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Il vocabolario degli etruschi:

Ultimo Aggiornamento: 06/05/2010 10:13
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decifrati 16mila parole e i numeri fino a 96


Enrico Benelli, Cnr: «La lingua è assai meno misteriosa di quanto si creda. Realizzare un vocabolario? Mancano i fondi»



di Fabio Isman

ROMA - «Nel 2012, o al massimo nel 2013, avremo finalmente un vocabolario etrusco», dice Enrico Benelli, che lavora all’Istituto per le Civiltà italiche e del Mediterraneo del Cnr, diretto da Paola Santoro e nato dalla fusione di due organismi creati da Massimo Pallottino e Sabatino Moscati.

Benelli ha appena pubblicato un “thesaurus” di 16 mila parole: tutti i lemmi etruschi finora noti da iscrizioni, epigrafi, vasi; 13 mila fonti di vario genere. Un lavoro certosino di sei anni, che non ha fatto da solo e aggiorna un’opera, ormai superata dagli studi, edita 35 anni fa da Massimo Pallottino: «Mi sono laureato nel 1991 con il suo allievo Giovanni Colonna, e in quella impresa ero il più giovane», spiega. E aggiunge: «Per carità: se per parlare una lingua bastano 2.000 vocaboli, questo non è proprio il nostro caso; perché 15 mila dei nostri lemmi sono solo dei nomi di persone; e la maggioranza degli altri descrive ogni dettaglio delle tombe. Però, ci sono anche termini sacri; i nomi delle divinità e delle magistrature; i verbi; i numeri fino al 96; e tante altre curiosità, piccole o grandi».

Insomma, l’etrusco resta, come molti dicono, un mistero, e noi ne possediamo poco più che un elenco telefonico?
«No, per carità: la lingua è assai meno misteriosa di ciò che comunemente si crede; e poi, non sottovaluti un elenco telefonico. Dai nomi, si possono ricostruire la storia di una città, i rapporti tra le famiglie. Sa che tra il III e il I secolo avanti Cristo, la città del Mediterraneo di cui si conosce il maggior numero di nomi è proprio Chiusi? Ne sono noti 3.000; altri mille sono romani; in tutto il resto del Mediterraneo, non arriviamo nemmeno a mille».

Con i nomi si ricostruisce la Storia; ma con i numeri? Perché, con gli etruschi, ci fermiamo proprio a 96?
«La cultura etrusca che è arrivata a noi è essenzialmente funeraria; quindi, dalle iscrizioni, conosciamo l’età dei defunti. E non andiamo oltre 96. In realtà, a Tarquinia un tale sarebbe morto a 106 anni; però, nell’epigrafe, il numero è scritto in cifre. Era un personaggio avventuroso: un perugino sconfitto da Annibale a Cuma, e Livio racconta di perugini che combatterono così valorosamente da ricevere l’onore delle armi. Lui torna; va a Tarquinia; sposa una donna dell’alta aristocrazia; evidentemente vive a lungo».

Ma davvero della lingua etrusca sappiamo abbastanza?
«Dai patronimici delle lapidi, “figlio di” declinato al genitivo, Luigi Lanzi nel 1789 ha derivato i rudimenti di una grammatica. Aveva già decifrato l’alfabeto. Gli studi sono poi progrediti anche grazie a importanti ritrovamenti. Sui testi etruschi, dagli Anni 80 possiamo compiere quella che a scuola era l’analisi logica. Dal cursus honorum degli aristocratici sepolti per esempio a Tarquinia, comprendiamo come era governata la città. E troviamo anche dei termini, ancora in uso, di derivazione assolutamente etrusca».

Divertente; perché non fa un paio di esempi?
«Galileo inventa la parola satellite. In latino, satelles è la guardia del corpo. Ma discende dall’etrusco zatlath, che definiva chi usa l’ascia, cioè il littore. Poi, il vocabolo persona indicava, in latino, la maschera teatrale; ma è una corruzione dell’etrusco fersu, che vale appunto maschera. Anche la groma, strumento degli agrimensori, deriverebbe dallo gnomon greco, passato per l’etrusco».

Ma come si può pensare a un vocabolario, partendo solo da piccole, brevissime iscrizioni?
«Brevissime non tanto. Ci sono testi anche di una discreta lunghezza. Le Lamine di Pyrgi, scoperte proprio da Massimo Pallottino; la Tabula Cortonensis, consegnata nel 1992, a Camucia, ai carabinieri; poi un cippo a Perugia, la Tegola di Capua. La più lunga è un frammento di un libro rituale, anche con un calendario, scoperta su un lungo lino che rivestiva una mummia a Zagabria».

Una storia da raccontare, almeno per chi non la sa: vero?
«Alessandria d’Egitto era una New York dell’antichità. Ci viveva anche una piccola comunità etrusca, e si era portata i propri libri rituali. Forse quando non servivano più, uno è venduto a un imbalsamatore, come stracci. Nell’Ottocento, un prete croato compera una mummia in Egitto; poi, la dona al Museo di Zagabria. Le bende vengono svolte. Nessuno sa capire la lingua di quello strano testo di 1.200 parole: su lino, perché è un supporto più resistente del papiro, e la pergamena all’epoca non esisteva ancora; e che si è salvato per via dell’assenza di sbalzi di temperatura. Finché un linguista tedesco, Emil Brugsch, non l’ha identificato».

Il lino della mummia si è salvato per il clima; ma come mai conosciamo tante iscrizioni tombali etrusche?
«Perché erano dentro le tombe a camera. Invece, quelle dei romani erano all’esterno, perché i passanti le leggessero, in qualche modo facendo così vivere ancora il defunto».

E al vostro vocabolario, che cosa manca ancora?
«I fondi per realizzarlo. E’ un progetto di cui si parla almeno dal 1908. Pallottino l’aveva avviato, ma realizzando solo il primo di due volumi, appunto il Thesaurus. Con lui, lavorava pure un linguista francese ormai socmparso, Michel Lejeune; abbiamo preso contatto con i suoi allievi: chissà, magari si può pensare a una coedizione con il Cnr, vedremo».


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06/05/2010 10:13
 
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