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Storia & Religione

Ultimo Aggiornamento: 01/08/2011 10:48
28/04/2010 12:23
 
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Gli evangelici di Hong Kong e l'arca ritrovata

Dalla Cina con stupore. Un gruppo di cristiani evangelici di Hong Kong è convinto di avere trovato qualcosa di molto, molto simile a quella che le Scritture indicano come l'Arca di Noé. Fanno capire di avere trovato la nave che salvò uomini e animali dal diluvio biblico, ma con compostezza.

PORTE, CHIODI, CORDE L'annuncio è di domenica, nell'ex colonia britannica ora cinese, e si tratta del resoconto della prima missione che ha visto coinvolto il governo turco. La spedizione risale allo scorso ottobre e ha visto impegnati, oltre ai funzionari di Ankara, anche il Media Evangelism di Hong Kong e il Noah's Ark Ministry International. A circa 4 mila metri di altitudine sul monte Ararat, in un punto di cui non sono state rivelate le coordinate, i 15 della spedizione (tra i quali i 6 cinesi di Hong Kong) hanno rinvenuto una struttura di legno dai tratti curvi, con contenitori, resti di funi - che potrebbero essere cavezze per legare animali - porte e chiodi. Un archeologo turco presente sul posto, Oktay Belli dell'università di Istanbul, ha spiegato che è impensabile che si tratti di ciò che avanza di un insediamento umano perché non sono mai stati trovati villaggi o abitazioni sopra i 3.500 metri d'altezza. Un altro ricercatore, l'olandese Gerrit Alten, ha dichiarato alla stampa di Hong Kong che "c'è un'eccezionale quantità di prove concrete che la struttura trovata sull'Ararat sia l'Arca di Noé".

4800 ANNI FA Le attività del gruppo in montagna sono state filmate in ogni dettaglio e Yeung Wing-cheung, uno dei cristiani evangelici di Hong Kong, ha spiegato che un frammento di legno di 3,8 centimetri (sopra nella foto pubblicata dal South China Morning Post) è stato datato grazie al carbonio in un laboratorio di Teheran e sarebbe vecchio di 4.800 anni. Per i filoni della galassia del cristianesimo evangelico che prediligono una lettura fattuale della Bibbia, anche i semi e gli altri reperti riportati indietro, e in attesa di ulteriori esami, sono quasi una prova. Per tutti gli altri un enigma.
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08/06/2010 11:55
 
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Gb, cimitero di gladiatori romani nei giardini delle case di York

Risolto il mistero degli oltre 80 scheletri dalla testa mozzata, vecchi di 1.800 anni. Gli esperti hanno trovato anche segni del morso di un leone fratture provocate dal martello usato nelle arene per il "colpo di grazia".Non si trattava di riti pagani.



LONDRA - Un cimitero di gladiatori. Gli archeologi britannici potrebbero avere risolto il mistero degli oltre 80 scheletri dalla testa mozzata, vecchi di 1.800 anni e rinvenuti nei giardini di alcune case di York a partire dal 2004. Gli esami compiuti dagli esperti Del Central Lancashire i cui risultati sono stati pubblicati oggi, ha rivelato che uno degli scheletri mostrava i segni del morso di un leone o di un altro animale carnivoro, mentre su molti dei teschi si troverebbero fratture provocate da un corpo contundente: un martello o una mazza erano frequentemente utilizzati per il "colpo di grazia", e anche la decapitazione sembra essere stata una conclusione piuttosto frequente dei combattimenti.
GLI SCAVI
Da alcuni degli scheletri, tutti appartenenti a uomini giovani e robusti, si può inoltre dedurre che i muscoli del braccio destro erano molto più sviluppati, una delle caratteristiche che gli scrittori romani avevano notato negli schiavi addestrati fin dall'adolescenza per diventare stelle dell'arena. Inoltre dagli esami condotti su denti è emerso inoltre che gli uomini erano originari di numerose province romane, tra cui il Nord Africa uno dei tradizionali luoghi di provenienza dei gladiatori.
"Non ci sono altri cimiteri di gladiatori così ben conservati in nessuna altra parte del mondo", ha dichiarato Michael Wysocki, professore di antropologia e archeologia presso l'università del Central Lancashire, aggiungendo: "Nulla di simile a quei morsi è mai stati rinvenuto su uno scheletro romano. E' molto improbabile che questo individuo fosse stato attaccato da un leone o da una tigre tornando dal pub a York 2.000 anni fa". Kurt Hunter-Mann, membro della York Archeological Trust è d'accordo sull'importanza del morso: "E' una delle prove più significative. Il morso di un grosso carnivoro - probabilmente un leone, ma anche una tigre o un orso - deve per forza essere stato provocato in un'arena".
La teoria si basa anche sul fatto che york era una delle più importanti colonie romane in inghilterra - fu capitale della provincia - e l'aristocrazia locale avrebbe senza dubbio goduto un alto livello di vita sociale, compresi dunque i giochi nel circo. In precedenza alcuni avevano ipotizzato che si trattasse di alcuni aristocratici la cui rivolta era stata fermata da Caracalla. Altri sospettavano un rito pagano che terminava con la decapitazione, mentre altri temevano si trattasse dello sterminio di una minoranza, forse cristiani. Tuttavia la scoperta di una necropoli dalle caratteristiche simili avvenuta tre anni fa ad Efeso, nell'odierna Turchia, aveva spinto gli archeologi a compiere ulteriori accertamenti.

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
01/07/2010 13:57
 
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I TUMULI DELL'ISOLA DEI PINI, IN NUOVA CALEDONIA: UN ENIGMA AFFASCINANTE TUTTORA INSOLUTO


di Francesco Lamendola


I Canachi della Nuova Caledonia, presso gli studiosi di linguistica, sono noti per il fatto che, nel loro idioma, mancano i termini relativi alla prima persona e quindi anche il concetto di "io", così come lo intendiamo noi occidentali (1).

Vi è anche un altro motivo d stupore, non fra i linguisti ma fra gli archeologi, dovuto alla presenza di alcune centinaia di misteriosi tumuli di grandi dimensioni, alcuni dei quali caratterizzati dalla presenza di altrettanto enigmatici pilastri, concentrati sull'Isola dei Pini (2), immediatamente a sud della Nuova Caledonia; nonché in una località presso l'estremità meridionale di quest'ultima.
L'Isola dei Pini, vero gioiello naturale dell'Oceano Pacifico, è famosa per le sue spiagge stupende, che attirano un discreto flusso di turismo internazionale nei bene attrezzati alberghi della costa; un poeta giapponese si è spinto a definire questa terra come la più vicina al Paradiso fra quante ne esistono al mondo. Raramente, però, i turisti che giungono qui dall'Europa, dall'Australia o dagli Stati Uniti d'America, si interessano al mistero dei tumuli, che sembra rimandare alle nebbie di un passato mai realmente conosciuto.
La superficie dell'isola, che si trova a 60 km. dalla capitale della Nuova Caledonia, Noumea, è di circa 250 km2. quadrati, più o meno come la nostra isola d'Elba. Le coste sono basse, di sabbia bianchissima e dalle acque di un blu cobalto singolarmente trasparenti, fronteggiate da centinaia di isolotti e banchi di sabbia sottoposti all'alternanza della marea. Sia le spiagge sia, soprattutto, l'interno dell'isola, sono caratterizzati da magnifici boschi di palme e di araucarie, conifere "primitive" che raggiungono qui uno sviluppo e una bellezza sorprendenti e che spiegano la denominazione data all'isola dai primi navigatori europei.
La foresta, due o tre secoli fa, era ancora talmente fitta che nel 1792 il navigatore francese Bruni d'Entrecasteaux, quivi giunto alla ricerca di La Pérouse (3), impiegò ben un mese per attraversarla tutta.

Ma adesso torniamo ai tumuli.
Se sono opera dell'uomo, cosa che non da tutti è ammessa, la loro stessa presenza, databile a diverse migliaia di anni fa, rivoluzionerebbe completamente tutte le nostre cognizioni intorno al popolamento delle isole dell'Oceano Pacifico; non solo, ma anche intorno allo sviluppo delle prime civiltà umane, che, come è noto, per la storiografia accademica sarebbero quelle dell'antico Egitto e dell'antica Mezzaluna fertile, l'arco di terra che va dalla Palestina, attraverso la Siria, fino alla Mesopotamia.
Secondo le nostre conoscenze attuali, le isole e gli arcipelaghi occidentali dell'Oceania vennero popolati a partire dall'Asia sud-orientale, in una data imprecisata: dapprima la Nuova Guinea e le Isole Salomone, indi il resto della Melanesia e poi, via via, la Micronesia e la Polinesia, fino alle estremità settentrionale (Hawaii), sud-occidentale (Nuova Zelanda) e sud-orientale(Isola di Pasqua).
Fu una migrazione molto lenta, se i primi uomini giunsero, come sembra, in Nuova Caledonia non prima del 2.000 a.C. In ogni caso, la datazione del 50.000 a.C. per l'inizio del movimento migratorio, che pure è stata avanzata da alcuni studiosi, appare in contrasto con tutti i dati attualmente disponibili. Alcuni siti archeologici associati alla cultura lapita sono stati rinvenuti nell'isola Watom (Papua-Nuova Guinea), in quella di Malo nelle Vanuatu, nonché a Tonga e a Samoa: e sono tutti databili intorno al 500 a.C.
Alcune successive ondate migratorie introdussero fra quei primi colonizzatori l'agricoltura, l'arte della ceramica e quella di fabbricare le grandi canoe d'alto mare a doppio scafo.
Si potrebbe ipotizzare che i tumuli dell'Isola dei Pini e dell'estremità meridionale della Nuova Caledonia siano una testimonianza di queste remote popolazioni melanesiane, tanto più che sono venute alla luce anche alcune antiche iscrizioni sui pietra. Tuttavia questa interpretazione solleva ancora più perplessità di quante ne riesca a sedare, poiché i tumuli - se, ripetiamo, sono realmente dei manufatti - costituiscono i classici reperti archeologici "fuori posto".
Ecco come li descrive la rivista "Info Journal" (4):

«L'isola della Nuova Caledonia, nel Pacifico, si trova circa 1.000 miglia a sud-ovest della Nuova Guinea e a 750 miglia dalla costa orientale dell'Australia (il porto più vicino è Brisbane, capitale del Queensland). Circa 40 miglia a sud della sua punta più meridionale c'è l'Isola dei Pini. Su questa piccola isola sono stati scoperti circa 400 curiosi tumuli di sabbia e pietrisco, fatti a forma di formicaio, alti dai 2,5 ai 3 metri, con un diametro di poco meno di 100 metri. Lo stesso genere di tumuli si ritrova nel distretto di Païta, nella Nuova Caledonia meridionale. Sull'Isola dei Pini la sabbia contiene un'alta percentuale di ossido di ferro; vicino a Païtta, invece, è ricca di silicio. In entrambi i casi i tumuli sono virtualmente spogli di vegetazione.
Nei primi anni '60, quattro di questi tumuli furono oggetto di scavi da parte di L. Chevalier del Museo della Nuova Caledonia di Noumea, capitale dell'isola. I tumuli appaiono strani già di per sé, ma ciò che Chevalier trovò nel loro interno era ancora più strano. Al centro di tre tumuli scoprì un pilastro verticale e, nel quarto, due pilastri affiancati. Non vi fu trovato nessun altro reperto, né carbone, né ossa. I pilastri, o cilindri, il cui diametro varia da 1 a 2 metri, con un'altezza da 1 a 2,5 metri, sono fatti di un composto a base di calce contenente frammenti di conchiglie. Con la datazione al carbonio 14 questi pilastri sono stati risalire a un periodo tra il 5120 e il 10.950 a.C. L'uso della calce, come materiale da costruzione, è quasi sconosciuto prima del periodo ellenico classico, cioè poche centinaia di anni prima dell'Era cristiana. E, per quanto ne sappiamo, il primo uomo giunse dall'Indonesia in Nuova Caledonia intorno al 2000 a.C.
La superficie esterna dei cilindri è incrostata di frammenti di silice e pietrisco ferroso, che sembrano essersi incastonati nella malta durante l'indurimento. L'ipotesi di Chevalier è che i pilastri siano stati formati versando la malta dall'alto dei tumuli in stretti pozzi scavati nella sabbia e lasciandola indurire sul posto. Lo scopo di simili costruzioni è ancora avvolto nel mistero. E, data l'età apparente dei cilindri e il fatto che non siano stati trovati segni di vita, né umana né altra, anche la natura dei loro costruttori rimane un enigma.»

Se si tratta di monumenti funerari, come mai non è stata trovata alcuna traccia di ossa umane all'interno dei tumuli dell'Isola dei Pini?
E come è possibile che siano stati costruiti fra il 5.000 e l'11.000 a.C., se i primi colonizzatori melanesiani giunsero solo molte migliaia d'anni più tardi?
Ancora: chi ha eretto i pilastri, o cilindri, al centro di alcuni di quei tumuli; e come mai utilizzò la calce, che non era conosciuta nemmeno in Asia, né in Europa, fino ad alcuni secoli innanzi l'era cristiana?

Certo, la cronologia delle migrazioni polinesiane è ancora incerta: la diffusione in Oceania comincia nel primo millennio a.C.:, potrebbe essersi conclusa entro i primi secoli dopo Cristo, verso il 400 per le isole Hawaii; solo la Nuova Zelanda fu raggiunta molto più tardi, dopo il 1.000 d.C. (e, naturalmente, l'Isola di Pasqua).
Secondo gli storici, sono le Molucche, in Indonesia, le terre di origine della ceramica detta di Lapita; fra il 1600 e il 1400 a.C. i portatori della ceramica lapita si diffusero nelle Tonga, nelle Figi orientali ed in alcune isole di minori dimensioni.
Mauro Paoletti fa notare che, secondo il racconto di Erodoto, i sacerdoti egizi facevano risalire lo spostamento dei Poli a 12.480 anni fa; una data che coincide con le più antiche datazioni al radiocarbonio dei pilastri esaminati dal professor Chevalier.
I tumuli, in numero da 300 a 400, risalirebbero a circa 3.000 annui fa e sarebbero, quindi, più recenti dei pilastri; ma, anche così, i conti non tornano.
Formati da un composto di macerie, terra, frammenti di corallo e ossido di ferro, nonché da conchiglie e - questa è la cosa più strana - da calce, a detta di alcuni studiosi potrebbero essere stati costruiti non da esseri umani, ma da uccelli di grande mole oggi estinti, come il "Moa" gigante della Nuova Zelanda.
A parte il fatto che non vi sono evidenze fossili della presenza di tali uccelli in Nuova Caledonia, anzi, che non vi sono ossa di alcun tipo sotto i tumuli o nelle loro vicinanze, né umane né animali, si tratta di un'ipotesi piuttosto peregrina, che sembra sia stata avanzata apposta per chiudere la discussione in sede propriamente archeologica.
Piaccia o non piaccia, forse il solo modo di gettare un po' di luce su questo intricato problema è quella di allargare lo sguardo a tutta l'area del Pacifico occidentale e di mettere i tumuli dell'Isola dei Pini in relazione, fra le altre cose, con il gigantesco edificio sommerso di Yonaguni, in Giappone, e con le ciclopiche rovine di Nan Madol, a Ponapé nelle Isole Caroline, di cui ci siamo altra volta occupati (vedi: "Le gigantesche rovine di Nan Madol vestigia della civiltà di Mu? (dimen36a.htm)").

C'era qualche cosa, qualche terra, qualche civiltà, delle quali non sappiamo quasi niente, in questa regione dell'Oceano Pacifico ove il navigatore spagnolo Mendaña De Neira cercava, alla fine del 1500, niente di meno che il Paradiso Terrestre?
E il mitico Continente Australe, ricercato dai navigatori europei ancora nella seconda metà del 1700, era proprio soltanto una leggenda, o non poteva essere il ricordo deformato di un dato reale, di quella misteriosa Terra di Mu di cui parlava il colonnello Churchward negli ultimi decenni del XIX secolo?
Verso che cosa guardavano i seicento giganteschi "moai", i busti in pietra tufacea dell'Isola di Pasqua, disseminati lungo le pendici del vulcano Rano Raraku; e chi li eresse su di un'isola tanto piccola, a migliaia di chilometri dalla terra più vicina?
Ancora. Chi edificò sull'isola di Malden, nelle Gilbert (oggi Repubblica di Kiribati), i 40 templi a forma di piramide, alti fino a 9 metri, larghi fino a 18 e lunghi fino a 60 metri, con tracce di strade pavimentate che conducono verso il mare, dove misteriosamente si interrompono?
Anche a Ponapé esisteva un grandioso porto, oggi sprofondato nel mare: chi furono i suoi costruttori?
Verso quali rotte partivano le sue merci?
Faceva forse parte delle Sette Città Sacre di Mu, citate da Churchward?
E chi ha costruito l'enorme arco di pietra dell'isola di Tongatapu, nell'arcipelago delle Tonga, pesante oltre 100 tonnellate e apparentemente allineato con gli astri, simile a una Stonehenge dell'Oceano Pacifico?
Che dire, infine, delle avvincenti mappe giapponesi, più antiche di qualsiasi civiltà oggi conosciuta, che mostrano il mondo prima dello spostamento dell'asse terrestre, nelle quali compaiono due continenti, oggi scomparsi, nell'Oceano Pacifico, ed un terzo, più piccolo (forse l'antica Lemuria), nell'Oceano Indiano?
Di queste mappe ha parlato, fra gli altri, Valerio Zecchini (5).
Molte domande senza risposte; troppe, forse, per una scienza che crede di aver capito e di aver spiegato quasi tutto, della storia antica dell'umanità.
Eppure, noi sappiamo che quella storia è tutta da riscrivere.
Non è forse vero che l'impronta di un sandalo che schiaccia una trilobite è stata scoperta dall'americano William J. Meister ad Antelope Spring, nello Utah, nel giugno del 1968: l'impronta di un piede umano, dunque, impressa in una roccia che risale ad un'età compresa fra i 300 ed i 600 milioni di anni fa?

Note:
1. Francesco Lamendola, "Fra i Canachi della Nuova Caledonia la persona non ha nome né io, ma è un insieme di relazioni", nel sito di Arianna Editrice.
2. "Ile des Pins", da non confondersi con l'isola omonima dei Caraibi, al largo di Cuba; tutto l'arcipelago, che comprende anche le vicine Isole della Lealtà, è un Territorio d'Oltremare francese vasto 19.050 km2, più o meno come la Puglia.
3. La Pérouse aveva fatto invece naufragio a Vanikoro, nelle Isole Santa Cruz, quattro anni prima.
4. "Info Journal", n. 2, autunno 1967; riportato in "Misteries of the Unexplained", 1982, traduzione italiana "Cronache dell'inspiegabile", Milano, Selezione dal Reader's Digest, 1989, p. 49.
5. Valerio Zecchini, "Atlantide e Mu", Editrice Demetra, 1998, pp. 133-37.
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01/07/2010 15:13
 
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Re: I TUMULI DELL'ISOLA DEI PINI, IN NUOVA CALEDONIA: UN ENIGMA AFFASCINANTE TUTTORA INSOLUTO
faberhood, 01/07/2010 13.57:



Non è forse vero che l'impronta di un sandalo che schiaccia una trilobite è stata scoperta dall'americano William J. Meister ad Antelope Spring, nello Utah, nel giugno del 1968: l'impronta di un piede umano, dunque, impressa in una roccia che risale ad un'età compresa fra i 300 ed i 600 milioni di anni fa?





questa parte degli assurdi temporali mi ha sempre acchiappato una cifra.

ho sempre immaginato un alieno, o un viaggiatore nel tempo, distratto magari come lo sono io, che lascia che so... il cellulare ai piedi di un antica felce e ...


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02/07/2010 16:33
 
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Polemiche a Siena: "Palio blasfemo"

San Giorgio con la testa coperta dalla kefiah nel ''cencio'', il drappo che va in dono alla contrada vincitrice, ritratto quest'anno dal pittore arabo Ali' Hassoun


Ansa- SIENA - Mentre i contradaioli sono concentrati sulle ultime prove del Palio sul tufo del Campo, che si corre oggi, e di fatto ignorano le polemiche sul 'drappellone' dipinto dal libanese Alì Hassoun - c'é un guerriero saraceno ai piedi della Madonna - la diocesi di Siena rileva che nel dipinto ci sono una mezzaluna islamica e una stella di Davide sulla corona indossata dalla Vergine e li qualifica come simboli "problematici". L'arcivescovo Antonio Buoncristiani interverrà solo dopo la festa, ma oggi il suo portavoce ha diffuso una nota che anticipa una valutazione. "L'opera di Hassoun è permeata da un profondo afflato religioso, che si richiama a diverse tradizioni", scrive la diocesi, ma "problematico è l'inserimento sulla corona della Vergine della Mezzaluna, simbolo dell'Islam, e della stella di Davide, effigie dell'Ebraismo". La diocesi ricorda che "ciò che è essenziale nella realizzazione del Palio è che sia rispettata l'iconografia tradizionale, a garanzia della possibilità per i fedeli di riconoscere la Madonna nell'immagine dipinta. Per questo sarebbe opportuno che l'Arcidiocesi fosse stata resa partecipe del confronto con l'artista". Per la curia comunque "l'opera, ad un rapido sguardo richiama con immediatezza l'effigie della Madonna di Provenzano e il guerriero sottostante può essere facilmente identificato con San Giorgio che uccide il drago-satana, riallacciandosi al ruolo di Maria quale personaggio chiave nella vittoria sul male". Lo stesso Alì Hassoun ha precisato che la sua opera "é a favore del dialogo tra le culture e cerca un terreno comune a tutti. I senesi hanno applaudito (alla presentazione di alcuni giorni fa, ndr). E la croce svetta su tutti gli altri simboli. Ed è giusto che sia così perché rappresenta la tradizione del Paese. La mezzaluna e la stella di David sono simboli che affiancano la Madonna aiutando, simbolicamente, i cristiani a trovare le radici della loro fede". E mentre il sindaco Maurizio Cenni rimanda tutti alla consueta conferenza stampa nel giorno della corsa, cioé domani mattina, parla il rettore del Magistrato del Palio, supremo organo di governo delle contrade, Roberto Martinelli, che dice: "Le polemiche che arrivano da fuori Siena sul Palio non sono giuste. Il Palio di Hassoun è bello, raffigura la vera Madonna di Provenzano, quella in terracotta conservata nella basilica. E' un dipinto che non dimentica niente, né le radici laiche, né religiose, né popolari di questa festa". Per Martinelli "ai senesi interessano altre polemiche in queste ore", ha detto riferendosi alle trattative segrete fra le contrade e alle prove (la generale è stata vinta stasera dalla Selva). La 'genesi' dell'opera è invece rivelata dallo storico Giovanni Mazzini, autore di un saggio sull'esercito ghibellino di Siena alla battaglia vinta a Montaperti contro la guelfa Firenze: "Dopo aver letto il mio lavoro, Hassoun mi ha cercato per selezionare meglio il dettaglio storico della presenza di saraceni nell'esercito di Siena contro le truppe guelfe di Firenze visto che ricorre il 750/o anniversario e che il Palio lo ricorda". Erano arcieri inviati dal re Manfredi di Sicilia, e Hassoun nel Palio ne ha raffigurato uno nell'atteggiamento del San Giorgio del Mantegna; ha tratti mediorientali, indossa una kefiah (e non l'elmo), viene colto dopo aver ucciso il demonio (per l'artista può rappresenatre il terrorismo), e non un drago come nella tradizione attribuita al santo. Una similitudine che ha convinto il movimento Giovine Italia a essere domani a Siena "per protestare contro questo Palio blasfemo". E se qualcuno si spende per criticare il Palio, i contradaioli si dannano per cercare di portare il 'cencio' a casa. Più di tutti quelli del Nicchio: è la contrada favorita.

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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12/07/2010 13:29
 
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La Tavola rotonda di Re Artù?
In realtà era l'anfiteatro di Chester



Secondo alcuni esperti la roccaforte di Camelot sarebbe stata una struttura in pietra e legno di epoca romana

MILANO ( Corriere.it ) - La figura di Re Artù è sempre stata un enigma, così pure la leggenda dei suoi cavalieri e di quella Tavola Rotonda attorno alla quale si diceva si riunissero prima di ogni battaglia contro gli odiati Sassoni. Ma un documentario che verrà trasmesso da History Channel il prossimo 19 luglio alza finalmente il velo sul controverso monarca, la cui esistenza sarebbe stata spesso messa in dubbio dagli studiosi di storia inglese, mentre un’altra scuola di pensiero lo avrebbe identificato in un condottiero romano-britannico vissuto fra il V e il VI secolo. A quanto pare, infatti, alcuni esperti avrebbero individuato la posizione precisa della roccaforte di Artù, scoprendo così che la famosa Tavola Rotonda di Camelot esisteva davvero, ma anziché essere un classico tavolo di legno o di marmo, era, piuttosto, uno spazio circolare all’interno dell’anfiteatro di Chester, una massiccia costruzione in pietra e legno alta oltre 12 metri, risalente all’epoca romana e capace di contenere fino a 10 mila persone.

LA RICOSTRUZIONE DEGLI STUDIOSI - Stando alla ricostruzione fatta dagli studiosi e che verrà presentata in King Arthur’s Round Table Revealed, la struttura circolare del quartier generale di Artù ben si conciliava con le gerarchie dell’epoca, con i nobili della regione che sedevano in prima fila nell’arena, mentre quelli di rango inferiore si posizionavano più indietro, sui banchi di pietra. E la scelta di Chester non sarebbe stata affatto casuale, visto che proprio in quel luogo il Re avrebbe riportato una delle sue maggiori vittorie nelle 12 battaglie combattute in 40 anni contro i pagani Sassoni.«Anziché costruire appositamente Camelot – ha spiegato al Mail on Sunday lo storico inglese Chris Gildlow – Artù ha seguito la logica, scegliendo di utilizzare una struttura già esistente, lasciata dai Romani e i primi riscontri che abbiamo relativi alla Tavola Rotonda dimostrano come essa non fosse affatto un tavolo da pranzo di forma circolare, bensì un luogo in grado di ospitare mille persone alla volta. Sappiamo inoltre che una delle due più grandi battaglie di Artù ebbe luogo in una città conosciuta come la Città delle Legioni e ci sono solo due posti che possono vantare tale titolo: una era St Albans, mentre la posizione dell’altra è sempre rimasta avvolta nel mistero, ma la recente scoperta in un anfiteatro di un monumento commemorativo in pietra dedicato ai martiri cristiani lascerebbe supporre che la location misteriosa fosse proprio Chester. E se a questo aggiungiamo che nel VI secolo un monaco chiamato Gildas, che scrisse i primi resoconti sulla vita di Artù, parlò della Città delle Legioni riferendosi al santuario dedicato ai martiri all’interno di essa, ecco la prova conclusiva: ovvero, Chester, con il suo santuario nell’anfiteatro, era il luogo dove si riunivano Re Artù e la sua corte e dove, perciò, si trovava la sua leggendaria Tavola Rotonda
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16/07/2010 12:10
 
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Un vascello del '700 emerge da Ground Zero


ANSA- NEW YORK - Straordinaria scoperta archeologica tra i grattacieli. Gli operai al lavoro nel cantiere di Ground Zero hanno scoperto un vascello del Settecento che in apparenza venne usato 200 anni fa tra il materiale di riporto usato per allargare la punta sud di Manhattan.

Lo scafo e' stato rinvenuto a dieci metri sotto il livello della strada: e' stato adesso sottoposto all'esame degli archeologi che hanno cominciato a scavarlo e ripulirlo a mano perche' il relitto e' estremamente fragile. Come gli affreschi romani negli scavi della metropolitana in una memorabile scena di 'Roma' di Federico Fellini, il legno che lo compone ha cominciato a deteriorarsi non appena esposto all'aria. ''Per fortuna e' piovuto'', ha commentato Doug Mackey, il soprintendente archeologo della New York Historical Society: ''Se ci fosse stato il sole il vascello si sarebbe disfatto''.

Un'ancora da 50 chili e' stata rinvenuta nei pressi ma non e' chiaro se appartenesse all'imbarcazione o ad un altro vachello fantasma. Il relitto e' emerso dal fango del cratere dove sorgevano un tempo le Torri Gemelle: gli operai hanno intravisto una fila di assi di legno regolari in mezzo al terreno punteggiato da gusci di ostriche. Il materiale di riporto era quello usato alla fine del Settecento per estendere quella che oggi e' Battery Park, la punta sud di Manhattan, nell'estuario del fiume Hudson. ''Erano file cosi' regolari che e' stato chiaro che facevano parte di una nave'', ha detto Michael Pappalardo, un archeologo della ditta AKRF che collabora con Port Authority nella documentazione di materiali storici scoperti durante i lavori a Ground Zero.

La porzione di vascello venuta in luce e' lunga dieci metri: e' il primo reperto archeologico di questa scala emerso a Manhattan dal 1982 quando un mercantile del Settecento venne portato alla luce a 175 Water Street. L'area dello scavo non era stata toccata quando negli anni Settanta venne costruito il World trade Center: in questo senso il vascello e' rimasto sottoterra indisturbato per oltre 200 anni.

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30/07/2010 19:24
 
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La bandiera americana di George Washington
In un comò un pezzo di storia degli States


L'ha scoperta un 70enne parmigiano, Ernesto Campanini. Risalirebbe al 1700. La sua storia passa dalle terra della Virginia, ai vigneti della Toscana fino alla città ducale. Il proprietario: "Mi piacerebbe donarla a Obama"
Non si sa mai che cosa nascondano i cassetti di un vecchio mobile. Può anche capitare, come a Ernesto Campanini, 70enne parmigiano, di trovarvi una vecchia bandiera americana, che sa del tempo di George Washington e di quelle 13 colonie dalle quali sono nati i moderni e potenti Stati Uniti. Un vessillo che racconta l'infanzia di una nazione.
Il loro incontro è stato casuale, come spesso capita, quando si compie una scoperta importante. Siamo a Parma nel 1981: "C'era un camion dal quale venivano scaricati vecchi mobili e vidi un comò di modesto valore. Ma nel primo cassetto notai una bandiera, arrotolata attorno a un manico di scopa". La bandiera è fatta mano e al centro campeggia un'aquila, simbolo degli Stati Uniti, che stringe tra gli artigli uno scudo con 13 stelle. Campanini intuisce subito il valore del fortuito ritrovamento. Ingaggia una trattativa, lunga un anno, per avere il mobile con il suo prezioso tesoro.

Ernesto non perde tempo e si mette subito a fare ricerche per saperne di più. Scrive una lettera al National Geographic che gli segnala due persone a cui rivolgersi: Allen Whelchel Finger del The American Flag Institute e Whitney Smith del Flag Research Institute. Dal primo arriva una conferma importante: la bandiera è autentica. "Probabilmente - spiega Campanini - risale a prima del 1795, perché ci sono solo tredici stelle". La quattordicesima e la quindicesima stella compariranno nel primo maggio 1795 con l'inserimento del Vermont e del Kentuky, due nuovi stati che si aggiungono all'Unione.

Smith avrebbe invece spiegato a Campanini che potrebbe trattarsi di un table-cover del 1846 (copritavolo) con una decorazione revival per celebrare la rivoluzione americana. Una risposta che però ha lasciato molti dubbi al proprietario: "Se fosse un revival, accanto alle 13 stelle solitamente dovrebbero comparire anche le altre dei nuovi stati e in genere ci sono delle frasi che celebrano la libertà o altri ideali americani. E poi - conclude - la tecnica con cui è realizzato non corrisponde al periodo e il materiale non si adatta a un copritavolo.

Ernesto sembra insomma convinto che la sua bandiera possa proprio risalire ai tempi di Washington e Jefferson. Campanini ha mostrato a diversi esperti americani la bandiera: "Very unusual one" l'affermazione più ricorrente, un unicum insomma. "Il direttore del Flag Institute non ha mai visto niente di analogo" spiega. Il mistero s'infittisce, considerando anche le misure della bandiera: 125 x 130 cm. "Più che una bandiera, forse potrebbe essere uno stendardo pubblico - ipotizza Ernesto - sicuramente esposto in un edificio non privato, ma pubblico.

E poi com'è arrivato in Italia un vessillo del tempo di George Washington, conservato nel cassetto di un comò? Campanini ha una sua teoria su come la "reliquia" possa essere approdata nel nostro Paese. Premette che è solo un'ipotesi, che gli è stata ispirata leggendo un articolo pubblicato sulla Gazzetta di Parma dell'ottobre 1990. La chiave del rebus potrebbe essere legata a Filippo Mazzei. Un nome che in Italia forse dice poco, ma che gli scolari d'oltreoceano conoscono assai bene.

Chi era costui? "Mazzei - racconta - era un toscano, massone, amico di George Washington e firmatario della Dichiarazione d'indipendenza". Questo "gentleman di campagna" di Poggio a Caiano fu intimo amico dei primi cinque presidenti americani: oltre Washington, John Adams, James Madison, James Monroe e soprattutto Thomas Jefferson. Di quest'ultimo divenne consigliere agricolo nella tenuta di Monticello in Virginia, dove Mazzei pare abbia piantato anche qualche buon vigneto toscano.

Mazzei era andato in America insieme a un gruppo di contadini "compaesani". Una cosa che ha fatto pensare Ernesto: "Forse lo stendardo è stato sottratto da una di queste persone al seguito di Mazzei, arrivando così in Toscana", dove tutto sembra condurre per altro: il mobile infatti viene da Aulla. Aulla in provincia di Massa Carrara, Toscana ancora una volta. Da Aulla a Poggio sono circa 130 km. Viaggiando con la fantasia si potrebbe pensare che la bandiera sia passata di generazione in generazione, fin quando non è stata dimenticata in un cassetto del comò, finito poi nelle mani di Ernesto

La bandiera/stendardo di Campanini è stata vista da molti. Anche personaggi importanti. Eppure, nonostante i complimenti, non è arrivata alcuna offerta: "Nessuno mi ha mai chiesto quanto vuoi?". Ernesto sarebbe disposto a venderla, ma gli farebbe piacere regalarla al nuovo presidente degli Stati Uniti Barack Obama, per il quale esprime stima e simpatia. "Ci starebbe proprio bene alla Casa Bianca, dietro il presidente".

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mo faccio un salto in soffitta...
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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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31/07/2010 09:44
 
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l'altro giorno leggevo di un tizio che acquistò dei negativi per 35 dollari in un mercatino , ora ha scoperto che ste foto non so quale fotografo famosissimo l'abbia fatte e gli hanno offerto 200.000 $ .
Io la cosa più vecchia che ho è la mia collezione di Topolino di quand'ero piccolo [SM=g27994]
vedo se ritrovo la notizia
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04/10/2010 15:02
 
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Scoperta la statua del nonno di Tutankhamon


L’Egitto non smette di riservare straordinarie sorprese agli archeologi svelando, a distanza di centinaia di anni dai primi scavi, sempre nuove meraviglie sepolte. E’ ora la volta di una statua alta poco più di un metro risalente a 3.400 anni fa, raffigurante il faraone Amennhotep III, che indossa la doppia corona d’Egitto, che è decorata con un ureo, e seduto su un trono vicino al dio Amon di Tebe. Amenhotep III era il nonno del giovane re Tutankhamon, e governò l’Egitto nel XIV secolo, al culmine del medio regno. Era padre di Amenhotep IV, meglio conosciuto come Akhenaton. «La statua è stata trovata vicino all’ingresso settentrionale del tempio di Amenhotep III e raffigura il re seduto su un trono con Amon, la principale divinità,» ha dichiarato Zahi Hawass. La statua è stata dissotterrata a Kom El-Hittan, nella West Bank di Luxor. Qui sorgeva il tempio di Amenhotep III, il più grande tempio sulla riva occidentale di Luxor.


[Modificato da Sound72 04/10/2010 15:02]
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04/10/2010 21:10
 
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Lo potevano chiamà Tutankhanonn
......
"In my 23 years working in England there is not a person I would put an inch above Bobby Robson."
Sir Alex Ferguson.
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30/05/2011 15:51
 
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India, la miniera che minaccia la montagna sacra


La tribù dei Dongria Kondh per ora ce l’ha fatta: è riuscita a proteggere la sua montagna sacra Niyamgiri dalla distruzione. Ma la minaccia è ancora lì incombente. Come Davide contro Golia, come il mitico popolo dei Na’vi nel film Avatar, gli indigeni negli anni scorsi hanno combattutto una battaglia epica contro una multinazionale mineraria, la compagnia inglese Vedanta Resources, che quella montagna voleva scoperchiarla per tirare fuori 70 milioni di tonnellate di bauxite. E per farlo hanno chiesto aiuto al mondo intero tramite le organizzazioni umanitarie, come Amnesty International, che si sono spese fino in fondo in questa battaglia.

Siamo in una delle zone più remote dell’India Orientale, nello Stato di Orissa, qui ottomila persone vivono ancora come secoli fa cibandosi dei frutti della terra, sfruttando l’acqua che scorre tra le foreste rigogliose della montagna.
La battaglia degli indigeni comincia nel 2003, quando Vedanta firma un accordo con il governo di Orissa per scavare le colline di Niyamgiri e costruire alle pendici una raffineria. «Arrivarono quelli della compagnia ­– racconta un indigeno – e ci dissero di lasciare la nostra terra e che in cambio avremmo avuto del denaro. Ci assicurarono: “Se sorgerà qui la raffineria diventerete ricchi”. Sono venuti con i bulldozer e hanno demolito le case». Per far spazio alla raffineria viene raso al suolo il villaggio di Lanjigarh della tribù dei Majhi Kondh e 103 famiglie sono sfrattate. Negli anni spariscono le sorgenti d’acqua e i rifiuti tossici della raffineria inquinano la terra.

«La situazione del suolo è molto grave, c’è stata una falla nel lago rosso di rifiuti tossici (qui a sinistra) – dice al Corriere Sreedhar Ramamurthi presidente a New Delhi della Mines Minerals & People, un’organizzazione che si occupa dei danni causati dalla miniere – e non si parla di effettuare una bonifica». «Lì ora tutti stanno morendo — spiega Lodu Sikaka il leader di un villaggio dei Dongria Kondh —. All’inizio hanno accolto la compagnia ma ora hanno capito il loro errore perché sono costretti a vivere come cani. Hanno perso la loro terra e le loro case. La Vedanta gli ha rubato tutto». L’esempio della raffineria è un monito per gli indigeni e quando parte il progetto per la costruzione della miniera la loro ribellione è totale:

«Se ci portano via le rocce — dicono i Dongria Kondh — come potremo vivere qui? Moriremo tutti. Perderemo la nostra anima. Niyamgiri è la nostra anima. Glielo impediremo, costi quel che costi. Anche se ci dovessero tagliare la gola e la testa».
Gli indigeni bloccano le strade. Fanno catene umane. Si appellano alle organizzazioni umanitarie. Amnesty International si unisce alla campagna a metà del 2008, invia i suoi attivisti, raccoglie migliaia di firme, manifesta davanti agli uffici londinesi della Vedanta e all’inizio del 2010 pubblica il rapporto “Non minate la nostra esistenza” in cui vengono documentate le violazioni dei diritti umani e delle leggi vigenti. Anil Agarwal, il miliardario indiano fondatore di Vedanta e proprietario di maggioranza, si è sempre difeso assicurando che l’estrazione di bauxite avrebbe avuto riflessi positivi su tutta l’area i termini di ricchezza e sviluppo e che una volta tirato via il minerale l’area sarebbe stata di nuovo ricoperta di alberi. Risultato: la compagnia ha «illegalmente occupato» 26 ettari di terra e fatto fuori 120.000 alberi in un’area abitata, oltre che dalle tribù, da antilopi, elefanti, cervi e dal rarissimo «geco d’oro».

Il 16 agosto del 2010 una commissione ministeriale riconosce i diritti della comunità tribale e denuncia Vedanta per violazione delle normative di tutela ambientale nel distretto di Kalahandi. Il rapporto riconosce che la miniera di bauxite danneggia le tribù del posto perché distruggerebbe una vasta porzione di foresta compromettendo le capacità di sopravvivenza degli abitanti. La commissione, inoltre, accusa Vedanta «di aver agito nel totale disprezzo della legge» e i funzionari locali di essere collusi con la società «contribuendo alle sue attività illegali e alla falsificazione di documenti». Il progetto della miniera scricchiola. Diversi investitori hanno già abbandonato la Vedanta. Nel 2007 il Norwegian Pension Fund aveva ritirato i 15,6 milioni di dollari investiti nella compagnia. Seguono, a febbraio del 2010, lo Joseph Rowntree Charitable Trust e la Chiesa d’Inghilterra che dice «Vedanta non ha mostrato il livello di rispetto per i diritti umani e le comunità locali che ci saremmo aspettati». Il 24 agosto i Dongria Kondh ottengono finalmente giustizia: il governo indiano ferma ufficialmente la miniera. E il ministro dell’Ambiente indiano, Jairam Ramesh, accusa le autorità locali di Orissa di collusione con il colosso minerario per aver dato, tra il 2008 e il 2009, la concessione per l’estrazione della bauxite al gruppo Vedanta senza un regolare appalto pubblico internazionale e ad un prezzo molto inferiore a quello di mercato.

E’ un cambiamento epocale in un Paese che ha vissuto l’orrore di Bhopal nel 1984 quando la fuoriscita di materiali tossici da una fabbrica di pesticidi causò la morte quasi 4mila persone. Il 20 ottobre del 2010 una seconda vittoria: il governo sospende i progetti di espansione della raffineria di alluminio a Lanjigarth.
Ma la partita non è finita. Lo scorso marzo il governo locale di Orissa, che ha sempre appoggiato il progetto della miniera, ha chiesto alla Corte Suprema di revocare il divieto attraverso la compagnia di Stato Orissa Mining Corporation (OMC). La OMC è la società che aveva in precedenza firmato un accordo con la Vedanta per costruire il controverso sito minerario. La sentenza della Corte Suprema è attesa per luglio. Per gli indigeni la lotta continua. «Noi non riteniamo ancora di aver vinto – ha dichiarato pochi giorni fa un uomo Dongria -. La miniera è stata fermata ma finché la fabbrica resterà qui, un giorno il nostro popolo e la nostra terra potrebbero essere spazzati via».

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14/06/2011 16:36
 
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India, spariti dal museo gli occhiali di Gandhi "La denuncia dopo mesi"

L’istituto Ashram di Sevagram aveva chiesto ai dipendenti di tacere sull'accaduto, nella speranza di risolvere il caso senza creare allarme nell’opinione pubblica


Nuova Delhi, 14 giugno 2011 - Un paio di occhiali appartenuti al Mahatma Ghandi è scomparso dal museo che espone gli oggetti personali del padre dell’India indipendente. I caratteristici occhiali dalla montatura tonda sono scomparsi in novembre, ma solo ora la direzione del museo dell’Ashram di Sevagram ha denunciato il fatto alla polizia, spiega oggi il quotidiano Times of India.

Il museo sorge nel luogo di meditazione presso Wharda, nello stato occidentale del Maharashtra, dove Gandhi amava ritirarsi. Fu qui che i leader del partito del Congresso si riunirono nel 1942 per lanciare la campagna di disobbedienza civile a sostegno dell’indipendenza dell’India dal regime coloniale britannico. Ogni anno pià di 300mila visitatori si recano nell’Ashram, dove sono esposti i pochi oggetti del Mahatma, fra cui l’arcolaio.

La direzione del museo aveva chiesto ai dipendenti di tacere sulla scomparsa degli occhiali, nella speranza di risolvere il caso senza creare allarme nell’opinione pubblica. Il primo ministro dello Stato del Maharashtra, Prithviraj Chavan, ha ordinato un’indagine “al massimo livello” per ritrovarli.


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già se li so' rivenduti...
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27/06/2011 13:41
 
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L'isola spaccata in due che vuole vincere il mare


Germania, a Helgoland un referendum per riunificare le metà separate nel 1721


BERLINO
Una croce su un pezzo di carta potrebbe rimettere insieme quello che la natura ha diviso quasi trecento anni fa. Gli abitanti di Helgoland, l’unica isola tedesca in alto mare, sono infatti chiamati oggi a un referendum che potrebbe segnare al tempo stesso un salto nel passato e un balzo nel futuro di un luogo che ha ispirato scrittori (è l’isola dove sorge l’oscura prigione di Azkaban dei libri di Harry Potter) e registi (Murnau vi ha girato Nosferatu).

«È favorevole al recupero di terre dal mare collegando le due parti dell’isola di Helgoland?», si legge sulla scheda che i poco più di mille aventi diritto al voto si ritroveranno tra le mani oggi.
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare osservando una cartina della Germania, che la disegna come un singolo puntino nel mezzo del Mare del Nord, un po’ più su e un po’ più a sinistra di Amburgo, Helgoland non è infatti un’unica isola, bensì sono due.

Di qui l’isola principale, un chilometro più in là l’isola secondaria, chiamata Düne. E, di mezzo, il mare. Fino alla notte di San Silvestro del 1721 Helgoland era un’unica striscia di terra. Poi una gigantesca mareggiata la spezzò in due. Ora l’imprenditore Arne Weber vorrebbe rimettere insieme le due parti, attraverso un braccio artificiale creato con milioni di metri cubi di sabbia. Suona avveniristico, ma potrebbe rappresentare l’ultima chance per fermare il lento declino di un luogo legato oltre che ai libri e al cinema anche agli alti e bassi della storia tedesca. Helgoland è l’isola su cui, nel 1841, August Heinrich Hoffmann von Fallersleben compose il testo dell’inno nazionale tedesco, ma è anche quella che Hitler tentò di trasformare in una fortezza inespugnabile e su cui i britannici provocarono, nel 1947, la più grande esplosione non nucleare di tutti i tempi: 6700 tonnellate di bombe per distruggere i bunker e le fortificazioni create dai nazisti.

Negli ultimi anni Helgoland ha conosciuto un destino beffardo. Da un lato rappresenta un piccolo paradiso naturale: sull’isola principale splendide pareti di roccia arenaria rossa si spingono sempre più su e culminano, all’estremità nord-occidentale, nella «Lange Anna», uno scoglio solitario alto 48 metri; sulle spiagge chiare di Düne, invece, riposano decine di foche, mentre sulle loro teste ruotano stormi di uccelli marini. A tutto ciò si aggiunge l’aria praticamente priva di pollini, ideale per gli allergici. Dall’altro, però, sempre meno turisti prendono il battello che porta all’isola principale o atterranno con un bimotore sul piccolo aeroporto di Düne: negli anni Settanta se ne contavano 800.000 l’anno, oggi sono appena 300.000. Alcuni hanno scoperto che il discount sotto casa vende ormai alcolici, sigarette e profumi a prezzi concorrenziali con quelli di Helgoland, che rappresenta da sempre una zona extradoganale.

Altri, invece, non si sentono più attirati dallo charme demodé dell’isola. A Helgoland il tempo sembra infatti essersi fermato agli anni Cinquanta. Sarà anche scomparsa dalle cartine geografiche, eppure la vecchia, ingiallita Repubblica federale tedesca è rimasta intatta nelle facciate delle case, nelle piccole vetrine dei negozi e persino tra le stradine di Helgoland, dove non girano né auto, né bici (sono entrambe vietate), ma carriole trascinate a mano. Ristoranti con piatti particolarmente ricercati? Neanche uno. Hotel di livello superiore? Nessuno, tranne quello di Arne Weber, l’imprenditore che ha ideato tre anni fa il piano di «riunificazione» dell’isola ed è riuscito a convincere anche il nuovo sindaco, Jörg Singer, che ha chiesto ora ai cittadini di esprimersi.

Gli abitanti sono divisi. Da un lato quelli che sperano in un rilancio economico. Se il progetto venisse realizzato Helgoland crescerebbe d’un tratto di 300.000 metri quadrati: potrebbe ospitare nuovi hotel e spiagge, la pista dell’aeroporto potrebbe essere allungata e anche le navi da crociera potrebbero finalmente attraccare. Costruire o restaurare oggi è quasi impossibile, visto che i vecchi edifici sono sotto tutela. Dall’altro lato ci sono quelli che temono la scomparsa di un patrimonio ambientale e faunistico unico. Comunque vada, Jörg Singer sa che non potrà stare con le mani in mano. Fino agli anni Ottanta gli abitanti erano oltre 2000, oggi sono meno di 1200. I giovani vanno via. E il declino prosegue.
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01/07/2011 10:10
 
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A Pievelago (Mo) scoperta una necropoli con centinaa di mummie del XVI secolo


Pievepelago (MO) - Eccezionale ritrovamento nella chiesa di Roccapelago La camera del tempo. Gli scavi nella cripta recuperano decine di corpi mummificati, ancora con i propri abiti e oggetti personali, sepolti tra il XVI e il XVIII secolo. Particolari condizioni ambientali hanno mummificato circa un terzo dei defunti, un caso unico nell’Italia settentrionale. Lo studio dei resti racconterà usi e costumi di questa antica comunità montana, attività, abitudini, religiosità, malattie e cause di morte Una piramide di corpi accatastati uno sull’altro, cadaveri di adulti, infanti e bambini in parte scheletrizzati, in parte mummificati, quasi tutti supini, qualcuno adagiato sul fianco, qualcuno prono, in un coacervo di pelle, tendini, capelli, abiti, calze, cuffie, sacchi e sudari.

Una scena a dir poco impressionante quella che si è presentata all’inizio dell’anno agli archeologi che collaboravano ai lavori di restauro della cinquecentesca Chiesa della Conversione di San Paolo Apostolo a Roccapelago, nell’Alto Frignano modenese, quando hanno aperto il soffitto della cripta. Una fossa comune con quasi 300 inumati, di cui circa un terzo perfettamente mummificati in virtù di un raro processo naturale che ha conservato non solo corpi e indumenti ma anche parte della fauna cadaverica, soprattutto larve e topi. Qui non c’entra l’intervento umano, nessuna mummificazione volontaria di precisi gruppi sociali come accaduto altrove per monaci, nobili o beati. A Roccapelago ha fatto tutto la natura, grazie a un fortunato mix di ventilazione e clima asciutto che ha essiccato i cadaveri di un’intera comunità per due secoli e mezzo, dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento. Aprire quella botola è stato come entrare in una strana wunderkammer. Un primo studio delle mummie ha già definito alcuni caratteri di quell’antica comunità, stile di vita, frequenza e distribuzione dei decessi di adulti e bambini, longevità maschile e femminile. La religiosità è attestata da evidenti forme di pietas, come la composizione dei cadaveri con le mani intrecciate in preghiera o sull’addome, la permanenza di anelli nuziali, collane, crocifissi, rosari e medaglie, o la fasciatura della mandibola per evitare lo spalancamento della bocca. Sorprendenti, per consistenza e buona conservazione, i tessuti recuperati. Vestivano alla montanara: niente seta, al massimo qualche bordo in merletto, solo abiti semplici in lino, cotone o lana grezza, lavorati in loco, ad attestare una vita povera ma sobria. Assolutamente singolare il ritrovamento di una rara lettera "componenda" o di "Rivelazione", una sorta di accordo con Dio che, portata sempre addosso, “garantiva” protezione e grazie in cambio di preghiere. Certamente l’ambiente montano rendeva dura la vita e tutti i resti adulti recano tracce delle pesanti attività all’aperto. Ulteriori studi potranno ricostruire la storia antropologica e culturale di questa piccola comunità, recuperando non solo l'aspetto fisico, il sesso e l'età dei defunti ma anche la loro dieta, le carenze alimentari e persino le malattie e gli eventi traumatici di cui hanno sofferto nel corso della vita, fino a capire quanto del loro patrimonio genetico si sia conservato fino a oggi. L'obiettivo comune di Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, Università di Bologna, Università di Modena, Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, Ufficio Diocesano Arte Sacra di Modena, Comune di Pievepelago, Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, Musei Civici di Modena e altri istituti di studio e ricerca è interpretare quanto è emerso dagli scavi e offrirlo al pubblico sotto forma di "narrazione storica". Per fare ciò si è messo a punto un approccio pluridisciplinare che incrocerà gli aspetti archeologici, antropologici e storici con un'attenta valutazione delle esigenze di esposizione e conservazione di reperti altamente deperibili quali i resti umani e i corredi tessili. La valorizzazione di questo straordinario rinvenimento si avvarrà anche delle più moderne tecnologie digitali a cominciare dalla ricostruzione 3D delle sepolture più significative e dalla creazione virtuale di interventi di restauro e modelli di mummie
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04/07/2011 14:01
 
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India, trovato un immenso tesoro sotto un tempio del maharaja



Sembra la trama di un film di avventura, una sorta di Indiana Jones che si ritrova nella grotta segreta dei Quaranta ladroni di Alì Babà, e vi scopre, sotto un cumulo di polvere, sacchi pieni di gioielli di ogni sorta, monete d'oro risalenti al periodo napoleonico e a quello della Compagnia delle Indie, monili con diamanti, smeraldi e rubini, collane d'oro lunghe metri, incastonate da pietre preziose.

E invece, la fiaba è realtà, perché il tesoro immenso, composto da gioielli, oro e pietre preziose, che vale oltre 500 miliardi di rupie, circa 11,2 miliardi dollari, è stato ritrovato sotto il tempio indù Sree Padmanabhaswamy, situato nel sud dell'India. La sensazionale e ricca scoperta è stata comunicata ieri sera dal ministro degli interni dello Stato del Kerala, K. Jayakumar.

Il tesoro apparteneva a un maharaja dello Stato del Kerala, dove secondo la leggenda, nel tempio, sarebbero seppellite le fortune dei regnanti precedenti all'Indipendenza indiana.


I lavori e gli scavi, iniziati giovedì scorso, non sono ancora ultimati. Ad oggi, sembrerebbe che solo parte dei sotterranei sia stata esplorata, a causa della “mancanza di ossigeno” che permea nei luoghi.
Un tribunale del Kerala aveva ordinato che il governo locale prendesse possesso del tempio che, in base a una vecchia legge, è ancora gestito dall'attuale ex maharaja, Uthradan Thirunaal Marthanda Varma. I sovrani locali indiani, circa 500, avevano perso i loro regni dopo la nascita dello Stato nel 1947, ma solo nel 1971 il governo di New Delhi ha abolito i titoli nobiliari e requisito beni e proprietà.

Quando l'India aveva ottenuto l'indipendenza, il tempio era stato controllato da una fondazione gestita dai discendenti della famiglia reale di Travancore, potente regno famoso per le sue piantagioni di spezie, in particolare di cardamomo. Adesso, un comitato di sette persone ha avuto l’incarico dall'Alta corte di fare l'inventario di quanto contenuto nelle sei cripte sotterranee. I due nascondigli aperti nei giorni scorsi erano chiusi da circa 130 anni.

La luccicante montagna di oro e preziosi era nascosta in una cella segreta di una delle sei grandi cripte sotterranee del tempio. Appena i sette giudici, accompagnati da una squadra di archeologi e di forze pubbliche, si sono ritrovati nel sotterraneo, l’emozione ha preso il sopravvento ed hanno faticato a credere ai loro occhi.

Gli oggetti si trovavano in almeno cinque nascondigli sotterranei del tempio famoso per le sue sculture. La costruzione dedicata al dio Vishnu, era stata edificata secoli fa dal re di Travancore e le offerte dei fedeli erano state conservate nei nascondigli sotterranei. Finora, si pensava che il più ricco tempio indiano fosse quello di Thirupathy, ad Andhra Pradesh, con offerte che ammontano a un valore di 320 miliardi di rupie.

net1news.org

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07/07/2011 18:24
 
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Perù: il Machu Picchu celebra i suoi primi 100 anni da meraviglia del mondo



È una delle 7 meraviglie del mondo e riceve ogni anno il 70% dei turisti che visitano il Perù. Si tratta del Machu Picchu, il celebre sito incaico incastonato tra le montagne, a circa mille chilometri a sud-est della capitale Lima. Un vero gioiello che festeggia i suoi primi cento anni domani, 7 luglio 2011. Attenzione però, il secolo non è di vita ma di scoperta.

Fu, infatti, il 7 luglio 1911 che l’esploratore statunitense Hiram Bingham per primo vi mise piede dopo secoli di abbandono. Cento anni dopo però molti veli sono caduti e il primato dell’americano è stato addirittura messo in dubbio. Pare infatti che la famosa “città perduta” fosse nota non solo ai locali ma anche ad un altro accademico, il compatriota Albert Giesecke, all’epoca in forza all’Universita di Cuzco.

Fu infatti proprio lui ad indirizzare Bingham a Melchor Arteaga, l’agricoltore locale che lo condusse alle rovine. E pare che anche un italiano, il famoso esploratore Antonio Raimondi, ci si fosse avvicinato senza però spingersi oltre.

Resta comunque il mistero di un sito così raffinato in un posto così sperduto. In occasione del centenario fioriscono perciò le ricerche. Come quella del noto semiologo peruviano Zadir Milla, certo che il luogo fosse una meta di pellegrinaggio. A seconda della stagione i pellegrini visitavano solo una parte dell’imponente cittadella.

E se i turisti da giorni hanno preso d’assedio la zona per non perdere l’evento non mancano le polemiche. Il comitato per la tutela del patrimonio mondiale dell’Unesco ha infatti minacciato di includere Machu Picchu nella lista nera dei siti in pericolo se il governo peruviano non si impegnerà ad attenuare lo sfruttamento turistico (al momento è visitato da 800 mila turisti l’anno) cui è sottoposto il complesso archeologico, per non parlare dei numerosi clip musicali e spot che lì vengono girati.


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01/08/2011 10:48
 
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Viaggio nella capitale dell’esoterismo
“Sono qui i tesori perduti: troveremo anche l’Arca”


A Rennes-le-Château sui Pirenei l'annuncio scatena gli esoteristi di tutto il mondo

Al bar-ristorante «Le jardin de Marie» la birretta ristoratrice viene interrotta da un’americana pazza che, ricoperta di collane e amuleti, chiede a tutti dov’è la tomba di Cristo e di Maria Maddalena. Cosa si può risponderle, di domandare a Giuseppe d’Arimatea?

Cose che capitano a Rennes-le-Château, dipartimento dell’Aude, guardando una carta della Francia, in basso a destra.
Rennes-le-Château: 23 abitanti nel villaggio, 65 nel comune, 120 mila turisti ogni anno, aumentati dopo il boom del Codice da Vinci e dei suoi derivati. Perché il piccolo paese è una delle grandi capitali dell’esoterismo. Al supermarket del mistero non manca nulla: Templari, Catari, priori di Sion, il Graal e naturalmente i tesori nascosti, non si sa se spirituali o più concreti. Per cercarli, arrivano qui gli svitati di tutto il mondo, ma anche pochi studiosi seri e molti curiosi. E sembra di vivere dentro un programma di Roberto Giacobbo.

L’ultima «scoperta», per la verità, è stata fatta nel vicino comune di Sougraigne. Sempre alla ricerca del famoso tesoro, tre ricercatori sostengono di averlo localizzato alla sommità del «pech» (l’uso dell’occitano fa più occulto) d’En-Couty, dove una cavità rocciosa nasconde il bottino del sacco di Roma di Alarico che i Visigoti seppellirono qui. Ci sarebbero, ovviamente, anche la menorah del Tempio e l’Arca dell’Alleanza, a loro volta razziate dai Romani a Gerusalemme. Però due degli Indiana Jones locali ci hanno scritto un libro escludendo il terzo, che si è vendicato spifferando tutto su Internet, mappa del tesoro compresa. Risultato: adesso la Gendarmeria deve presidiare la montagna.

A Rennes ci sono abituati. Dal ‘65, un’ordinanza comunale vieta qualsiasi scavo nel territorio comunale: «Sa, usavano la dinamite, poteva essere pericoloso», spiega nel suo curioso francese regionale (visigoto anche lui?) il sindaco, Alexandre Painco, che due anni fa ha dovuto chiudere il cimitero perché un tizio si era messo a picconare le tombe e i parenti dei «de cuius» non avevano gradito.

Tutto comincia nel 1885, quando arriva qui un nuovo parroco, l’abbé Bérenger Saunière. La chiesetta ha il tetto in rovina e il presbiterio è inabitabile. Eppure, in pochi anni Saunière rifà la chiesa, si costruisce villa, torre panoramica, serra, libreria e giardino, si fa dipingere la carta da parati da Mucha e dà feste. Insomma, spende e spande. E subito si sospetta che abbia trovato un tesoro. Quale? Le ipotesi divergono: dei Visigoti, dei Catari, della regina Bianca di Castiglia, dei Templari. A meno che non si tratti dei manoscritti di Maria Maddalena, con i quali l’intraprendente abbé ricatta il Vaticano... Comunque quando Saunière muore, nel 1917, è sospeso «a divinis» per certi traffici di messe vendute e per l’amore non proprio cristiano per la sua perpetua ed erede. Ma Rennes è già la capitale del mistero.

Nel dopoguerra, spettacolare rilancio. Nel ‘67, L’or de Rennes di Gérard de Sède diventa un bestseller. Da allora, sull’argomento di libri ne sono usciti circa 500. Alcuni li ha scritti Henry Lincoln, inglese, 81 anni, la metà dei quali passati qui. È suo anche The Holy Blood and The Holy Graal , pubblicato in Italia come Il Santo Graal , su cui si è basato Dan Brown. «I due colleghi che hanno scritto il libro con me - racconta dopo aver rifatto in mezz’ora la storia del Cristianesimo a uso del visitatore, un numero evidentemente collaudatissimo gli hanno anche fatto causa. Io no, perché penso che un conto sia la ricerca, un altro la fiction. Infatti l’hanno persa».

Ma, priorato di Sion a parte, cosa pensa di questa mania collettiva? «Che sono tutti pazzi. E che la gente crede perché vuole credere. Ieri due signore olandesi mi hanno chiesto dov’era la grotta di Maria Maddalena. Ho provato a spiegare che qui si è sempre chiamata “grotte du Fournet”, loro non ci credevano».

E dire che Rennes-le-Château, benché isolatissima (per arrivarci da Parigi ci vogliono un aereo, due treni, un taxi e molta pazienza), vale il viaggio. Il panorama spazia per chilometri sui primi contrafforti dei Pirenei, compreso il vicino «pech» di Bugarach che, come abbiamo già raccontato (una follia per volta), sarà l’unico posto a sopravvivere alla fine del mondo. Invece no: la gente vuole il mistero.

Gli indigeni si adeguano e ci marciano: il villaggio dispone di due librerie accomunate da un forte odore d’incenso e dalla scelta dei libri, anche in italiano, con titoli tipo La colonia perduta dei Templari. La missione segreta di Giovanni da Verrazzano in America oL’enigma di Rennes-le-Chateau. I Rosacroce e il tesoro perduto del Graal . Il ristorante propone «un plaeau Templiers» ed enigmatour.com delle visite a tema. Il sindaco è preoccupato: «Non voglio che Rennes perda la sua anima. E vedo anche il rovescio della medaglia. Chi pensa ai parcheggi, per esempio?». Ma ammette di non aver mai letto Il Codice Da Vinci e nemmeno di aver visto il film, dove pure è dedicata a Rennes una criptica citazione. A proposito: secondo Forbes , il suo illeggibile romanzo ha fruttato a Dan Brown 75 milioni di euro. Forse il tesoro di Rennes-leChâteau esiste davvero. Però è già stato trovato.

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“La curva sud ci ha dato una lezione, si può anche perdere, si possono anche subire amare sconfitte, ma con quegli striscioni che hanno esposto ci hanno fatto capire che nei momenti sfavorevoli bisogna aumentare le energie. Loro ci danno la fede noi gli dobbiamo dare il carattere”. Dino Viola
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