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COMMENTO AL VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 04/06/2019 15:05
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04/06/2010 18:21
 
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Il Vangelo di Giovanni

10 Gesù rispose e le disse: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice «Dammi da bere», tu stessa l’avresti pregato ed egli ti avrebbe dato acqua viva.

Gesù, questo sorprendente giudeo che esce dagli schemi usuali dei rapporti interumani, apre la mente ed il cuore della donna di Samaria, proiettandola verso orizzonti intellettuali e spirituali impensati, dove non è di casa l’opposizione etnica, culturale e religiosa e dove, per contro, tutto è incentrato sul “dono di Dio”, vale a dire sullo stesso Cristo Signore che trascende ogni meschina discriminazione umana. Se la samaritana conoscesse questo dono e colui che glielo offre, se sapesse identificare il dono con l’offerente, ella stessa gli chiederebbe l’acqua viva e vivificante capace di estinguere ogni sete di conoscenza, di amore e di eternità che ogni essere umano porta dentro di sé ed a motivo del quale avverte quell’inquietudine, che lo spinge alla continua ricerca dell’Infinito e dell’Eterno senza accorgersi, spesso, che Dio è proprio lì, a portata di mano (o di coscienza), Lui che è “più intimo di noi stessi” come afferma s. Agostino nelle sue Confessioni (III,6).

Da questo momento e fino al v.16 il dialogo procede sul filo del simbolismo dell’acqua viva, che risponde al tema iniziale della sete sollevato da Gesù stesso. Gesù ha sete, sì, ma della sete di quella donna, il cui desiderio di acqua viva può essere soddisfatta solo dal Figlio di Dio che si trova di fronte a lei. Del resto, come tra poco dirà Gesù, è lo stesso Padre suo che “cerca” adoratori autentici, capaci di adorarlo in spirito e verità (4,23). L’acqua, di cui parla Gesù, è notevolmente migliore di quella che la samaritana è venuta ad attingere e di cui il misterioso viandante sembra aver bisogno per placare la propria sete. La donna viene inizialmente tratta in inganno dall’aggettivo usato da Gesù per qualificare l’acqua, di cui vuole fare dono alla sua interlocutrice; l’acqua del pozzo non è forse anch’essa “viva”, dal momento che si tratta di acqua sorgiva? Che genere d’acqua “viva” è quella di cui parla il giudeo? Tra l’acqua del pozzo scavato dal patriarca Giacobbe e l’acqua, di cui fa cenno Gesù, c’è un abisso come quello che separa il cielo dalla terra. Com’è già avvenuto con Nicodemo, Gesù cerca di elevare la samaritana verso le “cose celesti” (3,12).


11Gli dice la donna: “Signore, non hai neppure un secchio ed il pozzo è profondo. Da dove hai dunque quest’acqua viva? 12 Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui, i suoi figli ed il suo bestiame?”.

La samaritana non è ancora in grado di comprendere dove Gesù stia cercando di condurla e colloca l’affermazione di Lui su un piano ancora puramente materiale, anche se la domanda “Da dove hai dunque quest’acqua viva?” rientra nella simbolica del testo giovanneo. Nel IV Vangelo, infatti, l’interrogazione “da dove?” è strettamente connessa al mistero di Gesù stesso (cf. 7,28; 8,14; 19,9). Il lettore sa già che l’acqua “viva”, che Gesù intende donare, è quella che scorrerà dal suo costato trafitto dalla lancia (19,34). Per ora, però, la samaritana scorge in Gesù soltanto un “uomo” come tanti, anche se un po’ strano, misterioso o, quanto meno, originale. Sarebbe forse costui più grande del patriarca Giacobbe? Assurdo! Senza saperlo, la samaritana stabilisce un parallelo tra Gesù e Giacobbe decretando, alla fine, la superiorità del primo sul secondo. Giovanni propone altrove dei confronti fra Gesù ed altri grandi padri del popolo eletto, come Mosè ed Abramo (1,17; 6,32; 8,53), col medesimo risultato: Gesù è il più grande di tutti!

Vedendo che Gesù non ha con sé alcuno strumento adatto per attingere l’acqua dal pozzo, la donna sembra quasi volerlo sfidare a compiere lo stesso prodigio operato da Giacobbe, stando almeno alla leggenda rabbinica cui si è fatto cenno per l’innanzi. L’espressione finale del v.12 (“ne bevve lui, i suoi figli ed il suo bestiame”) rimanda anche alla protesta veemente che gli ebrei assetati avevano rivolto al loro condottiero, il grande Mosè, durante la marcia nel deserto del Sinai (Es 17,3). Per essere paragonato ai grandi patriarchi del passato, Gesù dovrebbe compiere dei prodigi simili a quelli operati da loro. La samaritana dimostra un notevole senso dell’ironia e si rivela piuttosto perspicace. Gesù imprime al dialogo un direzione diversa da quella che la donna si potrebbe aspettare.


13 Gesù rispose e le disse: “Chiunque beve di quest’acqua avrà nuovamente sete, 14 ma chi berrà dell’acqua che io gli darò non avrà mai più sete; l’acqua che gli darò diverrà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”.

Gesù non risponde immediatamente sulla sua identità, ma mette a confronto l’acqua del pozzo di Giacobbe, incapace di placare per sempre la sete e l’acqua che darà Egli stesso, bevendo la quale non vi sarà mai più sete in eterno. Allo stesso modo Gesù contrapporrà la manna, mangiata dai padri nel deserto senza che fosse loro risparmiata la morte ed il pane vivo, donato da Gesù, in grado di dare la vita eterna (6,49ss). Se l’acqua che egli promette disseta per sempre (“eis tòn aiôna, ossia per l’eternità), allora Gesù è più grande di tutti i patriarchi del passato. Anzi, il suo dono implica che è giunto il tempo del compimento definitivo. Il profeta Ezechiele aveva previsto che, dopo la riunificazione degli israeliti dispersi, Dio avrebbe versato acqua pura per indicare la purificazione ed il rinnovamento dei cuori (Ez 36,25-27), ma Gesù promette molto di più: chi riceverà l’acqua da Lui donata, avrà in sé una sorgente “che zampilla per la vita eterna”. Fin da ora, cioè fin dal momento in cui l’uomo crede in Gesù, l’acqua ricevuta “diventa” vita eterna. Non c’è quindi bisogno di attendere la fine dei tempi per vedere realizzata la salvezza eterna sia personale sia comunitaria poiché essa trova compimento hic et nunc, qui e ora, quando la comunità ed ogni suo singolo membro professano, vivono e testimoniano la propria fede nel Figlio di Dio e nella potenza redentrice della sua morte in croce. Infatti, Dio “ha dato il Figlio suo affinché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna “ (3,16ss). Per quanto riguarda il termine “zampillare”, esso sembra fare riferimento alla leggenda giudaica del pozzo che “sale e trabocca” per dissetare gli ebrei assetati nel deserto (Nm 21,17). Se la sorgente di Gesù zampilla continuamente, allora può essere spenta la sete più profonda e più vera dell’uomo, cioè il suo desiderio d’essere partecipe della vita stessa di Dio. Nell’Antico Testamento l’acqua di sorgente simboleggia la vita, che nel caso dell’uomo viene fatta risalire e dipendere da Dio medesimo, per cui l’uomo non “esiste” soltanto ma il suo “essere” è teso verso un continuo sviluppo, pienamente e compiutamente realizzato nell’eternità stessa di Dio. La sete dell’uomo è la vita eterna in Dio e può essere placata “oggi” dall’acqua della Rivelazione; l’acqua promessa da Gesù è immagine dello Spirito Santo, datore di vita per l’eternità (7,39).


15 La donna gli dice: “Signore, dammi quest’acqua, affinché non abbia più sete e non debba più venire qui ad attingere”.

La samaritana non riesce ancora staccarsi dalla contingenza della realtà materiale ed equivoca le parole di Gesù. Sai che fortuna non dover più attingere quotidianamente l’acqua, evitando di recarsi al pozzo in orari scomodi per non incontrare la gente, pronta a giudicare il tuo operato ed a scansarti come se tu fossi un’appestata! Una cosa non sfugge alla donna, scaltra e dal cervello fino: Gesù le sta proponendo una soluzione personale “su misura”. Non le è ancora ben chiaro come, ma quell’uomo le sta prospettando un miglioramento delle sue difficili condizioni attuali di vita. Per la samaritana l’acqua è, essenzialmente, la sintesi ideale di tutte le necessità materiali o, tutt’al più, esprime il profondo bisogno di un riconoscimento sociale da parte di una cittadinanza, che tende ad emarginarla per la sua condotta morale poco accettabile anche da parte di coloro che hanno vedute spirituali ed etiche, per così dire, di “manica larga” ed assai poco conformi alle direttive della Legge consegnata da Dio al patriarca Mosè. Questo, almeno, è il giudizio espresso dai giudei nei confronti degli “odiati” cugini samaritani.

Secondo lo stile tipico dei dialoghi di Giovanni, la samaritana fraintende il senso delle parole di Gesù, ma a livello simbolico ella esprime il bisogno di verità presente in ogni essere umano. Anche il ruolo dei personaggi si è invertito: Gesù è riuscito a suscitare nella donna un’attesa che la induce a rivolgersi a Lui come all’unico capace di darle soddisfazione.

Come si può notare, il filo conduttore del dialogo è l’acqua di cui è sottolineata la sostanziale differenza tra quella data da Giacobbe, presente nel pozzo ed il cui valore è assai provvisorio e relativo, essendo incapace di placare la sete e quella donata da Gesù, della quale si prospetta un valore unico, assoluto e definitivo poiché scaturisce da Dio stesso. Infatti, Dio aveva dissetato il suo popolo nel deserto dandogli l’acqua scaturita dalla roccia (Es 17,1-7) ed ora, giunta la pienezza del tempo (Gal 4,4), Egli ha donato all’umanità intera il proprio Figlio (Gv 3,16) per placarne la sete di eternità. Rivelando di essere Colui che dona l’acqua necessaria per entrare nell’eternità di Dio, Gesù invita la donna a rivolgere il proprio sguardo verso Dio stesso, da cui tutto ha avuto origine: il pozzo, che proviene da un passato provvidenziale; l’acqua viva, che zampilla per la vita eterna; Gesù, il Figlio unico che rivela e porta a compimento l’opera della salvezza. Si va delineando l’assoluta identità tra Dio, Gesù e l’acqua donata per essere sorgente di vita eterna.

Il dialogo subisce, ora, una svolta inattesa e, sia pure in diversa maniera, Gesù dà soddisfazione alle attese della donna samaritana.


16 Le dice: “Va’, chiama tuo marito e ritorna qui”. 17 La donna gli rispose e gli disse: “Non ho marito”. Gesù le dice: “Hai detto bene: «Non ho marito», 18 perché hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito. Quanto a questo hai detto il vero”.

Sembra evidente che, per bere l’acqua che dona la vita eterna, occorre prima cambiare stile di vita ed accettare un cammino di conversione, radicale e sincera. Il riferimento ai cinque mariti, avuti in precedenza dalla donna, ha del paradossale se si considera che la società del tempo ammetteva, al massimo, tre matrimoni successivi. Vari studiosi, pertanto, hanno scorto in questa affermazione un significato allegorico. I cinque “mariti” corrisponderebbero alle cinque “divinità” introdotte in Samaria dopo la conquista assira del 721 a.C.; in tal caso, quello che la donna adora attualmente non è il vero Dio. Nella prospettiva biblica, l’adozione di culti pagani corrisponde ad abbandonare la fede e l’infedeltà al Dio dell’Alleanza viene paragonata all’adulterio. Sempre nel linguaggio biblico, il termine “marito” (in ebraico ish, in greco anér) designava in pratica il Dio d’Israele, YHWH (Os 2,18). In tal modo, risulta più chiaro il motivo per cui Gesù invita la donna a chiamare, cioè ad invocare, il Signore YHWH come suo Dio, inducendola a confessare che essa “non ce l’ha”, dal momento che ha abbandonato l’antica fede per adottare culti stranieri, pagani. Dal modo in cui la donna risponde a Gesù, siamo indotti ad intuire che ella è cosciente del proprio traviamento rispetto al Dio unico e che l’itinerario religioso e spirituale da lei percorso rappresenta la storia religiosa del popolo di Samaria.

Da una situazione verosimilmente reale, consistente in una situazione di concubinaggio dopo precedenti esperienze matrimoniali, conclusesi forse anche con dei divorzi, l’evangelista trae spunto per una lettura simbolica del disordine sessuale vissuto dalla samaritana. Costei “non ha marito”, come non l’hanno i samaritani, che hanno abbandonato il culto al vero ed unico Dio, adorato dai “cugini” giudei.

Quasi “facendole la corte” presso il pozzo del patriarca Giacobbe, Gesù si presenta alla samaritana come Colui che, sostituendosi ai precedenti “mariti – déi”, è il suo vero ed unico Signore. La donna lo riconoscerà come tale quando vedrà in Lui il Messia tanto atteso da tutto il mondo ebraico (cf. 4,29).

La chiaroveggenza di Gesù colpisce la samaritana, pronta a riconoscere in Lui un profeta, tipica figura biblica d’uomo capace di trasmettere le “parole di Dio” anche quando esse sono scomode e creano fastidio alla coscienza ed all’intelligenza (“orecchie”) degli uomini.


19 La donna gli dice: “Signore, vedo che tu sei un profeta. 20 I nostri padri hanno adorato su questa montagna e voi dite che è a Gerusalemme il Luogo in cui si deve adorare”.

Forse Gesù non è ancora il Profeta annunciato per la fine dei tempi (Dt 18,15), ma è di certo un uomo ispirato da Dio ed al quale è possibile sottoporre una questione religiosa piuttosto spinosa, che preoccupa lei ed i suoi compatrioti: in quale “Luogo” è lecito adorare Dio? Nel Tempio di Gerusalemme, come affermano i giudei, o sul monte Garìzim in Samaria, come ritengono i samaritani? Chi “adora” il vero Dio? Non si tratta di interrogativi di poco conto in un mondo in cui, a differenza del nostro attuale, non trovava posto l’ateismo né teorico né pratico, almeno a livello di massa. Il senso religioso della vita era patrimonio comune a tutti i popoli, ognuno dei quali possedeva un proprio pàntheon più o meno ampio e fantasioso e la pubblica professione d’ateismo era piuttosto pericolosa, specie là dove persino un qualsiasi sovrano, grande o piccolo che fosse, si faceva adorare come una divinità incarnata!

La samaritana, dunque, è portatrice di un’esigenza spirituale e religiosa, che il dialogo con Gesù rende molto ben evidente ed esplicita. In sostanza, la sua domanda riguarda il luogo del pellegrinaggio in cui sia possibile, senza ombra di dubbio, incontrarsi con la divinità ed una simile preoccupazione riflette bene la mentalità dell’epoca, che un lettore moderno, specie se incapace di aprire il cuore e la mente al senso del messaggio del testo biblico, fa fatica a comprendere. La rivelazione divina è di regola vincolata a luoghi particolari e privilegiati: erigendo degli altari, i patriarchi hanno reso sacri quei luoghi in cui era loro apparso YHWH (Gen 28,10-22; 33,18-20; 35,1-15). Da un tempo ormai lontano, quando vi era stata pronunciata la benedizione su Israele (Dt 11,29; 27,12; Gs 8,33), il monte Garìzim (m 870, a 3 km da Sichem) era la montagna sacra dei samaritani. Qui essi rendevano il loro culto a YHWH nonostante la centralizzazione del culto a Gerusalemme a partire dal 622 a.C. (2Re 18,4; 23) e la distruzione del tempio, erettovi secoli prima, per mano di Giovanni Ircano, conquistatore di quella regione nel 129-128 a.C. I samaritani fondavano la loro prassi cultuale sia sul privilegio dell’antichità di quel luogo sacro, sia sulla convinzione che fosse proprio il monte Garìzim il Bet-El, cioè la “casa di Dio”, il luogo sacro in cui il patriarca Giacobbe aveva avuto la visione di Dio (Gen 28,17). D’altra parte, il patriarca non aveva forse innalzato un altare proprio a Sìchem (Gen 33,19-20)? Con analoga procedura storica e commemorativa, i giudei avevano identificato il monte Moriah, luogo del sacrificio (mancato) d’Isacco col monte Sion, dove sorgeva il grandioso Tempio di Gerusalemme, costruito da Salomone e recentemente restaurato ed ampliato da Erode il Grande. Se è vero che tutto il mondo giudaico, compreso quello della diaspora, già da tempo riconosceva l’unicità del Tempio di Gerusalemme, verso il quale si “saliva” in pellegrinaggio da ogni luogo, è altrettanto vero che la concorrenza tra i due luoghi di culto aveva una sua fondatezza storica e giuridica ed i samaritani non si sentivano “inferiori” nella fede ai giudei. All’epoca di Gesù, la questione riguardante la legittimità del culto svolto nei due templi era molto viva; di lì a poco, ci avrebbero pensato le legioni romane a porre fine, una volta per tutte, all’annosa quérelle.

Gesù imprime una svolta definitiva al dialogo e focalizza su di sé l’attenzione della donna, ormai orientata verso la Verità.


21 Gesù le dice: “Credimi, donna: viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. 22 Voi adorate ciò che non conoscete; noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai giudei. 23 Sì, viene l’ora ed è adesso, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca di questi adoratori: 24 Dio è spirito e coloro che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”.

A colei che lo ha già riconosciuto come un “profeta”, Gesù rivolge un perentorio invito alla fede: “Credimi!”. Si potrebbe tradurre anche con : ”Fidati di me!” (cf. anche Gv 2,24; 4,50; 9,18). La rivelazione riguarda l’adorazione del Padre “in spirito e verità”, che può realizzarsi già “ora” e senza limiti di luogo. Dio, infatti, è “Spirito” e nulla lo può imprigionare, né un tempio né una qualsiasi pretesa cultuale umana. La questione sollevata dalla donna, circa il luogo del culto legittimo, è del tutto marginale e privo ormai di importanza, superato dagli eventi della storia della salvezza. Con Gesù è giunta l’ora in cui il culto non dipende più da un luogo determinato, sia pure il più antico e venerabile (Is 11,9; 66,1; Mal 1,11): il mondo intero è il luogo adatto per lodare, adorare ed amare in “spirito e verità” Colui che è, per essenza, “Spirito e Verità”. Nei tempi messianici inaugurati da Cristo, Dio Padre continua a ricevere “offerte pure” (il culto non viene abolito!), ma ci­ò avverrà in ogni luogo e sotto forma di lode (Sal 50,14). L’Eucaristia è il “sacrificio di lode” per eccellenza, che può essere offerta al Padre come sacrificio a Lui gradito, fino alla fine dei tempi!

Gesù non si limita ad annunciare l’imminenza di questo tempo escatologico, ma dà un nuovo valore all’adorazione del Padre. La samaritana era abituata ad un’adorazione “astratta” ed impersonale del “Dio dei padri”, ma, d’ora in poi, dovrà abituarsi ad un rapporto personale e profondamente impegnativo con Colui che è il Padre di tutti e che non sa che farsene dei sacrifici di animali né del preciso ma freddo rituale liturgico celebrato in qualsiasi tempio, costruito dalle mani degli uomini. Il Padre vuole essere adorato nel profondo del cuore di ogni uomo.

Voi non conoscete…noi conosciamo”. Gesù sembra fare il verso alla samaritana, che aveva sottolineata la differenza tra i samaritani ed i giudei: “I nostri padri hanno adoratovoi invece dite”. La differenza tra giudei e samaritani esiste, lascia intendere Gesù, ed è sostanziale; i giudei sono già abituati a meditare sulla paternità di Dio nei confronti di Israele, ampiamente attestata nelle Scritture, ma di queste Scritture i samaritani hanno accolto solo i primi cinque libri, il Pentateuco, privandosi della ricchezza della rivelazione contenuta nei rimanenti Libri Sacri, che sono stati scartati dai samaritani perché non sono stati ritenuti ispirati. Nel Pentateuco l’idea della paternità di Dio può essere desunta da Es 4,22: “Israele è il mio figlio primogenito” (cf. anche Dt 32,5ss.18-20; 14,1). Nella Bibbia la paternità di Dio viene espressa in due modi: Dio è padre adottivo del re (2Sam 7,14; Sal 89,27) e degli israeliti (Is 63,16; 64,7; Ger 3,4.19; 31,20). Dio, inoltre, è Padre in senso metaforico (Dt 1,31; 8,5; Ml 3,17; Sal 103,13; Pr 3,12).

Se nel Pentateuco l’appellativo “Padre”, usato per designare Dio, è presente nella sola prospettiva collettiva e storica della protezione divina, che il popolo ha sperimentato soprattutto al tempo dell’esodo dall’Egitto, è solo coi profeti, i salmisti ed i sapienti di Israele che la designazione di “Padre” implica l’immensa tenerezza di YHWH, il suo perdono sempre rinnovato, l’invito ad entrare nella sua gloria. Dall’esperienza spirituale degli uomini ispirati da Dio stesso deriva la consapevolezza che ogni “giusto” può essere ritenuto “figlio di Dio” e non solo il re, in virtù dell’unzione da lui ricevuta al momento dell’investitura come pastore e guida del popolo di Israele. A differenza di tutti gli altri popoli, quello di Israele aveva la certezza di essere governato da Dio, di cui il re era solo un funzionario, un emissario; da qui si comprende come la divinizzazione del re, così abituale presso i popoli del vicino Oriente ed altrove, fosse un fenomeno sconosciuto in Israele.

Di fronte alla samaritana, Gesù riafferma il privilegio dei giudei di essere gli autentici depositari della rivelazione, mediante la quale Dio comunica Se stesso al mondo e la sua volontà di salvezza: “la salvezza proviene dai giudei”, tiene ancora a precisare Gesù, che è sì il Messia, il Figlio di Dio, il Salvatore di tutti, ma che ha scelto di nascere “giudeo” ed erede della cultura, della tradizione, della religiosità e della fede giudaica. In che senso la salvezza viene dai giudei? In base all’antica fede dei padri del popolo ebraico, di cui Gesù fa integralmente parte, il Dio unico e trascendente ha scelto proprio questo popolo come suo testimone di fronte a tutte le nazioni della terra; con gli ebrei Egli ha stipulato la sua Alleanza, cui l’umanità intera è invitata ad aderire. Il popolo giudaico è e rimane il primo destinatario del progetto salvifico di Dio e le Scritture, specie nella loro dimensione apocalittica, sono la chiave di lettura di un avvenire che gli ebrei attendono insieme ai fratelli cristiani, facendosi carico del destino di ogni uomo. Nella persona del giudeo Gesù si condensa tutto il mistero della vocazione di Israele, il cui compito non si è ancora esaurito a tanti secoli di distanza dall’Evento salvifico della Pasqua di Cristo.

Viene l’ora ed è adesso”. Gesù rileva l’urgenza assoluta del cambiamento di mentalità e di rotta anche in ambito di fede e di culto autentico. Dall’adorazione in sé, confinata al piano speculativo, ritualistico o sentimentale, occorre passare “adesso” all’adorazione “in spirito e verità” propria dei veri adoratori del Padre. Non solo i giudei ed i samaritani, ma ogni credente viene invitato ad adorare il Padre come un vero adoratore, che è tale solo se è rigenerato e permeato dallo Spirito di Dio. Proprio Gesù, nel quale dimora lo Spirito e che battezza nello Spirito (1,33), annuncia adoratori nati dallo Spirito (3,5-8). Come afferma anche s. Paolo: “E’ lo Spirito che ci fa gridare: Abbà! Padre! ” (Rm 8,15).

Che cos’è la verità di cui parla Gesù? Su questo termine, tipicamente giovanneo, i vari commentatori si sono ingegnati nel trovare una spiegazione plausibile, riferendolo ad un contesto ora cultuale (col significato di sincero, di veritiero) ora filosofico (nel senso di realtà, di essenza), ma questi concetti sembrerebbero piuttosto estranei alla mentalità dell’evangelista, diffidente nei confronti delle elaborazioni filosofiche astratte o puramente speculative e con una visione del culto radicalmente diversa da quella tipica del mondo ebraico. Quando usa il termine “verità”, Giovanni ha in mente la rivelazione portata da Gesù: l’adorazione del Padre implica l’accoglienza della sua parola. Sono “nella verità” tutti coloro che, animati dallo Spirito Santo, hanno creduto ciò che Gesù ha detto del Padre e che, in Lui, vivono il suo stesso atteggiamento filiale nei confronti di Dio Padre. Gesù Cristo è la Verità ed è il “luogo” veritiero del culto messianico, il nuovo Tempio spirituale. L’endiadi (forma letteraria tipica in Giovanni) “spirito e verità” vuole sottolineare che l’adorazione è autentica se viene prodotta, stimolata, suscitata dallo Spirito, che comunica la Verità, cioè la rivelazione del Cristo. I due temi principali del dialogo fra Gesù e la samaritana, cioè l’acqua e l’adorazione del Padre, sono tra loro strettamente collegati ed interdipendenti. L’acqua viva simboleggia sia la rivelazione di Gesù che lo Spirito Santo; ne consegue che se l’adorazione del Padre è propria, nei tempi nuovi, di coloro che credono nella parola di Gesù e che sono rinati dallo Spirito (mediante il battesimo), allora il dono dell’acqua è la condizione necessaria per essere veri adoratori del Padre e la vera adorazione è il risultato di questo dono.

Il Padre cerca di questi adoratori”. Certamente il Dio biblico è ben differente dal Dio dei filosofi, dai quali è stato definito come il “motore immobile dell’universo”, non propriamente interessato delle vicende umane. Gli autori sacri rappresentano e si immaginano Dio, nel suo agire nelle vicende storiche umane, con immagini fortemente antropomorfiche: Dio ama in modo viscerale, si commuove, si adira, si spazientisce o porta pazienza, chiama, parla, cerca, si inquieta. Il Dio trascendente non teme di “sporcarsi le mani” interessandosi direttamente dei bisogni dell’uomo (Sof 3,10). Dio vuole essere adorato ed amato, al punto da andare in cerca Egli stesso di uomini disposti ad amarlo ed adorarlo.

Dio è Spirito”, afferma Gesù e non sembra tanto una ovvia enunciazione dell’essenza di Dio, ma una sentenza che rivela l’intimo rapporto tra Dio e l’uomo e che fa il verso ad altre analoghe sentenze di Giovanni: Dio è luce (1Gv 1,5) ed è amore (1Gv 4,8.16). Attraverso il suo modo di manifestarsi all’uomo si può veramente cogliere l’intima essenza di Dio. La relazione tra Dio e l’uomo è mediata e resa possibile dallo Spirito, che consente la reciprocità di tale relazione e ciò che Dio si attende dagli uomini è la lode, resa possibile proprio dallo Spirito, da Lui stesso donato. Grazie allo Spirito, l’uomo diventa capace di ringraziare Dio in modo filiale.

Se questa è la nuova prospettiva dell’adorazione di Dio, allora non hanno più senso le divisioni tra gli uomini, sintetizzate dai differenti luoghi di culto, tra loro fortemente antagonisti, che separano e contrappongono i giudei ed i samaritani di ieri, d’oggi e di domani. Poiché i veri adoratori si caratterizzano unicamente per la qualità della loro adorazione, ecco prendere forma il concetto escatologico di unità suggerito da Giovanni (cf. 11,51; 17,21), che ne prevede la prospettiva futura universale. I samaritani simboleggiano coloro che, da ogni parte del mondo, “vanno” (cioè, si convertono) verso Gesù, il Giudeo.


25 La donna gli dice: “So che deve venire il Messia, colui che si chiama Cristo; quando egli verrà ci svelerà tutto”. 26 Gesù le dice: “Sono io, colui che ti parla”.

Il dialogo ha raggiunto il suo apice nell’auto-rivelazione di Gesù, che dichiara apertamente di essere Lui l’inviato di Dio, l’Unto (in ebraico masiah o messia, in greco christòs o cristo) del Signore, il Figlio di Dio. Gesù ha già in precedenza annunciato (4,23) che è giunta l’ora, quella della venuta del messia e adesso annuncia che il messia è proprio Lui. Il misterioso personaggio, atteso da secoli sia in Giudea sia in Samaria, è identificato con il Profeta di cui parla Es 20,21 e su di lui si coagulano le attese politiche e religiose di un intero popolo. Tutti gli ebrei, puri come i giudei o di origine mista come i samaritani, “sanno” (4,25; 11,24) che il messia avrebbe svelato tutto circa i segreti divini. Quando la samaritana si sente rivelare da Gesù la propria situazione coniugale disordinata e lo sente annunciare la nuova adorazione di Dio, comprende di avere di fronte a sé un profeta e spontaneamente pensa al Ta’eb (“colui che deve ritornare”), l’unico deputato a “svelare” ogni cosa. La proclamazione di Gesù, “Sono io [il Messia], colui che ti parla”, conferma le aspettative della donna e di tutti i samaritani (4,42); ormai non c’è più bisogno di attendere altri sedicenti messia: il messia è proprio Lui, Gesù di Nazareth.

Se al termine del dialogo la donna non professa apertamente la propria fede in Gesù, va in ogni caso sottolineata la sua ansia di comunicare ai concittadini la propria esperienza; quell’uomo ha in sé qualcosa di straordinario: “Mi ha detto tutto ciò che ho fatto”. Che non sia proprio lui il Cristo?

Ora ha inizio il secondo quadro del racconto, caratterizzato da due scene: a) scena esteriore (messi sull’avviso dalla donna, i samaritani di Sicàr si mettono in cammino verso Gesù); b) scena interiore (rimasto accanto al pozzo, Gesù parla coi suoi discepoli, sopraggiunti nel frattempo). Mediante l’opera di Gesù, il disegno salvifico del Padre è condotto a buon fine ed i discepoli sono invitati dal Maestro a raccogliere i frutti della sua azione tra gli uomini: la conversione dei samaritani.


27 A questo punto arrivarono i suoi discepoli e rimasero meravigliati che parlasse con una donna. Nessuno però disse: “Che cosa cerchi?” oppure “Di che cosa le parli?”. 28 La donna intanto lasciò lì la sua brocca e andò in città e diceva alla gente: 29 “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto ciò che ho fatto. Non sarà forse il Cristo?”. 30 Uscirono dunque dalla città e venivano verso di lui.

I discepoli non comprendono l’agire del loro Maestro ma non osano interrogarlo. Certo, sono incuriositi dal fatto di vederlo violare le buone norme del comportamento tradizionale. Nessun uomo si permetterebbe di intrattenersi a tu per tu con una donna sola, se non per un motivo più che fondato. L’evangelista esplicita le possibili domande riaffiorate alla mente dei discepoli: “Che cosa cerchi?”. È la stessa domanda che Gesù aveva rivolto ai primi discepoli (1,38), alla ricerca di una risposta alle loro inquietudini interiori; anche Gesù, assetato di amore, va alla ricerca di uomini disposti a scommettere su di Lui, ad amarlo ed a seguirlo fino al dono della propria vita per Lui. “Di che cosa le parli?”. I discepoli vorrebbero entrare nei reconditi segreti della rivelazione che Gesù sta svelando alla donna, la quale, nel frattempo, ritorna in città senza nemmeno più curarsi del motivo che l’aveva indotta a sfidare il solleone. La brocca dell’acqua, vuota ed ormai inutile, resta a testimoniare il cambio di rotta della samaritana; le sue necessità naturali, materiali, possono aspettare ed è giunto il momento di pensare alle altrettanto fondamentali necessità dello spirito. Le personali vicende familiari ed i compromessi con le varie credenze pagane, presenti in quella regione, rendono inquieto quel cuore bisognoso di certezze, di stabilità, di “verità”. Se la donna corre dai suoi concittadini per renderli partecipi della sua straordinaria scoperta (“Non sarà forse il Cristo?”), forse si comporta in tal modo perché percepisce anche in loro la stessa ansia spirituale avvertita nell’intimo della propria coscienza. Sta di fatto che gli abitanti di Sicàr “escono” dalla città e “vanno” verso Gesù; essi sono disposti ad abbandonare le proprie certezze e le proprie comodità, simboleggiate dalla città, e ad affrontare un cammino di conversione e di fede. Essi “vanno” da Gesù, sono cioè pronti ad aver fiducia in Lui e nelle sue parole di verità.

Rimasto solo coi suoi discepoli, Gesù li rende edotti del segreto della propria esistenza e del senso degli avvenimenti, che si stanno compiendo. Da una parte c’è il rapporto del tutto personale di Gesù col Padre e, dall’altra, c’è il compito missionario dei discepoli, ai quali Gesù affida la raccolta della “messe”, frutto della Parola di Dio seminata nel cuore e nell’intelletto degli uomini. La Parola di Dio, infatti, è destinata a persone disposte e capaci di amare e di capire.

31 Nel frattempo i discepoli lo pregavano dicendo: “Rabbì, mangia!”. 32 Ma egli disse loro: “Io ho un cibo da mangiare che voi non conoscete”. 33 I discepoli si dicevano dunque fra loro: “Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?”. 34 Gesù dice loro: “Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e di portare a compimento la sua opera”.

Come il solito, i discepoli rimangono prigionieri della materialità e della quotidianità della vita ed ogni volta Gesù cerca di elevare la loro mente verso le realtà celesti, di cui quelle materiali e terrene sono solo delle immagini simboliche. Alla simbolica della bevanda, che ha caratterizzato il primo quadro della pericope, subentra la simbolica del cibo. Se prima era stato Gesù a chiedere da bere, ora sono i discepoli che invitano il loro Maestro a mangiare. In tal modo, Gesù ha la possibilità di rispondere a quanto essi avevano intenzione di chiedergli con la loro muta domanda, formulata soltanto nelle loro menti: “Che cosa cerchi?” (4,27). Gesù sa leggere nel cuore e nella mente degli uomini, svelando i loro sentimenti buoni o malvagi, anche quelli che vengono dissimulati ad arte. C’è solo un luogo che l’uomo ritiene essere assolutamente sacro ed inviolabile, la propria “coscienza”, identificata con l’io più profondo che rende ciascun essere umano unico ed irripetibile. Ebbene, Dio conosce la nostra coscienza meglio di quanto possiamo conoscerla noi stessi ed a Lui nulla è nascosto né è possibile tenere nascosto!

Ho un cibo da mangiare…”. All’inizio della sua vita pubblica, Gesù aveva risposto al tentatore (in ebraico satàn) che “l’uomo non vive di solo pane, ma d’ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4), rifacendosi a Dt 8,3. Nel contesto giovanneo, l’opposizione fra cibo terrestre e nutrimento celeste è ancora più radicale: l’unico cibo di cui si nutre Gesù è l’unione intima con il Padre, di cui compie la volontà in maniera integrale e con assoluta obbedienza. Gesù precisa che la volontà del Padre è di “portare a compimento la sua opera” di salvezza, attraverso il volontario sacrificio del Figlio unigenito sulla croce. La volontà del Padre si identifica con la volontà del Figlio: fare giungere gli uomini alla fede, pegno e garanzia della vita eterna, simboleggiata qui dalla riconciliazione tra samaritani e giudei.

I discepoli scoprono, ora, di far parte pure loro del disegno salvifico di Dio. Come il Padre ha mandato il Figlio nel mondo per donare la propria vita a vantaggio dell’umanità intera, così Gesù sta mandando loro tra gli uomini per annunciare la buona notizia della salvezza.


35 Non dite voi: «Ancora quattro mesi e viene la mietitura?». Ecco io vi dico: Alzate i vostri occhi e osservate i campi; sono bianchi per la mietitura. 36 Già il mietitore riceve la sua ricompensa e raduna il suo raccolto nella vita eterna, così che seminatore e mietitore si rallegrano insieme. 37 In questo caso infatti è vero il proverbio: «Altro è il seminatore e altro è il mietitore». 38 Io vi ho mandato a mietere là dove voi non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica”.

Nella Bibbia l’immagine della messe è tradizionale per significare il raduno degli uomini alla fine dei tempi, sia in vista del giudizio (Gl 4,13; Is 27,12; 28,27; Ap 14,15ss) che della gioia per l’eternità (Am 9,13; Is 9,2; Sal 126,5). Mentre le parabole del Regno valorizzano il primo aspetto nella tradizione sinottica (Mt 13,24-30.36-43; Mc 4,29), Giovanni privilegia invece la gioia del raccolto finale. L’immagine della messe consente a Gesù di esprimere, in senso metaforico, la situazione in cui si trovano Lui ed i suoi discepoli. I samaritani sono “i campi bianchi per la mietitura”, pronti per la mietitura perché disposti ad avere fede in Gesù (la disponibilità dei samaritani a credere in Gesù è resa dall’espressione “venivano verso di lui” del v.30). Con la venuta dei samaritani alla fede, l’opera del Padre giunge al successo fin dal presente; i discepoli vengono associati alla gioia di Gesù, che è il “seminatore”. Dopo aver seminato nel cuore della samaritana in assenza dei discepoli (“voi non avete faticato”), Gesù raccoglie già la fede dei samaritani ed è, quindi, anche il “mietitore”. I discepoli saranno mietitori dopo di Lui e raccoglieranno i frutti del seminatore Gesù, mentre altri ancora, in precedenza, hanno faticato nel campo di Dio.

Non dite voi: “Ancora quattro mesi e viene la mietitura?”. Gesù interpella i suoi discepoli, i quali sanno che occorre un lasso di tempo ben preciso prima di procedere alla mietitura, cioè prima della fine dei tempi, il cui compimento è oltre il presente. Ma Gesù anticipa i tempi del giudizio finale: “Ecco che io vi dico”. Egli invita a guardare “in alto” (“Alzate i vostri occhi”) verso Colui che sta nei cieli e dal quale tutto proviene (cf. Sal 121,1; Is 40,26; 51,6; Mt 14,19; Gv 11,41) ed a prendere atto del fatto che il tempo della mietitura è imminente (“i campi sono bianchi per la mietitura”). La fine, dunque, riguarda già il presente. Certo, il tempo di Gesù è privilegiato poiché Egli è insieme sia il seminatore che il mietitore (“seminatore e mietitore si rallegrano insieme”) ma questa contrazione del tempo, presente in Gesù, non deve far dimenticare che esiste un “tempo intermedio”, quello della zizzania (Mt 13,30), tempo nel quale devono lavorare e faticare gli “operai del Signore”, il cui numero non è mai adeguato all’abbondanza delle messi (Lc 10,2).

Per Giovanni il tempo di Gesù è unico nella storia della salvezza, poiché in Lui si raccolgono insieme sia la semente che la messe, il seminatore ed il mietitore. In quanto mietitore escatologico, Gesù già contempla nelle sue primizie (i samaritani) la raccolta universale nel tempo del giudizio finale: dopo di Lui, saranno i discepoli a raccogliere la messe nel tempo futuro (“altro è il seminatore, altro è il mietitore”). Come Gesù è l’inviato del Padre, così i discepoli sono gli inviati di Gesù (“Io vi ho mandato a mietere”), ma la loro attività prolunga soltanto un aspetto della sua: la raccolta. Con Gesù, infatti, il tempo della semina si è concluso (Mt 13,4-9ss), mentre il tempo della raccolta continua ancora oggi e continuerà fino alla fine del tempo, allorquando la messe raccolta verrà ammassata per l’eternità (“il mietitore […] raduna il suo raccolto nella vita eterna”).

Diversamente dalla tradizione sinottica, secondo la quale i discepoli devono recarsi fino alle estremità della terra per annunciare la Buona Novella, secondo Giovanni i discepoli sono inviati da Gesù come mietitori a raccogliere una messe già matura ed abbondante (“altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica”). I discepoli non sono all’origine né della salvezza né della fede degli uomini, ma raffigurano sulla terra il raduno dei credenti; la loro funzione consiste nel lasciare che la parola di Gesù produca i suoi effetti nel mondo. Secondo la tradizione comune, i discepoli sono stati inviati da Gesù come messaggeri incaricati di far giungere la sua parola in ogni angolo della terra e, come tali, vengono considerati come i collaboratori del Seminatore. Nella prospettiva del IV Vangelo, invece, la missione dei discepoli (non seminatori, ma mietitori) va vista in funzione di quella compiuta personalmente da Gesù, che è venuto al termine di una lunga attesa, preceduto dai profeti e da Giovanni il Battista (“gli altri” che hanno faticato prima dei discepoli); ciò sta ad indicare la continuità dell’unico disegno salvifico di Dio, che abbraccia il passato ed il futuro con Gesù al centro. I discepoli ”subentrano” allo stadio finale di una storia cominciata molto tempo prima e possono “rallegrarsi” con Gesù per la buona riuscita dell’opera del Padre.


39 Molti samaritani di quella città credettero in lui a motivo della parola della donna che testimoniava: “Mi ha detto tutto ciò che ho fatto”. 40 Quando i samaritani arrivarono da lui, lo pregarono di rimanere presso di loro e vi rimase due giorni. 41 E furono molti di più coloro che credettero a motivo della parola di lui. 42 Alla donna poi dicevano: “Non è più per quello che hai detto tu che noi crediamo: noi stessi infatti abbiamo udito e sappiamo che è veramente lui il Salvatore del mondo”.

Il primo nucleo di credenti samaritani giunge alla fede attraverso la testimonianza (in greco martyrìa) di una donna, priva d’autorità e d’attendibilità, giacché è “donna” e, per di più, di dubbia moralità. Nella Chiesa di ogni tempo la fede si trasmette essenzialmente attraverso questa via. Frutto di un incontro personale con Gesù, la testimonianza induce l’uditore ad “ascoltare” la parola e ad approfondire la fede, che la testimonianza ha suscitato. Sono molti di più coloro che credono dopo aver ascoltato la parola stessa del Cristo; l’una e l’altra “parola” (vv. 39.41) offrono ai samaritani il giusto motivo per credere, ma non tutti sono disposti a credere. Dio dona a tutti la possibilità di avere la fede e di salvarsi, ma la libertà umana è tale da consentire ad ogni individuo di scegliere autonomamente il proprio destino, allora come oggi e come sempre. I samaritani sono stati spinti in qualche modo alla fede dalla “curiosità” di vedere di persona un uomo dotato di chiaroveggenza (“Mi ha detto tutto ciò che ho fatto”) e, stuzzicati dall’ipotesi fatta dalla loro concittadina (“Non sarà forse lui il Cristo?”), vogliono costatare di persona se costui può essere veramente il Ta’eb (vale a dire “colui che deve ritornare”, il Profeta promesso dagli antichi padri) oppure uno dei tanti ciarlatani che, periodicamente, si spacciavano per messia ed attraversavano come meteore il cielo delle speranze del popolo eletto, senza lasciare la minima traccia. Dopo averlo sentito “parlare”, gli abitanti di Sicàr invitano Gesù a ”rimanere” presso di loro avendo compreso che quest’uomo va ben oltre le loro attese. Se prima speravano, adesso sanno che costui è “veramente il Salvatore del mondo”. Che cosa può aver detto Gesù di così convincente ai samaritani da indurli a credere in Lui? Probabilmente Gesù ha detto loro le stesse cose già dette ai giudei, ma con risultati chiaramente differenti. Quasi mettendo in secondo piano l’evidenza del “segno” (la chiaroveggenza testimoniata dalla donna), i samaritani sono pervenuti alla fede in forza della sola “Parola” e, dopo essere stati “evangelizzati” dalla donna, ora sono loro ad “evangelizzare” la donna annunciandole chi veramente sia Gesù: “ il Salvatore del mondo

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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