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L'ANIMA UMANA: COSA PUO DIRCI LA SCIENZA.

Ultimo Aggiornamento: 27/09/2018 14:10
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04/02/2013 13:32
 
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L'OSSESSIONE PER IL SESSO DIMOSTRA CHE L’ANIMA ESISTE

Dopo “Cinquanta sfumature di grigio”, l’industria editoriale sforna i prodotti letterari che sulle ali dell’eros ambiscono a volare fino alla vetta della classifica dei best-seller. Ultimo della serie “La sposa nuda” di Nikki Gemmell.

Il sesso parlato, immaginato, guardato, venduto, comprato, praticato, modulato in mille varianti – diventato ossessione di massa e, con la rete, prodotto di vasto consumo – sembra sia l’unica rivoluzione vera scaturita dal ’68 “desiderante”.

 

DEREGULATION

 

Antonio Scurati – in un recente articolo sulla “Stampa” – lo nega. A suo giudizio “l’unica vera rivoluzione” del dopoguerra “è stata quella liberista degli Anni 80”. Che definisce “una rivoluzione di destra”.

Ma in realtà tutte vanno sotto l’insegna della totale deregolamentazione: della finanza e della scienza, della vita e dei commerci, come dei rapporti sessuali, affettivi e addirittura delle identità sessuali.

Tale deregolamentazione si sottrae beffardamente alle categorie “destra” e “sinistra”, come la grande bolla finanziaria si sottrae ai confini degli stati, ai partiti, ai governi. E li domina.

Pertanto la marxistissima generazione del ’68 ha dato un decisivo contributo alla più capitalistica e borghese delle rivoluzioni, erigendo il desiderio a pretesa assoluta e così spianando la strada a un’industria della sessualità e del suo immaginario che rende merce i rapporti affettivi e pure i corpi.

E’ la felicità promessa? A leggere oggi i commenti (e già quelli di ieri, Pasolini, Foucault) pare semmai infelicità. La famosa e celebrata liberazione sessuale del Novecento si è risolta in realtà in una nuova alienazione, in una servitù volontaria di massa e in una pratica di controllo dei corpi e delle menti fra le più pervasive.

 

LA DISFATTA

 

Anche Scurati, a cui non manca l’acutezza dello sguardo, osserva: “di tutte le rivoluzioni mancate – o fallite – dalla sinistra sedicente rivoluzionaria, la rivoluzione sessuale è stata la più fallimentare. Sul terreno ha lasciato quasi solo rovine”, in particolare “la mastodontica mole sociale della frustrazione sessuale” che “è vasta come un’intera città ipogea…”.

Un nuovo saggio di Zygmunt Bauman, “Gli usi postmoderni del sesso” (Il Mulino) cerca di tirare le somme anche teoriche di un “discorso sul sesso” che ha accompagnato, giustificato e orientato questa rivoluzione postmoderna.

E le parole filosofiche di questa rivoluzione (un po’ come i prodotti derivati, nel mercato finanziario) sono innumerevoli, tanti i pensatori, da Lyotard a Sartre, a Bataille, dall’ “erotismo aristocratico e noiosissimo di Sade al Marcuse di ‘Eros e civiltà’ ”, che, secondo un pungente Maurizio Ferraris, avrebbe fornito la teorizzazione di ciò che un suo antico maestro “si era limitato a praticare con le studentesse”.

Così pure il discorso filosofico sul sesso rischia di finire nel salotto impertinente del pettegolezzo, dove già naviga la sua versione popolare.

Dunque tiriamo le somme di questa rivoluzione sessuale. Curiosamente la letteratura che riflette sul fenomeno, celebra la distruzione nell’ignominia della vecchia morale sessuale giudaico-cristiana, considerata repressiva, sessuofoba e arretrata.

Ma al tempo stesso lamenta che così si è prodotta una devastazione dell’umano, definitivamente mercificato fra i prodotti di rapido consumo.

Quasi coatto. Com’è peraltro il comandamento della “forma fisica”, requisito dovuto per “stare sul mercato” dei corpi. Culto estetico alla cui bisogna provvede un’ulteriore colossale industria.

Con intelligenza (e amarezza) Scurati scrive: “ci siamo spinti troppo oltre. Abbiamo eretto ovunque templi votivi alle divinità acefale del sesso… In società non si parla d’altro… L’aspettativa è enorme, il culto fervente, la pratica ovunque. Dalla copula tra i corpi degli amanti ci attendiamo rivelazioni sconvolgenti, dalla compenetrazione tra gli organi sessuali ci attendiamo l’illuminazione riguardo al senso delle nostre vite. C’è bisogno di aggiungere che rimarremo delusi?”.

 

RIVELAZIONI

 

Ma se invece questo groviglio di carni ci folgorasse proprio con una rivelazione su di noi?

Se addirittura, queste povere membra esauste di consumo reciproco, ci parlassero delle anime che dentro i corpi straripano alla ricerca di Dio, sbattendo in ogni modo le carni per il desiderio di qualcosa che esse non possono dare, cioè colui che Dante chiamava “il Sommo Piacere”?

C’è una “cultura del piagnisteo” che dopo aver giustificato la rivoluzione sessuale, ne lamenta gli esiti. E anche nei suoi rappresentanti più lucidi come Bauman sembra non vederne la teologia.

Io che professo tutti gli insegnamenti morali della Chiesa cattolica, che li ritengo anzi liberanti e pieni di sapienza, e che sento come una violenza psicologica e spirituale, soprattutto per i più giovani, questa sessuomania dilagante, questa aggressione pornografica onnipresente, voglio dire che anche la cosiddetta rivoluzione sessuale ci parla dell’inestirpabile desiderio di Dio. E della sua mancanza. Del doloroso vuoto di Lui che ci risucchia nel suo gorgo, anche attraverso la carne.

 

CARNE MISTICA

 

Lo mostra luminosamente Fabrice Hadjadj, un giovane filosofo francese, ebreo d’origine, un intellettuale che fu ateo anarchico e che ha abbracciato il cattolicesimo: ha scritto in proposito pagine rivelatrici, in “Mistica della carne. La profondità dei sessi” (Medusa).

E’ uno sguardo cattolico il solo capace di dare una lettura più profonda (e misericordiosa) del pover’uomo postmoderno “malato” di sesso.

Mi è capitato di scrivere, in un mio libro recente, che il moralista che c’è in tutti è portato a qualificare come “bestiali” le moderne ossessioni sessuali. Del resto nel linguaggio comune è alle metafore animali che si ricorre (il porco, il maiale…). Eppure è vero il contrario.

Solo gli esseri umani hanno l’ossessione del sesso. Gli animali no. Perché tale ossessione non viene dalla natura biologica, ma dalla mente. Non è un desiderio dei corpi, ma delle anime.

E’ l’anima che ha un desiderio infinito e straripa dentro un corpo limitatissimo e incapace di soddisfarla.

Questa pornomania di massa è la prova dell’esistenza dell’anima. Non sono i desideri della carne che esplodono nell’ossessione sessuale planetaria, ma il desiderio dell’anima a cui il corpo non riesce a star dietro, anche se l’immaginazione s’inventa mille varianti e mille avventure (che inevitabilmente risultano presto noiose e ripetitive).

I desideri dei corpi, per loro natura, sono sempre limitati ed effimeri, come insegna l’osservazione degli animali. Sono istinti che, appena soddisfatti, finiscono. Il sesso moderno invece è sempre inappagato.

Perché abbiamo dimenticato di essere fatti per l’estasi e non c’è cosa in terra che soddisfi questo desiderio. I padri della Chiesa la chiamano “divinizzazione”, Dante scrive che siamo nati “per indiarsi”.

Così mancando l’estasi ci ubriachiamo con il suo surrogato, l’ebbrezza. Della carne, ma anche di altro (potere, alcol o magari cocaina).

Tutte cose che creano dipendenza (e quindi possono produrre grandi affari). In fondo aveva già detto tutto Baudelaire. Il quale ebbe potente la nostalgia dell’estasi, della “visio Dei”. E non solo lui.

 Antonio Socci

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27/10/2013 18:32
 
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La coscienza non è il prodotto del cervello




I volti della coscienza  
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

Esce in questi giorni per Cantagalli, I Volti della coscienza di Massimo Gandolfini, primario neurochirurgo e vice presidente nazionale di Scienza e Vita. Un testo scientifico, e nello stesso tempo divulgativo, in cui il problema dei rapporti mente-cervello viene analizzato alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, tenendo presente un dibattito filosofico e teologico secolare.

La tesi del libro, veramente opportuno in tempi in cui sulle neuroscienze si scrive di tutto, è che“il cervello è organo necessario ma non sufficiente per spiegare la coscienza”. A questa conclusione, di buon senso, in perfetto accordo con secoli di pensiero filosofico sull’uomo e la sua natura anfibia, si perviene dopo vari capitoli “tecnici” dedicati allo “stato vegetativo”, allo “stato di minima coscienza”, a “neuroimaging e stato vegetativo”, a “neuroimaging e attività cerebrale”… Alla fine del percorso scientifico, in un capitolo intitolato “Coscienza e cervello”, Gandolfini conclude: “un rigido meccanicismo che sostenga apoditticamente che la coscienza è il ‘prodotto’ del cervello induce all’errore di confondere ‘causa strumentale’ (o ‘mezzo’) e ‘causa formale’ (o ‘causa vera’), secondo l’insegnamento classico di Socrate a Cebete…”.

Leggendo queste pagine viene alla mente la concezione di coscienza portata avanti da buona parte della cultura riduzionista contemporanea, e, a livello divulgativo, dal fondatore diRepubblicaEugenio Scalfari. Per Scalfari, molti lo ricorderanno, l’uomo non differisce, secondo una sua celebre affermazione, dalla mosca, in quanto come lei destinato solo alla morte e determinato nella sua esistenza da un rigido meccanicismo. Privo, in altre parole, di anima immortale. Nel suo “L’uomo che non credeva in Dio”, una sorta di testamento spirituale del 2008, il maestro del pensiero ateo contemporaneo, definiva gli uomini “universi di cellule, di flussi sanguigni, di inconsce passioni”, e di fronte alla grande domanda sul pensiero e la coscienza, in un paragrafo intitolato “La gabbia dell’io”, affermava: “Insomma, l’io non esiste. E’ una superstizione. Oppure una caricatura. Una maschera… Un computer depositario di una memoria. Una gabbia. Un capriccioso dittatore. Oppure un prigioniero?”.

Niente di nuovo, dunque, ma la riesposizione di dottrine orientali e gnostiche esistenti da secoli, che a Scalfari piace talora mescolare con riduzionismi materialisti di stampo pseudoscientifico. Di qui un articolo del luglio 2013, sull’Espresso, proprio sulla coscienza, nel quale viene presentata la tesi di un romanziere, Ian McEwan, secondo il quale il cervello altro non sarebbe che un pianoforte, cioè un insieme materiale di tasti, viti e martelletti, e la mente altro non sarebbe che la musica, impalpabile come il pensiero, prodotta, in toto, da questo pianoforte. Chiosa Scalfari: “La sorpresa sconvolgente di McEwan sull’origine materialistica della coscienza non è una novità: gli scienziati che studiano il cervello ci sono arrivati da tempo…”. Il lettore è avvertito: l’idea di coscienza di Scalfari e quella del romanziere sono la verità, nulla di meno. Peccato che le cose non stiano così, come dimostra il già citato studio di Gandolfini, che non è né un giornalista, né un romanziere, ma uno dei tanti neuroscienziati che hanno ben chiaro come sia impossibile ridurre il pensiero e la coscienza alla materia, la cattedrale ai sassi che la compongono, una musica ai martelletti di un pianoforte…

Proprio l’esempio scelto da Scalfari, infatti, dice dell’irrazionalità di simile posizione: un pianoforte, senza un’ intelligenza, senza una causa vera, il musicista, che se ne serva come di una causa seconda, come di un mezzo, non produce alcuna musica, alcuna armonia. Il pianoforte non è, di per sé, dunque, “origine” di nulla. Sostenere il contrario significa semplicemente fare un atto di fede, senza fondamenti né scientifici né logici, nella capacità della materia, in questo caso il pianoforte, di superare se stessa (nella possibilità della materia, per quanto riguarda l’uomo, di conoscere se stessa). Viene in mente, in proposito, quanto scrive un altro riduzionista come Edoardo Boncinelli, nel suo “Le forme della vita” (2006). Egli afferma che coscienza di sé e linguaggio umani sono “facoltà che ci appaiono quasi spuntate dal nulla”, sostanzialmente irriducibili al metodo scientifico, per poi catalogarle, con evidente illogicità e forzatura, tra gli “eventi accidentali”, gli “incidenti congelati” (espressioni senza significato alcuno).

E’ chiaro dunque quanto sia arduo intendersi tra riduzionisti atei ed eredi del pensiero greco-cristiano, sulla parola “coscienza”: per gli uni la coscienza è frutto del caso, “incidente congelato”, prigione, escrescenza della materia (dunque, come scriveva Benedetto XVI, essa diviene “l’istanza che ci dispensa dalla verità”, il “guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà”, la “giustificazione della soggettività, che non si lascia più mettere in questione”…); per gli altri, al contrario, la coscienza è, secondo il catechismo, “il nucleo più segreto ed il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio”, per fare i conti con la sua origine e il suo fine.

Presentando il suo libro il prof Gandolfini ha spiegato: “La coscienza va letta come un “pattern relazionale”, cioè come atto che scaturisce dalla relazione fra più componenti: geni e reti neurali, ma anche ambiente di vita, esperienze e “biografia” del soggetto. Dall’interazione di queste forze, attraverso meccanismi non rigidamente determinabili, scaturisce la “coscienza” , che è tutt’altro rispetto alle stesse forze che l’hanno determinata, non essendo riducibile a nessuna di esse. E tutto ciò non costituisce per nulla un atteggiamento fideistico-antiscientifico, se solo pensiamo che perfino la matematica (scienza esatta per eccellenza, costruita dalle nostre stesse mani) implica principi di “indeterminazione” (Heisenberg) e di “incompletezza dei sistemi” (teorema di Godel), per i quali esistono enunciati perfettamente compatibili con gli assiomi di partenza, ma assolutamente indimostrabili con gli stessi strumenti prescelti. Se così è di qualcosa di inerte, come non porsi almeno il dubbio che ancor di più vale per una materia vivente, continuamente rimodellabile e modificabile. In una battuta, va ribaltata la prospettiva: non è il cervello a dirci che cosa è la coscienza, ma è la coscienza a dirci che cosa è il cervello.

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15/11/2013 16:56
 
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Il neuropsicologo Shallice:
«la mente non è prodotto dei neuroni»

Se fino a ieri questo tentativo era portato avanti da darwinisti e neodarwinisti, pensiamo a Richard Dawkins, oggi il compito è stato affidato ai neuroscienziati.L’evoluzione e la teoria di Darwin, se non vengono strumentalizzate, non hanno alcun contrasto con i contenuti della fede cristiana ma semmai risultano incompatibili con il naturalismo. Per questo oggi gli anti-teisti puntano sui neuroscienziati: a loro il compito di dover dimostrare che il libero arbitrio è un’illusione, che la coscienza è un epifenomeno del cervello, che la mente è semplicemente (termine classico del riduzionismo) un “fascio di neuroni”, secondo le affermazioni di Francis Crick.

«Coloro che ritengono, in maniera riduzionistica, che il cervello produca solamente impulsi elettrochimici e questi automaticamente si traducano poi in decisioni operative, tendono a ritenere che la libertà non esiste, in quanto tutto dovrebbe essere predeterminato»ha spiegato Sergio Barbieri, neurologo e direttore di “U.O. Neurofisiopatologia” al Policlinico di Milano. «In realtà, ultimamente, anche questo tipo di approccio è stato abbastanza contestato, fortunatamente»Secondo Mauro Ceroni, docente e ricercatore universitario in Neurologia presso l’Università di Pavia, che l’uomo sia il suo cervello «non ha nulla di scientifico». E’ ovvio che «nulla può accadere in me che non abbia una base fisiologica, che non implichi un’attivazione dei circuiti nervosi, ma ciò non significa affatto che tutto sia riconducibile al mio cervello».

In questi giorni “La Stampa” ha intervistato Timothy Shallice, matematico e professore di neuropsicologia e coordinatore del settore di neuroscienze cognitive della Scuola internazionale superiore di studi Avanzati (Sissa) di Trieste, vincitore del «Premio Mente e Cervello 2013» assegnato dal rettore dell’Università di Torino. Ha spiegato: «Le neuroscienze cognitive permettono di indagare oltre la materia organica, là dove la mente, e quindi qualcosa di non afferrabile come il prodotto dei neuroni, agisce dal e sul corpo in un complesso gioco di circuiti e percorsi, spalancandosi sui “teatri” in cui si svolgono le trame delle malattie». Studiare le lesioni e trovarne i motivi non significa comprendere l’origine di tali “funzioni”, «abbiamo soltanto un disegno parziale della causa». E ancora: «Individuando la lesione che riteniamo potenzialmente responsabile di questi disturbi, ci siamo accorti che il problema non è sempre e semplicemente in cause meccaniche, ma è dovuto a sistemi molto più complessi e dinamici che gestiscono, nel caso specifico, la memoria, ma che non sono soltanto di tipo organico: abbiamo a che fare con funzionamenti mentali che le macchine ancora non tracciano». E oltretutto si scopre che «questa macchina computazionale che è il cervello è diversa da persona a persona».

Proprio il mese scorso Massimo Gandolfini, primario neurochirurgo, ha analizzato nel suo libro“I Volti della coscienza“ (Cantagalli 2013) i rapporti mente-cervello alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, tenendo presente un dibattito filosofico e teologico secolare. Sempre in questi giorni un neurologo e due neuroscienziati, Mauro CeroniFaustino Savoldi e Luca Vanzago, hanno pubblicato “La coscienza” (Edizioni Aras 2013), frutto della lettura della maggior parte delle pubblicazioni sul tema negli ultimi 30 anni e di una dimestichezza coi temi filosofici sull’argomento, un’opera che difende l’uomo da «ogni riduzione della propria persona».

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27/09/2018 14:10
 
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«Neuroscienze?
L’uomo e il suo mistero sono a loro inaccessibili».

Neuroscienze e determinismo. Il neuroscienziato italiano Vittorio Gallese, co-scopritore dei neuroni specchio, spiega perché la scienza ha bisogno delle scienze umane per poter parlare dell’essere umano.

 

«La scienza risponde a tutte le domande e dà risposte più attendibili della religione. Lo scopo del mondo è un problema inventato, è una domanda vuota». Così si esprimeva l’anziano zoologo Richard Dawkins nel suo libro più famoso, L’Illusione di Dio. E il predominio della scienza come unica fonte di verità è ancora oggi un dogma sostenuto da tanti, troppi.

Tra i più irriducibili scientisti, almeno per un periodo della sua vita, vi fu il matematico Bertrand Russell, per il quale «qualunque conoscenza sia conseguibile, deve essere conseguita con metodi scientifici; e ciò che la scienza non può scoprire, l’umanità non può conoscere». Una emerita sciocchezza poiché tutte le più alte conoscenze a cui gli esseri umani giungono nella loro vita avvengono al di fuori di un laboratorio ed in assenza di metodi scientifici. Che suo figlio gli voglia bene, che il marito/moglie provi reale affetto e non sia interessato/a all’eredità, che la madre non metta del veleno nella cena, che l’amore esista, che il bene sia desiderato da ognuno per sé ecc., sono tutte conoscenze a cui l’uomo giunge nel corso della sua vita e che si tramutano spesso in certezza morale, senza ovviamente necessità di una prova scientifica. Anzi, paradossalmente assumono un grado di certezza maggiore piuttosto che la composizione delle stelle.

«Se pure tutte le possibili domande della scienza ricevessero una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero nemmeno sfiorati», affermò acutmente Ludwig Wittgenstein (Tractatus logico-philosophicus, 6,52). «In ambito scientifico cresce l’insofferenza per la filosofia», scrisse il filosofo italiano Emanuele Severino, rispondendo ad un amico di Dawkins, il fisico ateista e scientista Lawrence Krauss, autore di Un universo dal nulla, in cui anch’egli considera spazzatura tutto ciò che non si piega alla dimostrazione scientifica. Severino è ironico: «Accade anche, però, che insieme all’insofferenza cresca anche, nella scienza, l’interesse per i problemi che sono sempre stati propri del pensiero filosofico. Relativamente ai quali essa crede di poter andare molto più a fondo».

Ma non può farlo. Non perché non ne è capace o perché è ancora troppo presto, piuttosto perché esulano dal suo campo d’azione. Molti aspetti chiave della vita (come l’etica: ciò che è bene e ciò che è male, e l’estetica: ciò che è bello e ciò che è brutto) si trovano infatti al di fuori del dominio della ricerca scientifica: la scienza può dire che tipo di circostanze porteranno all’estinzione degli orsi polari, o anzi, dell’umanità, ma non ha nulla da dire sul fatto se questo sia un fatto buono o cattivo. Sulla soluzione del tema immigratorio o del terrorismo internazionale il metodo scientifico ha meno risposte di un bambino. Ancora peggio quando gli scienziati provano a spiegare i valori e gli esseri umani, riducendoli in termini di neuroscienze.

Proprio in questi giorni il celebre neuroscienziato italiano, Vittorio Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio, ha affermato: «Il riduzionismo delle neuroscienze deve fare i conti con la realtà di ciò che significa essere umani. Occorre enfatizzare i temi della relazione e del ruolo costitutivo della socialità nel farci divenire chi siamo e mettere l’accento sulla centralità della nozione di esperienza. Le macchine eseguono computazioni, gli esseri viventi fanno costantemente esperienza del proprio incontro col mondo fisico e con il mondo degli altri. Lo studio della dimensione esperienziale della cognizione sta fortunatamente divenendo uno degli snodi centrali nello studio del cervello-corpo. Le neuroscienze non possono fare a meno di un costante dialogo con le scienze umane, se ambiscono a comprendere la nostra natura senza sacrificare nulla della sua meravigliosa ed enigmatica complessità»(da Il corpo e la mente non hanno confini, Il Corriere La Lettura, 23.9.18).

E, a proposito di neuroni specchio, anche l’altro co-scopritore, Giacomo Rizzolati, ha qualcosa da dire in merito: «Noi scienziati andiamo molto più per approssimazione. Il filosofo cerca di vedere le cose in modo raffinato, trova subito l’errore, dice che non è del tutto convincente, che gli manca questa prova». Così, la filosofia «è molto più precisa della scienza. E’ vero che i dati della scienza sono incontrovertibili, ma il filosofo è molto utile per trovare quali sono i punti deboli nella speculazione successiva ai dati. I dati sono dati, però poi si devono interpretare. Cosa significano? Cosa portano di nuovo come conoscenza? E’ su questo qualcosa di nuovo che il filosofo ti critica e ti mette in discussione, mette in dubbio certe cose, ed è molto utile».

Testimonianze di scienziati mentalmente aperti e realisti, che rispettano la metodologia propria ed importantissima delle scienze empiriche ma senza disprezzare, anzi valorizzando, quelle degli altri saperi, come filosofia e teologia. Ben sapendo che l’essere umano porta in sé una “meravigliosa ed enigmatica complessità”, che impedisce di essere ridotto ai suoi antecedenti biologici o chimici.


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