capaci di conferire autorità e forza a un giuramento - e ciò può farlo solo Dio, la cui divina maestà si riflette in esse - ne segue che chi giura per il Vangelo, giura per Dio stesso, la verità del quale è contenuta e illustrata nei Vangeli. Lo stesso dicasi dei santi, che furono templi di Dio, credettero nella verità evangelica, la rispettarono con ogni ossequio, la propagarono fra i popoli.

Il giuramento è pure implicito in alcune formule di esecrazione, come quella adoperata da san Paolo: Invoco Dio a testimone contro l'anima mia (2Co 1,23). Chi pronunzia la formula del giuramento in questo modo, si sottopone al giudizio di Dio, vendicatore della menzogna. Non neghiamo che alcune di queste formule possono intendersi prive della forza di un giuramento; sarà utile però applicare anche ad esse le regole e le osservazioni formulate per il giuramento propriamente detto.

Vi sono due generi di giuramenti: col primo, detto assertorio, affermiamo con forza religiosa una cosa passata o presente. Cosi dice l'Apostolo nella lettera ai Galati: Dio mi è testimone che io non mentisco (Ga 1,20). Col secondo, detto promissorio, che comprende anche le minacce e riguarda il futuro, promettiamo e assicuriamo una cosa futura. A questa seconda categoria appartiene, per esempio, la promessa solenne fatta da David alla moglie Bersabea, nel nome di Dio, che suo figlio Salomone sarebbe stato l'erede del trono e gli sarebbe succeduto (1R 1,29).

311. Condizioni del giuramento legittimo


All'essenza del giuramento basta il chiamare Dio in testimone; ma perché esso sia giusto e santo si richiedono parecchie altre condizioni che devono spiegarsi con cura. Come attesta san Girolamo, le ha brevemente enunciate Geremia, quando scrisse: Giurerai, viva il Signore, con verità, con ponderazione, e con giustizia (Jr 4,2). Con queste poche parole egli ha riassunto gli elementi del perfetto giuramento: verità, ponderazione del giudizio e giustizia.

Al primo posto nel giuramento deve stare la verità, in quanto l'asserzione giurata deve essere vera e chi la emette la sappia tale, non per una leggera o temeraria congettura, ma in forza di saldissimi argomenti. Anche il giuramento promissorio esige la verità, dovendo, colui che promette, avere il proposito saldo di mantenere a suo tempo la promessa. L'uomo probo non si disporrà mai a promettere cosa contraria ai santissimi precetti di Dio; e quel che avrà promesso di fare con giuramento, giammai lo muterà, a meno che la situazione di fatto non sia cosi sostanzialmente cambiata che mantener la promessa significherebbe incorrere nell'ira di Dio offeso. Anche David mostra quanto la verità sia necessaria nel giuramento, col definire giusto colui che giura in favore del prossimo, e non sa ingannare (Ps 14,4).

Segue il giudizio ponderato: non si deve giurare avventatamente, ma a ragion veduta. Chi vuoi giurare, rifletta anzi tutto se ce n'è la necessità, e consideri la situazione in tutti i suoi aspetti, per accertarsi che veramente esige il giuramento. Tenga conto del tempo, del luogo e di tutte le altre circostanze. Non si faccia trascinare da odio, da amore o da qualsiasi altro perturbamento spirituale, ma solo dalla necessità delle cose. Se simile accurata indagine non sarà stata premessa, il giuramento sarà senza dubbio temerario, com'è quello di coloro che per le cose più futili, senza alcun serio motivo, quasi per una pessima consuetudine contratta, giurano ad ogni istante. Cosi fanno ogni giorno venditori e compratori; quelli per vendere a più alto prezzo, questi per comprare a più basso: gli uni e gli altri esaltano o deprezzano, giurando, la mercanzia. E poiché i giovanetti mancano a causa dell'età di quell'acume che è necessario alla ponderazione richiesta dal giuramento, papa san Cornelio stabili che non si chieda mai il giuramento a ragazzi di età inferiore ai quattordici anni, epoca della pubertà.

Infine la giustizia: questa è necessaria soprattutto nei giuramenti promissori; perciò chi promette il disonesto e l'ingiusto pecca giurando, e accumula peccato su peccato, se mantiene la promessa. Abbiamo di ciò un esempio nel Vangelo, dove si narra del re Erode che, vincolato da una perfida promessa, dono in premio alla ballerina la testa di san Giovanni Battista (Mc 6,23). E può ricordarsi anche il giuramento degli Ebrei, che, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, giurarono di non mangiare finché non avessero ucciso san Paolo (Ac 23,12).

Chi rispetti tutte queste clausole e circondi il giuramento con queste condizioni, come altrettanti presidi, potrà con tranquilla coscienza giurare, come si può mostrare con molti argomenti. L'immacolata e santa Legge di Dio non comanda forse: Temerai il Signore Dio tuo; a lui solo servirai; nel suo nome giurerai? (Dt 6,10-13). E David ha lasciato scritto: Saranno lodati tutti coloro che giureranno nel suo nome (Ps 42,12). Del resto la Scrittura mostra come gli stessi luminari della Chiesa, i santissimi Apostoli, ricorsero al giuramento, come risulta pure dalle lettere di san Paolo. Si aggiunga che gli stessi angeli giurano talora, poiché è detto nell'Apocalisse di san Giovanni evangelista che un Angelo giuro nel nome di Colui che vive nei secoli (10,3). Anzi giura Dio stesso, signore degli Angeli. Leggiamo infatti nel vecchio Testamento che Dio ripetute volte corrobora con giuramento le sue promesse ad Abramo (Gn 22,16 Ex 33,1) e a David, il quale esclama a proposito del giuramento di Dio: Ha giurato il Signore, e non se ne pentirà: tu sei sacerdote in eterno, secondo l'ordine di Melchisedec (Ps 109,4).

La ragione stessa spiega agevolmente come il giuramento sia lodevole se ne indaghiamo attentamente l'origine e la finalità. Il giuramento infatti nasce dalla fede che gli uomini hanno in Dio, autore di tutta la verità, incapace cosi di ingannarsi come di ingannare, agli occhi del quale tutto appare senza veli (He 4,13), che provvede con meravigliosa provvidenza e regge l'universo. Vivendo in tale fede, gli uomini invocano Dio a testimone della verità, perché è cosa empia non credere a lui. Il giuramento infine tende unicamente a comprovare la giustizia e l'innocenza umana, a chiudere le liti e le controversie, come insegna l'Apostolo nella sua lettera agli Ebrei (He 6,16).

A tale dottrina non possono contrapporsi le parole del Salvatore in san Matteo: Udiste che fu detto agli antichi: Non spergiurare; ma adempi i tuoi giuramenti al Signore. Io però vi dico di non giurare in modo alcuno, né per il cielo che è trono di Dio; né per la terra, che è sgabello dei suoi piedi; né per Gerusalemme, che è la città del gran Re. Non giurare per la tua testa, perché non puoi far bianco o nero un solo capello. Ma sia il vostro parlare: Si, si; No, no: il di più viene dal maligno (Mt 5,33).

Non può infatti scorgersi in queste parole una proibizione formale e generale del giuramento, dal momento che abbiamo visto sopra come lo stesso Signore e gli Apostoli hanno giurato più volte. Dobbiamo pensare piuttosto che Gesù Cristo volle biasimare la distorta opinione dei Giudei, che nel giuramento fosse da evitarsi soltanto la menzogna, finendo col giurare e col chiedere l'altrui giuramento ogni momento, per le cose più insignificanti. Il Salvatore deplora questo pessimo costume e impone di astenersi dal giurare, finché non lo richieda una necessità.

In realtà il giuramento è nato dalla fragilità umana e dal male; esso sta a indicare l'incostanza di chi giura o la diffidenza di colui per cui giuriamo, deciso a non credere in altra maniera. Però anche il bisogno può essere sufficiente motivo di scusa. La frase del Salvatore: Sia il vostro parlare: Si, si; No, no, mostra senza dubbio che il giuramento è da lui vietato nelle conversazioni familiari, e che non dobbiamo essere inclinati ad emetterlo ogni momento.

Intorno a ciò dovranno essere caldamente ammoniti i fedeli, poiché, come mostrano le Scritture e gli insegnamenti dei Padri, mali pressoché infiniti sgorgano dalla eccessiva facilità a giurare. E scritto nell'Ecclesiastico: Il tuo labbro non contragga l'abitudine del giurare: essa porta molti al precipizio. E poco dopo: L'uomo che giura molto, si riempirà di cattiveria e i malanni assedieranno la sua casa (Si 33,9-12). Molte belle considerazioni in materia si trovano nelle opere di san Basilio e di sant'Agostino contro la menzogna.

Fin qui abbiamo parlato di quel che è comandato; parliamo ora di quel che è vietato dal secondo comandamento.

312. Come si pecca contro questo comandamento


Ci viene proibito di invocare invano il nome di Dio. E quindi chiaro che pecca gravemente chi formula giuramenti senza motivo, ma temerariamente. La gravita della colpa traspare dalle stesse parole: Non invocherai invano il nome del tuo Dio, quasi volesse cosi addurre la ragione per cui simile colpa è tanto grave e riprovevole, in quanto lede la maestà di Colui che noi riconosciamo come nostro Dio e Signore.

E cosi vietato innanzi tutto di giurare il falso. Chi non rifugge dal peccato di porre sotto la garanzia di Dio il falso, fa gravissima ingiuria a Dio, attribuendogli o l'ignoranza, per cui suppone che non conosca una determinata verità, o una certa deformità di affetti, per cui lo suppone disposto a corroborare col proprio nome la menzogna. Né giura falsamente solo colui che con giuramento afferma per vero quanto sa che è falso, ma anche chi giurando sostiene una cosa che, vera in sé, è però da lui reputata falsa. Menzogna infatti è asserzione difforme dall'intimo convincimento; perciò anche costui mentisce ed è spergiuro.

Parimenti è spergiuro chi afferma con giuramento una cosa che ritiene vera, ed è falsa, sempre nel caso che non abbia adottato tutte le precauzioni per formarsi un concetto chiaro e sicuro della medesima; in tal caso, sebbene fra parola e pensiero vi sia corrispondenza, costui contravviene al precetto. E vi contravviene pure chi promette con giuramento di far qualcosa, e poi, o si propone di non farla, o effettivamente non la fa. Tale valutazione si applica anche a coloro che fecero a Dio un voto e non mantengono.

Si manca al precetto anche quando manchi la giustizia, uno dei tre coefficienti del giuramento legittimo. Chi giuri di commettere un peccato mortale, un omicidio, ad esempio, pecca contro il comandamento, per quanto parli seriamente e sinceramente, e il suo giuramento abbia quella nota di verità, che già indicammo come indispensabile.

Vanno segnalati anche quei tipi di giuramento, che nascono da un sentimento di dispregio, come nel caso di chi giuri di non voler obbedire ai consigli evangelici, che esortano al celibato e alla povertà. Sebbene nessuno sia obbligato ad osservarli, chi però giuri con solennità di non volerli seguire, mostra di disprezzare e calpestare i consigli divini.

Inoltre viola questo precetto e pecca consapevolmente colui che giura il vero, sapendolo tale solo in base a fragili e remote congetture. Infatti, sebbene la verità accompagni simile giuramento, esso in qualche modo implica 11falso, in quanto il giurare cosi negligentemente espone al più grande pericolo di spergiuro. Infine giura abusiva mente chi giura per gli dèi falsi e bugiardi. Qual cosa più difforme dalla verità che l'invocare a testimoni divinità menzognere e illusione, al posto del vero Dio?

Vietando lo spergiuro, la Scrittura dice: Non contaminerai il nome del tuo Dio (Lv XIX,22). E proibita dunque ogni disistima di tutto ciò a cui, in virtù di questo comandamento, dobbiamo ossequio; e fra l'altro, della parola di Dio, veneranda agli occhi non solo delle persone pie, ma anche delle empie, come mostra nel Libro dei Giudici il racconto che riguarda Eglon re dei Moabiti (3,20). Orbene, gravissima ingiuria si arreca alla parola di Dio torcendo la Scrittura dal suo retto significato all'asserzione di dottrine eretiche ed empie. Ci ammonisce in proposito il Principe degli apostoli: Vi sono nelle Scritture frasi ardue che gli ignoranti e i superficiali fraintendono a loro dannazione (2 Pietr. 3,16). Parimente la Sacra Scrittura è contaminata quando le sue venerabili sentenze, da uomini sconsigliati, sono tratte a significati profani, sconvenienti, favolosi, sciocchi, magici, calunniosi e simili. Il sacro Concilio Tridentino vuole che si avverta che ciò non si può fare senza peccato.

Infine, come onorano Dio coloro che ne implorano il soccorso nelle calamità, cosi gli negano il dovuto onore coloro che non ne invocano l'aiuto. David li redarguisce: Non invocarono il Signore, e tremarono di paura quando non v'era ragione di temere (Ps 13,5).

Ma di ben più detestabile scelleratezza si rendono rei coloro che osano, con labbra vergognosamente impure, bestemmiare e maledire il nome santo di Dio, che tutte le creature dovrebbero magnificare e benedire; oppure il nome dei santi che regnano con Dio. Questo peccato è cosi mostruoso che la Scrittura talora, dovendo parlare della bestemmia, preferisce parlare di benedizione (1R 21,13).

313. Pene per i trasgressori del precetto


Poiché l'orrore per la punizione e il supplizio suole efficacemente comprimere l'inclinazione a peccare, il Parroco che vuole eccitare più vivamente l'animo dei fedeli e stimolarlo al rispetto del comandamento, ne spiegherà convenientemente la seconda parte o appendice:Il Signore non riterrà innocente colui, che abbia invocato vanamente il nome del Signore stesso, suo Dio (Ex 20,7). Insegni innanzi tutto che ragionevolmente sono state unite al precetto le minacce che lumeggiano la gravita della colpa e la misericordia divina verso di noi. Egli non si compiace della dannazione degli uomini e per indurci a evitare la sua ira punitrice, ci atterrisce con salutari minacce, affinché preferiamo sperimentarlo benevolo, anziché irato. Insista dunque il Pastore su questo punto con ogni cura; faccia conoscere al popolo l'orrore della colpa, ne insinui più veemente abominazione, affinché i fedeli siano più diligenti nell'evitarla.

Voglia inoltre mostrare come sia sviluppata nell'uomo la tendenza a commetterla, non essendo stato sufficiente promulgare la legge, poiché fu necessario aggiungerle delle minacce. Non si può immaginare quanto tale considerazione sia proficua. Come nulla è più pernicioso della spavalda sicurezza d'animo, cosi nulla è più giovevole della consapevolezza della propria nullità. Infine, spieghi come Dio non abbia stabilito alcun determinato supplizio, ma semplicemente dichiarato che chiunque si macchia di questo delitto, non sfuggirà alla vendetta. Per cui devono esserci di monito le nostre pene quotidiane, potendosi plausibilmente congetturare che gli uomini sono colpiti da sventure perché non obbediscono a questo precetto. Ed è probabile che riflettendo a ciò, se ne guarderanno più premurosamente per l'avvenire. In conclusione, ripieni di santo timore, i fedeli fuggano con ogni studio questo peccato. Se nel di del giudizio ci sarà chiesto conto di ogni parola oziosa (Mt 13,36), che cosa dire dei peccati più gravi, che implicano una diretta offesa al nome divino?
OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
26/08/2010 16:27

PARTE TERZA: I PRECETTI DEL DECALOGO


TERZO COMANDAMENTO
Ricordati di santificare le feste.





314. Oggetto del comandamento

Lavorerai per sei giorni, compiendo tutti i tuoi doveri. Ma il settimo giorno è del Signore Dio tuo; in quello, nulla farete tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo servo e la tua serva, il tuo giumento, l'ospite che dimora in casa tua; infatti in sei giorni il Signore fece il cielo, la terra e tutto ciò che è in essi; e nel settimo giorno si riposo. Per questo il Signore benedisse il sabato e lo santificò.


Con questo comando della Legge è giustamente e ordinatamente prescritto quel culto esterno che dobbiamo a Dio. Si tratta in fondo di un corollario del precedente comandamento. Non possiamo infatti astenerci dal prestare culto esterno e dall'offrire il nostro ringraziamento a Colui che veneriamo nell'anima, ed in cui riponiamo la nostra fiducia e speranza. E poiché le cure umane non permettono agevolmente agli uomini di assolvere simile compito, è stato fissato un tempo in cui possano farlo comodamente.

Trattandosi di comandamento che arreca mirabili frutti, preme che il Parroco ponga ogni studio nel commentarlo. La prima parola della formula: Ricordati, infiammerà già di per sé il suo zelo. Se i fedeli devono ricordare il precetto, spetta al Pastore inculcarlo senza tregua nei loro cuori. Quanto poi convenga ai fedeli rispettarlo, trasparisce dal fatto che, ciò facendo, saranno portati a rispettare più facilmente i rimanenti obblighi della legge. Infatti, fra le altre azioni da compiere nei giorni festivi, v'è quella di recarsi in chiesa ad ascoltare la parola di Dio. Una volta istruiti nelle divine prescrizioni, i fedeli custodiranno con tutto il cuore la Legge del Signore.

Per questo il rispetto del Sabato e il culto divino sono raccomandati spessissimo nella Scrittura, nell'Esodo ad esempio, nel Levitico, nel Deuteronomio, in Isaia, in Geremia, in Ezechiele; dovunque si riscontrano passi che inculcano il rispetto del giorno festivo. Speciali esortazioni vanno rivolte a chi governa e ai magistrati, affinché per quanto riguarda il mantenimento e l'incremento del culto divino, pongano il loro potere a disposizione dei reggitori ecclesiastici e ordinino al popolo di sottostare alle prescrizioni sacerdotali.

Nella spiegazione del comandamento si deve aver cura che i fedeli sappiano in che cosa esso coincide con gli altri, e in che cosa ne differisce; cosi comprenderanno perché noi rispettiamo e riteniamo per giorno sacro non più il Sabato ma la Domenica.

Una differenza intanto è questa: gli altri comandamenti del Decalogo sono naturali e perpetui, né possono in nessun modo essere cambiati; sicché, per quanto la Legge di Mosè sia stata abrogata, il popolo Cristiano rispetta sempre i comandamenti contenuti nelle due tavole, non in virtù della prescrizione mosaica, ma perché si tratta di precetti rispondenti alla natura, la cui forza stessa ne impone agli uomini il rispetto. Questo precetto invece del culto del Sabato, per quanto riguarda il giorno prescelto, non è circoscritto e fisso, ma mutabile; non si riferisce ai costumi, ma ai riti; non è naturale, non avendoci istituito o comandato la natura di prendere un dato giorno, anziché un altro, per dare a Dio culto esterno. Ma solamente dal tempo in cui il popolo d'Israele fu liberato dalla servitù del Faraone, esso rispetto il Sabato.

Ma al momento in cui tutti i riti ebraici e le cerimonie dovevano decadere, alla morte cioè di Cristo, anche il Sabato doveva essere cambiato. Infatti essendo tali cerimonie pallide immagini della luce, necessariamente sarebbero state rimosse all'avvento della luce e della verità, che è Cristo Signore. Scriveva in proposito san Paolo ai Galati, rimproverando i cultori del rito mosaico: Voi osservate i giorni, i mesi, le stagioni, gli anni: temo per voi che cioè io per voi abbia lavorato invano (4,10). Nel medesimo senso si esprimeva con i Colossesi (2,16). E questo valga per le differenze.

Coincide invece con gli altri precetti non già nel rito e nelle cerimonie, ma in quanto implica qualcosa che rientra nella Morale e nel diritto naturale. Il culto e l'ossequio religioso a Dio, formulati in questo comandamento, sgorgano infatti dal diritto di natura, essendo proprio la natura che ci spinge a consacrare qualche ora al culto di Dio. Non constatiamo infatti che tutti i popoli consacrano alcuni giorni alla pubblica celebrazione di sacre cerimonie? L'uomo è tratto da natura a dedicare un tempo determinato ad alcune funzioni elementari, quali il riposo del corpo, il sonno, e simili. Per la stessa forza naturale è spinto a concedere, oltre che al corpo, un po' di tempo allo spirito, affinché si rinfranchi nel pensiero di Dio. Che in una parte del tempo si venerino le cose divine e si tributi a Dio il dovuto onore, rientra quindi nell'insieme dei precetti riguardanti i costumi. Perciò gli Apostoli stabilirono che fra i sette giorni, il primo fosse consacrato al culto divino, e lo chiamarono giorno del Signore.

Anche san Giovanni nell'Apocalisse ricorda il giorno del Signore (I,10). E l'Apostolo comanda che si facciano collette ogni primo giorno della settimana (1Co 16,2), che è la Domenica, secondo la spiegazione del Crisostomo. Evidentemente fin da allora il giorno domenicale era sacro.

315. Molteplici parti del comandamento


Affinché i fedeli sappiano come debbono comportarsi in quel giorno e da quali azioni si debbano astenere, non sarà male che il Parroco spieghi minutamente il precetto, che può dividersi praticamente in quattro parti.

Innanzi tutto indicherà genericamente quel che prescrivono le parole: Ricordati di santificare il Sabato. Opportunamente al primo posto è stato collocata l'espressione Ricordati, poiché il culto di questo giorno appartiene alla legge cerimoniale. Sembro saggio ammonire formalmente in proposito il popolo, dal momento che la legge naturale, pur insegnando che in un dato tempo qualsiasi si doveva venerare Dio con culto religioso, non prescriveva in quale giorno di preferenza si dovesse fare.

In secondo luogo il Parroco mostri ai fedeli come la formula suggerisca il modo ragionevole con cui dobbiamo lavorare durante la settimana, in maniera cioè da non perdere mai di vista il giorno festivo. In questo, dobbiamo quasi render conto a Dio delle nostre azioni e delle nostre opere; è necessario quindi che compiamo sempre azioni tali da non meritare la condanna di Dio, e da non lasciare nei nostri spiriti, secondo il motto biblico, tracce di singhiozzi e di rimpianti (1S 25,31).

Infine la formula ci insegna, e dobbiamo ben rifletterci, che non mancheranno le occasioni per dimenticare il precetto, trascinati dall'esempio di coloro che lo trascurano, assorbiti dagli spettacoli e dai giuochi che allontanano troppo spesso dal pio e religioso rispetto del santo giorno.

Ma veniamo ormai a parlare del significato del Sabato. Sabato, vocabolo ebraico, vuoi dire cessazione; quindi sabatizzare vale cessare e riposarsi. Il settimo giorno ricevette il nome di Sabato, appunto perché, compiuto l'universo cosmico, Dio ristette dall'opera già compiuta (Gn 2,3). Cosi il Signore chiama questo giorno nell'Esodo (20,8). Più tardi tale nome fu conferito, non più soltanto al settimo giorno, ma, a causa della sua dignità, a tutta la settimana. Per questo il fariseo dice nel Vangelo di san Luca: Digiuno due volte nel Sabato (Lc 18,12). Questo per quanto riguarda il significato del Sabato.

La santificazione del Sabato, secondo le indicazioni bibliche, consiste nell'astensione da tutti i lavori e affari materiali, come indicano apertamente le parole seguenti del precetto: Non lavorerai. Ma non è qui tutto; perché in tale ipotesi sarebbe stato sufficiente dire nel Deuteronomio: Osserva il Sabato (5,12), mentre invece vi si aggiunge: Per santificarlo. Dunque il giorno del Sabato è un giorno religioso, che va consacrato ad azioni divine o a occupazioni sacre. Sicché lo rispetteremo integralmente se adempiremo gli atti di religione verso Dio. E questo è propriamente il Sabato, che Isaia chiama delizioso (LV3,13), poiché i giorni festivi sono come le delizie del Signore e degli uomini pii. Che se al rispetto religioso cosi intero e santo del Sabato aggiungeremo le opere di misericordia, allora, secondo la promessa del medesimo profeta (LV3,6), ci meriteremo premi inestimabili.

Dunque il pieno valore del comandamento esige che l'uomo ponga tutte le sue energie perché nei giorni fissati, lontano dagli affari e dal lavoro materiale, possa attendere al pio culto del Signore.

316. Misteri del giorno consacrato al Signore


Nella seconda parte del comandamento è detto che, per ordine divino, il settimo giorno è consacrato al culto di Dio. Sta scritto infatti: Lavorerai per sei giorni e farai tutto quello che devi. Ma il settimo giorno è il Sabato del Signore Dio tuo. Tali parole vogliono significare che il Sabato deve essere consacrato al Signore con opere di religione, e che questo settimo giorno simboleggia il riposo del Signore. Fu consacrato a Dio, perché non sarebbe stato bene rilasciare all'arbitrio del popolo rozzo scegliersi la giornata, col pericolo di seguire le consuetudini sacre degli Egiziani.

Fra i sette giorni, fu prescelto l'ultimo per il culto del Signore: e la cosa è piena di mistero; perciò Dio nell'Esodo (Ex 31,13) e in Ezechiele (20,2) chiama il Sabato un segno: Badate a rispettare il mio Sabato, perché è un segno pattuito fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché sappiate che io sono il Signore che vi santifica. Vale a dire: esso fu il segno che indicava agli uomini la necessità di dedicarsi a Dio, di mostrarsi santi ai suoi occhi, osservando come a lui era consacrata anche una giornata speciale. Infatti è santo il giorno in cui gli uomini devono in maniera particolare coltivare la santità e la religione. Inoltre il Sabato è come un segno e un ricordo commemorativo dell'avvenuta formazione di questo mirabile universo. Di più, fu un segno tramandato alla memoria degli Israeliti perché fossero indotti a ricordare costantemente che l'aiuto di Dio li aveva affrancati dal durissimo giogo del dominio egiziano. Dice infatti il Signore: Ricordati di essere stato schiavo in Egitto e che ti libero di là il Signore Dio tuo con la forza della sua mano e l'intervento del suo braccio. Per questo ti impose di rispettare il Sabato (Dt 5,15).

Infine è il simbolo del Sabato spirituale e di quello celeste. Il Sabato spirituale consiste in un santo e mistico riposo; e si celebra quando, sepolto in Cristo l'uomo vecchio (Rm 6,4), si rinasce a vita nuova e si compiono fervidamente azioni confacenti alla pietà cristiana. Allora, coloro che erano una volta tenebre e ora invece sono luce nel Signore, procederanno sui sentieri della bontà, della giustizia, della verità, come figli della luce, astenendosi dal partecipare alle insane opere delle tenebre (Ep 5,8).

Il Sabato celeste poi, secondo il commento di san Cirillo al passo apostolico: E lasciato un altro sabato al popolo di Dio (He 4,9), consiste in quella vita, nella quale, vivendo con Cristo, godremo di tutti i beni, essendo estirpata ormai ogni radice di peccato, secondo il detto: Non vi saranno leoni, non vi passeranno belve; ma ivi si aprirà una strada pura e santa (Is 25,9). In realtà lo spirito dei santi consegue nella visione di Dio tutti i beni. Si esortino dunque i fedeli e si stimolino con le parole: Affrettiamoci a entrare in quel supremo riposo (He 4,11).

Il popolo Giudaico rispettava, oltre il settimo giorno, anche altri giorni festivi stabiliti dalla Legge, affinché fosse sempre viva la memoria degli insigni benefici ricevuti.

La Chiesa di Dio trasporto la ricorrenza festiva del Sabato alla Domenica; perché in questo giorno, per la prima volta, brillo la luce sul mondo, e in esso, in virtù della risurrezione del Redentore che apri l'adito alla vita eterna, la nostra vita, affrancata dalle tenebre, fu ricondotta nelle regioni della luce. Perciò gli Apostoli lo chiamarono giorno del Signore. Già nella Bibbia tale giorno appare solenne, come quello in cui ebbe principio la creazione del mondo, e in cui lo Spirito santo fu infuso negli Apostoli.

Agli inizi della Chiesa e nei tempi susseguenti, gli Apostoli e i nostri santi Padri istituirono altri giorni festivi, affinché alimentassimo sempre la memoria santa dei divini benefici. Fra gli altri sono ritenuti più solenni i giorni che commemorano i misteri della nostra Redenzione; poi quelli consacrati alla santissima Vergine e Madre; infine quelli dedicati agli apostoli, ai martiri, ai santi che regnano con Cristo. Nella vittoria di questi santi rifulge ed è esaltata la potente benevolenza di Dio; ad essi vien tributato onore, anche perché il popolo sia stimolato ad imitarne le virtù.

Al rispetto del comandamento induce pure efficacemente la parte della formula che dice: Lavorerai per sei giorni; il settimo giorno è il Sabato del Signore. Il Parroco perciò deve copiosamente spiegarla. Da quelle parole è lecito desumere che i fedeli devono essere esortati a non trascorrere la loro esistenza nell'ozio; ma al contrario, memori della raccomandazione apostolica, ciascuno compia il suo lavoro con le proprie mani (1Th 4,11 Ep 4,28). Con tale precetto, inoltre il Signore comanda di non rimandare alla domenica nulla di ciò che dobbiamo compiere negli altri giorni, perché lo spirito non sia allontanato nel giorno festivo dalle occupazioni sante.

317. Quale lavoro è vietato nei giorni festivi


Il Parroco illustrerà poi la terza parte del comandamento, che spiega in qualche modo come si debba rispettare il Sabato, e da quali opere ci dobbiamo astenere. Dice il Signore: In quel giorno non farete nulla: né tu, né tuo figlio, né tua figlia, il tuo servo o la tua serva, il tuo giumento e il tuo ospite che è in casa tua. Con queste parole siamo avvertiti di evitare assolutamente quanto può ostacolare l'esercizio del culto divino. Si intuisce infatti che è vietato ogni genere di lavoro servile, non davvero perché questo sia di natura sua disonorevole e malvagio, ma solo perché ci allontana da quel culto divino che rappresenta lo scopo del precetto. A quanta maggior ragione i fedeli dovranno evitare in quel giorno i peccati, che non solamente distraggono lo spirito dall'esercizio delle cose divine, ma ci separano radicalmente dall'amore di Dio!

Non sono però vietate le azioni che appartengono al culto divino, anche se siano servili; quali apparecchiare l'altare, adornare il tempio per il di festivo, e simili. Perciò il Signore ha detto che i sacerdoti possono nel tempio violare il Sabato ed essere senza colpa (Mt 12,5). Neppure si devono ritenere vietate dalla legge quelle azioni la cui sospensione nel giorno festivo può determinare gravi danni. Anche i sacri Canoni lo permettono. Il Signore nel Vangelo dichiaro che molte altre azioni possono compiersi nei giorni di festa, e il Parroco ne troverà agevolmente l'indicazione in san Matteo e in san Giovanni.

Ad ogni modo, perché nulla fosse omesso di tutto ciò che può impedire il rispetto del Sabato, fu menzionato persino il giumento. Anche da questi animali sono impediti gli uomini dall'attendere alla celebrazione del Sabato, poiché se in questo giorno si fa lavorare la bestia da soma, lavorerà anche l'uomo che deve guidarla. Essa non può da sola compiere un lavoro; soltanto aiuta l'uomo nel suo intento. E poiché di festa nessun lavoro è consentito, neppure alla bestia è lecito lavorare, essendo essa cooperatrice docile dell'uomo. Di modo che la legge finisce con l'avere pure un'altra portata; poiché se Dio vuole che l'uomo risparmi gli animali nel lavoro, tanto più vuole che si astenga dall'essere disumano con coloro che hanno posto la loro capacità a suo servizio.

Il Parroco infine non dimentichi di insegnare con cura in quali opere debbano invece trascorrere i cristiani i giorni festivi. Andranno in chiesa per assistere con devota attenzione al sacrificio della santa Messa, partecipare di frequente ai divini sacramenti della Chiesa, istituiti per la nostra salute e per la cura delle nostre ferite spirituali. Nulla può fare di meglio il cristiano che confessare spesso i suoi peccati ai sacerdoti. A tal fine il Parroco esorterà di frequente il popolo, traendo copia di argomenti da quanto è stato detto e stabilito a proposito del sacramento della Penitenza. Né si limiterà a stimolare il popolo ad accostarsi a questo sacramento, ma assiduamente lo spingerà ad avvicinarsi spesso al santo sacramento della Eucaristia.

I fedeli inoltre devono ascoltare con religiosa attenzione la predica. Che cosa di più intollerabile e di più indegno che il disprezzo, o l'indifferenza verso la parola di Gesù Cristo? Infine i fedeli devono esercitarsi nelle preci e nelle lodi divine, ponendo tutte le loro cure nell'apprendere le regole della vita cristiana. Metteranno in pratica premurosamente quei doveri che rientrano nella sfera della pietà, quali l'elemosina ai poveri e ai bisognosi, la visita agli infermi, la consolazione e il conforto agli addolorati. Come dice san Giacomo: La religione pura e immacolata agli occhi di Dio Padre sta qui: visitare gli orfani, e confortare le vedove nei loro affanni (I,27).

Da quanto abbiamo detto sarà facile desumere quali siano le trasgressioni che si commettono contro questo comandamento.

318. Ragioni del comandamento


Il Parroco abbia sempre presenti passi autorevoli, da cui attingere argomenti capaci di indurre il popolo ad obbedire scrupolosamente al precetto. Il mezzo più efficace però è che il gregge dei fedeli comprenda bene la giustizia e la ragionevolezza dell'obbligo di dedicare alcuni giorni all'esclusivo culto di Dio, al riconoscimento ed alla religiosa venerazione di nostro Signore, da cui ricevemmo incommensurabili e innumerevoli benefici. Se pure ci avesse comandato di compiere ogni giorno atti di culto religioso verso di lui, non dovremmo alacremente obbedire al suo cenno, in virtù dei suoi infiniti benefici? Invece ha voluto pochi giorni per sé. Potremo dunque essere negligenti nell'assolvere si modesto compito, al quale non possiamo sottrarci senza gravissima colpa?

Mostri poi il Parroco l'intimo valore del comandamento: chi l'osserva coscienziosamente non sembra costituito al cospetto di Dio, in colloquio con lui? In realtà rivolgendo preghiere a Dio ne contempliamo la maestà, parliamo con lui; ascoltando i predicatori, udiamo la voce di Dio, che arriva per loro mezzo alle nostre orecchie, quando trattano piamente delle cose divine; nel sacrificio dell'altare poi adoriamo presente nostro Signore Gesù Cristo.

Di tutti questi beni godono coloro che ubbidiscono al comandamento. Mentre chi lo trascura, è ribelle a Dio e alla Chiesa, sordo al divino comando, realmente nemico di Dio e delle sue sante leggi. Basta riflettere al fatto che tale divino comandamento può essere rispettato senza alcun sacrificio. Dio non ha imposto ardue fatiche da affrontarsi in suo onore: ha voluto semplicemente che trascorressimo i suoi giorni festivi liberi da cure terrene.

Non è dunque indizio di sfrontata temerità il rifiuto di obbedienza? Ricordiamo i terrificanti supplizi a cui Dio sottopose i violatori del comando, quali sono narrati nel libro dei Numeri (15,32). Per non incappare in questa grave offesa di Dio, sarà bene ripetere mentalmente e molto spesso il monito: ricordati; e tenere costantemente dinanzi agli occhi gli insigni vantaggi, che abbiamo mostrato scaturire dal rispetto dei giorni festivi, e tutte quelle argomentazioni, che il pastore zelante saprà ad ogni occasione prospettare e illustrare.
OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
26/08/2010 16:27

PARTE TERZA: I PRECETTI DEL DECALOGO


QUARTO COMANDAMENTO
Onora il padre e la madre,
e vivrai a lungo sulla terra che il Signore Dio tuo ti donerà




319. Natura ed estensione del comandamento


Sebbene dal punto di vista della dignità e della nobiltà del loro oggetto i precedenti comandamenti siano superiori, quelli che ora incontriamo sono cosi necessari da meritare giustamente di essere trattati subito dopo. Se i primi mirano direttamente al nostro ultimo fine che è Dio, gli altri ci formano all'amore del prossimo, e, sebbene con giro più ampio, ci riconducono anch'essi a Dio, per amore del quale circondiamo di carità il nostro prossimo. Per questo Gesù Cristo definì simili i due precetti dell'amore di Dio e del prossimo (Mt 22,39 Mc 12,31).

E arduo esprimere a parole le ripercussioni benefiche di questa carità del prossimo, che produce frutti abbondanti e squisiti, oltre ad essere segno della pronta obbedienza al primo fondamentale precetto. Dice san Giovanni: Chi non ama il proprio fratello che egli vede sensibilmente, come potrà amare Dio che non vede (1Jn 4 1Jn 20)? Analogamente, se non rispettiamo e non amiamo i genitori, cui dobbiamo secondo Dio tanto ossequio, e ci sono sempre al fianco, quale tributo di onore saremo mai capaci di sciogliere a Dio, sommo e ottimo padre, che sfugge a ogni sensibile percezione? Si capisce dunque la stretta affinità dei due precetti.

L'ambito di questo comandamento è vastissimo. Oltre a coloro che ci generarono, sono parecchi coloro che dobbiamo rispettare come i genitori, a causa della loro autorità, della loro dignità, per i vantaggi che ci arrecano, o l'eminente officio che occupano. Il precetto inoltre facilita il compito dei genitori e, in genere, di tutti i superiori, chiamati a far si che quanti vivono sotto il loro potere si uniformino alla Legge divina. Tutti costoro troveranno la loro missione più agevole, se sarà universalmente e praticamente compreso che, per volere di Dio, si deve tributare il più profondo rispetto ai propri genitori. E, per ottenere tale intento, è necessario conoscere la differenza che sussiste fra i precetti della prima e quelli della seconda tavola.

320. Differenza dei tre primi precetti dagli altri


Perciò il Parroco spieghi al popolo queste verità, ricordando anzi tutto che i precetti del Decalogo furono incisi su due tavole. Nella prima, come apprendiamo dai Santi Padri, erano contenuti i tre già esposti; gli altri erano scolpiti nella seconda tavola. Tale distribuzione ci fu opportunamente proposta affinché l'ordine stesso materiale servisse a distinguere la natura dei precetti. Tutto ciò infatti che nella sacra Scrittura è comandato o vietato da una legge divina, rientra in uno dei due generi di azioni: secondo che vi è incluso l'amore verso Dio o l'amore verso il prossimo. I primi tre comandamenti suesposti inculcano l'amore verso Dio; gli altri sette abbracciano i rapporti sociali fra gli uomini.

Si capisce quindi perfettamente la ragione per cui viene fatta la distinzione, e cosi alcuni comandamenti sono riportati alla prima tavola, gli altri alla seconda. L'argomento soggiacente ai tre primi precetti, di cui abbiamo già parlato, è Dio, vale a dire il sommo bene: per gli altri è il bene del prossimo. Quelli mirano al supremo amore, questi a un amore più vicino; quelli riguardano il fine ultimo, questi i mezzi per raggiungerlo.

Inoltre l'amore di Dio poggia su Dio stesso; Dio infatti deve essere amato in grado sommo, per se stesso, non già a causa di altri. Invece l'amore del prossimo scaturisce dall'amore di Dio, e ad esso va rapportato come ad una regola fissa. Amiamo infatti i genitori, obbediamo ai padroni, rispettiamo i superiori, specialmente perché Dio li creo e volle che fossero costituiti in autorità, perché colla loro opera egli regge e tutela l'umana collettività. Dio impone di prestare ossequio a tali persone; e noi lo prestiamo perché esse ricevono da Dio l'investitura della loro dignità: sicché la deferenza verso i genitori, deve rivolgersi più a Dio che agli uomini.

A proposito della riverenza dovuta ai superiori, in san Matteo si legge: Chi accoglie voi, accoglie me (Mt 10,40). E l'Apostolo nella lettera agli Efesini istruendo i servi ammonisce: O servi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne, temendo e tremando, nella semplicità del vostro cuore, come obbedireste a Gesù Cristo, non adempiendo il vostro dovere per essere visti e bramosi di piacere agli uomini, ma come servi di Gesù Cristo (Ep 6,5).

Occorre inoltre riflettere che non c'è onore, venerazione, o culto prestato a Dio, che possano dirsi degni, potendo l'amore di Dio essere intensificato all'infinito. E necessario perciò che il nostro amore di Dio divenga di giorno in giorno più ardente. Per suo stesso comando dobbiamo amarlo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le nostre forze. L'amore invece con cui abbracciamo il prossimo, ha limiti ben definiti, poiché Dio comanda di amare i nostri fratelli come noi stessi (Mt 22,37 Lc 10,27). Chi travalichi questi confini in modo da amare di un uguale amore Dio e il prossimo, commette in realtà gravissima colpa.

Dice perciò il Signore: Se uno viene da me, e non odia il padre, la madre la moglie, i figliuoli, i fratelli, le sorelle, e perfino la sua vita, non può essere mio discepolo (Lc 14,26). Col medesimo spirito è stato pure ingiunto: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti (Lc 9,60). Cosi disse Gesù a un tale che mostro desiderio di volere prima sotterrare il proprio padre e poi seguire il Signore. Più esplicita spiegazione di questa differenza è in san Matteo: Chi ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me (Mt 10,37). Eppure non può cadere dubbio sul dovere di amare e rispettare profondamente i propri genitori. Ma perché sussista la vera pietà, occorre che il più eminente onore e culto sia tributato a Dio, padre e causa di tutto. Di modo che i genitori mortali devono essere amati in maniera tale che tutta l'intrinseca forza dell'amore sia rivolta al Padre celeste ed eterno; e qualora i comandi paterni siano in contrasto con i comandamenti di Dio, i figli antepongano senza esitazione la volontà divina al volere dei genitori, memori del motto divino: Occorre obbedire a Dio prima che agli uomini (Ac 5,29).

321. Il significato della parola "onorare"

Proseguendo, il Parroco spiegherà le parole del comandamento e innanzi tutto il significato del vocabolo onorare. Esso significa nutrire verso qualcuno un elevato concetto e fare il massimo conto di tutto ciò che gli appartiene. In tale onore sono conglobati l'amore, l'ossequio, l'obbedienza, la riverenza. A ragion veduta, nella formula del comandamento è inserita la parola onore, anziché quella di amore o di timore, sebbene i genitori debbano pure essere vivamente amati e temuti. Chi ama, infatti, non sempre ossequia e obbedisce; e chi teme, non sempre ama; invece quando si onora qualcuno schiettamente, lo si ama e lo si rispetta.

Premesso ciò, il Parroco tratterà dei genitori, mostrando chi siano coloro che vanno sotto questo nome. Sebbene la legge alluda prevalentemente a quei genitori da cui abbiamo tratto la vita, tuttavia l'appellativo spetta anche ad altri, contemplati parimente dalla Legge, com'è facile arguire da molti passi scritturali.

Oltre ai nostri genitori, compaiono nelle sacre Scritture altre categorie di padri, a ciascuno dei quali è dovuto il debito onore. Innanzi tutto sono chiamati padri i Reggitori, i Pastori, i Sacerdoti della Chiesa, come risulta dall'Apostolo, che scrive ai Corinzi: Non vi dico ciò per mortificarvi, ma vi ammonisco quali figli diletti. Anche se avete avuto diecimila pedagoghi in Gesù Cristo, non avete avuto molti padri. Io solo vi ho generato in Gesù Cristo, mediante il vangelo (1Co 4,14). E nell'Ecclesiastico sta scritto: Sciogliamo lodi ai personaggi gloriosi, ai nostri padri nella loro generazione (Si 44,1).

Son detti, in secondo luogo, padri coloro che sono rivestiti di comando, di autorità giudiziaria, di potere, e governano quindi lo Stato. Naaman, per esempio, è chiamato padre dai servi (2R 5,13).

Inoltre diamo il nome di padri a coloro, la cui tutela, cura, e saggia probità costituiscono garanzia per altri. Tali appaiono i tutori, i curatori, i pedagoghi, i maestri. Cosi i figli dei profeti chiamavano padri Elia ed Eliseo (2R 2,12 2R 13,14).

Infine, nominiamo padri i vecchi e gli avanzati in età, a cui pure dobbiamo riverente ossequio.


Nelle sue ammonizioni il Parroco insista molto sul dovere di onorare i padri di ogni genere, ma soprattutto coloro che ci han dato la vita. Ad essi allude particolarmente la Legge divina, essendo essi per dir cosi, un'immagine del Dio immortale, e offrendoci il segno della nostra origine. Ne ricevemmo la vita; se ne servi Dio per infonderci lo spirito immortale; ci trassero ai sacramenti, ci educarono alla religione, alla cultura, alla vita civile, alla integrità santa dei costumi.

Il Parroco spiegherà in seguito come il termine madre sia qui giustamente menzionato, perché siano da noi apprezzati i benefici e i titoli di merito della madre nostra, ricordando la trepidante cura con cui ci porto nel grembo, e il travaglio penoso con cui ci diede alla luce e ci educo.

322. Amore verso i genitori


Il nostro contegno verso i genitori deve essere tale che l'onore loro tributato appaia scaturito dall'amore e dall'intimo sentimento dell'animo. Tutto ciò per stretto dovere di reciprocità, poiché essi nutrono tali sentimenti verso di noi che non rifuggono da nessuna fatica, disagio, e rischio per il nostro bene; e nulla arreca loro più letizia dell'affetto intimo dei figli diletti. Giuseppe, costituito in Egitto in posizione affine a quella del re per dignità e potere, accolse con ogni manifestazione di ossequio il padre venuto in Egitto (Gn XLVI,29); e Salomone si fece incontro alla madre che sopraggiungeva, ossequiandola e collocandola alla sua destra nel trono reale (3 Re, 2,19).

Vi sono altre maniere di manifestare il rispetto dovuto ai genitori. Li onoriamo infatti anche quando imploriamo da Dio che conceda loro prosperità in ogni evento, li faccia rispettati e accetti fra gli uomini, e li renda degni del suo compiacimento e di quello di tutta la corte celeste.

Similmente prestiamo ossequio ai genitori, subordinando il nostro parere alla loro volontà e al loro giudizio. Ce ne ammonisce Salomone: Presta ascolto, figlio mio, all'autorità di tuo padre e non dimenticare i precetti della madre tua; si aggiungerà cosi grazia al tuo capo, e una collana al tuo collo (Pr 1,8). Fanno eco le esortazioni di san Paolo: O figli, obbedite nel Signore ai vostri genitori, com'è giusto (Ep 6,1). E altrove: Figli, obbedite sempre ai vostri genitori, come piace al Signore (Col 3,20). Confermano gli esempi dei santi: Isacco, tratto legato al sacrificio, obbedisce umilmente senza protestare (Gn 12,9); i Recabiti, per non trasgredire il consiglio paterno, si astennero per sempre dal vino (Jr 35,6).

Onoriamo pure i nostri genitori imitandone le buone azioni e i retti costumi: equivale a esprimere loro il più alto senso di ossequio, cercare di imitarli quanto più è possibile. E li onoriamo ancora, non solo ricercandone, ma attuandone i consigli.

Li onoriamo anche provvedendo tutto ciò che il loro mantenimento e il benessere esigono. Lo prova la testimonianza esplicita di G. Cristo, che, rimproverando ai Farisei la loro empietà, esclama: E perché anche voi trasgredite il comando di Dio in grazia della vostra tradizione? Dio infatti ha detto: Onora il padre e la madre; e: Chi maledirà il padre o la madre, sia punito di morte. Voi altri invece dite: Chiunque dica al padre o alla madre: Sia offerta di sacrificio quello con cui potrei aiutarti, non è più obbligato a onorare il padre o la madre; e cosi con la vostra tradizione avete annientato il comandamento di Dio (Mt 15,3).

Che se dobbiamo assolvere il nostro obbligo di rispetto verso i genitori in ogni momento, il dovere si fa più urgente in occasione delle loro gravi infermità. Cureremo allora che non tralascino nulla di quanto spetta alla confessione dei peccati e agli altri sacramenti necessari al Cristiano, mentre la morte si approssima. E faremo di tutto perché possano vedere di frequente persone pie e religiose, capaci di sostenerne e corroborarne col consiglio la debolezza, o di indirizzarne i buoni sentimenti verso la speranza dell'immortalità. Sottratto cosi lo spirito a ogni preoccupazione umana, tutto lo rivolgano a Dio, e in mezzo al corteggio beatissimo della fede, della speranza e della carità, muniti di tutti i conforti religiosi, non riterranno ormai temibile la morte, dal momento che è necessaria, ma anzi desiderabile, in quanto schiude l'adito all'eternità.

Infine può rendersi onore ai genitori anche dopo che sono trapassati, curandone i funerali, preparandone le esequie, dando loro conveniente sepoltura, provvedendo alla celebrazione degli anniversari, adempiendone regolarmente la volontà testamentaria.

323. L'onore ai prelati e ai principi


Meritano la nostra riverenza, oltre ai nostri genitori, anche gli altri che portano il nome di padri. Tali sono i Vescovi, i Sacerdoti, i Re, i principi, i magistrati, i tutori, i curatori, i maestri, i pedagoghi, i vecchi, e altri. Tutto costoro sono degni di ricevere, sebbene in varia misura, qualche tributo del nostro affetto, della nostra obbedienza e delle nostre sostanze.

Sta scritto a proposito dei Vescovi e degli altri Pastori: I Sacerdoti che adempiono degnamente il loro ministero, siano ritenuti meritevoli di un duplice onore, specialmente coloro che si distinguono nel ministero della parola e nella dottrina (1Tm 5,17). Quante prove di attaccamento non diedero i Galati all'Apostolo? Egli ne da loro testimonianza palmare, ispirata a benevolenza: Riconosco che, se fosse stato possibile, voi vi sareste strappati gli occhi per darmeli (Ga 4,15).

Ai Sacerdoti devono essere fornite le risorse necessarie al sostentamento della vita. Onde l'Apostolo chiede: Chi ha mai portato le armi a proprie spese? (1Co 9,7). E nell'Ecclesiastico è detto: Rispetta i Sacerdoti. Da ad essi la parte loro, come t'è stato comandato: le primizie e (la vittima) d'espiazione (7,31). Anche l'Apostolo insegna che si deve loro obbedire: Siate sottomessi ai vostri superiori ed eseguitene i comandi. Essi vigilano, essendo tenuti a rendere ragione delle anime vostre (He 13,17). Anzi, da nostro Signore Gesù Cristo è stato esplicitamente dichiarato che dobbiamo sottostare ai Pastori, anche se malvagi: Sulla cattedra di Mosè si assisero gli scribi e i farisei. Osservate e fate pertanto ciò che vi diranno; ma non fate secondo le opere loro: che dicono e non fanno (Mt 23,2).

Lo stesso dicasi a proposito dei Re, dei principi, dei magistrati, di tutto coloro insomma al cui potere siamo soggetti. L'Apostolo, nella lettera ai Romani, spiega ampiamente quale genere di rispetto, di ossequio e di sudditanza debba essere loro prestato (Rm 13,1); inculca anche di pregare per loro (1Tm 2,2). San Pietro raccomanda: Siate sottomessi ad ogni creatura umana, in vista di Dio: cosi al Re, quale sovrano, come ai subalterni, quali suoi delegati (1P 2,13). In verità l'ossequio che tributiamo loro va riferito a Dio. Infatti l'eminente grado della dignità esige rispetto dagli uomini, perché implica un'analogia col potere divino. Rispettandolo, del resto, veneriamo la provvidenza di Dio, che conferisce ai dignitari la funzione pubblica, e di essi si serve come di delegati della propria potestà.

Qualora i magistrati si rivelino malvagi ed empi, noi non onoriamo i loro vizi, ma l'autorità divina che è in essi. Potrà forse apparire cosa incredibile, ma è pur vero che per quanto siano implacabilmente ostili a noi, non possiamo trovare in questo fatto una ragione sufficiente per negare ossequio a coloro che sono costituiti in autorità. Sappiamo dei servizi prestati da David a Saul, sebbene a lui inimicissimo, onde poteva esclamare: Mi mostrai pacifico verso coloro che odiavano la pace (Ps 119,7). Qualora però comandino cosa malvagia e iniqua, tralasceremo di prestar loro ascolto; perché allora non parlano più in virtù di un potere legittimo, ma in base a un titolo ingiusto e a una perversione dell'animo.

324. Premio spettante a chi osserva questo comandamento


Spiegato minutamente tutto questo, il Parroco mostri quale premio sia riservato a coloro che obbediscono a questo divino precetto. Il suo frutto più notevole è che vivranno a lungo; poiché in verità sono degni di godere quanto più a lungo è possibile di tale beneficio coloro che ne conservano perenne memoria. Ora, chi onora i propri genitori mostra gratitudine per la vita e l'educazione ricevuta; è giusto dunque e conveniente che viva fino alla più tarda vecchiaia.

Si aggiunga quell'insigne spiegazione della divina promessa, la quale garantisce non solo il godimento della vita eterna beata, ma anche di questa vita terrena. Dice infatti san Paolo: La pietà giova a tutto, comprendendo in sé la promessa della vita presente e della futura (1Tm 4,8). Né si tratta di un compenso tenue e spregevole; sebbene a uomini ricolmi di santità, quali Giobbe, David, Paolo, la morte sia apparsa desiderabile, e per uomini piombati nella miseria e nei dolori il prolungamento della vita non rappresenti una gioia. Poiché la clausola che delucida quelle parole: " La vita che il Signore ti donerà ", promette evidentemente non solo prolungamento dell'esistenza, ma anche serenità e tranquilla incolumità di vita. Nel Deuteronomio infatti alle parole: Affinché tu campi lungo tempo, sono aggiunte le altre: Affinché tutto avvenga per te favorevolmente (Dt 5,16); parole che sono poi ripetute dall'Apostolo (Ep 6,3).

Noi affermiamo che cotesti beni sono il sovrappiù, per coloro la cui pietà viene ricompensata da Dio. Se cosi non fosse, la promessa divina non sarebbe costantemente fedele, poiché talora è più breve l'esistenza di coloro che dimostrano più profonda riverenza verso i loro genitori. Ciò può accadere per molte ragioni. Può essere innanzi tutto provvidenziale per essi uscir di vita prima di abbandonare il sentiero della virtù e della rettitudine religiosa. Alcuni possono essere sottratti al mondo, affinché il male non faccia deviare il loro intelletto e la seduzione non affascini il loro spirito (Sg 4,10). Altri possono essere strappati al corpo quando sia imminente uno sconvolgimento generale delle cose, sicché sfuggano la sventura dei tempi. Dice infatti il profeta: Dal volto del male è stato allontanato il giusto (Is 57,1). In tal caso si evita il rischio della loro virtù e della loro salvezza, quando la giustizia e il castigo sono esercitati da Dio sui mortali; o si risparmia loro l'amarissimo lutto del cuore di fronte alle disgrazie dei parenti e degli amici.

Sicché dovremmo molto temere quando accade che i buoni muoiano innanzi tempo.

325. Castigo che attende i trasgressori


D'altro canto, se su coloro che sono riconoscenti verso i propri genitori piovono le ricompense di Dio, fierissimi castighi sono riservati ai figli snaturati ed ingrati. Sta scritto: Chi avrà lanciato imprecazioni a suo padre e a sua madre, morrà di morte violenta (Ex 21,17 Lv 20,9); Chi rattrista suo padre e scaccia sua madre, è un essere obbrobrioso e disgraziato (Pr XIX,26); La lucerna di colui che avrà bistrattato suo padre o sua madre si spegnerà nel più folto delle tenebre (Pr 20,20); L'occhio di colui che sogghigna a suo padre e irride al parto della madre sua, sia scavato dai corvi dei torrenti e divorato dai figli dell'aquila (Pr 30,17). Leggiamo nella sacra Scrittura che molti recarono offesa ai loro genitori, ma leggiamo pure che l'ira di Dio infierì per trame vendetta; egli non lasciò David invendicato, ma alla scelleratezza di Assalonne impose il dovuto castigo, punendolo, a causa del suo peccato, con tre colpi di lancia (2S 18,14). A proposito poi di chi rifiuta ossequio ai Sacerdoti è scritto: Chi superbamente rifiuterà ossequio al precetto del sacerdote in funzione, o alla sentenza del giudice, morrà (Dt 17,12).

326. Doveri dei genitori verso i figli


La Legge divina che ha sancito l'ossequio filiale e l'obbedienza verso i genitori, ha pure stabilito i doveri e le mansioni proprie dei genitori. Ad essi impone inculcare nei figliuoli le discipline sante e i costumi integri, di suggerire loro i sani precetti del vivere, affinché, religiosamente istruiti, onorino piamente e indefettibilmente Dio, come leggiamo essere stato fatto dai genitori di Susanna (Da 13,3).

Perciò il Sacerdote ammonirà i genitori di mostrarsi ai figli quali maestri di virtù, di equità, di continenza, di modestia e di pietà. Dovranno in modo speciale evitare tre scogli su cui è più facile incappare. Innanzi tutto si asterranno dal parlare e comandare ai figliuoli con asprezza; lo dice l'Apostolo nella lettera ai Colossesi: O padri, non vogliate provocare a sdegno i vostri figli, perché non si avviliscano (Col 3,21). C'è pericolo che, temendo di tutto, acquistino una natura fragile e pusillanime. Raccomanderà perciò che, evitando l'eccessiva severità, preferiscano correggere anziché punire i propri figliuoli. D'altra parte, qualora sia stata commessa una colpa e siano quindi necessari la riprensione e il castigo, non siano stimolati a transigere da eccessiva indulgenza. Spesso infatti accade che i figli siano sciupati dalla esagerata mitezza dei genitori. Da cosi malsana indulgenza allontani l'esempio di Eli, sommo sacerdote, il quale, essendo stato troppo debole con la propria figliuolanza, incontro l'estremo castigo (1S 4,18).

Infine badino bene i genitori a non vagheggiare, cosa orribile, intenti volgari nella educazione e istruzione dei figli. Ci sono molti che pensano ad una cosa sola: lasciare ai figli sostanze abbondanti, un pingue e vistoso patrimonio, ed esortano i loro rampolli non già alla religione, alla pietà, alla regola delle sante virtù, bensì all'avarizia e all'aumento dei beni di famiglia. Costoro non si preoccupano della buona fama e della salvezza dei figli, ma solo badano a che siano sempre più ricchi. Si può immaginare un programma più turpe? Finiscono cosi col lasciare ai figli non solo una eredità cospicua, ma anche un pesante fardello di colpe e di nefandezze, che li fa essere non guide al cielo, ma pessimi iniziatori all'eterno supplizio dell'inferno.

Il Parroco con sapienti consigli istruisca i genitori, stimolandoli a imitare il virtuoso esempio di Tobia (Tb 4). Se avranno educato i figli al culto divino e alla santità, ne riceveranno in cambio frutti copiosi di amore, di rispetto e di ossequio.
OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
26/08/2010 16:28

PARTE TERZA: I PRECETTI DEL DECALOGO


QUINTO COMANDAMENTO
Non ammazzare




327. Spiegazione del quinto comandamento


L'insigne felicità promessa ai pacifici, che saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9), deve stimolare in sommo grado i Pastori a spiegare e inculcare con assidua diligenza, ai fedeli l'osservanza di questo comandamento; non v'è modo migliore di fondere le volontà umane nel rispetto universale e generoso di questo precetto, rettamente spiegato. Se ciò si verificherà, gli uomini, strettamente affratellati in un saldo consenso spirituale, conserveranno bene la pace e la concordia.

Quanto sia necessario spiegare questo precetto risulta dalla circostanza che, dopo il diluvio universale, fu questa la prima proibizione emanata da Dio agli uomini: Del vostro sangue faro vendetta sopra qualsiasi animale e faro vendetta della uccisione di un uomo sopra l'uomo (Gn 9,5). Nel Vangelo, là dove il Signore spiega le antiche leggi, questa è al primo posto come si legge in S. Matteo: E comandato: Non ammazzare; con tutto quel che segue nel passo indicato (5,21).

I fedeli dal canto loro devono prestare attento e volenteroso ascolto a questo comando. La sua forza vale a tutelare la vita di ciascuno. Con le parole infatti: Non ammazzare, è perentoriamente vietato l'omicidio. Perciò ciascuno deve accoglierlo con si viva prontezza come se, con minaccia dell'ira di Dio e di altre gravissime pene stabilite, fosse tassativamente vietata la lesione di questo o quell'individuo. Come tale precetto è confortante ad essere ascoltato, cosi l'eliminazione del delitto che esso proibisce deve recare soddisfazione.

328. Eccezioni al quinto comandamento


Spiegando il contenuto di questa legge, il Signore mostra che essa comprende due elementi: il primo, negativo: divieto dell'uccisione; il secondo, positivo: ingiunzione di estendere la nostra concorde e caritatevole amicizia anche ai nemici, per avere pace con tutti, sia pure affrontando con pazienza ogni contrarietà.

Enunciata la legge che vieta di uccidere, il Parroco dovrà subito indicare le uccisioni, che non sono proibite. Non è infatti vietato di uccidere animali. Se Dio ha concesso agli uomini di nutrirsene, deve essere lecito ucciderli. In proposito dice sant'Agostino: Non dobbiamo applicare la formula " non ammazzare " ai vegetali, cui manca ogni facoltà sensibile, né agli animali irragionevoli, che non sono collegati a noi da alcuna virtù razionale (La città di Dio, I,20).

Altra categoria di uccisioni permessa è quella, che rientra nei poteri di quei magistrati, i quali hanno facoltà di condannare a morte. Tale facoltà, esercitata secondo le norme legali, serve a reprimere i facinorosi e a difendere gli innocenti. Applicando tale facoltà, i magistrati non solamente non sono rei di omicidio, ma, al contrario, obbediscono in una maniera superiore alla Legge divina, che vieta di uccidere, poiché il fine della legge è la tutela della vita e della tranquillità umana. Ora, le decisioni dei magistrati, legittimi vendicatori dei misfatti, mirano appunto a garantire la tranquillità della vita civile, mediante la repressione punitiva dell'audacia e della delinquenza. Ha detto David: Sulle prime ore del giorno soppressi tutti i peccatori del territorio, onde eliminare dalla città del Signore tutti coloro che compiono iniquità (Ps 100,8).

Per le medesime ragioni non peccano neppure coloro che, durante una guerra giusta, non mossi da cupidigia o da crudeltà, ma solamente dall'amore del pubblico bene, tolgono la vita ai nemici.

Vi sono anzi delle uccisioni compiute per espresso comando di Dio. I figli di Levi non peccarono quando in un giorno solo uccisero tante migliaia di uomini; dopo di che, Mosè rivolse loro le parole: Oggi avete consacrato le mani vostre a Dio (Ex 32,29).

Infine non è reo di trasgressione a questo precetto chi, non di spontanea volontà e di proposito, ma per disgrazia uccide un altro. E scritto nel Deuteronomio: Chi per caso abbia colpito il suo prossimo, e si riesca a provare che né ieri, né ieri l'altro nutriva odio per il colpito, ma che recandosi insieme a far legna nel bosco, nel tagliare i tronchi, la scure gli sfuggi di mano e il ferro spiccato dal manico colpi l'amico e l'uccise (XIX), tale uccisione non compiuta per atto di volontà e studiatamente, non può assolutamente imputarsi a colpa. Lo conferma la sentenza di sant'Agostino: Nessuno pensi che possa esserci addebitato ciò che facciamo per il bene o per il lecito, anche se importi, senza il nostro volere, qualcosa di male (Lett. XLVII,5; CC3,6).

Ma anche in tali casi tuttavia può talora esserci colpa: se cioè l'uccisore involontario sia intento a cosa ingiusta, o se l'uccisione si verifichi per negligenza e imprudenza, non essendo state valutate tutte le circostanze. Un esempio del primo caso: se uno percuotendo con un pugno o un calcio una donna incinta, provochi l'aborto, pur essendo ciò fuori dell'intenzione del percussore, non si può dire immune da colpa, non essendo in alcun modo lecito percuotere una donna incinta.

Che la legge poi non colpisca chi uccide un altro in difesa della propria vita, avendo però adoperato ogni cautela, è evidente.

329. Azioni proibite dal quinto comandamento


Queste sono dunque le categorie di uccisioni non comprese nella Legge. Fatta eccezione per esse, tutte le altre sono proibite, qualunque sia la qualità dell'uccisore, dell'ucciso e la modalità dell'atto omicida.

Per quanto riguarda la persona dell'uccisore, nessuno sfugge al precetto: non il ricco, non il potente, non il padrone, non i genitori. A tutti è vietato di uccidere, ripudiata ogni considerazione personale.

Per quanto riguarda gli uccisi, anche qui la Legge ha un ambito universale, né c'è individuo per quanto umile e misero, il quale non sia tutelato dalla validità di questa legge. Né ad alcuno è lecito togliersi quella vita su cui nessuno ha cosi pieno potere da essere in diritto di sopprimerla quando voglia. Il tenore stesso del precetto lo indica, poiché non è detto: Non ammazzare altri; ma puramente e semplicemente: Non ammazzare.

Infine avendo di mira i vari modi con cui può esser data la morte, neppure a questo proposito sussistono eccezioni. E vietato infatti non solamente uccidere chicchessia con le proprie mani, col ferro, con pietra, con bastone, con laccio o col veleno, ma anche il procurare la morte col consiglio, con l'aiuto, col concorso e qualsiasi altro mezzo. Sono evidenti l'ottusità e la fatuità degli Ebrei che ritenevano di rispettare la legge astenendosi semplicemente dall'uccidere con le proprie mani. Il cristiano che dalla parola di Gesù Cristo ha appreso come tale legge abbia un valore spirituale e impone non solo di conservare pure le mani, ma casto e e incontaminato lo spirito, non ritiene davvero sufficiente quel che gli Ebrei credevano cosi di adempiere a sufficienza. Il Vangelo insegna che non è lecito neppure farsi vincere dall'ira. Il Signore infatti ha detto: Ma io vi dico: chiunque si adira contro il suo fratello, sarà condannato in giudizio. E chi avrà detto al suo fratello: Raca, sarà condannato nel Sinedrio. E chi gli avrà detto: Stolto, verrà condannato al fuoco della Geenna (Mt 5,22).

Da queste parole risulta nettamente che non è esente da colpa chi si adira contro il proprio fratello, anche se chiuda l'ira nel proprio animo. Chi poi all'ira concede una espressione esterna, pecca gravemente; e più gravemente pecca chi osi trattare duramente e svillaneggiare il proprio simile. Naturalmente tutto ciò è vero nel caso che non sussista alcuna plausibile ragione per l'ira; poiché c'è una legittima ragione di sdegno, ammessa da Dio e dalle leggi. E si verifica quando ci leviamo contro le colpe di coloro che sono sottoposti al nostro comando e alla nostra potestà. Lo sdegno del cristiano deve però prorompere non dai sensi, ma dallo Spirito Santo, dovendo noi essere i suoi templi, e dimora di Gesù Cristo (1Co 6,19).

Molte parole del Signore si riferiscono alla perfezione di questa legge. Ad esempio: Non opporre resistenza al male; Se ti avran percosso sulla guancia destra, presenta anche l'altra; A chi vuoi bisticciarsi con te per aver la tua tunica, da pure il mantello; Continua ad andare per altre due miglia con chi ti avrà bistrattato già per un miglio intero (Mt 5,39).

330. L'omicidio


Da quanto siamo venuti dicendo è lecito arguire quanto siano proclivi gli uomini alle colpe vietate da questo comandamento, e quanto numerosi siano coloro che, se non con le mani, almeno con l'animo cadono in questo peccato. E poiché le sacre Scritture indicano nettamente i rimedi salutari contro questo pericoloso morbo, è dovere del Parroco farne diligente esposizione ai fedeli, insistendo specialmente sulla gravita mostruosa dell'omicidio, quale traspare da copiosissime ed esplicite testimonianze della sacra Scrittura (Gn 4,10 Gn 9,16 Lv 24,17). L'abominazione di Dio contro l'omicidio giunge nella Bibbia fino a punire le bestie ree di omicidio, comandando che sia ucciso l'animale che abbia leso un essere umano (Ex 21,28). Anzi, la principale ragione per cui Dio volle che ogni uomo avesse orrore del sangue, è appunto qui: affinché conservasse integralmente mondi dal riprovevole omicidio l'animo e le mani. Sono in realtà omicidi del genere umano, e quindi nefasti avversari della natura, tutti coloro che, per quanto è loro dato, sovvertono l'opera universale di Dio sopprimendo l'uomo per il quale Dio dichiara di avere creato il mondo visibile (Gn 1,26). E poiché è scritto nella Genesi ch'è vietato di commettere omicidi, avendo Dio creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, fa veramente una sfacciata ingiuria a Dio, quasi volesse menare con violenza le mani contro di Lui, chiunque toglie di mezzo una sua immagine (Gn 9,6). Meditando ciò con animo ispirato, David pronunciò gravi lamenti contro i sanguinari, quando disse: Rapidi sono i loro passi verso lo spargimento di sangue (Ps 13,36). Non disse egli puramente: uccidono, ma: spargono sangue, quasi a far risaltare la detestabilità del delitto e la smisurata crudeltà dell'omicida. E per illustrare come siano violentemente spinti dall'istinto diabolico al delitto, premette: Corrono rapidi i loro passi.

331. Azioni inculcate dal quinto comandamento


In sostanza quanto nostro Signore Gesù Cristo prescrive che sia osservato con questo comandamento, mira a farci conservare rapporti pacifici con tutti. Dice infatti, interpretandolo: Se tu stai per fare l'offerta all'altare e là ti viene alla memoria che un tuo fratello ha qualche cosa contro di te, abbandona la tua offerta davanti all'altare, e va prima a riconciliarti col tuo fratello e poi ritorna a fare la tua offerta (Mt 5,23), con quel che segue. Il Parroco spiegherà tutto ciò in modo che s'intenda come tutti, senza eccezione, devono essere inclusi nel medesimo sentimento di carità. E a tale sentimento, nella spiegazione del precetto, stimolerà quanto più sarà possibile i fedeli, perché in esso riluce sopra tutto la virtù dell'amore del prossimo.

Infatti, vietandosi apertamente con questo comandamento l'odio, poiché chi odia il proprio fratello è omicida (1Jn 3,15), ne segue che c'è qui implicito il precetto dell'amore e della carità. E se nel comandamento che studiamo è imposta la legge della carità e dell'amore, nel medesimo tempo sono formulati i precetti di tutti quei servizi ed atti che sogliono scaturire dalla carità. " La carità è paziente ", dice san Paolo (1Co 13,4); anche la pazienza dunque ci è comandata; e con essa, secondo la parola del Salvatore, noi saremo in possesso delle anime nostre (Lc 21,19).

Segue, come prossima compagna della carità, la beneficenza, perché " la carità è benigna ". La virtù della benignità o della beneficenza possiede una sfera vasta, esplicandosi sopratutto nel provvedere ai poveri il necessario, agli affamati il cibo, agli assetati la bevanda, ai nudi il vestito. Essa vuole che la nostra liberalità vada con maggiore larghezza a chi più abbisogna del nostro soccorso. Le opere della beneficenza e della bontà, per sé già cosi meritevoli, assumono un valore insigne, se dirette ai nostri nemici. Disse infatti il Salvatore: Amate i vostri nemici; fate del bene a chi vi odia (Mt 5,44). Analogamente ammonisce l'Apostolo: Se il tuo avversario soffre la fame, nutrilo; se ha sete dagli da bere; cosi facendo, accumulerai sul suo capo carboni ardenti. Non ti far vincere dal male, ma vinci il male col bene (Rm 12,20). Infine, volendo esporre tutta la legge della carità, che è benigna, riconosceremo che il precetto ordina di uniformare sempre le nostre azioni a mitezza, a dolcezza e a tutte le altre virtù affini.

Però il compito più alto e più riboccante di carità, nel quale dobbiamo con maggior cura esercitarci, è quello di perdonare e di dimenticare con cuore sereno le ingiurie ricevute. Come abbiamo detto, la sacra Scrittura ammonisce insistentemente di farlo senza riluttanza, non solo dichiarando beati coloro che ciò praticano (Mt 5 , ma proclamando perdonate Dio le loro colpe imperdonabili quelle di coloro che vi si rifiutano o sono negligenti nel farlo (Si 27,1; Mt 6,15; 18,34; Mc 11,26).

332. I motivi di perdonare le offese


Poiché la brama della vendetta è quasi innata nello spirito degli uomini, il Parroco usi tutta la diligenza non solo nell'insegnare, ma proprio nell'inculcare e persuadere i fedeli che dimenticare le offese e perdonarle è stretto dovere del cristiano. Ed essendo copiose le testimonianze degli scrittori sacri in proposito, ne faccia tesoro per spezzare la pertinacia di coloro che hanno l'animo indurito nella voluttà della vendetta. Abbia perciò pronte le ponderate e opportunissime argomentazioni dei Padri, fra cui tre meritano speciale menzione.

Innanzi tutto, chi si ritiene ingiuriato deve convincersi che la causa principale del fatto non va ricercata in colui contro il quale agogna vendetta. L'ammirabile Giobbe gravemente danneggiato da Sabei, da Caldei e dal demonio, essendo uomo retto e pio, non tiene conto di loro, ma esce in queste pie e sante parole:Il Signore dono, il Signore tolse (Jb 1,21). Sull'esempio e sulla parola di quell'uomo pazientissimo, i cristiani vogliano persuadersi che in verità quanto soffriamo in questa vita, deriva da Dio, padre ed autore di ogni giustizia come di ogni misericordia. La sua immensa misericordia non ci punisce come avversari, ma ci corregge e castiga come figli.

A ben considerare le cose, gli uomini sono qui semplicemente ministri ed emissari di Dio; pur potendo un uomo odiare malvagiamente un altro e desiderargli ogni male, non può in realtà nuocergli se non lo permetta Dio. Persuasi di ciò, Giuseppe sostenne serenamente gli empi propositi dei fratelli (Gn XLV,5), e David le ingiurie di Simei (2 Re, 16,10). In queste considerazioni rientra l'argomento svolto con grande dottrina dal Crisostomo, secondo il quale ciascuno è causa del proprio male. Infatti coloro che si ritengono maltrattati, se ben considerino la loro situazione, si accorgeranno di non aver subito ingiuria o danno dagli altri, potendo le lesioni e le offese provenire apparentemente dall'esterno; ma siamo in realtà noi stessi la causa del nostro male, contaminando l'animo con le nefaste passioni dell'odio, della cupidigia, dell'invidia.

In secondo luogo, due insigni vantaggi ricadono su coloro che, spinti dal santo amore di Dio, perdonano di buon grado le offese ricevute. Il primo è questo: Dio ha promesso che chi rimette agli altri i torti, otterrà il perdono delle proprie colpe (Mt 6,14); donde appare quanto gli sia gradito simile atto di virtù. L'altro sta nella nobiltà e nella perfezione conseguite da chi perdona. Dimenticando le ingiurie, diveniamo in certo modo simili a Dio, il quale fa sorgere il sole egualmente sui buoni e sui cattivi e distribuisce la pioggia su giusti ed ingiusti (Mt 5,45).

Infine, devono essere spiegati gli inconvenienti a cui andiamo incontro, non perdonando le ingiurie a noi recate. Perciò il Parroco farà considerare a coloro che non vogliono perdonare ai propri nemici, come l'odio non solo sia un grave peccato, ma divenga più grave col persistervi. Chi è padroneggiato da questo sentimento, assetato del sangue dell'avversario, e pieno di speranza nella vendetta, trascorre notte e giorno in un tale permanente sconvolgimento malefico dello spirito che non sembra mai sgombro dal fantasma della strage o di qualche azione nefasta. Costui giammai, o solo da straordinari motivi, potrà essere indotto a perdonare del tutto, o a dimenticare in parte le ingiurie. A buon diritto viene paragonato alla ferita su cui il dardo è rimasto infitto.

Sono molteplici in verità i peccati stretti insieme da comune vincolo nella colpa unica dell'odio. San Giovanni disse chiaramente in proposito: Chi odia il proprio fratello giace nelle tenebre, e procede nell'oscurità, ignaro della sua meta; le tenebre tolsero il lume dai suoi occhi (1Jn 2,11), cosicché è destinato a cadere di frequente. Come, ad esempio, potrebbe approvare i detti o i fatti di colui che odia? Di qui i fallaci giudizi temerari, le ire, le invidie, le maldicenze e simili manifestazioni di malevolenza, che vanno a colpire anche chi è legato da parentela o da amicizia alla persona dell'odiato. Da una colpa ne nascono cosi diecine; e non a torto si dice che questo è il peccato del demonio, che fu omicida fin dall'inizio. Il Figlio di Dio, nostro Signore Gesù Cristo, disse appunto che i Farisei erano generati dal diavolo proprio perché desideravano di metterlo a morte (Jn 8,44).

Quanto abbiamo detto fin qui riguarda le ragioni che possono addursi per inculcare la determinazione di questo peccato. Ma nei monumenti della letteratura sacra è facile anche rinvenire i rimedi più opportuni a tanto flagello. Il primo e il più efficace è l'esempio del nostro Salvatore, che noi dobbiamo proporci di imitare. Sebbene la più tenue ombra di mancanza non potesse offuscare il suo immacolato candore, quantunque percosso con verghe, coronato di spine e confitto sulla croce, pronunciò queste parole, ricche di misericordia: Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34). L'effusione di questo sangue, secondo la testimonianza dell'Apostolo, parla ben più eloquentemente che quello di Abele (He 12,24).

Un secondo rimedio viene proposto dall'Ecclesiastico, e consiste nell'aver presenti la morte e il giorno del giudizio. Ricorda, esso dice, i tuoi ultimi eventi, e non peccherai in eterno (Eccl. 7,40). In altri termini: pensa molto spesso che tra poco ti coglierà la morte; e poiché in quell'ora suprema sarà per te d'interesse massimo impetrare l'infinita misericordia di Dio, è necessario che essa ti sia dinanzi ora e sempre. Cosi quella bramosia di vendetta che cova in te, si estinguerà prontamente, non esistendo mezzo più valido, a ottenere la misericordia divina, del perdono delle ingiurie e dell'amore verace per coloro che, con la parola o con le azioni, offesero te o i tuoi.
OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
26/08/2010 16:29

PARTE TERZA: I PRECETTI DEL DECALOGO


SESTO COMANDAMENTO
Non commettere atti impuri




333. Spiegazione del comandamento


Se il vincolo tra marito e moglie è il più stretto che esista, e nulla può essere loro più dolce che il sentirsi vicendevolmente stretti da un affetto speciale, nulla, al contrario, può capitare a uno di essi di più amaro che sentire il legittimo amore del coniuge rivolgersi altrove.

Ragionevolmente, perciò, alla legge, che garantisce la vita umana dall'omicidio, segue quella che vieta la fornicazione o l'adulterio, affinché nessuno tenti di contaminare o spezzare quella santa e veneranda unione matrimoniale, da cui suole scaturire cosi ardente fuoco di carità.

Toccando questo argomento, il Parroco usi la più prudente cautela e con sagge parole alluda a cose che esigono più la moderazione che l'abbondanza dell'eloquio. E da temersi infatti che, diffondendosi troppo a spiegare i modi con cui gli uomini possono trasgredire questo comandamento, finisca col dire frasi capaci di eccitare la sensualità, anziché reprimerla.

Ad ogni modo il precetto racchiude molti elementi che non possono essere trascurati, e il Parroco li spiegherà a suo tempo. Esso ha due parti: una che vieta apertamente l'adulterio; l'altra, più generale, che impone la castità dell'anima e del corpo.

334. L'adulterio


Per iniziare l'insegnamento da quello che è vietato, diremo subito che adulterio è violazione del legittimo letto, proprio o altrui. Se un marito ha rapporti carnali con donna non coniugata, viola il proprio vincolo matrimoniale; se un individuo non coniugato ha rapporti con donna maritata, è contaminato, dal delitto di adulterio, il vincolo altrui.

Sant'Ambrogio e sant'Agostino confermano che con tale divieto dell'adulterio è proibito ogni atto disonesto e impudico. Ciò risulta direttamente dalla Scrittura del vecchio come del nuovo Testamento. Nei libri mosaici vediamo puniti altri generi di libidine carnale, oltre l'adulterio. Leggiamo nella Genesi la sentenza pronunciata da Giuda contro la nuora (Gn 38,24); nel Deuteronomio è formulato questo precetto: tra le figlie d'Israele nessuna sia cortigiana (Dt 23,17). Tobia cosi esorta il figliuolo: Guardati, figlio mio, da ogni atto impudico (Tb 4,13). E l'Ecclesiastico dice: Vergognatevi di guardare la donna peccatrice (Si 41,25). Nel Vangelo Gesù Cristo dichiara che dal cuore emanano gli adulteri e le azioni disoneste che macchiano l'uomo (Mt 15,19). L'apostolo Paolo bolla di frequente, con parole roventi, questo vizio: Dio vuole la vostra santificazione; vuole che vi asteniate dalle impurità (1Th 4,3). E altrove: Evitate ogni fornicazione (1Co 6,18); Non vi mescolate agli impudichi (1Co 5,9); In mezzo a voi, non siano neppur nominate l'incontinenza, l'impurità di ogni genere e l'avarizia (Ep 5,3); Disonesti ed adulteri, effeminati e pederasti, non possederanno il regno di Dio (1Co 6,9).

L'adulterio è stato espressamente menzionato nel divieto, perché alla sconcezza che riveste in comune con tutte le altre forme di incontinenza, accoppia un peccato di ingiustizia verso il prossimo e la società civile. Inoltre è indubitato che chi non si tiene lontano dalle forme ordinarie dell'impudicizia, facilmente incapperà nel crimine di adulterio. Cosi è agevole comprendere come nel divieto dell'adulterio sia inclusa la proibizione di ogni genere di impurità contaminante il corpo. Del resto che questo comandamento investa ogni intima libidine dell'animo, appare dalla natura stessa della legge, che è spirituale, e dalle esplicite parole di nostro Signore: Udiste che fu detto agli antichi: Non fare adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per fine disonesto, in cuor suo ha già commesso adulterio su lei (Mt 5,27).

A ciò che riteniamo debba essere insegnato pubblicamente ai fedeli, si aggiungano i decreti del concilio di Trento contro gli adùlteri e coloro che mantengono prostitute e concubine (Sess. 24, e. 8), tralasciando di parlare dei vari e multiformi generi di libidine sessuale, intorno ai quali il Parroco ammonirà i singoli fedeli, qualora le circostanze di tempo e di persona lo richiedano.

Considerazioni per conservare la castità


335. Siano pure spiegate le prescrizioni che hanno forza di precetto. I fedeli devono essere ammaestrati ed esortati a rispettare con ogni cura la pudicizia e la continenza, a conservarsi mondi da ogni contaminazione della carne e dello spirito, attuando la santificazione nel timore di Dio (2Co 7,1). Si dica loro che, sebbene la virtù della castità debba maggiormente brillare in quella categoria di persone che coltiva il magnifico e pressoché divino proposito della verginità, pure essa conviene anche a coloro che menano vita celibataria o, congiunti in matrimonio, si mantengono mondi dalla libidine vietata.

Le molte sentenze dei Padri, con cui siamo ammaestrati a dominare le passioni sensuali e a frenare l'istinto passionale, saranno dal Parroco accuratamente esposte al popolo, con una trattazione diligente e costante. Parte di esse riguarda il pensiero, parte l'azione.

Il rimedio che fa leva sull'intelligenza tende a farci comprendere quanto grandi siano la turpitudine e il pericolo di questo peccato. In base a simile apprezzamento, più viva arderà in noi l'avversione per esso. Si tratta di un peccato che è un vero flagello, a causa di esso sugli uomini incombe l'ultima rovina: l'espulsione dal regno di Dio e lo sterminio.

Questo può sembrare comune a ogni genere di peccato; ma qui abbiamo di caratteristico che i fornicatori, secondo la frase dell'Apostolo, peccano contro il proprio corpo: Fuggite l'impudicizia; qualunque peccato l'uomo commetta, si svolge fuori del corpo, ma il fornicatore pecca sul proprio corpo (1Co 6,18); vale a dire lo tratta ignominiosamente, violandone la santità. A quei di Tessalonica lo stesso san Paolo diceva: Dio vuole la vostra santificazione; che vi asteniate da atti impuri; che ciascuno di voi sappia mantenere il vaso del suo corpo in santità e dignità, non nella irrequietezza del desiderio, come i pagani che ignorano Dio (1Th 4,5).

E cosa ben più ripugnante, se è un cristiano colui che si unisce turpemente a una meretrice; perché rende membra di meretrice le membra di Gesù Cristo, come appunto dice san Paolo: Non sapete che i vostri corpi sono membra di Gesù Cristo? Sottraendo le membra a Gesù Cristo, le faro membra della meretrice? Non sia mai. Ignorate forse che aderendo alla meretrice, ne risulta un solo corpo? (1Co 6,15).

Inoltre il Cristiano, sempre secondo san Paolo, è tempio dello Spirito santo (1Co 6,19); violarlo significa espellerne lo Spirito santo stesso.

Tuttavia particolare malvagità è racchiusa nel delitto di adulterio. Infatti, come vuole l'Apostolo, i coniugi sono cosi vincolati da una scambievole sudditanza che nessuno dei due possiede illimitata potestà sul proprio corpo, ma sono cosi schiavi l'uno dell'altro che il marito deve uniformarsi alla volontà della moglie e la moglie a quella del marito (1Co 7,4). Ne consegue che chi dei due separa il proprio corpo, soggetto all'altrui diritto, da colui al quale è vincolato, si rende reo di specialissima iniquità.

E poiché l'orrore dell'infamia è per gli uomini un valido stimolo a fare quanto è prescritto e a fuggire quanto è vietato, il Parroco insisterà nel mostrare come l'adulterio imprima sugli individui un profondo segno di infamia. E scritto nella sacra Scrittura: L'adùltero, a causa della sua fragilità di cuore, perderà l'anima sua; condensa su di sé la vergogna e l'abbominio; la sua turpitudine non sarà mai cancellata (Pr 6,32).

La gravita di questa colpa può essere facilmente ricavata dalla severità della punizione stabilita. Nella legge fissata da Dio nel vecchio Testamento gli adulteri venivano lapidati (Lv 20,10 Dt 22,22). Anzi talora per la concupiscenza sfrenata di uno solo, non il reo semplicemente, ma l'intera città fu condannata alla distruzione; tale fu la sorte dei Sichemiti (Gn 34,25). Del resto numerosi appaiono nella sacra Scrittura gli esempi dell'ira divina, che il Parroco potrà evocare, per allontanare gli uomini dalla riprovevole libidine: la sorte di Sodoma e delle città confinanti (Gn XIX,24); il supplizio degli Israeliti che avevano fornicato nel deserto con le figlie di Moab (Num. 25); la distruzione dei Beniamiti (Giud. 20).

Se v'è qualcuno che sfugge alla morte, non si sottrae pero a dolori intollerabili, a tormenti punitivi, che piombano inesorabili. Accecato com'è nella mente (ed è già questa pena gravissima), non tiene più conto di Dio, della fama, della dignità, dei figli, e della stessa vita. Resta cosi depravato e inutilizzato, da non poterglisi affidare nulla di importante, o assegnarlo come idoneo ad alcun ufficio. Possiamo scorgere esempi di questo in David come in Salomone. Il primo, resosi reo di adulterio, subitamente cambio natura e da mitissimo divenne feroce, si da mandare alla morte l'ottimo Uria (2S 2S 11); l'altro, perduto nei piaceri delle donne, si allontano talmente dalla vera religione di Dio, da seguire divinità straniere (3 Re, 11). Secondo la parola di Osea, questo peccato travia il cuore dell'uomo (Os 4,11) e ne acceca la mente.

336. Rimedi per conservare la castità


Veniamo ai rimedi che riguardano l'azione da svolgere. Il primo consiste nel fuggire con ogni cura l'ozio. Impoltronendo nell'ozio, come dice Ezechiele (Ez 16,49), gli abitanti di Sodoma precipitarono nel più vergognoso crimine di concupiscenza.

Sono poi da evitarsi con grande vigilanza gli eccessi nel mangiare e nel bere. Li satollai, dice il Profeta, ed essi fornicarono (Gerem. 5,7). Il ventre ripieno provoca la libidine, come accenno il Signore con le parole: Badate, che i vostri cuori non si appesantiscano nella crapula e nell'ebrietà (Lc 21,34), e l'Apostolo: Non vogliate ubriacarvi, poiché il vino nasconde la lussuria (Ep 5,18).

Gli occhi sono i veicoli più pericolosi attraverso i quali l'animo suole accendersi alla libidine. Per questo il Signore ha detto: Se il tuo occhio destro ti scandalizza, cavalo e gettalo via da te (Mt 5,29). E molte sono in proposito le sentenze dei profeti. Giobbe dice ad esempio: Strinsi un patto con gli occhi miei, di neppure pensare a una vergine (Jb 31,1). Sono copiosi, anzi innumerevoli gli esempi di azioni perverse, provocate dalla vista. Pecco cosi David (2S 11,2); pecco cosi il re di Sichem (Gn 34,2); cosi finirono col farsi calunniatori di Susanna i vecchi, di cui parla Daniele (Da 13,8).

Spesso incentivo non indifferente alla libidine offre la moda ricercata, che solletica l'occhio. Per questo ammonisce l'Ecclesiastico: Volta la faccia dalla donna elegante (9,8). E poiché le donne sogliono badare troppo al loro abbigliamento, non sarà male che il Parroco attenda di frequente a premunirle in proposito, memore delle parole gravissime, che l'apostolo Pietro ha dettato sull'argomento: La pettinatura delle donne non sia appariscente, i monili e l'abbigliamento non siano ricercati (1P 3,3); e di quelle di san Paolo: Non badate ai capelli ben attorcigliati, agli ori, alle pietre preziose, alle vesti sontuose (1Tm 2,9); molte infatti che si erano adornate con oro e gioielli, smarrirono i veri ornamenti dell'anima e del corpo.

Insieme all'incentivo libidinoso che è dato dalla raffinata ricercatezza delle vesti, occorre aggiungere quello che emana dai discorsi turpi e osceni. L'oscenità delle parole, quasi fiaccola ardente, accende l'animo dei giovani: Le perverse conversazioni, dice l'Apostolo, corrompono i buoni costumi (1Co 15,33). E poiché il medesimo effetto producono, in misura anche più notevole, i balli e i canti sdolcinati, occorre tenersi lontani anche da questi.

Fra questi incitamenti alla voluttà vanno annoverati i libri osceni e trattanti dell'amore sessuale, che devono evitarsi con non minore severità delle figure rappresentanti qualcosa di turpe, la cui capacità di spingere al male e di infiammare i sensi giovanili è straordinaria. Il Parroco curi perciò soprattutto che siano osservate con il massimo rispetto le costituzioni sapienti del concilio Tridentino in proposito (Sess. 25).

Se con attenta cura e vigile amore si eviterà quanto abbiamo ricordato, sarà soppressa ogni occasione alla concupiscenza carnale; ma per la sua virulenza valgono in modo eminente la Confessione e la Comunione frequente; le assidue e umili preci a Dio, accompagnate da elemosine e da digiuni. La castità è, in fondo, un dono che Dio non nega a chi rettamente lo cerca (1Co 7,7), poiché Egli non consente che siamo tentati sopra le nostre forze (1Co 10,13).

Dobbiamo infine mortificare il corpo e i suoi appetiti malsani, non solamente con i digiuni, quelli specialmente prescritti dalla santa Chiesa, ma anche con le vigilie, i pii pellegrinaggi e con macerazioni di altro genere. In queste pratiche, infatti, si manifesta la virtù della temperanza. Scriveva appunto san Paolo a quei di Corinto: Chi si appresta a gareggiare nella palestra, segue un regime di grande astinenza. Eppure essi ambiscono una semplice corona corruttibile, mentre noi l'aspettiamo immortale. E poco appresso: Castigo il mio corpo e lo tengo in soggezione, affinché, dopo aver predicato agli altri, io stesso non divenga alla fine un reprobo (1Co 9,25). E altrove: Non vogliate pascere la carne nei suoi immoderati desideri (Rm 13,14).
OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
26/08/2010 16:29

PARTE TERZA: I PRECETTI DEL DECALOGO


SETTIMO COMANDAMENTO
Non rubare




337. Spiegazione del comandamento


Fu antica consuetudine della Chiesa inculcare agli ascoltatori l'importanza e la natura di questo comandamento. Lo prova il rimprovero dell'Apostolo a coloro che premuniscono con ogni zelo gli altri da questi vizi, mentre essi ne sono stracarichi: Tu che sei maestro agli altri, non insegni nulla a te stesso; vai predicando che non si deve rubare, e rubi (Rm 2,21). Insistendo su questo insegnamento, non solo veniva corretta una colpa frequente in quei tempi, ma erano anche sedati i turbamenti e le liti, ed eliminate le altre cause dei mali che sogliono scaturire dal furto. Ma poiché anche il nostro tempo è infestato da simili reati e disordini, i Parroci, sulle orme dei santi Padri e dei maestri della disciplina cristiana, tornino spesso su questo precetto, spiegandone con assidua diligenza l'importanza e il contenuto.

Innanzi tutto dedicheranno la loro cura a spiegare l'infinito amore di Dio verso il genere umano, poiché volle non solamente tutelare, quasi con un presidio, la vita, il corpo e la fama nostra con i due divieti: Non ammazzare, Non commettere atti impuri, ma volle anche, con questo altro comandamento, Non rubare, munire esternamente e difendere le nostre sostanze. Che cosa infatti potrebbero significare le parole suddette, se non possedessero la virtù dei precedenti precetti? Comanda cioè Iddio che i nostri beni, costituiti sotto la sua tutela, non siano da veruno violati o manomessi. E del singolare beneficio divino racchiuso nel precetto, dobbiamo essere particolarmente grati a Dio che ne è l'autore. E poiché ci è stato chiaramente indicato il modo migliore di nutrire e di esprimere la nostra gratitudine, che è non solo di accogliere apertamente la formulazione del precetto, ma di metterlo in pratica, i fedeli devono essere stimolati e infiammati a mostrare cosi il loro ossequio ad esso.

Come i precedenti, anche questo precetto abbraccia due parti: quella, apertamente formulata, che proibisce il furto; l'altra, implicita nella prima, che impone di essere benevoli e generosi verso il prossimo. Parleremo innanzi tutto della prima: Non rubare.

338. Natura e specie del furto


Si avverta subito che col nome di furto non si intende semplicemente l'atto di sottrarre qualcosa di nascosto a un padrone che non sa e non vuole, ma anche l'azione di ritenere apertamente la roba altrui, contro la volontà del proprietario, a meno che non si voglia pensare che, proibendo il furto, si siano volute tollerare le rapine compiute a mano armata, mentre l'Apostolo afferma: I rapinatori non conseguiranno il regno di Dio (1Co 6,10). Anzi, il contatto e la solidarietà con questa gente devono essere, sempre, secondo l'Apostolo, scrupolosamente evitati (1Co 5,10).

Sebbene la rapina costituisca una colpa più grave del furto perché toglie dei beni coll'aggiunta della violenza contro la persona, e sia quindi più ignominiosa, nessuno si meravigli che la formula del comando divino usi il termine più lieve di furto, tralasciando quello di rapina. Ciò è stato fatto con ponderazione, perché l'ambito del furto è più vasto di quello della rapina. Questa infatti può essere perpetrata solamente da chi disponga di forza e di mezzi. Del resto tutti comprendono come la proibizione di alcuni peccati più leggeri implichi il divieto di colpe più gravi del medesimo genere.

Il possesso e l'uso ingiusto delle cose altrui sono segnalati con vari nomi, secondo la diversità degli oggetti, sottratti ad insaputa e contro la volontà dei padroni. Se un bene privato è tolto ad un privato, l'azione è detta furto; se si sottrae qualcosa al bene pubblico, si compie peculato; traendo in schiavitù un uomo libero o un servo altrui, si commette un plagio; infine rubando un oggetto sacro, si cade nel sacrilegio. E questa è la forma più grave di questo delitto, che trae a privato godimento e a cupidigie riprovevoli beni categoricamente destinati, con disposizioni pie e sagge, al culto sacro, ai ministri della Chiesa, e ad usi di beneficenza.

La legge divina non proibisce solamente l'atto esterno del furto, ma anche l'intenzione e il proposito di rubare. Si tratta infatti di una legge spirituale, che mira all'anima, sorgente dei pensieri e dei propositi. Secondo la frase del Signore, in S. Matteo: Dal cuore partono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze (Mt 15,19).

339. Gravità del furto


La gravita del crimine di furto emerge dalla stessa legge naturale e dal lume della ragione, essendo esso contrario alla giustizia, la quale vuole che a ciascuno sia attribuito il suo. La distribuzione e l'assegnazione dei beni, stabilite fin dagli inizi secondo il diritto delle genti, ratificate dalle leggi divine ed umane, devono infatti essere rispettate, sicché ognuno conservi, quanto in linea di diritto gli spetta, se non vogliamo che sia sovvertita la società umana. Dice l'Apostolo: I ladri, gli avari, gli ubriachi, i maldicenti, i rapaci, non conseguiranno il regno di Dio (1Co 6,10). Le numerose conseguenze del furto rivelano anch'esse l'enormità di questo delitto. Si vanno diffondendo, infatti, giudizi temerari e ingiusti su molti; scoppiano gli odi; sono alimentate le inimicizie; talora si giunge a gravissime condanne di innocenti.

Corre l'obbligo del resto, a tutti divinamente imposto, di dare completa soddisfazione al derubato. Come dice sant'Agostino, il peccato di furto non viene perdonato, se non viene restituita la refurtiva (Lett. CL3). La quale restituzione, quando uno si sia abituato ad arricchirsi con la roba altrui, diviene compito molto arduo, come è facile arguire dall'esperienza altrui e dal buon senso proprio. Il profeta Abacuc lo asserisce esplicitamente: Guai a colui che accumula beni non suoi! Egli va impegolandosi in un fango densissimo (Ab 2,6). Dove fango denso è definito il possesso delle sostanze altrui, dal quale gli uomini solo a fatica possono emergere ed uscire.

Tanti sono i generi di furto, che non è agevole segnalarli tutti. Basterà perciò quel che abbiamo detto intorno al furto e alla rapina, a cui può riportarsi in radice quel che ora diremo. I Parroci usino la massima cura e diligenza nell'indurre il popolo a detestare con orrore questo perverso delitto.

Proseguiamo con le varie specie di questo vizio. Sono dunque ladri anche coloro che comprano oggetti rubati, o ritengono cose comunque trovate, occupate, sottratte. Dice sant'Agostino: Se non hai reso quel che trovasti, hai rubato (Serm. CLXXVIII). Qualora poi sia assolutamente impossibile rinvenire il padrone, la roba trovata sia destinata alla beneficenza. Chi non sente di dover restituire, si rivela capace di fare man bassa di tutto, se lo potesse.

340. Altri trasgressori di questo comandamento


Si rendono rei della medesima colpa coloro che usano frodi e discorsi ingannevoli nel comprare e nel vendere; il Signore punirà queste loro frodi. In questo genere di furti si mostrano più insopportabili e più malvagi quelli che vendono come genuine, mercanzie adulterate e guaste, o che ingannano i compratori nel peso, nella misura, nella quantità e nelle norme della compravendita. Sta scritto infatti nel Deuteronomio: Non avrai nel sacchetto diversi pesi (25,17). E nel Levitico: Non commettete ingiustizia alcuna nel giudicare, nel computare, nel pesare e nel misurare. Sia giusta la stadera e (sempre) eguali i pesi, giusto il moggio e identico il boccale (sestario) (XIX,35). Sta scritto pure in un altro luogo: E abominevole presso il Signore chi usa due pesi; una stadera ingannevole non è buona (Pr 20,23).

E anche furto manifesto quello degli operai e degli artigiani, che ricevono tutta intera la mercede, senza prestare l'opera giusta e dovuta. Né poi si distinguono dai ladri i servi che siano custodi infedeli dei padroni e delle loro cose; sono anzi più detestabili degli altri ladri, che non hanno sottomano le chiavi; perché con un servo ladro nulla in casa rimane sigillato, o chiuso.

Inoltre commettono furto quelli che carpiscono denaro con parole finite e simulate, o con falsa mendicità; anzi il peccato di costoro è più grave, perché aggiungono al furto la menzogna.

Si devono riporre nel numero dei ladri anche quelli che, dopo essere stati assunti a qualche ufficio privato o pubblico, fanno poco o nulla, trascurano il loro dovere, pur esigendo la paga e la ricompensa.

Sarebbe cosa lunga e, come abbiamo detto, difficilissima, trattare di tutti gli altri furti escogitati da una solerte avarizia, che conosce tutti i mezzi per fare denaro. Ci sembra quindi giusto parlare ora della rapina, che forma il secondo capitolo di questo genere di crimini. Prima però il Parroco ammonisca il popolo cristiano di ricordare la sentenza dell'Apostolo: Chi vuoi farsi ricco, cade nella tentazione e nei lacci del demonio (Tim. 6,9). Né mai in alcun luogo gli cada dalla mente questo precetto: Fate agli uomini quanto volete ch'essi facciano a voi (Mt 7,12); tutti poi ricordino sempre il motto: Non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te (Tb 4,16 Lc 6,31).

341. Chi si rende colpevole di rapina


Più esteso quindi è il campo della rapina. Poiché anche quelli che non danno la mercede dovuta agli operai, sono rapinatori; e san Giacomo li invita alla penitenza con queste parole: Piangete, o ricchi, ululando sulle vostre sciagure, che vi piomberanno addosso (Gc 5,1). E più sotto aggiunge la ragione per cui devono fare penitenza: Ecco che la mercede degli operai, che hanno mietuto i vostri terreni, da voi defraudata, grida, e il loro grido è entrato nelle orecchie del Signore degli eserciti (Gc 5,4). Questo genere di rapine è severamente condannato nel Levitico (XIX,13), nel Deuteronomio (24,14), nel Libro di Malachia (3,5) e nel Libro di Tobia (4,15). In questa classe di rapinatori sono inclusi coloro che non pagano, o carpiscono e prendono per sé le gabelle, i tributi, le decime e simili cose, dovute ai rettori della Chiesa e ai magistrati.

Si rendono rei di questa colpa gli usurai inesorabili e crudeli nelle rapine, che derubano e dissanguano il misero popolo con le loro usure. Consiste l'usura nel ricevere un'aggiunta in più oltre il capitale dato, sia denaro o qualsiasi altra cosa, che possa esser acquistata o stimata per denaro. Cosi infatti sta scritto nel libro di Ezechiele: Non riceverà usura e sovrabbondanza (di denaro) (Ez 18,17); e il Signore dice nel Vangelo di Luca: Date in prestito, senza aspettarne nulla (6,34). Sempre fu considerato gravissimo questo delitto, anche presso i pagani, e odioso più d'ogni altro. Da ciò il motto: Cos'è far usura? e che cosa è uccidere un uomo? Poiché quelli che danno a usura, vendono due volte la medesima cosa, o vendono quel che non esiste 1.

Commettono rapine anche i giudici corrotti dal denaro, che emettono giudizi venali, e che, adescati con denaro e condoni, capovolgono le giustissime cause degli umili e dei diseredati.

Sono condannati per la medesima colpa di rapina quelli che frodano i creditori, i debitori fraudolenti e tutti coloro, che, ottenuto un certo lasso di tempo per pagare, comprano mercanzie sulla parola propria o altrui, e non mantengono la parola giurata. Il crimine di costoro è anche più grave, perché i mercanti, in conseguenza del loro inganno e della loro frode, vendono più cara ogni cosa, con grave danno di tutta la cittadinanza. A costoro sembra convenire il detto di David:Il peccatore prenderà in prestito e non pagherà (Ps 36,21).

E che diremo di quei ricchi che troppo duramente esigono, da quelli che non hanno da pagare, quel che presero in prestito, e, contro la proibizione di Dio, tolgono loro come pegno, anche le cose necessarie al mantenimento del loro corpo? Dice infatti Iddio: Se riceverai in pegno dal tuo prossimo il vestito, glielo restituirai prima del tramonto. Esso infatti è l'unica cosa con cui si può coprire, è l'indumento della sua carne, e non ha altro in cui possa dormire; se griderà giustizia a me lo esaudirò, perché sono misericordioso (Ex 22,26). La crudeltà della loro pretesa chiameremo dunque a buon diritto rapacità e rapina.

Nel numero di coloro, che vengono chiamati rapinatori dai santi Padri sono quelli che, durante la carestia, incettano frumento e fanno si che per loro colpa il mercato sia più caro e più difficile. Ciò vale anche per tutto quel che riguarda il mantenimento e tutte le cose necessarie alla vita; ad essi si riferisce quella maledizione di Salomone: Chi nasconde le derrate, sarà maledetto fra le genti (Pwv. 11,26).

I Parroci dunque liberamente rimprovereranno costoro dei loro misfatti, e più ampiamente spiegheranno le pene minacciate per questi peccati.

342. Chi è obbligato alla restituzione


Ciò che abbiamo detto riguarda le cose proibite; ora veniamo a parlare delle cose comandate da questo precetto, tra le quali ha il primo posto la soddisfazione o restituzione; infatti il peccato non viene rimesso, se non si restituisce il mal tolto. Ma, poiché non soltanto chi ha commesso un furto deve restituire il maltolto a colui che ha derubato, ma anche tutti quelli che parteciparono al furto sono obbligati alla restituzione, bisogna spiegare chi siano quelli che non possono sfuggire a quest'obbligo di soddisfare o di restituire.

Parecchie sono le categorie di siffatta gente. La prima è di coloro che comandano di rubare; essi sono non solo compagni e autori del furto, ma anche i più malvagi tra quel genere di ladri.

La seconda categoria, pari alla prima nella volontà sebbene inferiore negli effetti, e tuttavia da considerarsi allo stesso grado, è di quelli, che non potendo comandare, sono consiglieri e suggeritori di furti.
Terza categoria è di coloro, che vanno d'accordo coi ladri.

Quarta, quella di coloro che partecipano al furto, donde essi traggono lucro: se si può chiamar lucro quel che li conduce agli eterni tormenti, qualora essi non si ravvedano; e di loro cosi parla David: Se vedevi un ladro correvi con lui (Ps 49,18).

Quinta categoria di ladri sono coloro che, potendo impedire il furto, sono tanto lontani dall'impedirlo e dall'opporsi; che anzi lasciano e permettono che esso avvenga.

Sesta categoria sono coloro che, sapendo con certezza che è stato fatto un furto e dove, non svelano la cosa, ma fingono di non saperla.

L'ultima categoria comprende tutti i complici, i custodi, i patrocinatori, e quanti offrono loro un ripostiglio e un rifugio. Tutti costoro sono tenuti alla riparazione verso i derubati, e devono esser caldamente esortati a compiere questo dovere indispensabile. Né sono del tutto immuni da questa colpa neppure coloro che approvano e lodano il furto. Non sono poi alieni da questa medesima colpa i figli di famiglia e le mogli, che sottraggono di nascosto denaro ai padri e ai mariti.

343. Bisogna inculcare la misericordia


In correlazione con questo comandamento sta la divina sentenza che noi dobbiamo aver compassione dei poveri e dei bisognosi; alleviarne le tristi condizioni e le angustie coi nostri mezzi e i nostri servigi. E siccome questo argomento deve esser trattato spessissimo e con la massima ampiezza, i Parroci cercheranno nei libri di uomini santissimi come Cipriano, Giovanni Crisostomo, Gregorio Nazianzeno e altri, che ottimamente scrissero intorno all'elemosina, ciò che loro occorre per soddisfare a quest'obbligo.

Infatti bisogna infiammare i fedeli all'ardore e all'alacrità nel soccorrere coloro, che devono vivere della pietà altrui. Bisogna anche insegnare quanto sia necessaria l'elemosina, affinché tutti possiamo mostrarci veramente, in pratica e con l'opera nostra, liberali verso i bisognosi, con questa argomentazione validissima che, cioè, nel supremo giorno del giudizio, Dio avrà in abominio e condannerà al fuoco eterno coloro che tralasciarono o trascurarono gli obblighi dell'elemosina; invece loderà e introdurrà nella patria celeste coloro che benignamente trattarono gli indigenti.

L'una e l'altra massima furono pronunciate dalla bocca di N.S.G. Cristo: Venite, benedetti del Padre mio, possedete il regno preparato per voi; Via da me, maledetti, nel fuoco eterno (Mt 25,34 Mt 25,41).

Inoltre i sacerdoti citino i passi adatti a persuadere, per es.: Date e vi sarà dato (Lc 6,38). Espongano la promessa di Dio, della quale non si può pensare niente di più ricco e magnifico: In verità vi dico, nessuno ha abbandonato la casa ecc, che non riceva il centuplo adesso in questo mondo e nel mondo avvenire la vita eterna (Mc 10,29,30). Aggiungano quel che fu detto da Cristo: Fatevi degli amici per mezzo del mammona d'iniquità, affinché, quando veniate a mancare, vi diano ricetto nelle tende eterne (Lc 16,9).

344. Vari modi di esercitare la misericordia


Espongano, poi, le varie specie di questo dovere, in modo che chi non può largire ai bisognosi tanto da sostentare la vita, almeno conceda prestiti al povero, secondo il precetto di Cristo nostro Signore: Date in prestito, senza aspettarne nulla (Lc 6,34). Il santo re David cosi esprime la felicità di chi agisce in tal modo: Beato l'uomo che ha misericordia e da in prestito (Ps 111,5). E degno poi della cristiana pietà, quando non ci sia possibilità di beneficare altrimenti quelli che per vivere hanno bisogno della pietà altrui, esercitare un lavoro con le proprie mani, evitando cosi anche l'ozio, per poter alleviare l'indigenza dei bisognosi. A ciò esorta tutti l'Apostolo col suo esempio, nella lettera ai Tessalonicesi, con le parole: Voi stessi sapete quanto sia necessario imitarci (2Th 3,7). Parimente agli stessi: Attendete a star quieti, ad adempiere il vostro ufficio e a lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ammaestrati (1Th 4,11). E agli Efesini: Chi rubava, ormai non rubi più; piuttosto lavori operando con le proprie mani quel che è buono, per avere di che dare il necessario a chi soffre (Ep 4,28).

Bisogna anche curare la frugalità e aver riguardo ai beni altrui, per non essere di peso né molesti agli altri. Questa temperanza, certo, apparisce in tutti gli apostoli, ma sopratutto splende in san Paolo di cui è quel motto ai Tessalonicesi: Ricordatevi, o fratelli, del nostro lavoro e della nostra fatica: lavorando notte e giorno, per non aggravare nessuno di voi, vi predicammo il vangelo di Dio (1Th 2,9). E lo stesso Apostolo in un altro luogo afferma: Con fatica e con sudore, lavorando notte e giorno, per non aggravare nessuno di voi (2Th 3,8).

345. Bisogna tener lontani i cristiani da queste colpe


Ma perché il popolo fedele si tenga lontano da tutto questo genere di nefandi delitti, sarà compito dei Parroci rintracciare nei Profeti e prendere dagli altri Libri divini le parole di abominio dei furti e delle rapine, e le terribili minacce fatte da Dio a coloro che commettono quelle colpe. Esclama il profeta Amos: Ascoltate, voi che calpestate il povero e fate perire i miseri della terra, dicendo: Quando passerà il mese, e venderemo le mercanzie? allora potremo diminuire la misura, aumentare il siclo e usare stadere ingannevoli (Amos 8,4-5). Sono dello stesso tenore molte espressioni in Geremia ( seg.), nei Proverbi (Pr 21,6) e nell'Ecclesiastico (Si 10,9). Non c'è poi da dubitare che l'origine dei mali, da cui è oppressa questa età, sia in gran parte compresa in queste cause.

Ma perché i Cristiani s'avvezzino a trattare con tutti i mezzi imposti dalla liberalità e dalla benignità i bisognosi e i mendichi - la qual cosa si riferisce all'altra parte del comandamento - i Parroci esporranno i grandissimi premi che Dio promette in questa vita e nell'altra agli uomini benefici e munifici.

346. Bisogna respingere le scuse ingiuste


Ma poiché non manca chi, anche a proposito di furto, cerca di scusarsi, costui deve essere ammonito che Dio non accoglie nessuna scusa del suo peccato; che, anzi, il suo peccato non solo non sarà alleviato da quella giustificazione, ma maggiormente accresciuto.

Ecco le insopportabili pretese di nobili che credono di diminuire la propria colpa, affermando di non essere discesi a toglier l'altrui per cupidigia o avarizia, ma per conservare il grado della famiglia e degli antenati, la cui stima e dignità andrebbero in rovina, se non fossero sostenute dall'aggiunta delle sostanze altrui. A costoro bisogna strappare questo pernicioso errore, e dimostrare nello stesso tempo che una sola è la maniera di conservare e aumentare le ricchezze, la potenza e la gloria degli antenati: ubbidire alla volontà di Dio e osservare i suoi precetti. Disprezzati questi, le ricchezze formate e conservate con ogni cura, sono distrutte; i re medesimi, precipitati dal soglio regale e dal sommo fastigio, sono umiliati; e al loro posto, talvolta, sono chiamati, per volere divino, uomini infimi, che spesso furono da loro grandemente odiati.

E incredibile quanto si sdegni Dio con costoro; ne è testimone Isaia, in cui si trovano queste parole di Dio: I tuoi principi furono infedeli e alleati di ladri; tutti amano i doni, e corteggiano le retribuzioni. Per questo il Signore Iddio degli eserciti e del forte d'Israele dice: Oh, mi consolerò dei miei nemici, e mi vendicherò dei miei avversari; volgerò la mia mano a te e purificherò la tua scoria nel fuoco (Is 1,23-25).

Non manca chi adduce come pretesto non lo splendore e la gloria, ma il proprio mantenimento e la possibilità d'una vita più comoda e agiata. Bisogna rintuzzare costoro e mostrare loro quanto empi siano le loro azioni e i loro discorsi, mentre preferiscono qualche comodità alla volontà e gloria di Dio, che noi offendiamo in modo straordinario trascurando i suoi precetti. Ma quale comodità mai può esservi nel furto, a cui tengono dietro i più gravi incomodi? Nel ladro infatti, dice l'Ecclesiastico, è confusione e pentimento (5,17). Ma ammesso pure che ciò non sia, è certo che il ladro disonora sempre il nome divino, ripugna alla santissima volontà sua e disprezza i suoi salutari precetti; da questa fonte deriva ogni errore, ogni malvagità, ogni empietà.

E che dire dei ladri che affermarono di non peccare affatto, perché tolgono qualcosa a uomini ricchi e ben forniti, i quali da questo furto non soffrono danno, anzi neppure se ne accorgono? Infelice, certo, e pestifera è tale difesa.

Qualcuno crede che debba essere accolta la sua scusa, ossia la propria consuetudine a rubare, in modo che difficilmente potrebbe desistere da quell'intenzione e da quell'azione. Costui, se non ascolta l'Apostolo che dice: Chi rubava, ormai non rubi più (Ep 4,28), voglia o non voglia, dovrà prendere anche la consuetudine degli eterni supplizi.

Alcuni si scusano di avere rubato, essendosene data l'occasione; va infatti sulla bocca di tutti quel trito proverbio: l'occasione fa l'uomo ladro. Bisogna toglier a quelli che cosi pensano questa malvagia opinione e insegnar loro che si deve resistere alle cattive passioni. Poiché se si dovesse continuamente compiere quello che c'induce a fare la passione, qual misura, qual limite metteremo ai delitti ed alle nefandezze? Grandemente invereconda è dunque quella difesa o piuttosto confessione di somma cupidigia e di ingiustizia. Poiché chi dice di non peccare perché non ha occasione di peccare, confessa quasi nello stesso tempo che peccherà ogni volta che gli se ne offrirà il destro.

Alcuni dicono di rubare per vendicarsi del furto loro fatto da altri. Ad essi bisogna rispondere che prima di tutto non è lecito vendicare le ingiurie; in secondo luogo, nessuno può esser giudice in causa propria; quindi molto meno si può concedere che essi infliggano ad altri la pena di colpe commesse contro di loro.

In ultimo, alcuni credono abbastanza difeso e scusato il furto perché, essendo oppressi da debiti, non se ne possono liberare altrimenti che rubando. Con costoro bisogna ragionar cosi: non c'è debito più grave e da cui più sia oppresso il genere umano, di quello che ricordiamo ogni giorno nella divina preghiera: Rimetti a noi i nostri debiti (Mt 6,12); per cui è proprio da stolti preferire di essere debitori verso Dio, cioè peccare, per pagare quel che si deve agli uomini. Infatti è molto meglio essere gettati in carcere, che venir condannati agli eterni supplizi dell'inferno, essendo molto più grave esser condannato dal tribunale di Dio che da quello degli uomini. Queste persone devono, con suppliche, chiedere aiuto e pietà a Dio, da cui possono ottenere quel che loro occorre.

Non manca, poi, chi, per scusare il furto, ricorre ad altre ragioni, che però ai Parroci prudenti e diligentissimi del loro ufficio non sarà difficile di ribattere in modo da poter avere un giorno un gregge zelante nelle buone opere (TU. 5,14).
OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
26/08/2010 16:31

PARTE TERZA: I PRECETTI DEL DECALOGO


OTTAVO COMANDAMENTO
Non dirai contro il prossimo tuo falsa testimonianza



347. Necessità di una frequente spiegazione
di questo comandamento


Quanto sia non solo utile, ma anche necessaria un'assidua spiegazione di questo comandamento e un'assidua esortazione a questo dovere, lo ricorda san Giacomo con queste parole: Se uno non sbaglia nel discorrere, è uomo perfetto; e ancora: La lingua è un piccolo membro, eppur capace di grandi effetti. Ecco qual grande selva incendia un cosi piccolo fuoco! (Gc 3,2,5), con quel che segue, sempre a questo proposito.

Siamo ammoniti cosi di due cose: primo, che molto ampiamente è diffuso questo vizio della lingua, il che è confermato anche dalla sentenza del Profeta: Ogni uomo è mendace (Ps 115,11); di modo che questo è quasi il solo peccato, che sembra estendersi a tutti gli uomini; secondo, che da esso derivano mali innumerevoli, poiché spesso per colpa d'un maldicente si perdono la ricchezza, la fama, la vita, la salvezza eterna, tanto di colui che è offeso, perché non può sopportare pazientemente le ingiurie e cerca di vendicarle con animo inconsiderato, come di colui che offende, perché, per un inconsulto pudore o spaventato dalla falsa opinione della stima pubblica, non può indursi a dare soddisfazione all'offeso.

Perciò bisognerà ammonire i fedeli di ringraziare quanto più possono Iddio di questo salutare comandamento che ordina di non dire falsa testimonianza: comandamento che non solo ci si vieta di offendere gli altri, ma con la sua osservanza impedisce anche che siamo offesi dagli altri.

348. Le due parti del comandamento


Nella spiegazione di questo comandamento dobbiamo procedere con lo stesso metodo e per la stessa via che usammo per gli altri, distinguendo cioè in esso due leggi: una che proibisce di dire falsa testimonianza; l'altra che comanda di pesare le nostre parole e le nostre azioni con la verità, eliminando ogni simulazione e menzogna. L'Apostolo ammoni gli Efesini di questo dovere con le parole: Operando la verità nella carità, cresciamo in lui (cioè in Cristo) in ogni cosa (Ep 4,15).

La prima parte di questo comandamento col nome di falsa testimonianza indica egualmente ciò che si dice in bene o in male di qualcuno, sia in giudizio, sia fuori: tuttavia proibisce specialmente la falsa testimonianza resa in giudizio da chi ha giurato. Infatti il testimonio giura nel nome di Dio, perché il discorso di chi fa tale testimonianza, interponendovi il nome divino, ha moltissima credibilità e importanza. Essendo questa falsa testimonianza pericolosa, è proibita in modo speciale. Infatti neppure il giudice può respingere testimoni che giurino, se non siano esclusi da legittimi motivi o sia manifesta la loro malvagità e perversità, sopratutto dal momento che la Legge divina comanda che per bocca di due o tre testimoni si stabilisca ogni cosa (Dt 19,15 Mt 18,16).

Ma perché i fedeli intendano chiaramente il comandamento, sarà loro spiegato che cosa s'intende con la parola prossimo, contro il quale non è in nessun modo lecito di dir falsa testimonianza. Come è esposto dalla dottrina di Cristo N. S. (Lc 10,29), è prossimo chiunque ha bisogno dell'opera nostra, sia egli parente o estraneo, concittadino o forestiero, amico o nemico; non è infatti permesso credere lecita la falsa testimonianza contro i nemici, che pure dobbiamo amare per comando di Dio Signor nostro.

Anzi, poiché ognuno in certo modo è prossimo a se stesso, non è lecito dire falsa testimonianza contro se stessi; coloro che cosi fanno, imprimendosi da sé stessi una nota d'ignominia e di turpitudine, offendono sé e la Chiesa, di cui sono membri, a quel modo stesso che i suicidi nuocciono alla collettività dei propri concittadini. Infatti sta scritto in sant'Agostino: A chi non consideri bene, potrebbe sembrare che non sia proibito essere falso testimonio contro se stesso, giacché nel comandamento fu aggiunto: contro il prossimo tuo. Ma nessuno, dicendo falsa testimonianza contro se stesso, creda di essere immune da questa colpa, poiché chi ama il prossimo deve prendere questa norma dall'amore di se stesso.

Ma, dal momento che è proibito di danneggiare il prossimo con falsa testimonianza, nessuno però creda che sia lecito il contrario, cioè procurare, spergiurando, qualche utilità o vantaggio a chi ci sia congiunto per natura, o per religione. Nessuno infatti deve dire menzogne o cose vane, e tanto meno fare uno spergiuro. Perciò sant'Agostino, scrivendo sulla menzogna a Crescenzio, ammonisce, secondo la sentenza dell'Apostolo, che la bugia è da annoverarsi tra le false testimonianze, quand'anche si dica per falsa lode di qualcuno. Infatti, spiegando quel passo paolino che dice: Noi saremmo falsi testimoni di Dio, giacché abbiamo testimoniato di Dio, questo: che egli risuscito Cristo, che invece non sarebbe risuscitato, se fosse vero che i morti non risorgono, (1Co 15,15), egli osserva: L'Apostolo chiama falsa testimonianza il mentire intorno a Cristo e a tutto ciò che si riferisce a sua lode.

Spessissimo poi accade che chi favorisce l'uno, osteggi l'altro; e la causa dell'errore si attribuisce certamente al giudice, che talvolta, indotto da falsi testimoni, stabilisce ed è costretto a giudicare contro il diritto, con vera ingiustizia. Accade anche che chi ha vinto in giudizio una causa per la falsa testimonianza di qualcuno e se la passa impunemente, esultando dell'iniqua vittoria, si avvezzi a corrompere e a usar falsi testimoni, per opera dei quali spera di poter giungere a quel che brama. Ora questo fatto è, prima, una cosa gravissima per il testimone stesso che viene riconosciuto falso e spergiuro da colui stesso che, col suo giuramento, ha soccorso e aiutato; poi, giacché l'inganno gli riesce come desidera, egli prende ogni giorno maggior pratica e abitudine all'empietà e all'audacia. Come dunque sono proibite le menzogne, le bugie e gli spergiuri dei testimoni, cosi tutte queste colpe sono proibite negli accusatori, negli accusati, nei patrocinatori, sostenitori, procuratori e avvocati; e infine in tutti quelli che costituiscono i tribunali.

In ultimo, Dio proibisce, non solo in giudizio, ma anche fuori, ogni testimonianza che possa recare ad altri incommodo o danno. Sta scritto, infatti, nel Levitico, dove si ripetono questi comandamenti: Non farete furto; non mentirete, né alcuno ingannerà il suo prossimo (XIX,11). Cosi nessuno può dubitare che ogni menzogna, proibita con questo comandamento, sia condannata da Dio; e questo molto apertamente lo testimonia David cosi: Distruggerai tutti quelli che dicono menzogna (Ps 5,7).

349. Altri peccati proibiti con questo comandamento


E proibita da questo comandamento non solo la falsa testimonianza, ma anche la detestabile mania e abitudine di denigrare gli altri. E incredibile quante sciagure gravi, pericolose e cattive, derivino da questa peste. Il vizio di parlare con maldicenza e con offesa degli altri occultamente, spesso è rimproverato dalle divine Scritture: Con il maldicente, dice David, non mi sedevo a mensa (Satm. C,5); e san Giacomo: Non vogliate denigrarvi a vicenda, o fratelli (Gc 4,11).

Né abbondano soltanto i richiami della sacra Scrittura, ma anche gli esempi dai quali è dimostrata la gravita della colpa. Aman accese tanto Assuero contro i Giudei con la falsa accusa di delitti, che questi comando d'uccidere tutti gli uomini di quel popolo (Est 13). E piena la Storia sacra di simili esempi, col ricordo dei quali i sacerdoti cercheranno di tener lontani i fedeli da una colpa tanto malvagia.

Affinché si capisca la gravita di questo peccato con cui si denigrano gli altri, bisogna ricordare che non soltanto coll'usare la calunnia, ma anche con l'accrescere e amplificare le colpe, si lede la stima di cui gode un uomo. E quando uno commette occultamente un'azione, che, se risaputa, sarebbe nociva alla sua fama, chi la divulga dove, quando, o a chi non sarebbe necessario, a buon diritto è detto denigratore e maldicente. Fra tutte le denigrazioni, nessuna è più grave di quella di denigrare la dottrina cattolica e i suoi difensori. Cade in codesta colpa chi colma di lodi gli autori di malvagie dottrine e di errori.

Né sono separati dal numero ed esenti dalla colpa di costoro quelli che, prestando orecchio ai detrattori e maldicenti, non riprendono i calunniatori, ma volentieri li approvano. Infatti, se sia più condannabile il calunniare o l'ascoltare un calunniatore, non si saprebbe dire facilmente, come scrivono san Girolamo e san Bernardo; non ci sarebbe infatti chi calunnia, se non ci fosse chi ascolta il calunniatore.

Appartengono alla medesima razza quelli che, con le loro arti, separano gli uomini e li spingono l'uno contro l'altro, e si dilettano molto di suscitare discordie, in modo che, rompendo, con finti discorsi, strettissime unioni e alleanze, inducono uomini amicissimi a perpetue inimicizie e li spingono alle armi. Questa peste, il Signore l'ha in abominio: Non sarai infamatore né sobillatore in mezzo al popolo (Lv 19). Tali erano molti dei consiglieri di Saul, che cercavano di alienare il suo favore da David e incitare il re contro di lui.

Commettono infine questo peccato gli uomini lusingatori e adulatori che, con blandizie e lodi simulate, si insinuano nelle orecchie e nell'animo di coloro di cui ricercano il favore, il denaro e gli onori, chiamando male il bene e bene il male, come scrive il profeta (Is 5,20). David ammonisce di tener lontani costoro e di cacciarli dalla nostra società con queste parole:Il giusto mi rimprovererà nella sua misericordia e mi sgriderà; ma l'olio del peccatore non ungerà il mio capo (Ps 140,5). Quantunque, infatti, costoro non sparlino affatto del prossimo, tuttavia gli nuocciono moltissimo, giacché essi, col lodare i suoi peccati, gli offrono una ragione per perseverare nei vizi, finché vive.

Però in questo genere di vizi è peggiore l'adulazione usata per la calamità e la rovina del prossimo. Cosi fece Saul, il quale, desiderando gettare David in preda al furore e al ferro dei Filistei perché fosse ucciso, lo blandiva con queste parole: Ecco la mia figlia maggiore Merob, te la darò per moglie; sii soltanto guerriero valoroso e combatti le guerre del Signore (1S 18,17). Cosi fecero i Giudei quando, con insidioso discorso, parlarono con Cristo Signore: Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via del Signore secondo la verità (Mt 22,16 Mc 12,14).

Molto più pericoloso, poi, è il discorso che gli amici, gli affini e i congiunti fanno talvolta per illudere quelli che, colpiti da malattia mortale, sono ormai in punto di morte. Affermano che egli non è in imminente pericolo;

Lo consigliano a stare lieto e allegro, e lo distolgono dalla confessione dei suoi peccati; infine tengono lontano il suo animo da ogni cura e pensiero dei supremi pericoli, nei quali soprattutto si trova.

Perciò bisogna fuggire ogni sorta di menzogne, ma specialmente quelle dalle quali uno può ricevere grave danno. Colma d'empietà è la menzogna quando si mentisce contro la religione o in cose di religione. Ma Dio si offende gravemente anche con le ingiurie e le calunnie contenute nei libelli chiamati infamanti, e per altri simili oltraggi. Inoltre, cadere nella menzogna scherzosa o ufficiosa, quand'anche nessuno ne abbia danno o vantaggio, è in generale cosa da non farsi, come ammonisce l'Apostolo: Deponendo la menzogna, dite la verità (Ep 4,25). Infatti, da ciò nasce una grande inclinazione a menzogne più frequenti e più gravi. Dalle menzogne dette per scherzo gli uomini prendono l'abitudine di mentire, in modo che vengon tenuti nella considerazione pubblica come non veritieri; per cui han bisogno di giurare continuamente affinché il loro discorso sia creduto.

Per finire, nella prima parte di questo comandamento è condannata la simulazione; e non solo le parole dette con simulazione, ma anche le azioni cosiffatte partecipano di questa colpa. Infatti, tanto le parole che le azioni sono indizi e segni di quel che è nell'animo d'ognuno. Perciò il Signore, redarguendo spesso i Farisei, li chiama ipocriti. E ciò basti per la prima parte del comandamento, che riguarda quanto esso proibisce.

350. Che cosa comanda il Signore riguardo ai giudizi forensi


Ora esporremo che cosa comandi il Signore nell'altra parte del comandamento. Il contenuto e l'espressione del precetto mirano a questo: che i giudizi forensi si facciano con giustizia e secondo le leggi, che gli uomini quindi non si arroghino, né usurpino tali giudizi; non è lecito infatti giudicare un servo altrui, come scrive l'Apostolo (Rm 14,4); affinché non diano la sentenza in una causa loro sconosciuta, come fece il consesso di sacerdoti e scribi, che giudico santo Stefano (Ac 6,12 Ac 7); peccato che fu pure commesso dai magistrati di Filippi, ai quali l'Apostolo fece dire: Dopo averci battuto pubblicamente, senza processo, romani come siamo, ci hanno messo in prigione; e ora ci mandano via di nascosto (Ac 16,37). Non condannino gli innocenti, né assolvano i colpevoli; non si lascino smuovere dal denaro, dai favori, dall'odio o dall'amore. Cosi infatti Mosè ammonisce gli anziani, che egli aveva eletto giudici del popolo: Giudicate secondo giustizia sia l'imputato cittadino sia forestiero. Non ci sia differenza di persone; ascolterete il piccolo e il grande: non guarderete in faccia a persona, perché giudicare spetta a Dio (Dt 1,16).

Quanto agli accusati e ai colpevoli, Dio vuole che confessino la verità, quando sono interrogati secondo la formula giudiziaria. Infatti tale confessione è come una testimonianza e un riconoscimento della lode e gloria di Dio, secondo le parole di Giosuè, che esortando Achan a confessare il vero, disse: Figlio mio, da gloria al Signore Dio d'Israele (Gios. 7,19).

Ma siccome questo comandamento riguarda sopratutto i testimoni, anche di essi il Parroco tratterà con diligenza: poiché il comandamento non solo vieta la falsa testimonianza, ma impone anche di dire la verità. Nelle cose umane infatti si fa grandissimo uso di una testimonianza veridica; sono, infatti, innumerevoli le cose che ignoreremmo se non le conoscessimo per attestazione di testimoni. Per cui nulla è cosi necessario come la verità delle testimonianze in quello che non possiamo sapere da noi, e che tuttavia non dobbiamo ignorare. Intorno a ciò abbiamo la celebre sentenza di sant'Agostino: Chi nasconde la verità, e chi dice menzogna, sono ambedue colpevoli; il primo perché non vuoi giovare ad altri; il secondo perché desidera di nuocere. E lecito tacere talvolta la verità, ma fuori del tribunale; in giudizio, quando il testimonio è interrogato nelle forme rituali dal giudice, deve svelare completamente la verità. Qui tuttavia badino i testimoni a non affermare per vero, quel che non sanno sicuramente, troppo fidandosi della propria memoria.

Restano i patrocinatori delle cause e gli avvocati, tanto di difesa quanto di accusa. Quelli non facciano mancare l'opera e il patrocinio loro nelle circostanze necessarie, venendo benignamente in aiuto ai bisognosi; ma non prendano a difendere cause ingiuste, né allunghino le liti con i cavilli, né le alimentino con l'avarizia. La mercede dovuta al loro lavoro e alla loro opera, la fisseranno con giustizia ed equità.

Detti avvocati, poi, sia nel foro civile che nel penale, siano ammoniti a non creare un pericolo con ingiuste accuse, per amore o per odio verso qualcuno, o per passione. Infine questo comando fu dato da Dio a tutti gli uomini buoni: nelle adunanze e nei colloqui parlino sempre veracemente e secondo l'animo loro; non dicano nulla che possa nuocere alla stima di altri, neppure a proposito di coloro dai quali essi credono di essere danneggiati e offesi; tenendo sempre presente che deve esistere con essi tale solidarietà e familiarità da risultare membra del medesimo corpo.

351. Abiezione e turpitudine della menzogna


Perché i fedeli si possano guardare meglio dal vizio della menzogna, il Parroco spieghi la grande abiezione e turpitudine di questa colpa. Nelle sacre Scritture il demonio è chiamato padre della menzogna (Jn 8,44); che, non essendo stato saldo nella verità, è menzognero e padre della menzogna. Aggiungerà, per estirpare un cosi grande vizio, i mali che tengono dietro alla menzogna; e poiché sono innumerevoli, mostrerà in essa la fonte e l'origine dei disordini e delle sciagure. Primo, spieghi in quale grave offesa a Dio e in quanto suo odio venga a cadere l'uomo falso e menzognero; e lo " illustri " con l'autorità di Salomone: Sei sono le cose che il Signore odia, e la settima aborre l'anima sua: occhi superbi, lingua menzognera, mani che versano sangue innocente, cuore che macchina pessime intenzioni, piedi veloci nel correre al male, testimonio menzognero che proferisca cose false (Pr 6,16-19); con quel che segue.

Chi, dunque, potrebbe assicurare a chi è in odio speciale a Dio, di non esser tormentato dai più gravi tormenti? Inoltre, che cosa c'è di più impuro e di più turpe, come dice san Giacomo, che usare quella medesima lingua, con cui lodiamo Dio Padre, per dir male degli uomini, fatti a immagine e somiglianza di Dio, cosi come se una fonte da un medesimo foro facesse scaturire acqua dolce e amara? (Gc 3,9,11). Quella lingua, infatti, che prima dava lode e gloria a Dio, poi lo colpisce, per quanto le è possibile, di vituperio e di disdoro, mentendo. Per questo avviene che i bugiardi sono esclusi dal possesso della beatitudine celeste. Infatti chiedendo David a Dio: Signore, chi abiterà nel tabernacolo tuo? - risponde lo Spirito santo: Chi dice la verità in cuor suo, chi non fece inganno con la sua lingua (Ps 14,1-5).

Ma il danno principale della menzogna è che essa è quasi insanabile malattia dell'animo. Infatti, il peccato che si commette accusando qualcuno falsamente d'una colpa, o denigrando la fama e la stima del prossimo, non viene rimesso se il calunniatore non dia soddisfazione dell'ingiuria a chi ha incriminato. Ma gli uomini ben difficilmente lo fanno, perché, come abbiamo avvertito, ne vengono distolti sopratutto da un falso pudore e da una certa vana opinione della propria dignità. Chi dunque, è in questo peccato non possiamo dubitare che sia condannato alle pene eterne dell'inferno. Né alcuno speri di poter ottenere perdono delle calunnie o della denigrazione fatta se prima non dia soddisfazione a colui, la cui dignità e fama egli ha denigrato in qualche modo, o pubblicamente in giudizio, o anche in adunanze private e familiari.

Inoltre, questo danno è molto grave ed esteso, e colpisce tutti; perché dalla falsità e dalla menzogna sono rotti i vincoli più stretti della società umana: la lealtà e la verità. Tolti questi, ne segue una gran confusione nella vita, e gli uomini in nulla sembrano differire dai demoni.

Il Parroco insegni, inoltre, che bisogna evitare la loquacità, cosi possiamo sfuggire anche gli altri peccati e ci si può correggere dal vizio della menzogna; vizio dal quale difficilmente si possono astenere le persone loquaci.

In ultimo, il Parroco confuterà l'errore di quelli che, con i loro vani discorsi, si scusano, e difendono la menzogna sull'esempio dei furbi; i quali ritengono virtù, essi dicono, mentire a tempo debito. Il Parroco dirà, il che è verissimo, che la prudenza della carne è morte per l'anima (Rm 8,6). Esorterà i suoi uditori a confidare in Dio nelle difficoltà, nelle angustie, senza ricorrere all'artificio della menzogna; poiché quelli che usano questo sotterfugio dichiarano, senz'altro, che si fanno forti della propria prudenza più che non abbiano speranza nella Provvidenza divina. A chi attribuisce la causa della sua menzogna al fatto che fu egli pure ingannato con la menzogna, bisogna far presente che non è lecito agli uomini vendicarsi da se stessi, e che non bisogna compensare il male col male, ma piuttosto vincere il male col bene (Rm 12,17 Rm 12,19 Rm 12,21). E quand'anche fosse permesso dare questo contraccambio, a nessuno tuttavia è utile vendicarsi con proprio danno, essendo gravissimo danno quel che facciamo, dicendo menzogne. A quelli che adducono a scusa la debolezza e la fragilità della natura umana, si raccomandi il doveroso precetto di implorare l'aiuto divino e di non sottostare alla debolezza della natura.

Quelli che oppongono la forza della consuetudine siano ammoniti, se hanno preso l'abitudine di mentire, a cercare di prendere l'abitudine contraria, cioè di dire il vero, sopra tutto perché chi pecca per uso e consuetudine, commette più grave colpa degli altri. E poiché non manca chi si difende con la scusa che tutti gli uomini, si dice, mentiscono e spergiurano, bisogna combattere quest'opinione, dicendo che non si devono imitare i cattivi, ma piuttosto riprenderli e correggerli. Se invece noi stessi mentiamo, la nostra ammonizione ha meno autorità nella riprensione e correzione degli altri.

A quelli che si difendono affermando che, col dire il vero, spesso ne ricevono danno, i sacerdoti rispondano che questa non è una difesa per essi, ma un'accusa, giacché è dovere d'un cristiano patire piuttosto qualsiasi danno che mentire.

Restano le ultime due categorie di quelli che si scusano della menzogna: quelli che dicono di mentire per scherzo, e quelli che dicono di farlo perché non potrebbero né comprare né vendere bene, senza la menzogna; i Parroci dovranno allontanare gli uni e gli altri da tale errore. I primi potranno essere strappati al vizio, sia insegnando loro quanto in questo genere di peccato l'uso accresca la consuetudine di mentire, sia inculcando che bisogna render ragione persino d'ogni parola oziosa (Mt 12,26). Gli altri, poi, siano rimproverati ancora più acerbamente, perché nell'addotta giustificazione sta appunto la loro più grave accusa, poiché essi stessi dichiarano di non attribuire alcuna fede e autorità all'insegnamento divino: Cercate, pertanto, in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia, e avrete in soprappiù tutte queste cose (Mt 6,33).
OFFLINE
Post: 1.222
Sesso: Femminile
26/08/2010 16:31

PARTE TERZA: I PRECETTI DEL DECALOGO


NONO e DECIMO COMANDAMENTO
Non desiderare la casa del prossimo tuo, né la moglie, il servo,
la serva, il bue, l'asino e tutto quello che è suo




352. In questi due comandamenti è riposto il modo
per osservare gli altri


Si noti prima di tutto che in questi due comandamenti, che sono stati dati per ultimi, è quasi riposto il segreto per cui si possono osservare tutti gli altri. Poiché quello che è imposto con queste parole mira a questo: che se uno vuole osservare i suddetti comandi della Legge, deve sopratutto badare a non desiderare disordinatamente. Infatti chi è contento di quel che possiede, non desidera né brama le cose altrui. Egli godrà dei vantaggi degli altri, darà gloria a Dio immortale, lo ringrazierà più che può, onorerà il sabato, cioè godrà di perpetua pace, onorerà i suoi maggiori, infine non offenderà alcuno né con atti né con parole, né in altro modo. Infatti, origine e seme di tutti i mali è la malvagia concupiscenza (1Tm 6,10 Jc 1,14; 1Tm 4,1), giacché, chi ne è acceso, cade a precipizio in ogni sorta di turpitudini e di colpe. Premesse queste avvertenze, il Parroco sarà molto diligente nell'esporre quel che segue, e i fedeli più attentamente lo ascolteranno.

Quantunque qui noi abbiamo unito due comandamenti, perché, essendone simile l'argomento, tengono la medesima via nell'ammaestrarci, il Parroco tuttavia, nell'esortare e nell'ammonire, potrà trattarli insieme o separatamente, come gli sembrerà più conveniente. Se poi si assumerà il compito di spiegare il Decalogo, mostri quale sia la dissomiglianza tra i due comandamenti e in che cosa una concupiscenza differisca dall'altra; la quale differenza è esposta da sant'Agostino nel libro delle questioni sull'Esodo.

L'una di esse mira soltanto a ciò che è utile e a ciò che è vantaggioso; l'altra ha per oggetto le libidini e i piaceri sessuali. Se dunque uno desidera il podere o la casa d'altri, brama più il lucro o l'utile che il piacere; se invece desidera la moglie altrui, arde non del desiderio dell'utile, ma del piacere.

Duplice fu la necessità di questi comandamenti: la prima deriva dall'esigenza di spiegare il senso del sesto e settimo comandamento. Perché, quantunque con un certo naturale acume si potesse comprendere che, vietato l'adulterio, era pur proibita la brama di possedere la moglie altrui - giacché se fosse lecito il desiderare, dovrebbe esserlo ugualmente il possedere - tuttavia molti Ebrei, accecati dal peccato, non potevano essere indotti a credere che ciò fosse proibito; anzi, dopo che fu divulgata e conosciuta questa legge divina, molti che si professavano interpreti della Legge, caddero in questo errore, come si può capire dal discorso del Signore, nel Vangelo di san Matteo: Udiste come fu detto agli antichi: Non fare adulterio. Ma io vi dico... (Mt 5,27), con quel che segue. Seconda necessità di questi comandamenti è di vietare distintamente ed esplicitamente certe colpe, non vietate esplicitamente nei comandamenti sesto e settimo. Il settimo comandamento, per es., proibisce che uno desideri ingiustamente le cose altrui o tenti di prenderle; questo invece vieta che uno possa in qualche modo desiderare le cose altrui, quand'anche potesse ottenerle a buon diritto e secondo la legge, quando dal loro possesso derivasse un danno al prossimo.

353. In questi precetti è manifesta
la bontà di Dio verso di noi


Siano avvertiti i fedeli, prima di venire alla spiegazione del comandamento, che noi con questa legge non siamo soltanto ammaestrati a frenare le nostre cupidigie, ma anche a conoscer la pietà di Dio verso di noi, che è immensa. Egli infatti, avendoci fornito con i precedenti comandamenti della Legge una specie di difesa, perché nessuno potesse danneggiare noi e le cose nostre, con questo comandamento supplementare volle, sopratutto, provvedere che non ci danneggiassimo con i nostri sfrenati desideri. Il che facilmente ci sarebbe accaduto se fosse stata libera e intera per noi la possibilità di bramare e desiderare ogni cosa. Col prescriverci, invece, questa legge su ciò che non dobbiamo desiderare, Dio provvide a che gli stimoli delle passioni, dalle quali possiamo più spesso esser incitati verso le cose a noi dannose, repressi in qualche modo dal vigore di questa legge, meno ci assillino. E cosi, liberati dalla molesta cura delle passioni, possiamo avere più tempo per compiere quei doveri di pietà e di religione, che, in gran numero e importantissimi, dobbiamo a Dio stesso.

Né questa norma c'insegna solo questo; ma ci ammonisce pure che la Legge di Dio è di tal fatta che bisogna osservarla non solo col compiere le obbligazioni esterne imposteci dal dovere, ma anche con l'intima adesione dell'animo. E questa è la differenza tra le leggi divine e le umane: queste si contentano dell'osservanza esterna; quelle invece, poiché Dio penetra nell'animo nostro, richiedono vera e sincera castità e integrità dell'animo stesso. La Legge divina è come uno specchio, in cui vediamo i vizi della nostra natura; perciò l'Apostolo disse: Non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non dicesse: Non desiderare (Rm 7,7). Infatti, poiché la concupiscenza, cioè il fomite del peccato che ebbe origine dal peccato originale, perdura sempre in noi, veniamo a conoscere che siamo nati nel peccato; e perciò, supplichevoli, ci rifugiamo presso Colui che, solo, può togliere le sozzure del peccato.

354. Le due parti del comandamento:
proibizioni e prescrizioni


Ognuno di questi due comandamenti ha questo in comune con gli altri: da una parte, vieta qualche cosa, dall'altra parte, impone dei doveri da compiere.

Per quanto riguarda la proibizione, perché nessuno creda che sia peccato la concupiscenza non viziosa, - come è quella dello spirito contro la carne (Ga 5,17), o quella che consiste nel chiedere a ogni momento le divine giustificazioni (Ps 118,20), ciò che David desiderava di ricordare, - il Parroco insegni quale sia la concupiscenza che viene colpita dalla prescrizione di questa legge.

Si ricordi che la concupiscenza è un turbamento e uno stimolo dell'animo, per opera del quale gli uomini desiderano le cose gradite che non possiedono; ed a quel modo che gli altri appetiti dell'animo non sempre sono cattivi, cosi questo stimolo della concupiscenza non sempre deve essere riposto tra i vizi. Infatti non è cosa cattiva il desiderare cibo o bevanda, bramare di riscaldarci quando abbiamo freddo, o di rinfrescarci quando abbiamo caldo; anzi questo retto stimolo della concupiscenza è insito nella nostra natura per opera di Dio. Ma per il peccato dei nostri progenitori, accadde che esso, passando i confini segnalati dalla natura, si depravo a tal segno, che spesso è incitato a desiderare le cose, che ripugnano allo spirito e alla ragione.

Questo stimolo, se moderato e racchiuso nei suoi limiti, spesso procura grandi vantaggi; perché, prima di tutto, fa in modo che noi preghiamo Dio con assiduità e chiediamo supplichevoli a lui quello che sopratutto desideriamo. L'orazione infatti è la manifestazione del desiderio; e, se mancasse questo retto stimolo della concupiscenza, non ci sarebbero tante preghiere nella Chiesa di Dio. Inoltre ci rende più cari i doni di Dio, perché quanto più fortemente ardiamo del desiderio di una cosa, tanto più cara e gradita ci diviene, quando l'abbiamo ottenuta. Lo stesso piacere, poi, che proviamo per la cosa desiderata, ci fa ringraziare Dio con maggiore devozione. Perciò, se qualche volta è lecito desiderare, dobbiamo riconoscere che non è proibito ogni stimolo di concupiscenza; e, quantunque san Paolo abbia detto che la concupiscenza è peccato (Rm 7,20), bisogna intendere ciò nel senso in cui parlo Mosè (Ex 20,17), del quale riporta la testimonianza; e lo dichiara la parola dello stesso Apostolo, poiché nella Lettera ai Galati chiama questo difetto: concupiscenza della carne. Camminate, egli dice, nello spirito, e non soddisfate i desideri della carne (5,16).

Dunque lo stimolo del desiderio naturale e moderato, che non esce dai suoi limiti, non è proibito; e molto meno quella spirituale tendenza di una retta mente, da cui siamo stimolati a desiderare ciò che ripugna alla carne. Ad essa infatti ci esortano le sacre Scritture, dicendo: Desiderate i miei discorsi (Sg 6,12); Venite a me tutti voi che mi desiderate (Si 24,26).

Pertanto con questa proibizione non è vietato del tutto quel desiderio che può condurre tanto al bene che al male; ma la consuetudine della prava cupidigia, chiamata concupiscenza della carne e fomite di peccato, la quale porta con sé il consenso dell'animo, deve esser sempre annoverata tra i vizi. Dunque è vietata soltanto quella libidine di concupiscenza, che l'Apostolo chiama concupiscenza della carne (Ga 5,16,24), cioè quei moti di concupiscenza che non hanno alcun freno di ragione e non sono racchiusi nei limiti fissati da Dio.

Questa cupidigia è condannata, sia che desideri il male, come adulteri, ebrietà, omicidi e altre simili colpe nefande, di cui l'Apostolo dice: Non desideriamo ciò ch'è malvagio, come essi lo desiderarono (1Co 10,6); - sia che quanto desideriamo non sia lecito per noi, quantunque le cose desiderate per natura non siano cattive. A questo genere di cose appartiene ciò che Dio, o la Chiesa vietano di possedere; non è infatti lecito desiderare ciò che è in generale proibito di possedere, come lo erano nell'antica Legge, l'oro e l'argento che erano serviti per farne idoli; le quali cose il Signore nel Deuteronomio vieto di desiderare (7,25).

Inoltre questa viziosa bramosia è proibita perché le cose che si desiderano sono di altri, come la casa, il servo, l'ancella, il campo, la moglie, il bove, l'asino, e molte altre, che la Legge divina vieta di desiderare appunto perché di altri. Il desiderio di tali cose è cattivo e viene annoverato tra i più gravi peccati, quando l'animo da il suo consenso. Infatti si ha naturalmente il peccato, quando, dopo l'impulso di malvage passioni, l'animo si diletta di cose biasimevoli e consente o non ripugna ad esse. Cosi insegna san Giacomo, allorché mostra l'origine e il progredire del peccato, con queste parole: Ognuno è tentato, attratto e allettato dalla propria concupiscenza. Quando poi la concupiscenza ha concepito, produce il peccato; e il peccato quando è stato consumato, genera la morte (I,14).

355. Spiegazione del comandamento


Giacché siamo cosi messi in guardia dalla Legge che dice: Non desiderare, queste parole si devono intendere nel senso che dobbiamo tener lontano il desiderio dalle cose altrui; che la sete di cupidigia per le cose degli altri è immensa e infinita, né mai si sazia. Sta scritto infatti: L'avaro non si sazierà di denaro (Si 5,9); e anche Isaia dice: Guai a voi che aggiungete casa a casa e unite campo con campo (5,8). Ma dalla spiegazione delle singole parole più facilmente capiremo la turpitudine e la gravita di questo peccato.

Il Parroco insegni che col termine casa, non s'intende soltanto il luogo che abitiamo, ma tutti i beni ereditari, come si può ricavare dall'usanza e consuetudine degli scrittori sacri. Nell'Esodo sta scritto che alle levatrici furono edificate case da Dio (I,21); e la frase qui significa che le loro sostanze furono aumentate e accresciute da Dio. Da questa interpretazione conosciamo che questa parte del precetto vieta di desiderare avidamente le ricchezze, di invidiare le facoltà, la potenza, la nobiltà altrui, mentre ci è imposto di contentarci del nostro stato, qualunque esso sia, umile o eccelso. Dobbiamo poi intendere che è vietato anche il desiderio della gloria altrui, giacché anche questa ha relazione con la casa.

Quel che segue poi: Né il bove né l'asino, mostra che non dobbiamo desiderare non solo le cose importanti, come la casa, la nobiltà e la gloria, quando siano d'altri, ma nemmeno le piccole, comunque siano, animate o inanimate.

Segue ancora: Né il servo, né la serva; e ciò s'ha da intendere tanto degli schiavi presi in guerra, quanto di tutti i servi, che non dobbiamo desiderare, come ogni altro bene altrui. Quanto agli uomini liberi, che servono di loro volontà, per denaro, per amore e affetto, in nessun modo, né con parole, né con dar loro speranze, promesse, ricompense, si devono corrompere o indurre ad abbandonare coloro ai quali spontaneamente si sono vincolati; anzi, se prima del tempo pattuito per il loro servigio, se ne allontanassero, siano ammoniti, con l'autorità di questo comandamento, a farvi prontamente ritorno.

Quanto alla menzione che nel comandamento si fa del prossimo, essa mira a dimostrare la colpa di coloro che insistono a desiderare i campi vicini, le case contigue, o altra cosa siffatta, che sia a portata di mano. La vicinanza, infatti, che suoi considerarsi come un vincolo d'amicizia, talvolta cambia l'amore in odio, per colpa della cupidigia di possedere. Ma non offendono affatto questo comandamento quelli che desiderano comprare, o comprano a giusto prezzo dai vicini, quanto questi possono vendere. Essi infatti non solo non danneggiano il prossimo, ma lo aiutano grandemente, poiché il denaro gli sarà di maggior comodo e vantaggio di quelle cose che vende.

Al precetto che vieta di desiderare la roba d'altri, segue l'altro che vieta di desiderare la moglie degli altri; da quest'ultimo veniva proibito non soltanto quella libidine di concupiscenza con cui l'adultero desidera la moglie altrui, ma anche quella per la quale uno desidera sposare la moglie d'altri. Infatti, quand'era permesso il ricorso al libello del ripudio, poteva facilmente avvenire che la donna ripudiata da uno fosse accolta in moglie da un altro. Ma il Signore lo vieto, affinché né i mariti fossero stimolati a lasciare le mogli, né le mogli si mostrassero scontrose e capricciose coi mariti, e cosi s'imponesse loro quasi una certa necessità di ripudiarle.

Adesso dunque il peccato è più grave, perché un altro uomo non può sposare una donna ripudiata dal marito, se non dopo la morte di questo; e cosi chi desidera la moglie altrui, facilmente cadrà da un desiderio all'altro: bramerà infatti o che muoia il marito di lei, o di commettere un adulterio. Lo stesso si dica delle donne, promesse in matrimonio a un altro; anche queste non è lecito desiderarle, giacché chi cerca di rompere il fidanzamento, viola un santissimo vincolo religioso. A quel modo poi che è somma nefandezza desiderare la donna d'altri, cosi non si deve in nessun modo desiderare come moglie la donna, consacrata al culto e alla religione di Dio.

Se poi uno desiderasse di prendere in moglie una donna maritata, non credendola però tale, disposto però a non desiderarla, se la sapesse maritata a un altro - come accadde al Faraone e ad Abimelech, che desiderarono sposare Sara, credendola nubile e sorella, non già moglie di Abramo (Gn 12,11 Gn 20,2 segg. ) -, colui che cosi pensa, non viola questo precetto.

356. Rimedi contro la concupiscenza


Perché il Parroco possa indicare i rimedi adatti a togliere questa passione della cupidigia, deve spiegare l'altra parte del comandamento, che consiste in questo: se le ricchezze abbondano, non dobbiamo attaccarvi il cuore, ma essere invece sempre pronti a profonderle per pietà e per amore delle cose divine, volentieri erogandole nel sollevare le miserie dei poveri. Che se poi ci mancano i mezzi, dobbiamo sopportare la povertà con animo sereno e ilare. E cosi, se saremo liberali nel dare le cose nostre, estingueremo in noi il desiderio delle altrui. Quanto alle lodi della povertà e al disprezzo delle ricchezze, facilmente il Parroco potrà trovare molti argomenti nelle sacre Scritture e nei santi Padri, per esporli al popolo fedele.

Con questa legge ci viene pure comandato di desiderare con ardente passione e con tutta la forza dell'animo che si compia sopratutto non ciò che desideriamo, ma quel che Dio vuole, secondo le parole nell'Orazione domenicale. E la volontà di Dio è sopratutto questa: che noi in maniera speciale diventiamo santi, conserviamo l'animo sincero, integro e puro da ogni macchia, e ci esercitiamo in quei doveri della mente e dello spirito, che ripugnano ai sensi materiali; cosicché, domati i loro appetiti, teniamo nella vita la retta strada, sotto la guida della ragione e dello spirito, e infine freniamo sopratutto l'impeto violento di quei sensi che offrono materia alla nostra cupidigia e alla libidine.

Ma a estinguere questo ardore di desideri giova moltissimo il proporci dinanzi agli occhi i danni che ne derivano.

Primo danno è questo: se noi siamo schiavi di tali passioni, nell'anima nostra regna fortissimo il potere del peccato; perciò l'Apostolo ammonisce: Non regni il peccato nel vostro corpo mortale, in modo che dobbiate ubbidire alle sue concupiscenze (Rm 6,12). Poiché, come resistendo noi alle passioni, cadono a terra le forze del peccato, cosi, soccombendo ad esse, cacciamo il Signore dal suo regno, ed in suo luogo poniamo il peccato.

C'è poi il secondo danno: da questo impeto di concupiscenze, come da una fonte, emanano tutti i peccati, come insegna san Giacomo (I,14). E san Giovanni scrive: Tutto quello che è nel mondo, è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita (1Jn 2,16).

Il terzo danno consiste in questo: dalle passioni viene oscurato il retto giudizio dell'animo, perché gli uomini accecati dalle tenebre delle passioni, giudicano onesto e bellissimo quanto essi bramano. Infine l'impeto della concupiscenza soffoca la parola di Dio, posta nelle anime da quel grande agricoltore che è Dio. Cosi infatti sta scritto in san Marco: Gli altri (chicchi di grano) seminati tra le spine, sono coloro che ascoltano la parola; ma le cure del mondo, l'inganno delle ricchezze e le voglie delle altre cose s'insinuano a soffocare la parola: la quale resta cosi infruttuosa (4,18,19).

357. Chi soprattutto debba esser tenuto lontano
dal vizio della concupiscenza


Più di tutti gli altri, sono colpiti da questi vizi della concupiscenza e sono quindi più bisognosi di essere esortati dal Parroco a osservare più diligentemente questo comandamento, quanti si dilettano di giuochi disonesti, o abusano immoderatamente dei giuochi; cosi pure quei mercanti che desiderano penuria d'ogni cosa e carestia, o sopportano a malincuore che ci siano altri i quali riescono a vendere a più caro prezzo, o a comperare più a buon mercato di loro.

Peccano allo stesso modo quanti desiderano che gli altri siano nel bisogno, per potere nel commercio guadagnare di più. Cosi pure peccano quei soldati che bramano la guerra per cupidigia di saccheggio; i medici che desiderano le malattie; i giureconsulti che si augurano abbondanza di cause e di liti; gli artigiani, infine, che, avidi di guadagno, invocano penuria di quanto è necessario alla vita, per trame il maggior lucro possibile. Inoltre, in questo peccano gravemente quanti sono avidi e bramosi di acquistar lode e gloria, sia pure a prezzo di calunnia e danno alla fama altrui; sopra tutto se coloro che desiderano lode e gloria, sono uomini inetti e di nessun valore. Poiché la lode e la fama sono premi del valore e del lavoro, non già dell'ignavia e della nullità.



[SM=g27998] FINE PARTE TERZA [SM=g27998]

[Modificato da Caterina63 26/08/2010 16:33]
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 23:11. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com