È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!
Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva

COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
Autore
Stampa | Notifica email    
07/01/2012 23:04
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota


1.come il Figlio, egli è orientato verso il Padre, colui che “è più grande”, ne osserva le parole ricevute e nell’obbedienza gli esprime il proprio amore totale
2.come il Figlio, egli produce, assistito dal Paraclito, le opere che mirano alla glorificazione del Padre, consapevole che le sue domande sono esaudite senza riserva
3.come al Figlio (1,32), al credente viene donato in modo permanente lo Spirito Santo, all’inizio della propria missione di evangelizzazione
4.come il Figlio, egli è amato dal Padre, che conosce e vede
5.come il Figlio, anche il credente vive per sempre
6.come il Figlio, egli ama i fratelli e comunica loro l’amore stesso di Dio
La somiglianza tra l’uomo e Dio, alla quale tendeva l’atto creatore (Gen 1,26), si realizza nell’identità del discepolo con Gesù, eterno Vivente. Come il Padre ed il Figlio sono distinti e tuttavia sono Uno, allo stesso modo, dopo l’evento pasquale, anche il Figlio ed il credente sono una cosa sola, come aveva ben compreso s. Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). I cristiani, allora, possono essere nel mondo oscuro e tenebroso dell’ignoranza, del male, della prevaricazione, dell’odio e dell’egoismo come le miriadi di soli scintillanti che l’accecante “sole di giustizia”, Cristo Gesù, riflette sulle onde del mare della nostra umana esistenza, un mare troppo spesso agitato dai venti della discordia, dell’invidia, dell’orgoglio e della presuntuosa autosufficienza. Il discorso di Gesù, che occupa l’intero capitolo 15 e la parte iniziale del capitolo 16 del IV Vangelo, può essere diviso in due parti, centrate rispettivamente sull’interno (15,1-17) e sull’esterno (15,18-16,4) della comunità. L’interno è caratterizzato dalla reciproca inabitazione del Figlio e dei suoi discepoli, condizione necessaria al fine di produrre frutti abbondanti di verità e di vita, mentre all’esterno della comunità i credenti sono in balia delle persecuzioni, suscitate dall’odio del mondo contro Gesù e contro il Padre. Le due parti del discorso compongono un tutt’uno, da cui emerge la possibilità per i discepoli di Cristo di essere suoi testimoni nel mondo solo se rimangono strettamente uniti a lui nel vincolo indissolubile dell’amore e della fede.
La vera vite ed il tempo della prova
(Gv 15,1-27)

15,1 “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. 2 Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.
Il discorso figurato della vera vite e dei tralci comincia improvvisamente, senza alcun preambolo, ignorando l’invito, apparentemente ovvio, rivolto da Gesù ai suoi discepoli di alzarsi (da tavola) e di andar fuori dal luogo in cui si trovano per affrontare il tragico corso degli eventi incombenti. L’esordio del discorso è solenne, introdotto da un “Io sono” che è tutto un programma. Con una parola di rivelazione, formulato in un linguaggio simbolico, Gesù annuncia di essere la vite del Padre, il quale si comporta come un provetto e solerte vignaiolo. Il credente sta alla vite ed al vignaiolo in una posizione alquanto “scomoda”, facendo la parte del tralcio, che, comunque vada, è soggetto al dolore inevitabile del taglio. Se il tralcio non fruttifica, viene tagliato e gettato nel fuoco, se invece produce frutto, viene potato per produrre ancora più frutto. Chi pretende uno sguardo di particolare benevolenza da parte di Dio ed aspira ad una vita senza dolore di qualsivoglia natura, fisica, psicologica, morale e spirituale, deve cambiare idea ed adeguarsi alla logica di Dio od inventarsi una propria etica di vita, senza la condiscendente benedizione divina.
Per comprendere il significato della vite nella cultura ebraica, occorre rifarsi ai testi biblici dell’Antica Alleanza. Fin dai tempi remoti, la vite caratterizzava la vegetazione autoctona della Palestina, insieme all’ulivo ed al fico ed ognuna di queste piante simboleggiava un aspetto particolare della vita sociale e religiosa del popolo ebraico. Gli esploratori inviati da Mosè in Cisgiordania, o terra di Canaan, per prendere visione del territorio e dei suoi abitanti prima di impossessarsi della Terra Promessa, come ordinato da YHWH in persona, al loro ritorno portarono con sé, come segno di testimonianza della ricchezza del paese di Palestina, un enorme grappolo d’uva, che due uomini riuscivano a portare con fatica appeso ad una stanga (Nm 13, 23).
La vigna era il bene più prezioso per il contadino israelita e nei testi biblici essa era citata assai spesso in senso proprio e figurato. La pianticella di vite piantata dal patriarca Noè, subito dopo il diluvio universale, segnò l’inizio di una nuova era per l’intera umanità (Gen 9,20), confortata dalla promessa di Dio che mai più sarebbe stata punita per le sue iniquità in maniera così radicalmente distruttrice (Gen 9,11). Nel Cantico dei Cantici la vigna simboleggiava le qualità e le prerogative della sposa (Ct 1,14;2,15; 6,11; 7,9.13; 8,12), alludendo alla sua fecondità, laboriosità, dolcezza inebriante e preziosità. La tradizione biblica applicò questa metafora al popolo d’Israele, considerato come la sposa/vigna di Dio, con chiara allusione al patto d’Alleanza sancito, a più riprese, tra YHWH ed il popolo eletto. La vendemmia era occasione per fare festa e per prendersi la licenza di qualche alzatina di gomito con l’aiuto del vino novello (Rt 3,7). Per le sue proprietà inebrianti, il vino era usato soprattutto in occasione di feste o celebrazioni particolari, come i matrimoni e, per il suo contenuto alcolico, anche come farmaco per disinfettare le ferite o procurare un minimo di anestesia generale in caso di procedure chirurgiche dolorose, come le amputazioni. Misto a mirra e fiele, il vino aveva un effetto sedativo per chi doveva sottoporsi a privazioni protratte, come i militari in guerra o per chi subiva un’esecuzione capitale assai dolorosa come la crocifissione (Mt 27,34). Osea, il più antico dei profeti, aveva dipinto Israele come una vigna fiorente, che produceva frutti in abbondanza (Os 10,1) e, in seguito, l’immagine vigna fu ampiamente utilizzata per evocare la storia delle relazioni tra Dio ed il popolo eletto. La vigna d’Israele doveva la propria esistenza alla benevolenza di YHWH, che l’aveva strappata dall’Egitto idolatra per trapiantarla in un terreno nuovo e fertile, dove essa aveva potuto svilupparsi rigogliosamente soppiantando le sterili vigne di Palestina, vale a dire i popoli cananei, pure essi idolatri come gli egiziani: “Hai divelto una vite dall’Egitto, per trapiantarla hai espulso i popoli. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici e ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i più alti cedri. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, e arrivavano al fiume i suoi germogli” (Sal 80,9-12). Nella descrizione poetica del salmista c’è un po’ di enfasi, poiché egli amplia alquanto i confini del popolo d’Israele spostandoli verso ovest sino al fiume Eufrate, anche per esprimere la sovrabbondante ricchezza della vigna di YHWH, destinata a manifestare a tutti i popoli della terra la gloria dell’unico vero Dio (Is 61,3; cf. Is 60,21), il quale ha fatto tutto questo solo per amore (Is 5,1-2). Dio vuole la vita (Gen 1,22.28), di cui la fecondità del suolo è un’immagine perfettamente calzante e facilmente comprensibile per un popolo di agricoltori e di pastori, che la collegavano ad una delle benedizioni di Dio promesse al popolo ebraico in occasione della Santa Alleanza (Es 23,20-33), stipulata con Mosè sul monte Sinai. Il frutto, che la vigna del Signore deve produrre in abbondanza, è la giustizia, che consiste nella fedeltà d’Israele al Dio unico tramite l’osservanza della sua Legge. Nel corso della storia, però, la condotta del popolo ebraico è stata deludente, sia per colpa propria e sia per colpa dei suoi capi (Is 3,14; Ger 12,10). Denunciando il peccato di idolatria, commesso da Israele, Geremia così esprimeva la delusione di YHWH: “Io ti avevo piantato come vigna scelta, tutta di vitigni genuini; ora, come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?” (Ger 2,21). Anche il profeta Ezechiele aveva preso atto del fallimento della vigna di YHWH: “Essa fu sradicata con furore e gettata a terra; il vento d’oriente la disseccò, disseccò i suoi frutti; il suo ramo robusto inaridì e il fuoco lo divorò” (Ez 19,12). Il salmista implora l’intervento di Dio, perché la sua vigna prediletta è stata incendiata e rasa al suolo dai suoi nemici (Sal 80,15-17), ma il profeta confida nella fedeltà di Dio, che non indietreggia di fronte alla colpevole sterilità della sua vigna (Is 27,2.6). E’ del tutto evidente come il testo di Gv 15 tragga ispirazione dalla tradizione biblica sulla vigna d’Israele, in cui è condensata la storia di un’elezione e di un’Alleanza donata e tradita. L’evangelista ne sfrutta abilmente la prospettiva storico-salvifica ed il linguaggio simbolico, facilmente comprensibile sia per il lettore giudeo, che ha confidenza con la tradizione profetica e sapienziale, sia per il lettore cristiano, che riconosce il medesimo linguaggio delle parabole trasmesse dai vangeli sinottici, nei quali la vigna indica il popolo eletto ed anche il regno di Dio (Mt 20,1-8; 21,28-41; Mc 12,1-9; Lc 13,6; 20,9-16).
Io sono la vera vite. La traduzione italiana non riporta perfettamente il senso del testo greco, che sarebbe più corretto rendere con: io sono la vite, quella vera, dal che si deduce che l’alternativa a Gesù è solo una vite falsa ed ingannevole, capace di produrre solo frutti di malvagità e di rovina. L’espressione “Io sono”, seguita da un predicato nominale, è usuale nel quarto evangelista, che le attribuisce un significato di auto-rivelazione divina e, nella fattispecie, le annette una caratterizzazione singolare del rapporto tra Gesù e gli uomini, tra “Colui-che-salva” e coloro che sono salvati. Gesù sta all’uomo come il pane sta al bisogno di sfamarsi per sopravvivere (6,35), come la luce sta alla necessità di vedere per non inciampare contro gli ostacoli della vita (8,12), o come la porta sta alla necessità di avere un accesso alla vita eterna (10,7.9), oppure come il pastore sta al gregge delle anime che devono essere guidate sui pascoli sicuri e verdeggianti della salvezza (10,11), o, infine, come la via comoda e sicura che conduce a Dio (14,6) sta ai sentieri impervi, scivolosi, pieni di ostacoli ed infidi delle certezze umane, che conducono solamente alla perdizione. La vite, proprio per il suo significato simbolico allusivo al “popolo di Dio”, evoca meglio degli altri predicati una figura collettiva, adombrata dai tralci che producono frutto solo se rimangano attaccati alla vite. In tal caso, la vite ha un’identità propria, nettamente distinta dai tralci, poiché gli uomini possono ben conformarsi a Cristo e non al mondo, secondo un’espressione cara a s. Paolo (Rm 12,2), il quale affermava che in lui era Cristo stesso che viveva e soffriva (Gal 2,20), ma sono altra cosa rispetto a Lui. Nonostante la reale umanità di Gesù, che con la sua incarnazione ha avvicinato Dio all’uomo, tra Lui e gli uomini c’è una sostanziale differenza, che l’uomo deve saper comprendere ed accettare. Senza Gesù, vero Uomo e vero Dio, la creatura umana non può fare nulla (15,5) e non può nemmeno aspirare alla salvezza “fai da te”; anzi, senza di Lui, l’uomo può solo brancolare nel buio, rischiando continuamente di cadere inciampando contro gli ostacoli che il “mondo” si premura di fargli incontrare per via.
A differenza del modello culturale moderno, che considera l’individuo un unicum ben distinto dal gruppo sociale cui appartiene, tanto che tra individuo e società esiste una sorta di barriera invalicabile ed invisibile, la privacy, della quale persino il potere legislativo delle nazioni democraticamente più evolute ha sancito l’inviolabilità, favorendo un ulteriore isolamento dell’individuo, la cultura semitica dell’era pre-cristiana e del tempo di Gesù attribuiva volentieri ad un essere singolare una dimensione collettiva, ma senza privarlo della propria individualità. Grazie al proprio statuto od al proprio ruolo in seno alla società di appartenenza, l’individuo poteva esprimere un intero gruppo e, viceversa, il gruppo poteva esprimersi nell’individuo che lo rappresentava. Adamo, il primo uomo, il capostipite dell’intera umanità secondo il linguaggio biblico, è al tempo stesso un essere personale ma anche il “nome” dell’intero genere umano, così come il Servo e il Figlio dell’uomo sono spesso compresi come individui ma anche come predicati che designano l’intero Israele. Si parla, in questo caso, di “personalità corporativa”, concetto di cui si servì l’apostolo Paolo per indicare lo stretto rapporto esistente tra Cristo ed i cristiani: “Voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” (1Cor 12,27). Il cristiano, dunque, è un individuo personale e singolare ma, senza perdere questa sua peculiarità individuale, è anche parte di un tutto altrettanto personale e singolare, vale a dire il “corpo mistico di Cristo Gesù, il Signore”. L’evangelista Giovanni ha espresso lo stesso concetto mediante l’immagine della vite e dei tralci: “Io sono la vite, voi i tralci” (15,5). Paolo e Giovanni esprimono una visione profondamente cristocentrica dell’esistenza umana; staccato da Cristo, suo sostegno vitale (corpo, vite), l’uomo perde la propria identità individuale (membra, tralci) ed il senso ultimo della propria esistenza personale.
E il Padre mio è il vignaiolo. Due sono le operazioni tipiche di un vignaiolo al fine di ottenere un raccolto d’uva abbondante e di grande qualità, recidere d’inverno i rami secchi e potare in primavera i getti che si sviluppano con inutile rigoglio di tralci. Se i discepoli (i tralci) restano uniti saldamente a Cristo (la vite), ne ricevono la linfa vitale quanto basta per produrre abbondanti frutti di santità, di giustizia, di purezza di cuore, di misericordia, di pazienza, di bontà, di pace, di amore gratuito e di mansuetudine (Mt 5,3ss). Solo dai frutti prodotti dai tralci è possibile riconoscere il vero valore della vite ed il vignaiolo (il Padre) non può permettere che i rami secchi od i tralci troppo rigogliosi possano compromettere la bontà della vite, ragion per cui deve procedere ad operazioni apparentemente dolorose per la vite: il taglio e la potatura. I rami secchi sono coloro che solo apparentemente rimangono attaccati alla vite, ma, in realtà, vivono come dei parassiti e sono incapaci di produrre il più striminzito dei frutti; se in natura il fenomeno del parassitismo è del tutto giustificato perché c’è comunque un reciproco vantaggio tra il parassita e l’organismo ospite, in ambito spirituale questo fenomeno è severamente giudicato da Cristo come indegno di un essere umano libero e responsabile (vedi la parabola dei talenti in Mt 25,14-30; Lc 19,12-27). L’aridità spirituale (rami secchi) di chi professa la fede in Cristo o, peggio, di chi è al suo servizio in virtù di un ministero, di un incarico ricevuto dallo Spirito di Dio, è dannosissima per la propria e per l’altrui salvezza, perché tale aridità si identifica con una sorta di bieco egoismo che, da una parte, impedisce al credente di aprirsi agli altri ed alle superiori esigenze di Dio e, dall’altra, sbarra il passo anche a quanti desiderano affrontare un cammino di fede in Gesù. Alcuni autori hanno ritenuto di ravvisare nei “rami secchi” i cristiani della comunità di Giovanni che si erano letteralmente “imboscati” nascondendo la propria fede per sfuggire alle persecuzioni e spacciando la propria vigliaccheria per prudenza. Per contro, i tralci ridondanti, ricchi di foglie ma poveri di frutti, ricordano la situazione spirituale tipica di chi si professa cristiano bombardando di inutili e vuote parole il suo prossimo, agitandosi in mille iniziative benefiche ed altrettanto numerose attività pastorali, facendo ben attenzione a procurarsi l’ammirazione altrui, ma donando amore gratuito col contagocce e badando a non compromettere troppo la propria onorabile posizione in seno alla comunità. Per costoro vale il detto “tanto fumo, niente arrosto”, con l’aggravante di un giudizio poco lusinghiero espresso da Gesù nei loro confronti quando cercò invano la miseria di un frutto tra i rami di un fico sterile (Mc 11,12-14). In campo spirituale, dunque, non pagano né l’avarizia e neppure la ridondanza fine a se stessa. L’Apostolo delle Genti l’aveva compreso assai bene, affermando che quei cristiani che si ritenevano dei superdotati, vale a dire capaci di parlare molte lingue, di profetare ad ogni piè sospinto, di conoscere tutti i misteri della scienza e della fede, di compiere miracoli a richiesta e di sapersi privare dei propri beni fino al punto di finire sul rogo pur di ottenere la standing ovation da parte degli uomini, sono dei semplici tromboni (cf. 1Cor 13,1-13), il cui unico ma fondamentale difetto è di non saper amare come Cristo ci ha amati, sino alle estreme conseguenze e senza pretendere nemmeno un “grazie”, ma solo per puro e gratuito amore. Gesù ama la semplicità tipica dei bambini innocenti e non ancora inquinati dalla furbizia dei grandi e non si fa scrupolo di dichiarare che chi non sa fare un passo indietro per diventare “bambino”, spogliandosi della propria arrogante sicurezza e saccenteria da “adulto”, non è degno di mettere piede nel Regno dei cieli (Lc 18,17). Il Padre veglia opportunamente sulla buona resa della vite e, pur usando un’infinita pazienza (Lc 13,6-9), sa cogliere il momento giusto per la potatura. Ci sono momenti in cui la propria vita spirituale appare aggrovigliata su se stessa, appesantita da troppi rami secchi o da rami esuberanti, ma improduttivi. Ciò si verifica quando ci si compiace troppo di se stessi e dei propri successi, oppure quando si cade in un eccessivo pessimismo e si pensa che tutto vada storto nella propria vita, perdendo fiducia nella divina Provvidenza, quando si smette di pregare o di confidare nell’amore di Dio, quando si trascura la necessaria vita sacramentale per rifugiarsi nelle moderne cattedrali del benessere economico, quando si ricorre più allo psicologo che al sacerdote per sanare disagi interiori che scaturiscono da scelte di vita sbagliate, quando si considera la domenica un giorno da week-end e non come il giorno per eccellenza da dedicare al Signore, quando si cade nella tentazione di primeggiare anche nelle attività ecclesiali e si considera un qualsiasi ministero, ricevuto per bene della comunità, alla stregua di un vero e proprio privilegio da conservare ad ogni costo e non come un servizio di cui rendere conto a Dio stesso, quando si mette il proprio ego al centro di tutto e si caccia Dio fuori dalla porta di casa perché è ingombrante, quando si adorano le creature e non il loro Creatore, quando si privilegiano i temi politici ed economici e si trascurano i problemi dello spirito, quando ci si preoccupa della salute del corpo e mai di quella dell’anima. A tempo debito, Dio interviene nella nostra vita per imprimerle una svolta (taglio, potatura), per farci cambiare rotta (conversione) e farci tornare a Lui che è l’unico, vero e sommo bene, ma non sempre il suo intervento è da noi considerato in senso benevolo, perché un cambiamento radicale di mentalità è quasi sempre doloroso, spesso avvilente, mai senza conseguenze nella nostra vita. Per trovare la vera pace in Dio, il nostro cuore deve passare attraverso il fuoco della purificazione e della libera scelta, della rinuncia volontaria alla pigra indolenza delle proprie abitudini per lasciarsi trascinare dal travolgente Spirito di Dio negli abissi vertiginosi del suo amore. Dio (il vignaiolo) taglia le nostre debolezze e pota le nostre presunzioni per attirarci a sé in un abbraccio d’amore senza fine e chi decide di lasciar perdere, di continuare a comportarsi da ramo secco o privo di frutti, ricco solo di inutili foglie, è destinato ad essere gettato nel fuoco della perdizione eterna (15,6). Che l’uomo lo voglia o no, la Parola di Dio non resta mai senza effetto (Is 55,11) nell’intimo più profondo del suo essere e ne sollecita sempre una risposta, sicché l’uomo non può esimersi dal prendere una decisione libera e responsabile alla libera e gratuita offerta di salvezza che gli giunge dal suo Creatore.

3 Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato.
Voi siete già stati “potati e tagliati”, purificati delle vostre manchevolezze, delle vostre aridità e dei vostri inutili eccessi spirituali; ora siete pronti per soffrire con me, io sulla croce e voi sul patibolo delle vostre paure e della vergogna di essere discepoli di un maestro giustiziato come un criminale, di un “appeso al legno dell’infamia”. A ciascuno la propria croce. Anche per i discepoli non c’è scampo: se vogliono dare frutti abbondanti di santità e di giustizia devono rimanere saldamente innestati in Cristo Gesù, dalle cui parole di vita e di verità (cf. 6,63), accolte con fede, sono stati resi mondi, puri e pronti a tutto, anche se ancora non lo sanno. Solo uno si sottrae alla logica della croce e dell’innesto sulla vite, che è Cristo, ma la sua vita è destinata a concludersi penzolando dal ramo di un albero, sospeso fra il cielo tenebroso del rifiuto e del tradimento e l’inferno della disperazione eterna. La forza purificatrice della “parola” di Gesù è in linea con la teologia giovannea del lògos (cf. 5,24; 6,63; 8,31.51; 14,23; 17,17) e sembra rievocare la potenza santificante dell’acqua del battesimo, cui la “Parola di Dio” diventata carne in Gesù di Nazareth ha conferito efficacia per la salvezza di chi l’accoglie con fede.

4 Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me.
Dal v. 4 al v. 8 il verbo rimanere (in gr. ménein en) ricorre per ben sette volte ed in seguito verrà ripreso ancora, specie nella prima lettera attribuita a Giovanni (1Gv 2,6.10.14.24.27.28; 3,6.9.15.17.24; 4,12.13.15.16). Il suo significato equivale ad “aderire fedelmente” e tale concetto è espresso dall’evangelista in forma semplice ed in forma reciproca:
4 se non rimane nella vite… se non rimanete in me… 6 chi non rimane in me (forma semplice)
4 rimante in me e io in voi… 5 chi rimane in me e io in lui… 7 se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi (forma reciproca).
Si può notare come la forma reciproca corrisponda ad un’espressione di mutua immanenza, già incontrata in 6,56: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”. Nell’ottica del discorso sul “Pane di Vita” (6,30-58), l’inabitazione grazie alla quale i DUE diventano UNO senza cessare di essere DUE risulta da quella “manducazione” che è la fede. In Gv 15 la prospettiva è diversa: rimanere in Gesù esige, da parte del discepolo, una fedeltà capace di dominare il tempo mentre il suo sguardo si spinge oltre la semplice adesione di fede, perché egli è consapevole di dover “produrre frutto” restando sempre innestato nel Figlio di Dio. Rimanere diventa un vero e proprio appello formulato in forma imperativa (15,4.9) e condizionale (15,6.7), esigenza ineludibile per una reciproca immanenza il cui fine è la vita eterna in Dio. Attraverso i discepoli è l’intera comunità cristiana che è chiamata a diventare tralcio unito a Cristo-vite ed a produrre frutti di vita eterna in virtù di un legame saldo e perseverante col Lògos divino (cf. 8,31). Per il discepolo, il modello di reciproca immanenza è quello esistente, niente meno, che tra il Padre ed il Figlio a causa della comune ed unica natura divina, il cui tratto saliente è il reciproco Amore che non si esaurisce all’interno del rapporto personale intra-trinitario, ma si diffonde prorompente su ogni creatura. Grazie a Cristo Gesù, ogni credente diventa membro effettivo della famiglia di Dio.
Rimanete in me e io in voi. Persino la particella di congiunzione copulativa e (in gr. kaì) ha creato problemi interpretativi nei traduttori. Tra Gesù ed i suoi discepoli permane un abisso esistenziale e di natura; i discepoli non possono “rimanere” in Gesù allo stesso modo in cui Egli rimane in loro, poiché non c’è mai parità di condizione tra il discepolo e Cristo, né il rimanere di Gesù nel discepolo può essere condizionato da quello del discepolo in Lui. Forse il senso di questa particella di congiunzione potrebbe essere reso meglio così: rimanete in me per il fatto che io rimango in voi. Il senso della frase diventa, allora, molto più chiaro: Voi potete rimanere in me solo perchè io rimango in voi (e… senza di me non potete fare nulla). Senza Gesù non c’è possibilità di vita, di verità, di salvezza, di eternità e solo rimanendo ben attaccati a Lui mediante una fede “concreta” ed operosa, non soltanto speculativa o sentimentale, è possibile ricevere da Lui la linfa vitale indispensabile per produrre frutto in abbondanza. L’intrinseca vitalità del Cristo (la vite), che dall’eternità anima l’intero universo in quanto Egli è il Lògos (vale a dire la parola di vita, il progetto di salvezza, il discorso ed il dialogo d’amore) mediante il quale Dio Padre si è rivelato all’uomo, si trasmette in totale pienezza ai suoi discepoli (i tralci) e, tramite la loro testimonianza resa con parole e coerenza di vita, all’intera umanità destinata a diventare la vigna del Signore.

5 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.
Gesù ribadisce il concetto del reciproco rapporto tra Lui ed i discepoli con la forza dirompente di una formula di auto-rivelazione, che non è nuova nel contesto del discorso che Egli sta facendo, ma, come dicevano i saggi latini, repetita juvant. In questo tipo di rapporto, però, è Lui il protagonista assoluto mentre i discepoli ne sono i beneficiari (tanto per essere chiari ed espliciti…). Non venga in mente ai discepoli del passato, del presente e del futuro di essere loro i protagonisti della salvezza! A ciascuno il proprio ruolo; anche se innestati nella vite e con buonissimi risultati di fecondità, i discepoli saranno sempre e solo dei tralci e non potranno mai ambire ad essere la vite, poiché solo Cristo è l’unica, vera vite. Nel corso della storia umana, molti hanno manifestato la pretesa di essere dei messia, dei salvatori dell’umanità, degli innovatori in campo spirituale e religioso ed alcuni hanno pure avuto successo, trascinando nella loro presunzione tante, tantissime anime incapaci di vero discernimento; molti altri hanno cercato e stanno cercando, in tutti i modi, di smantellare pezzo per pezzo il Vangelo di Cristo spacciandosi per “illuminati” e liberi pensatori, capaci di dimostrare che Gesù era solo un semplice uomo, un illuso, un moralista fallito, sempre che sia davvero esistito e che la Chiesa è una solenne montatura, un’associazione a delinquere il cui vero scopo è dominare le coscienze esercitando un potere inimmaginabile, superiore a quello delle maggiori super-potenze politiche della terra e delle migliori lobbies socio-economiche del pianeta. Non c’è da meravigliarsi di tanto astio e di tanta volgare cattiveria negli esseri umani, presuntuosamente convinti di cavarsela assai bene da soli e senza l’intervento di un qualsiasi essere superiore confinato nel cielo o disceso sulla terra per portare un annuncio di salvezza. Certo è che Gesù, il Volto umano del Padre sommamente buono ed infinitamente misericordioso, non è un ingenuo e sa benissimo che ci sono tralci buoni e tralci secchi od infruttuosi e lancia un monito duro e severo: senza di me non potete far nulla. Chi non vuole, per libera e consapevole scelta, rimanere innestato in Cristo ed essere inabitato da Lui è destinato ad inaridirsi e ad essere buono solo per accendere e ravvivare un bel fuoco (v. 6). Quando si dice: “uomo avvisato”…
Gesù sollecita i suoi a rimanere in lui per poter fruttificare come si conviene; Egli non pretende da loro un abbandono mistico che è dono per pochi, ma che producano frutti abbondanti di conversione, di bontà, di pazienza, di mitezza, di misericordia, di fiducia in Dio, di perdono e di un amore a tutto tondo in forza di quella comunione intima e confidenziale che Egli dona loro in modo libero e gratuito. L’esortazione a rimanere in Cristo è ulteriormente rafforzata per indurre i discepoli ad operare, cioè a “compiere opere” di bene senza “sbandamenti” di sorta. Nessuno può essere più grande del suo Maestro. Nella Chiesa antica questo passo divenne fondamentale per la formulazione della dottrina sulla grazia, forse limitato in modo troppo esclusivo al problema di ciò che l’uomo può fare per la sua salvezza. In Giovanni, a dire il vero, l’orizzonte del fruttificare è molto più ampio: solo il cristiano che vive della comunione con Cristo può dare i frutti del suo essere cristiano. L’affermazione “senza di me non potete fare nulla” ricorda 1,3 “senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste”, ma non deve far pensare che l’uomo non abbia la minima capacità di rispondere in libertà e con intelligenza alla chiamata di Dio, che lo vuole salvare. Dio, infatti, non salva nessuno contro la sua volontà, solo che l’uomo deve permettere a Cristo di entrare nella propria esistenza e lasciarsi salvare da Lui.

6 Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
L’impatto emotivo di questa affermazione può essere davvero inquietante e deve indurre i credenti a riflettere sul proprio stile di vita. È un fatto evidente a tutti che il cristianesimo soffre, almeno nel mondo occidentale formalmente ritenuto ancora “cristiano”, di una profonda crisi d’identità anche a motivo di una fede per molti versi superficiale, ferma ad un ritualismo tradizionalista che spesso sconfina nella superstizione. Il Vangelo di Gesù Cristo non viene recepito da tanti, troppi cristiani come canone (regola vincolante) di un comportamento etico “sovrumano”, che deve cioè andare oltre il semplice istinto naturale proprio di ogni essere umano, perché la comune vocazione umana è di sapersi elevare oltre la concreta realtà del vivere quotidiano e tendere verso l’infinito ed il soprannaturale; oltre a ciò, sono molti i battezzati che hanno abbandonato la fede per professare un ateismo filosofico o pratico, il più delle volte impegnato a combattere Cristo e la sua Chiesa, o per abbracciare un agnosticismo di comodo, spesso camuffato da laicismo progressista e “democratico”, mentre tanti altri hanno deciso di compiere la “grande scelta” di confluire in varie sette di presunta ispirazione cristiana od in religioni non cristiane. Quanti si distaccano da Cristo, presumendo di poter brillare di luce propria o di vivere in modo pienamente autonomo da Lui, sono rami secchi destinati a ravvivare un bel falò. È compito dei “fedeli” cristiani, vale a dire di coloro che stanno saldamente attaccati a Cristo nonostante le difficoltà e gli ostacoli che intralciano la vita di fede di chiunque, astenersi da ogni umano giudizio ed affidare i fratelli, che si sono perduti per via, alla misericordia del Signore, l’unico cui compete il giudizio finale sugli uomini e sulla storia di questo mondo terreno. La situazione di infedeltà al Vangelo ed alla fede in Cristo, or ora descritta, era d’attualità anche al tempo della comunità di Giovanni, anche se con sfumature ovviamente differenti, ma nella sostanza poco è cambiato da allora. L’uomo è sempre in bilico tra bene e male, tra cielo e terra, tra Dio ed il proprio egoistico “io”, tra una vita da beato ed una da dannato, tra una libertà conquistata col suo Creatore ed una perduta seguendo il tentatore. È difficile non scorgere nel “fuoco”, in cui vengono gettati i rami secchi, quello ben più tormentoso dell’inferno, il luogo teologico dell’eterna mancanza di Dio, il quale è per ciascun uomo il principio assoluto di ogni bontà, beatitudine, amore, compiutezza, vita, luce, verità, gratuità. Se il paradiso è Dio stesso goduto ed amato per l’eternità, l’inferno è il non-Dio subito senza fine. Il fuoco, dunque, esprime in modo efficace la morte spirituale di chi rifiuta di rimanere in Cristo e si può trovare un’eco di questa tragica realtà nel profeta Ezechiele, il quale ricordava con veemenza ad un popolo reso troppo sicuro della propria elezione che, di per sé, il legno della vite non ha granché valore proprio: “Figlio dell’uomo, che pregi ha il legno della vite di fronte a tutti gli altri legni della foresta? Si adopera forse quel legno per farne un oggetto? Ci si fa forse un piolo per attaccarci qualcosa? Ecco, lo si getta sul fuoco a bruciare, il fuoco ne divora i due capi e anche il centro è bruciacchiato. Potrà essere utile a qualche lavoro? Anche quand’era intatto, non serviva a niente: ora, dopo che il fuoco lo ha divorato, l’ha bruciato, ci si ricaverà forse qualcosa?” (Ez 15,2-5). La situazione del popolo ebraico è speculare a quella del popolo cristiano attuale; non è sufficiente essere nominalmente “cristiani” e professarsi tali per essere esentati da una scelta di vita radicalmente cristiana, vale a dire totalmente votata a Cristo Signore e segno visibile della sua presenza nel credente. Come la vite ha valore solo se produce uva buona ed abbondante, così la vita del cristiano ha valore solo se produce frutti di vita eterna compiendo in tutto e per tutto la volontà di Dio Padre: “Non chi mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). Al tralcio della vite non è consentita alcuna situazione intermedia: o produce frutto o si dissecca e viene gettato nel fuoco. Così è per ogni cristiano.

7 Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato.
L’evangelista sembra dare per scontato che i cristiani siano creature fragili ed incostanti come qualsiasi essere umano e l’uso del condizionale è d’obbligo: se rimanete in me… se le mie parole rimangono in voi… Il rischio di non perseverare nella fede è ampiamente previsto dal Signore, che in un’altra occasione si è lasciato sfuggire un commento di angoscioso rammarico: “Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra?” (Lc 18,8). Dalla prima lettera di Giovanni si comprende come l’apostasia sia collocata al primo posto dei peccati che “conducono alla morte” (1Gv 5,16) e, probabilmente, anche il contenuto del capitolo 15 del IV Vangelo evoca la crisi della comunità giovannea, che sul finire del I secolo dell’era cristiana era bersagliata dalle critiche provenienti dagli esponenti locali del giudaismo ufficiale ed indirizzate al contenuto del messaggio di salvezza portato da Cristo. I cristiani dalla fede più fragile erano frastornati dalle argomentazioni dei rabbini che insegnavano nelle sinagoghe e che apparivano assai convincenti nel sostenere l’assoluta necessità della circoncisione e dell’osservanza stretta della legge mosaica per potersi salvare, negando con decisione il presunto messianismo di Gesù ed il valore salvifico della sua morte sull’infame patibolo della croce. Quanto alla divinità di Cristo, alle orecchie dei giudei osservanti tale affermazione suonava come un’atroce bestemmia contro l’assoluta trascendenza dell’onnipotente Signore, Dio d’Israele. Il conflitto tra giudei e cristiani non si limitava a semplici scontri verbali, ma sfociava spesso e volentieri nelle vie di fatto e la comunità di Giovanni si sentiva minacciata ed in pericolo. Ai suoi fedeli, in ansia per la propria sorte, l’evangelista rivolge il proprio incoraggiamento, facendo loro notare che il divino Maestro aveva già previsto tutto, dando al contempo la certezza del proprio aiuto a quanti sarebbero rimasti a Lui fedeli nel tempo: se rimanete in me… chiedete quel che volete e vi sarà dato. Appare evidente che i tralci sterili, tagliati e gettati nel fuoco siano identificati dall’evangelista con quei cristiani della sua comunità provenienti dal giudaismo e pronti a rinnegare la fede in Cristo per ritornare all’antica fede dei loro padri. A costoro Giovanni lancia un severo monito: staccandosi da Cristo, faranno tutti una brutta fine.
Dopo la minaccia (v. 6) segue la promessa dell’esaudimento di ogni preghiera (v. 7): chiedete… e vi sarà dato. Come mai tante preghiere, che si levano a Dio dalla comunità dei credenti, sono o sembrano inascoltate e non sono esaudite? O si chiede ciò che non è necessario per la propria salvezza come singoli e come comunità, oppure non si realizza la condizione richiesta da Gesù: se… le mie parole rimangono in voi. Ciascun credente deve impegnarsi “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta le forze” (Dt 6,5) ad “ascoltare”, cioè a fare proprie le parole di Gesù, vivendole, custodendole e realizzandole con atti concreti di vita quotidiana (cf. 12,47; 17,8). È questa la condizione affinché le preghiere del credente siano esaudite; solo rimanendo unito a Gesù ed in perfetta sintonia di volontà e d’intenzioni con Lui, il cristiano può essere in grado di chiedere ciò che rende fruttuosa l’opera del Signore (14,13). Nessuno deve presumere di essere capace, per virtù propria, di ottenere ciò che vuole con la preghiera. Solo chi “rimane in Cristo”, per dono libero e gratuito di Dio, può avere la certezza di essere accontentato (1Gv 5,14; cf. anche Mt 7,7-8). I pellegrinaggi (possibilmente non “turistici”), le novene, i tridui e le altre pie pratiche che affollano la vita religiosa del popolo cristiano non hanno un grande significato se avulse da un genuino contesto di fede, sottoposto alla verifica di un onesto esame di coscienza. Il termometro della fede è l’amore e se il “mondo” non riesce a percepire nei cristiani la capacità di donarsi agli altri per amore di Dio, allora vuol dire che la fede del popolo cristiano tocca lo zero assoluto, alla faccia delle mille e mille manifestazioni di pietà popolare, frutto più di un tradizionalismo scaramantico che di vera e genuina fedeltà alla Parola di Dio.
Chiedete… e vi sarà dato. Occorre sapere cosa chiedere e come chiederlo. Il “cosa” ed il “come” ce l’ha insegnato Gesù stesso con il Padre nostro (Mt 6,9-13), la preghiera più bella e completa al mondo perché composta e regalata all’umanità dallo stesso Verbo incarnato. Nella stupenda lettera indirizzata al cristiano Proba, il vescovo Agostino ha composto un vero e proprio panegirico del Padre nostro, definendolo la sintesi di tutta la Scrittura. Vale la pena di seguire il suo ragionamento: “A noi sono necessarie le parole per richiamarci alla mente e considerare quello che chiediamo, ma non crediamo di dovere informare con esse il Signore, o piegarlo ai nostri voleri. Quando dunque diciamo sia santificato il tuo nome, stimoliamo noi stessi a desiderare che il suo nome, che è sempre santo, sia ritenuto santo anche presso gli uomini, cioè non sia disprezzato. Cosa questa che giova non a Dio, ma agli uomini. Quando poi diciamo venga il tuo regno che, volere o no, certamente verrà, eccitiamo la nostra aspirazione verso quel regno, perché venga per noi e meritiamo di regnare in esso. Quando diciamo sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra, gli domandiamo la grazia dell’obbedienza, perché la sua volontà sia adempiuta da noi, come in cielo viene eseguita dagli angeli. Dicendo dacci oggi il nostro pane quotidiano con la parola oggi intendiamo nel tempo presente. Con il termine pane chiediamo tutto quello che ci è necessario, indicandolo con quanto ci occorre maggiormente per il sostentamento quotidiano. Domandiamo anche il sacramento dei fedeli, necessario nella vita presente per conseguire la felicità, non quella temporale, ma l’eterna. Quando diciamo rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, richiamiamo alla memoria sia quello che dobbiamo domandare, sia quello che dobbiamo fare per meritare di ricevere il perdono. Quando diciamo e non ci indurre in tentazione, siamo esortati a chiedere l’aiuto indispensabile per non cedere alle tentazioni e per non rimanere vinti dall’inganno o dal dolore. Quando diciamo liberaci dal male, ricordiamo a noi stessi che non siamo ancora in possesso di quel bene nel quale non soffriremo più alcun male”. Prosegue, poi, il santo vescovo di Ippona: “Chi dice come ai loro occhi ti sei mostrato santo in mezzo a noi, così ai nostri occhi mostrati grande fra di loro (Sir 36,3) e i tuoi profeti siano trovati pii (cf. Sir 36,15), che altro dice se non sia santificato il tuo nome? Chi dice rialzaci, Signore nostro Dio, fa risplendere il tuo volto e noi saremo salvi (Sal 79,4), che altro dice se non venga il tuo regno? Chi dice rendi saldi i miei passi secondo la tua parola e su di me non prevalga il male (Sal 118,133), che altro dice se non sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra? Chi dice non darmi né povertà né ricchezza (Pro 30, 8), che altro dice se non dacci oggi il nostro pane quotidiano? Chi dice ricordati, o Signore, di Davide, di tutte le sue prove (Sal 131,1), oppure Signore, se così ho agito, se c’è iniquità nelle mie mani, se ho reso male a coloro che mi facevano del male, salvami e liberami (cf. Sal 7,1-4), che altro dice se non rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori? Chi dice liberami dai nemici, mio Dio, proteggimi dagli aggressori (Sal 58,2), che altro dice se non liberaci dal male? E se passi in rassegna tutte le parole delle sante invocazioni contenute nella Scrittura, non troverai nulla, a mio parere, che non sia contenuto e compreso nel Padre nostro. Nel pregare, insomma, siamo liberi di servirci di altre parole, pur domandando le medesime cose, ma non dobbiamo permetterci di domandare cose diverse”.

8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
Dio, che ascolta le preghiere dei discepoli uniti a Gesù, è glorificato per i frutti che essi danno, vale a dire, è mostrato ed onorato nella sua gloria perché, nella sua qualità di vignaiolo, ha a cuore una produzione assai abbondante di frutti. L’opera del Padre e quella dei discepoli confluiscono nel raccolto e la vite-Gesù è il solo luogo dal quale e per il quale ciò è reso possibile. Il Padre fa di tutto per avere più frutti ed ai discepoli, che rimangono fedelmente uniti al Figlio suo, garantisce una sovrabbondante produzione di frutti perché ne esaudisce le preghiere. Tra Dio Padre, il Figlio suo Gesù Cristo ed i credenti si crea un circolo virtuoso, la cui finalità è la produzione di frutti di santità ad maiorem Dei gloriam. Incuriosisce la sottolineatura data da Gesù alla glorificazione del Padre, di cui gli uomini sono in parte responsabili. Dio, infatti, nell’ineffabile pienezza della sua gloria non ha bisogno di essere glorificato da alcuno, tanto meno da creature limitate e fragili come gli esseri umani, ma per libera e gratuita scelta d’amore ha deciso di coinvolgere l’uomo nell’affermazione della sua gloria di fronte all’intero creato. Per l’uomo, in definitiva, il frutto più gustoso della sua partecipazione alla gloria di Dio è il “discepolato”, ossia la piena realizzazione della sua somiglianza con Dio (cf. Gen 1,26-27). Essere discepoli di Cristo significa, in suprema sintesi, diventare in tutto e per tutto simili a Lui, che è l’immagine assolutamente perfetta del Padre, la rivelazione sublime del suo santissimo Volto (cf Sal 11,7; 27,8) e della sua gloria.
C’è da chiedersi quale sia il significato di “gloria”, che con tanta insistenza ritorna in molti testi sacri dell’Antico e del Nuovo Testamento, oltre che nel IV Vangelo. Secondo i vari contesti, tale vocabolo può assumere il significato di onore, splendore, vanto.
1) L’onore di Dio è il suo splendore, la sua gloria (Es 24,16; 40,34; 1Re 8,11; 2Cr 7,1; Is 6,3), è la luce eterna nella quale Egli abita e che lo riveste come un abito, è il suo essere più puro, che si manifesta anche come bagliore di fiamma e di luce (Lc 2,9). Riferita agli uomini, la gloria è il rispetto, la considerazione che spetta all’uomo in quanto creato ad immagine e somiglianza di Dio, ma va da sé che la gloria dell’uomo sia solo un riflesso, gratuitamente ricevuto, della gloria di Dio, il solo ed unico che possa rivendicare a sé e per sé ogni onore e gloria (Eb 5,5). In buona sostanza, Dio è l’unica e vera gloria dell’uomo, che senza Dio non avrebbe diritto a gloria alcuna (Sal 62,8; Gv 5,44). Nel giorno “ultimo e terribile”, descritto dai profeti come giorno dell’ira di Dio (Sof 1,15) o giorno del giudizio, cui nessun uomo potrà sottrarsi (Gl 2,1-2; Sof 1,14-18; Ger 13,16; 14,19) e che per alcuni sarà giorno di eterna luce, mentre per altri sarà giorno di tenebre senza fine (cf. Gv 8,12), la corona della gloria sarà consegnata a coloro che hanno servito il Figlio di Dio (Gv 12,26), compiendo il loro cammino di fede e perseverando, con pazienza, nelle opere di bene (Rm 2,7; 1Pt 5,4). Si può glorificare Dio concretamente rendendo onore e rispetto a chi lo merita (Rm 13,7), al padre ed alla madre (Es 20,12), agli anziani (Lv 19,32), ai re (1Pt 2,17; 1Sam 15,30), alle vedove sole e dimenticate (1Tm 5,3), ai padroni (1Tm 6,1) anche quando sono difficili (1Pt 2,18). Se è un dovere rendere onore agli altri, è altrettanto un obbligo non ricercare la propria gloria, ad eccezione di quella che proviene da Dio stesso (Gv 5,44; 7,18; 12,43; 1Ts 2,6). La vanagloria, l’ambizione, la ricerca sfrenata di gloria e di onore presso gli uomini sono atteggiamenti da condannare (Gal 5,26; Fil 2,3), così come onorare gli altri per ricevere in cambio degli onori è contrario allo spirito di Cristo (Gv 5,44) e rende incapaci di credere alla parola della croce. I cristiani non devono ricercare l’applauso degli uomini, ma piuttosto stimarsi vicendevolmente (Rm 12,10), senza gettare via il proprio onore (1Tm 4,12; 2Cor 11,23; At 13,46; 16,37) per conformarsi alla mentalità di questo mondo.
2) Il vocabolo ebraico kabòd significa “essere pesante” e, in senso figurato, “dare importanza, conferire autorità” a qualcosa od a qualcuno. La ricchezza (Gen 31,1; Sal 49,17), il lusso (Est 1,4) o la forza (Is 16,14) contribuiscono a rendere onore, a dare importanza, forza ed autorità ad una persona (1Sam 6,5; Sal 62,2; 115,1). Ciò che procura onore ad un oggetto o ad un essere umano è il suo kabòd, nel senso di gloria e di splendore. L’arca è la gloria d’Israele (1Sam 4,22), il Signore Dio degli eserciti, l’innominabile Dio dei padri è la gloria dei fedeli israeliti (Sal 3,4) o d’Israele (Sal 106,20; Ger 2,11). Nell’Antico Testamento il termine kabòd si riferisce in modo peculiare alla gloria di YHWH, che manifesta appieno il suo splendore esigendo la debita venerazione da parte dell’uomo. La gloria di Dio è soprattutto attuazione della sua potenza e santità (Es 14,4.17; 16,7; 29,43-46; Dt 14,21; 20,6-12; Is 6,3; 35,2; 40,5; Sal 19,2; 29,3), collegabile anche a fenomeni visibili. La gloria di Dio accompagnò Israele nell’uscita dall’Egitto, sotto forma visibile di nube e lo guidò attraverso il deserto (Es 16,7.10; 40,36-38). La medesima gloria scese anche sul Sinai, dove Mosè ed il popolo eletto la videro sotto forma di fuoco divorante (Es 24,15-18; Dt 5,24). Non si può vedere direttamente il volto di Dio né la sua gloria e rimanere, poi in vita; tuttavia, a Mosè fu concessa una visione particolare (Es 33,18-23; 34,5-8; Dt 5,24 s). La gloria di YHWH riempiva la tenda del convegno (Es 40,34) ed appariva soprattutto al momento dell’offerta dei sacrifici (Lv 9,6.23). In seguito, fu il Tempio il luogo della stabile dimora della gloria di Dio (1Re 8,11; 2Cr 7,1-3) e nessuno poteva entrare nel Santo dei Santi, il recesso più sacro ed inviolabile dell’edificio sacro (Es 40,35; 1Re 8,11), quando la gloria di YHWH era visibilmente presente per mezzo della nube. Altre espressioni ricollegano la gloria di Dio al suo essere od al suo carattere. YHWH è il re della gloria (Sal 24,8); la sua gloria riempie la terra (Is 6,3; Sal 72,19); essa si staglia sopra tutti i popoli e sovrasta il cielo stesso (Sal 113,4). Il Signore Dio non cede ad altri la sua gloria (Is 42,8; 48,11), che splenderà su Sion (Is 60,1-3.19 s) e tutti i popoli, che prima non conoscevano il nome o la gloria di Dio, la potranno vedere (Is 66,18 s; Sal 97,6). Il vocabolo greco dòxa traduce il termine ebraico kabòd e, soprattutto nel Nuovo Testamento, allude di solito alla presenza della gloria di Dio nella persona e nell’opera di Gesù, che è l’irradiazione visibile della gloria di Dio (Eb 1,3). Nell’uso profano invece, ossia nel linguaggio di uso comune e familiare, dòxa significava abitualmente “opinione, parere”, ma nei testi neotestamentari assumeva, talvolta, il significato alternativo di “fama, onore” (Lc 14,10; 1Cor 11,15; 1Ts 2,6) o di “sfarzo” (Mt 4,8; 6,29). I pastori videro la gloria di Dio alla nascita di Gesù Cristo (Lc 2,13-14); mentre veniva lapidato, il diacono Stefano vide la gloria e Gesù alla destra di Dio (At 7,55). Secondo il linguaggio apocalittico, la gloria di Dio riempie il Tempio celeste (Ap 15,8) ed illumina la nuova Gerusalemme (Ap 21,23). L’uomo proclama la gloria o splendore di Dio col proprio modo d’agire (At 12,23; Rm 4,20; Ap 16,9) e costata, con la sua lode, la presenza di tale gloria nel creato (Lc 2,14; 19,38; Rm 11,36; 16,27; Fil 4,20; Ap 1,6; 4,9). Per mezzo della gloria del Padre, Gesù fu resuscitato dai morti (Rm 6,4) ed assunto nella gloria (1Tm 3,16; 1Pt 1,21). Le asserzioni sulla dòxa di Dio sono trasferite anche a Cristo (Eb 13,21; 1Pt 4,11; Ap 5,12), chiamato Signore della gloria (1Cor 2,8; Gc 2,1). Nei vangeli sinottici i riferimenti alla gloria di Gesù sono messi in relazione col suo futuro ritorno (Mc 8,38; 10,37; 13,26; Mt 19,28; 25,31). Solo in Luca il termine ricorre nel racconto della trasfigurazione (9,31), ma anche i racconti paralleli contengono sostanzialmente la stessa prospettiva (M 9,2; Mt 17,2). La gloria, che Cristo riceve dalla sua passione (Lc 24,26; 1Pt 1,11.21; Eb 2,9), coincide col potere che Egli condivide col Padre suo (Mc 8,38) e che sarà rivelato alla fine del mondo (Tt 2,13; 1Pt 4,13; 5,1). Nel Vangelo di Giovanni, Gesù parla della gloria che Egli aveva presso il Padre prima che il mondo fosse chiamato all’esistenza (17,5; cf. anche 1,1). La gloria del Lògos incarnato (1,14) si manifesta nei suoi miracoli (2,11; 11,4.40) ed in tutta la sua attività terrena, che è al tempo stesso una glorificazione del Padre (17,4; 4,34); con la sua morte, liberamente assunta (10,17), Gesù è glorificato insieme al Padre suo (13,31; 17,1.4; 21,19). Come Gesù è giunto alla gloria attraverso la sofferenza e la morte di croce, così anche i credenti attraverso la sequela di Gesù prendono parte alla sua gloria (Gv 12,26; Rm 5,2; 8,17; 9,23; 1Pt 4,13; 5,1.4.10); tale gloria è descritta come una luce celeste (Mt 13,43) o come una partecipazione al potere regale di Dio o di Cristo (Mt 19,28; Lc 22,30; 1Cor 6,2; 1Ts 2,12; Ap 3,21). Con dòxa s’intende spesso designare ciò che è promesso agli esseri umani come compimento. La chiamata alla gloria (1Ts 2,12) è tuttavia effettiva già fin da ora, poiché la speranza, che su di essa ripone il cristiano, trova la sua garanzia nel possesso dello Spirito (Rm 5,2.5); la gloria è considerata, in tal modo, una realtà già posseduta al presente, come appare dalle espressioni in cui la gloria e la giustificazione sono direttamente associate (Rm 8,30). Anche la comunità dei credenti, per l’azione dello Spirito, riflette la gloria del suo Signore (2Cor 3,18). Alla gloria di Cristo partecipano soprattutto coloro che soffrono con Cristo (1Pt 4,14). Il discepolo di Cristo che, per vocazione divina, è il servitore della nuova alleanza, è rivestito di gloria (2Cor 3,4-11).
3) Il concetto di gloria, che viene espresso col verbo ebraico hillèl o col sostantivo tehillàh, si applica abitualmente in senso profano alle qualità personali, come la bellezza (Gen 12,15; 2Sam 14,25; Ct 6,9), la saggezza (Pr 31,28), il timor di Dio (Pr 31,30), la capacità di non menar vanto di ciò che non ci appartiene poiché il destino dell’uomo è solo nelle mani di Dio (1Re 20,11; Pr 27,1; Ger 9,22). L’unico vero vanto o gloria sta nella saggezza, che è conoscenza di Dio e che consiste in una vita vissuta all’ombra della grazia divina e della giustizia o santità di vita. A Dio solo spetta ogni vanto (Sal 105,3; Is 42,8.12; 60,6) e la sua gloria è ineguagliabile (Es 15,11); essa non deve essere taciuta dall’uomo, ma raccontata e proclamata, persino accresciuta (Sal 71,14; 78,4; 79,13), poiché Dio, che deve essere lodato, vuole che anche il suo popolo diventi vanto e gloria (Dt 26,19; Is 60,18; 62,7; Sof 3,19). Israele deve essere la “fama” di Dio (Ger 13,11; 33,9) e l’anima deve gloriarsi solo nel Signore (Sal 34,3). Tutta la terra piena delle lodi di Dio (Ab 3,3). In ambito neotestamentario, è soprattutto la riflessione teologica di Paolo di Tarso a delineare con efficacia tale aspetto della gloria di Dio e del suo Cristo. Egli esclude qualsiasi forma di vanto umano di fronte a Dio, il quale ha scelto ciò che nel mondo è considerato ignobile ed è disprezzato (1Cor 1,29) e tutto ciò che l’uomo possiede, non solo dal punto di vista materiale ma anche e soprattutto in ambito spirituale, l’ha ricevuto da Dio (1Cor 4,7). Non si diventa giusti, ossia santi, per merito delle proprie opere (Rm 4,2; Ef 2,9), ma in forza della fede in colui che ci ha santificati/giustificati (Rm 3,27). Proprio per questo esiste un reciproco motivo di vanto tra apostoli e comunità di credenti (1Cor 15,31; 2Cor 1,14; Fil 2,16; 1Ts 2,19), quanto evangelizzatori ed evangelizzati possono gloriarsi non di un uomo (1Cor 3,21), ma di Dio che opera meraviglie di salvezza a vantaggio di tutti (1Cor 1,31; 2Cor 10,17). Solo da Dio deriva la gloria dell’uomo, che può vantarsi di essere amato ed inabitato da Lui (1Cor 9,14; 2Cor 11,10). Se c’è un motivo di vanto inerente alla natura umana, questo consiste nella debolezza stessa dell’uomo, perché Dio manifesta la perfezione della propria potenza là dove appare conclamata la fragilità dell’essere umano (2Cor 11,30;12,9 s). Lo scandalo della croce è strettamente connesso a questo concetto: Paolo considera la morte di Gesù il vero motivo di vanto per ogni credente (Gal 6,14), che nel Cristo crocifisso riconosce il fondamento della propria salvezza.
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi
Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
*****************************************
Feed | Forum | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra | Regolamento | Privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 08:15. Versione: Stampabile | Mobile - © 2000-2024 www.freeforumzone.com