------------------ELIMINATO L'IMPOSSIBILE,CIO' CHE RESTA,PER IMPROBABILE CHE SIA,DEVE ESSERE LA VERITA'!
 
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Incontri Ravvicinati del IV Tipo ... -caso di A. Villas Boas -

Ultimo Aggiornamento: 20/03/2010 17:03
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20/03/2010 17:03

Incontri Ravvicinati del IV Tipo ...






Dato che il caso di A. Villas Boas è avvenuto in Brasile, dove Gordon Creighton fu per molti anni ambasciatore del Regno Unito, era abbastanza normale che noi ne avessimo conoscenza dalla F.S.R., che d’altra parte aveva nella persona del dottor Olavo Fontes uno dei più validi inquirenti dell’America del Sud.
Il racconto che segue dà l’essenziale di questa faccenda, e il bollettino del G.E.P.A. n° 10 del dicembre 1966 ha pubblicato una traduzione del rapporto medico che seguì.
Tale rapporto è molto lungo e mostra con quale minuzia i responsabili hanno seguito questo caso; così ne farò solo un riassunto,
preceduto dalla traduzione del racconto di Villas Boas che fu pubblicato dalla F.S.R. in parecchi numeri successivi.


La donna extraterrestre con la quale Antonio Villas Boas ebbe un rapporto sessuale aveva pelle bianca e occhi di tipo cinese o mongolo. Ora, parecchie razze asiatiche possiedono questa caratteristica degli occhi, ma la loro pelle è gialla o bruna, e del resto si trovano degli occhi di tipo mongolo tra le razze indiane d’America, la cui pelle però è rossa o bruna.

Villas Boas aveva 23 anni al momento della sua avventura. Il 5 ottobre 1957 era andato a letto verso le 23 e, per il caldo, aveva lasciato aperta la finestra della stanza. Notò allora, proprio al di sopra del terreno che fronteggiava la casa, una luce d’un bianco fluorescente, più luminosa di quella della luna, che rischiarava i dintorni. Era una luce bianchissima, e non riusciva a vederne la fonte. Era come se venisse dall’alto, simile al fascio d’un faro di automobile. Ma in cielo non v’era nulla da cui avrebbe potuto provenire quel chiarore.
Pensò di svegliare suo fratello che dormiva nella stessa stanza, ma essendo quest’ultimo scettico di natura, preferì non disturbarlo.
Chiuse allora la finestra e andò a letto. Ma poco più tardi, spinto dalla
curiosità e non potendo dormire, tornò ad aprire la finestra, e vide la luce, sempre allo stesso posto.
Tutt’a un tratto la luce sembrò avvicinarsi alla finestra che, a causa del brusco gesto compiuto da Antonio mentre cercava di richiuderla in fretta, fece un rumore sordo che risvegliò il fratello.
Tutt’e due osservarono ancora un momento la luce che filtrava dalle aperture e andava a posarsi al di sopra della casa, visibile attraverso gli interstizi del tetto tra le tegole. Finalmente se ne andò e non tornò.

Il secondo episodio avvenne la notte del 14 ottobre. Dovevano essere tra le 21.30 e le 22 e Antonio lavorava al suo trattore per arare un campo.

Lavorava spesso di notte per evitare l’intenso caldo diurno. Tutt’a un tratto vide di nuovo una luce violenta, stazionaria, a Nord del terreno. Sembrava essere circa 100 metri al di sopra del suolo, era rotonda e rischiarava una buona parte del terreno. Antonio chiamò il fratello, che non volle venire, così se ne andò da solo in direzione della “cosa”, desiderando mettersi il cuore in pace. Arrivato vicino, l’oggetto si spostò molto rapidamente verso il lato Sud del campo.
Questa manovra fu ripetuta parecchie volte.
Stanco, Antonio raggiunse il fratello, e i due poterono osservare ancora per un momento quella luce che finì per andarsene improvvisamente. Il giorno seguente, il 15, Antonio lavorava di nuovo sul suo trattore, ma questa volta da solo.
La notte era fresca, molto stellata. Esattamente all’una del mattino (del 16) vide una stella rossa nel cielo, che divenne più grossa e si avvicinò a lui a una velocità terrificante. Fu al di sopra del suo trattore prima ch’egli avesse avuto il tempo di riflettere su quello che doveva fare. Poi l’oggetto scese fino a circa 50 metri al di sopra del terreno, rischiarandolo come in pieno giorno.



Antonio era spaventatissimo, perché non aveva idea di cosa potesse
essere. Pensò di fuggire, ma la modesta velocità del trattore non lo permetteva. Pensò di scendere e di fuggire correndo, ma il campo arato, molle, non gli avrebbe permesso di andare lontano. Restò così due minuti senza muoversi, poi l’oggetto si avvicinò a lui, fino a 10 – 15 metri, e scese più vicino al suolo.
Antonio distinse allora la sua forma: una strana macchina, piuttosto arrotondata, sormontata da luci rosse e da un’enorme specie di proiettore, da dove proveniva la luce scorta prima, così forte che gli aveva impedito di vedere l’oggetto stesso.
“Potevo vedere chiaramente i dettagli dell’apparecchio, che era come un uovo allungato, con tre specie di braccia metalliche sul davanti, una al
centro, le altre su ogni lato. Non riuscivo a distinguerne il colore, perché erano avvolte in una fosforescenza rossastra (o fluorescente, come una
réclame al neon). Sulla parte superiore dell’oggetto c’era una specie di torretta a forma di cupola. Nel momento in cui la macchina ridusse la sua velocità per scendere, la luce rossa diventò verde, il che corrispondeva a mio parere a una diminuzione della velocità di rotazione della parte superiore dell’apparecchio.
Naturalmente, tutti questi dettagli mi ritornarono in mente più tardi, perché sul momento ero troppo spaventato e nervoso”.



“Quando vidi uscire tre piedi metallici, capii che questa macchina stava per posarsi e, dato che il motore del mio trattore andava ancora, tentai di aggirare l’apparecchio per fuggire. Ma avevo percorso soltanto qualche metro allorché il motore diminuì di giri e le luci dei fari si spensero, non so perché, dato che la chiavetta d’accensione era ancora inserita”.

“Tentai di rimettere in moto, ma senza successo. Allora aprii la portiera del trattore dal lato opposto all’apparecchio e saltai a terra. Ma avevo perduto del tempo prezioso nei miei tentativi di rimettere in moto il trattore, e non avevo fatto che qualche passo quando mi sentii afferrare”.
“Il mio aggressore era un individuo di piccola taglia (arrivava alla mia spalla) ed era vestito in un modo strano. Disperato, mi voltai bruscamente e riuscii a dargli un colpo che lo mandò per terra, a due metri di distanza. Ma fui allora attaccato simultaneamente da tre altri individui che mi afferrarono le braccia e le gambe e non mi lasciarono più. Mentre mi trascinavano verso il loro apparecchio, mi misi a urlare, il che parve stupirli, perché si fermarono e il loro sguardo rimaneva inchiodato al mio viso ogni volta che mi mettevo a gridare, senza peraltro allentare la loro stretta.
Questo mi rassicurò un poco riguardo le loro intenzioni, ma non smisi di dibattermi. In questo modo mi condussero al loro apparecchio, che si trovava sempre allo stesso posto, a circa 2 metri dal suolo, sui suoi tre piedi metallici.
Sotto il fondo si aprì un portello, che formava una specie di passerella alla cui estremità era fissata una scala, dello stesso metallo argentato della macchina. La scaletta fu srotolata e io fui issato, un lavoro per niente facile per loro.
La scala era stretta, appena appena larga abbastanza per due persone, una fianco dell’altra, e per di più era flessibile e dondolava da destra a
sinistra.
C’era una rampa metallica ad ogni lato, di grossezza e forma pressappoco simili al manico di una scopa. Questa rampa mi diede l’impressione di non essere rigida, e quando lasciai l’apparecchio ebbi l’impressione che fosse fatta di anelli di catena incastrati gli uni negli altri”.
“Una volta dentro, vidi che mi trovavo in una stanza quadrata. Le pareti di metallo lucido riflettevano una luce fluorescente, emanata da piccole lampade quadrate inserite nel soffitto e nella parte superiore delle pareti, tutt’intorno alla stanza. Non riuscii a contarle, perché subito gli esseri mi posarono a terra; la porta si richiuse non appena la scala fu riavvolta.
Era chiaro come in pieno giorno, ma nonostante ciò non riuscivo a distinguere i contorni del portello. Era come se non fosse esistito. Sapevo dov’era perché in quel punto era ancora fissata la scaletta.
Gli esseri, che erano cinque, mi fecero segno di andare verso un altro locale che potevo scorgere attraverso una porta aperta su un lato della stanza. Non so se questa porta fosse già aperta quando fui condotto nell’apparecchio, perché non avevo guardato in quella direzione. Decisi di obbedire perché mi tenevano ancora saldamente e non potevo fare altrimenti.
Lasciammo la piccola stanza, dove non avevo notato alcun mobile o strumento, ed entrammo in un locale molto più grande, di forma semiovale, con le stesse pareti lucide”.
“Credo che fossimo al centro dell’apparecchio. In mezzo c’era una colonna metallica, che andava dal pavimento al soffitto, rotonda e apparentemente solida.
Il solo pezzo d’arredamento era una specie di tavolo di forma strana, circondato da sgabelli girevoli senza schienale, come quelli che si trovano nei bar.
La tavola e le sedie erano coniche, più strette verso il basso, dello stesso metallo brillante delle pareti della stanza, e sembravano fissate al pavimento”.
“Durante quello che mi sembrò un periodo interminabile restai lì in piedi, sempre tenuto da due degli esseri, mentre gli altri strani personaggi mi
guardavano e parlavano tra loro. Ho detto che parlavano, ma in realtà quello che sentivo non somigliava a nessun linguaggio umano. Era una serie di versi che somigliavano un po’ all’abbaiare dei cani.
Questo paragone non è molto calzante, ma non vedo altro modo per spiegarlo.

Erano degli abbaiamenti o guaiti lenti, alcuni brevi, altri lunghi, a volte contenenti diversi suoni, parecchi alla volta, qualche volta terminanti in tremolii.
Ma non erano che dei suoni, dei gridi animaleschi, niente che somigliasse a un linguaggio o che potesse essere preso per una sillaba, o per una parola di una lingua straniera! Non riuscii a capire come facessero quei tipi a comunicare in quel modo. E non potrei neppure imitare quei suoni: la mia voce non è adatta”.
“Quando cessarono gli abbaiamenti, mi sembrò che avessero deciso tutto, perché mi presero tutti e cinque e mi svestirono a forza.
Mi dibattei ancora e tentai di rendere difficile il loro compito. Protestai e gridai.
Apparentemente non riuscivano a capirmi, ma si fermavano e mi guardavano come per farmi comprendere che non erano animati da cattive intenzioni. Del resto, non mi hanno mai percosso o fatto del male. E non mi rovinarono neppure i vestiti, a parte forse la camicia, che davanti era già strappata, quindi non ne sono neanche sicuro”.

“Alla fine ero nudo come un verme e spaventato a morte, non sapendo che cosa sarebbe successo.
Poi uno dei due si avvicinò con qualcosa in mano
che mi sembrò essere una specie di spugna, e che utilizzò per spargermi su tutto il corpo un liquido chiaro come l’acqua, ma denso, inodore.
Era come un olio, ma non grasso, perché la mia pelle non era unta. Avevo freddo, dato che la temperatura era piuttosto bassa, soprattutto in quell’apparecchio.
Tremavo già prima che mi lavassero in quel modo, ed ora era peggio. Ma il liquido asciugò presto e io mi sentii come prima”.
“Fui condotto da tre degli esseri a una porta al lato opposto rispetto a dove eravamo entrati. Facendomi segno di accompagnarli, e continuando ogni tanto ad abbaiare, mi spinsero in una stanza, la cui porta avevano aperta premendo qualcosa, probabilmente un pulsante o una maniglia, e una volta chiusa quella porta andava dal soffitto al pavimento”.
“La porta si era aperta in due parti, verso l’interno della stanza, e sulla parte superiore c’era una specie di iscrizione luminosa, in rosso, che, forse a
causa dell’illuminazione, sembrava sporgere di 5 centimetri dal metallo. Questa fu la sola iscrizione che vidi all’interno dell’apparecchio.
Quelle lettere erano completamente diverse da quelle che conoscevo”.



“Ma ritornando agli avvenimenti, la stanza in cui mi trovavo ora era identica alle precedenti e illuminata nello stesso modo. Dopo essere entrato con due degli uomini, la porta si richiuse dietro di noi. Mi voltai a guardare e non riuscivo a capire, perché sembrava che lì non ci fosse mai stata una porta.
Non so come fosse possibile, perché era una parete come le altre, ora. Successivamente la porta si aprì di nuovo ed entrarono due altri
personaggi che tenevano in mano due tubi rossi di gomma, piuttosto grossi, lunghi un metro. Non so se contenessero qualcosa, ma so che erano cavi.
Uno di questi tubi venne fissato a un’ampolla di vetro simile a un calice. L’altra estremità portava una specie di imbuto a forma di coppa, che fu
applicato sul mio mento, là dove potete vedere ancora il segno. Tuttavia, prima di ciò, l’uomo che faceva questo lavoro strinse il tubo tra le mani come per estrarne l’aria.
Sul momento non provai alcun dolore o sensazione, soltanto una specie di suzione. Più tardi la zona si irritò e prese a prudermi (e
scoprii che la pelle era stata scorticata e pizzicata). Applicando il tuo, vidi il sangue entrare lentamente nel calice, fino a riempirlo per metà. Poi l’operazione terminò, il tubo fu tolto, fu sostituito dall’altro e ricominciò lo stesso procedimento, questa volta su un’altra parte del mento.
La pelle rimase
ferita anche in quel punto e più tardi prese a pizzicarmi. Poi tutti uscirono e io rimasi solo”.
“Fui lasciato lì per lungo tempo, forse una mezz’ora.
La stanza era vuota, fatta eccezione per un’ampia cuccetta nel mezzo, una specie di letto ma senza bordi e un po’ scomoda per coricarsi, perché nel mezzo era piuttosto alta, con una gobba. Ma era morbida come una spugna e coperta di un materiale grigio, anch’esso morbido”.
“Mi sedetti, stanco dopo quegli sforzi per difendermi e le emozioni. Fu allora che percepii uno strano odore, e cominciai a sentirmi male. Dapprima era come se respirassi un fumo denso, che mi soffocava e sapeva di stoffa bruciata. E forse era proprio quello, perché guardando i muri, vidi per la prima volta delle file di tubicini che uscivano al livello della mia testa, le cui estremità erano chiuse, ma dotate di una quantità di forellini come quelli della doccia, dai quali usciva un fumo che si dissolveva nell’aria.
Questo fumo era la fonte dell’odore. Non so se il gas uscisse già quando ero stato condotto lì.
Provai nausea e finii per vomitare. Quando sentii che stavo per farlo, mi diressi verso un angolo della stanza e stetti male come un cane”.
“In seguito, la difficoltà di respirare passò, ma soffrivo ancora di nausea dovuta a quell’odore. Poi caddi in preda alla disperazione, domandandomi che cosa sarebbe ancora successo”.

“Devo ancora spiegare che fino a quel momento non avevo alcuna idea dell’aspetto di quegli esseri. Tutti e cinque erano vestiti in modo identico, con tute aderenti, fatte con un tessuto spesso ma morbido, di colore grigio, con fasce nere qua e là.
L’abito giungeva fino al collo, dove si univa a una specie di maschera o casco, di un materiale dello stesso colore, apparentemente più rigido e rinforzato in basso e sul davanti da fasce di metallo, una delle quali triangolare a livello del naso.
Questi caschi nascondevano tutto, lasciando vedere solo gli occhi attraverso due specie di lenti come quelle degli occhiali. Attraverso queste lenti gli uomini mi guardavano con occhi che mi sembravano più piccoli dei nostri, ma quello poteva essere un effetto delle lenti.
Tutti avevano occhi chiari, mi sembra che fossero azzurri, ma non ne sono sicuro. Al di sopra degli occhi, l’altezza del loro casco doveva
corrispondere a due volte il formato di una testa normale.
E’ probabile che ci fosse qualcos’altro in quei caschi, al di sopra della testa, ma dal di fori non si poteva vedere niente.
Tuttavia, dal centro di quei caschi, superiormente, uscivano tre tubi rotondi argentati (non posso dire se fossero di metallo o di gomma) di diametro un poco inferiore a quello di un idrante.
Questi tubi, uno al centro, gli altri a ciascun lato, erano flessibili e scendevano sul dorso, formando una curva. Entravano nella tuta alla quale erano attaccati in un modo che non posso descrivere.
Quello di mezzo arrivava sulla colonna vertebrale, mentre gli altri due terminavano sotto le spalle, in un punto circa 10 centimetri sotto le ascelle, quasi sul fianco o dove cominciano i fianchi.
Non vedevo nessuna protuberanza o bozza indicante che quei tubi si unissero a una scatola o quel che fosse, sotto il tessuto della tuta”.

(Questa precisazione seguì la mia domanda a Villas Bòas, perché non capivo come potessero respirare per tutto quel tempo sotto il casco, dato che non sembrava avessero riserve o bombole d’ossigeno come hanno i palombari).

“Le maniche della tuta erano lunghe e aderenti ai polsi, dove continuavano sotto forma di guanti spessi, dello stesso colore, a cinque dita, che non impedivano loro di tenermi saldamente o di maneggiare con destrezza i tubi di gomma quando mi prelevarono il sangue. Tuttavia avevo notato che non riuscivano a piegare le dita fino a toccare il palmo della mano. Il loro abbigliamento doveva essere una specie di uniforme, perché tutti i membri dell’equipaggio portavano, a livello del petto, uno scudo rotondo e rosso del formato di un ananas, che emanava ogni tanto dei riflessi luminosi.
Non si trattava di luci prodotte direttamente da questi scudi, ma piuttosto di riflessi, come dei catarifrangenti di automobili rischiarati dai fari di un altro veicolo.
Da questa decorazione centrale partiva una fascia di tessuto argentato o di metallo laminato che si univa a una cintura larga e senza allacciatura visibile. Non si vedevano tasche o bottoni sulla tuta”.
“Anche i pantaloni erano aderenti alla vita e alle caviglie, senza pieghe o spiegazza menti da nessuna parte, e non c’era nessuna separazione là dove cominciavano le scarpe, che avevano suole spesse da 5 a 7 centimetri. La punta delle scarpe era molto incurvata sul davanti, ma senza terminare del tutto a punta come quelle che si possono vedere sui libri di storia del passato.
Ebbi l’impressione che le scarpe fossero troppo grandi per i piedi degli
individui, che, tuttavia, sembravano molto a loro agio.
Questo abbigliamento doveva comunque impacciarli un po’, perché i loro movimenti erano piuttosto rigidi quando si spostavano”.

“Erano della mia stessa corporatura, forse un po’ più piccoli, tenendo conto del casco, tranne uno, quello che per primo mi aveva afferrato vicino al trattore, che non mi arrivava neanche al mento.
Sembravano tutti robusti, anche se penso che avrei dovuto avere facilmente la meglio se avessi dovuto battermi contro uno alla volta. Ma tutto questo non ha niente a che vedere con la situazione in cui mi trovavo”.
“Dopo un certo periodo, un rumore alla porta mi fece sussultare. Mi voltai in quella direzione ed ebbi una grande sorpresa. La porta era aperta e una donna stava entrando, dirigendosi verso di me. Camminava lentamente, forse divertita dalla sorpresa che doveva esser dipinta sul mio volto.



Ero stupefatto, non senza ragione, perché era completamente nuda come me, e a piedi nudi”.
“In più, era molto bella, anche se di un tipo diverso dalle donne che conoscevo. Aveva bei capelli, quasi bianchi (come i capelli ossigenati), morbidi, non molto abbondanti, che le arrivavano quasi al collo, le punte rivolte in fuori, la riga in mezzo.
Gli occhi erano grandi e azzurri, più allungati che rotondi, un po’ alla cinese (come gli occhi delle ragazze che si truccano per somigliare a principesse arabe); erano così, ma con la differenza che erano naturali, senza alcun trucco. Il naso era dritto, senza essere appuntito, né all’insù, né troppo grande.
Quello che sorprendeva era il contorno del
viso.
Gli zigomi molto alti facevano sembrare il volto più largo (molto più largo di quello delle donne dell’America del Sud). Ma immediatamente, al di sotto, il viso si restringeva bruscamente, terminando con un mento appuntito.
Questo dettaglio dava alla base del viso una forma nettamente
triangolare. Le labbra erano molto strette, quasi invisibili. Le orecchie, che vidi più tardi, erano piccole ma non diverse dalle nostre.
Le guance alte davano l’impressione che avesse un osso pronunciato al di sotto, ma sentii più tardi che erano morbide al tatto e fatte di carne, senza alcuna sensazione d’osso”.
“Il suo corpo era molto più bello di quello delle donne che avevo conosciuto fino a quel momento. Era snello, con seni alti, ben separati, la vita sottile, niente pancia, fianchi larghi.
I piedi erano piccoli, le mani lunghe e strette, le dita e le unghie normali. Era molto più piccola di me, la sua testa
raggiungeva appena le mie spalle”. (Questo lascia pensare che con un’uniforme, scarpe e casco gli dovesse arrivare al mento, ed esser quindi la persona che lo aveva afferrato all’inizio della sua avventura).



“La donna mi si avvicinò silenziosamente, mi guardò con l’espressione di uno che desidera qualcosa, e cominciò a muovere la testa da una parte all’altra del mio viso. Nello stesso tempo, sentivo il suo corpo incollato al mio che faceva dei movimenti. La sua pelle era bianca (come quella delle bionde), e sulle braccia aveva delle lentiggini. Non sentivo alcun profumo sulla sua pelle o sui capelli, a parte il normale odore del corpo femminile”.
“La porta fu di nuovo chiusa. Solo lì, con quella donna che mi abbracciava e mi faceva capire chiaramente quello che voleva, cominciai a sentirmi eccitato…
Sembra incredibile nella situazione in cui mi trovavo. Penso che la causa fosse il liquido che mi avevano passato su tutto il corpo.

Dovevano averlo fatto apposta. Tutto quello che so, è che mi eccitai in modo incontrollabile, sessualmente, cosa che non mi era mai capitata prima.

Finii per dimenticare tutto e risposi alle carezze di quella donna. Fu un atto normale e lei si comportò come avrebbe fatto qualsiasi altra donna. Alla fine sembrò stanca, respirava rapidamente. Io ero ancora ardente, ma lei ora si rifiutava, tentando di sfuggirmi, di evitarmi, per smettere. Quando lo capii, mi raffreddai di colpo.
Era quello che avevano voluto: un buon stallone per perfezionare la loro razza! Alla fine dei conti, era quello.
Ero in collera, ma decisi di non darvi importanza.
Dopo tutto, avevo passato dei bei momenti. Naturalmente non cambierei mai le nostre donne per lei.
Mi piace una donna con la quale si possa parlare, farsi capire e questo non fu proprio il caso. Inoltre, i grugniti che avevo sentito uscire dalla sua bocca di tanto in tanto guastavano tutto, dandomi la spiacevole sensazione di fare l’amore con un animale”.
“Un’altra cosa che avevo notato era che non mi aveva mai baciato. A volte, in certi momenti, aveva aperto la bocca come per farlo, ma questo si era trasformato in un lieve morso al mio mento”. “Un’altra cosa che ho notato è che i suoi peli, alle ascelle e altrove, erano rossi, come il colore del sangue o quasi.
Poco dopo esserci separati, si aprì la porta e apparve uno degli uomini, che sembrò chiamare la donna, la quale uscì, non senza essere prima
ritornata verso di me, indicando con un dito il suo ventre, poi me e infine puntandolo al cielo con un sorriso, o quello che sembrava esserlo.
Interpretai il suo gesto come un avvertimento che sarebbe ritornata per condurmi a vivere con lei dove che fosse. A causa di ciò, ancor oggi tremo dalla paura.



Se ritornano a prendermi, sono perduto. Io non voglio essere separato dai miei simili e dal mio paese, a nessun prezzo”.
(Quel gesto che Villas Boas descrisse fu probabilmente la causa principale delle sue paure dal mese di ottobre 1957, paura di essere rapito da una razza extraterrestre sconosciuta.
Tuttavia questa spiegazione non è chiaramente la più logica, glielo facemmo capire: “Avrò il bambino, tuo e mio, lassù sul mio pianeta”.

Antonio riconobbe che questa spiegazione era davvero migliore della sua).
“Poi entrò l’uomo con i miei vestiti sul braccio. Mi fece segno di vestirmi, e io obbedii in silenzio. Tutte le mie cose erano nelle tasche, a eccezione di un oggetto, il mio accendino “Homero”. Non so se l’avessero preso o se fosse caduto dalla tasca durante la lotta.
Per questa ragione non protestai.

Quando fummo usciti dalla stanza e ritornati in quella più grande, tre uomini dell’equipaggio erano seduti sulle sedie girevoli, conversando, o piuttosto abbaiando, tra loro.
Quello che mi accompagnava li raggiunse, lasciandomi accanto al tavolo di cui ho parlato prima”.
“Ora ero calmo, sapendo che non mi avrebbero fatto del male. Mentre regolavano i loro affari, tentai di osservare tutto, per fissare nella memoria i dettagli, mobili, pareti, uniformi, ecc.
A un certo punto notai sulla tavola, accanto agli uomini, una specie di scatola quadrata con un coperchio di vetro che riparava un quadrante simile a quello di una sveglia ma con un ago e con un segno nero al posto del 6. C’erano dei punti simili nei posti corrispondenti al 3 e al 9. Invece, al posto del mezzodì, c’erano quattro piccoli segni in fila, fianco a fianco”.
“Dapprima pensai che quello strumento fosse una specie di orologio, perché uno degli uomini di tanto in tanto gli dava un’occhiata.
Ma non credo che si trattasse di quello, perché vi tenni fisso lo sguardo per molto tempo e non vidi mai l’ago muoversi”.
“Poi ebbi l’idea di prendere quell’oggetto, perché avevo bisogno di una prova della mia avventura. Se avessi potuto prendere quella scatola il mio problema sarebbe stato risolto. Inoltre poteva anche darsi che, vedendo ciò, gli uomini me lo regalassero”.

“Mi avvicinai lentamente, sempre più vicino; gli uomini non mi vedevano.
Di colpo presi l’oggetto a due mani e lo sollevai. Era pesante, forse più di 2 chili. Ma non ebbi il tempo di esaminarlo.
Come un lampo uno degli uomini balzo su spingendomi di lato; incollerito me lo strappò e lo rimise a posto.

Indietreggiai finché toccai la parete con le spalle. Me ne restai lì tranquillamente, non perché fossi spaventato; preferivo starmene tranquillo, perché avevo avuto la prova che essi mi dimostravano una certa considerazione solo quando mi comportavo correttamente. La sola cosa che feci fu di tentare di grattare la parete con le unghie, per vedere se potevo staccare un po’ di quel metallo argentato. Ma le mie unghie scivolavano senza scalfire il materiale.
Il metallo era molto duro e non potei prenderne un campione”.
“Non rividi più la donna, vestita o no, dopo che lei ebbe lasciato la stanza. Ma scoprii dove stava. Nella parete di fronte al nostro compartimento c’era un’altra porta, che io non avevo oltrepassato. Questa era un poco socchiusa e ogni tanto sentivo dei rumori, come di qualcuno che andava e veniva.

Non poteva trattarsi che di lei, dato che tutti gli altri uomini erano con me, nel loro strano equipaggiamento. Immagino che quell’altra stanza dovesse corrispondere con la stanza di comando dove doveva stare il pilota, ma non potei verificarlo”.
“Infine uno degli uomini si alzò e mi fece segno di accompagnarlo. Gli altri restarono seduti, senza guardarmi.
Attraversammo la stanza e l’anticamera fino all’entrata della nave spaziale, la cui porta era aperta, e la scala srotolata. Tuttavia non scendemmo; il mio compagno mi fece segno di accompagnarlo su una piattaforma che si stendeva a ciascun lato della porta.
Questa piattaforma, stretta, faceva il giro dell’apparecchio, permettendo
a una sola persona di andare in una qualsiasi delle due direzioni”.

“Per cominciare, procedemmo in avanti. La prima cosa che vidi fu una specie di proiezione di metallo, di forma quadrata, saldamente fissata all’
apparecchio e che si stendeva verso l’esterno. Ce n’era una simile dall’altra parte.
Se queste protuberanze non fossero state così piccole, avrei
pensato che si trattasse di ali. Dal loro aspetto deduco che potessero servire a far scendere o decollare l’apparecchio.
Devo ammettere tuttavia che in nessun momento, quando più tardi l’apparecchio decollò, vidi quelle proiezioni fare un qualsiasi movimento”.

“In seguito l’uomo mi mostrò i tre bracci metallici che avevo già visto, saldamente fissati, due sterni sui lati della macchina, quello del centro diritto in mezzo alla parte anteriore, come delle spade. Erano tutti della stessa lunghezza e dimensione, molto spessi alla base, si assottigliavano all’estremità in punta.
La posizione dei tre bracci era orizzontale. Non so se fossero fatti dello stesso metallo della nave spaziale, perché emettevano una leggera
fosforescenza rossastra, come il ferro incandescente.
Tuttavia non sentivo calore”.
“Un poco al di sopra della loro base, nel punto in cui erano fissati all’apparecchio, c’erano delle luci rosse allineate. Le due luci laterali erano rotonde e più piccole. Quella davanti era enorme, anch’essa rotonda, ed era il proiettore frontale dell’apparecchio, che ho già descritto.
Tutt’intorno alla cupola, e un po’ al di sopra della piattaforma, sulla quale proiettavano un chiarore rosso, c’erano molte piccole lampade quadrate, apparentemente simili a quelle che si trovavano all’interno dell’apparecchio”.
“Davanti, la piattaforma non completava il giro, ma terminava accanto a una placca di vetro allungata ai lati, e che sembrava saldamente fissata alla parete dell’apparecchio. Forse serviva da oblò, perché non c’erano finestre. Ma questo mi sembrava difficile da capire, perché questo vetro pareva essere molto sfocato”.

“Credo che i bracci della parte anteriore dovessero emettere l’energia necessaria a muovere la nave, perché, quando questa decollò, la loro
luminosità aumentò straordinariamente, coprendo completamente la luce dei proiettori”.
“Dopo aver visto la parte anteriore della macchina, tornammo verso quella posteriore (che era più voluminosa). Ma prima ci fermammo un momento, e l’uomo puntò col dito verso l’alto, dove l’enorme cupola discoidale girava lentamente.
Era rischiarata da un chiarore verdastro, proveniente da non so
dove.
Potevo sentire, ad accompagnare la sua rotazione, un rumore sordo come quello dell’aria spirata da una quantità di piccoli fori. Tuttavia non
vedevo buchi da nessuna parte. E’ solo un paragone”.

“Più tardi, quando l’apparecchio si staccò dal suolo, la cupola rotante aumentò la sua velocità a un punto tale che divenne invisibile e si vedevano soltanto le sue luci, che del resto aumentavano molto d’intensità e diventavano di un rosso vivo. In quel momento aumentò anche il rumore (nello stesso tempo in cui la cupola accelerava la sua rotazione, mostrando così una relazione fra i due fenomeni) e divenne un vero rombo.
Io non ho compreso la ragione di questi cambiamenti e non capisco quale fosse lo scopo di quel disco rotante luminoso, che non si fermò mai.
Ma doveva pur esserci una ragione per il fatto che fosse lì”.
“Mi sembra che ci fosse una piccola luce rossa nel centro di quella cupola, ma non ne sono sicuro”.
“Tornando ora verso la parte posteriore dell’apparecchio, passammo di nuovo davanti alla porta d’ingresso e camminammo lungo la passerella che s’incurvava all’indietro.
Proprio sul dietro, nel posto dove ci sarebbe l’impennaggio di un aereo, c’era una struttura metallica rettangolare, fissata in posizione verticale, e che andava da una parte all’altra della piattaforma.
Ma era molto bassa, non più alta del mio ginocchio, e potei facilmente scavalcarla per passare dall’altro lato, poi ritornai”.

“Mentre facevo questo notai, inserite nella piattaforma, una a ciascun lato della placca, due luci rossastre, bombate e spesse. Assomigliavano a delle luci d’aereo, ma non lampeggiavano”.
“Tuttavia penso che la placca di metallo in questione fosse una specie di timone per cambiare la direzione dell’apparecchio. In ogni modo, io vidi quel pezzo spostarsi di lato nel momento in cui la macchina, che era ferma nell’aria dopo il decollo, cambiò bruscamente direzione prima di partire a velocità spaventosa”.

“Dopo aver visto la parte posteriore della nave, tornammo verso la porta. La mia guida indicò la scaletta metallica e mi fece segno di scendere.

Obbedii, e una volta a terra guardai in alto. Lui era ancora là. Poi si indicò, indicò il suolo e infine il cielo a Sud. Mi fece segno di indietreggiare e disparve all’interno”.
“La scaletta cominciò a diminuire di lunghezza, i pioli si allineavano l’uno sull’altro, come una pila di assicelle.
Quando giunse in alto, il portello (che, aperto, era la passerella) cominciò a sua volta a sollevarsi, fino a inserirsi nella parete, e divenne invisibile”.
“Le luci dei bracci metallici della cupola e dei proiettori divennero più forti, mentre la cupola girava sempre più velocemente e la nave lentamente si sollevava.
In quel momento le braccia del treppiede sul quale l’apparecchio posava s’alzarono di fianco, la parte inferiore di ogni montante (più stretta, arrotondata e terminante con una grande base d’appoggio), rientrò nella parte superiore (molto più grossa e quadrata) e quando questo movimento terminò, la parte superiore rientrò a sua volta all’interno dell’apparecchio. Alla fine non ci fu niente di visibile; la base era liscia e lucida come se il treppiede non fosse mai esistito.
Non riuscii a distinguere un segno qualsiasi che indicasse il posto dove erano state sistemate le braccia.
Queste persone sapevano veramente fare un buon lavoro!”.

“La nave continuò ad alzarsi lentamente nell’aria, fino a un’altezza di 30 – 50 metri; lì si fermò per qualche secondo e, nello stesso tempo, la sua luminosità divenne ancora più forte. Il rumore dell’aspirazione dell’aria così spostata aumentò ancora, e la cupola girò a una velocità spaventosa mentre il suo colore passava per diverse tinte fino a diventare rosso vivo.
In quel momento l’apparecchio cambiò direzione, con un movimento
brusco, facendo sentire un rumore forte, una specie di “colpo” (e questo quando vidi ciò che chiamo “timone” spostarsi)”.
“Quindi, scivolando un po’ di lato, la nave spaziale partì come un proiettile verso Sud, a una tale velocità che in pochi secondi era scomparsa”.
“Allora tornai verso il mio trattore. Avevo lasciato l’apparecchio verso le 5.30 del mattino e vi ero entrato alle 1.15. Dunque vi ero rimasto quasi 4 ore e un quarto un tempo veramente lungo”.

“Quando tentai di mettere in moto il trattore, scoprii che non funzionava più. Cercai di vedere se trovavo qualcosa di anormale e vidi che il cavo della batteria era stato staccato.
Qualcuno l’aveva fatto, perché un cavo non si toglie dal morsetto da solo, e io li avevo controllati prima di andar via da casa.
Doveva essere stato staccato da uno degli uomini dopo che il trattore si era fermato e il motore era calato di giri, mentre mi afferravano,
probabilmente per impedirmi di ripartire qualora fossi riuscito a liberarmi. Erano furbi e avevano previsto tutto”.
“A parte mia madre, finora non ho rivelato a nessuno la mia avventura.
Lei mi ha detto di fare attenzione a non ritrovarmi in contatto con quella gente.

Non ho avuto il coraggio di parlarne a mio padre, perché quando gli avevo riferito della luce sul tetto mi aveva accusato di avere le allucinazioni.
Più tardi mi decisi a scrivere al signor Joao Martins, dopo aver letto uno dei suoi articoli sul giornale “O Cruzeiro”, dove chiedeva ai lettori di informarlo sui loro eventuali avvistamenti di UFO. Se avessi avuto abbastanza denaro sarei venuto prima. Ma poiché non ne avevo, ho dovuto aspettare finché lui non mi ha fatto sapere che mi avrebbe aiutato per il viaggio”.

“Signori, io sono a vostra disposizione. Se pensate che debba ritornare a casa, partirò domani. Ma se volete che mi fermi più lungo, sono d’accordo.

E’ per questo che sono venuto”.

Ecco come finisce la deposizione di Antonio Villas Boas, un po’ noiosa a volte per il lettore per tutti i suoi dettagli, ma che mi è sembrato utile
riprodurre integralmente, perché si tratta di un caso in cui tutto indica non trattarsi affatto di invenzioni, allucinazioni o addirittura di uno scherzo preparato da altri.

In effetti le prove in favore dell’autenticità del caso sono parecchie, e io ne citerò solo qualcuna: questa deposizione è stata rilasciata da Villas Boas nello studio medico del dottor Olavo Fontes, dove, per quattro ore, il dottor Fontes e il giornalista Joao Martins registrarono le sue parole.
Essi hanno tentato di indurlo in contraddizione sui dettagli, l’hanno interrogato su altri, ma non sono riusciti a coglierlo in fallo. Non è parso mai sconcertato o intento a fare appello alla propria immaginazione. Dall’inizio fu chiaro che non presentava nessun tratto psicopatico. Parlando tranquillamente, liberamente, non mostrando alcun tic o segno d’instabilità emotiva, tutte le sue reazioni alle domande sono state perfettamente normali.
Non ha perso mai il filo del racconto. Le sue esitazioni corrispondevano precisamente a quelle che si potevano prevedere in un individuo che, in una situazione anormale, non riesce a trovare una spiegazione per certi fatti.

In alcuni momenti, addirittura, sapendo che i dubbi che egli esprimeva su alcuni dettagli potevano spingerci a non credergli, rispondeva
semplicemente “Non lo so” o “Non riesco a spiegarlo”. In una lettera che aveva scritto in precedenza a Joao Martins precisava che non poteva
mettere per iscritto alcuni particolari di cui si vergognava. E’ a proposito dei suoi rapporti sessuali e della sua partner.
Quando lo interrogammo al riguardo, mostrò imbarazzo e una certa vergogna, ed è solo grazie alla nostra insistenza che riuscimmo a sapere tutto.
Era in imbarazzo anche quando gli facemmo delle domande a proposito della camicia strappata dai suoi assalitori.

Gli esami medici a cui lo sottopose il dottor Fontes e gli interrogatori ci hanno fatto sapere che dopo essere rientrato a casa, il mattino del 16 ottobre, Antonio si sentì sfinito e dormì per tutto il giorno. Si svegliò verso le 16 e mangiò di buon appetito. La notte non riuscì a dormire, e così anche la notte seguente. Sognava degli avvenimenti precedenti come se gli accadessero di nuovo. Si svegliava di soprassalto gridando. Né tanto meno poteva concentrarsi tentando di lavorare sui corsi per corrispondenza che seguiva. Poi ebbe dei malesseri e perse l’appetito. Soffriva di dolori in tutto il corpo e di forti emicranie. Infine sentì agli occhi una fastidiosa sensazione di bruciore. Dopo due giorni il mal di testa sparì.
Non notò una congestione alla congiuntiva, ma gli occhi si misero a lacrimargli.

La terza notte riuscì a dormire, ma a partire da quel momento fu spesso in preda a un’eccessiva sonnolenza, e questo per un mese.
La sensazione di bruciore agli occhi persistette per tutto questo tempo, come la lacrimazione. L’ottavo giorno si ferì leggermente all’avambraccio mentre lavorava e sanguinò un poco. Il giorno seguente notò la comparsa di una lieve infezione e sentì prurito. Da quattro a dieci giorni più tardi apparvero sugli avambracci altre ferite similari, del tutto spontanee.
Al centro c’era una piccola macchia e un’escrescenza, e gli stessi pruriti, che durarono una ventina di giorni. Tutt’intorno le ferite erano violacee.
Il quindicesimo giorno comparvero sul viso due macchie giallastre, ai lati del naso, poi sparirono. All’esame effettuato dal dottor Fontes si notavano ancora due macchioline, una su ogni lato del mento: una era grossa come una monetina, l’altra un po’ più grande. I particolari dell’esame, al completo, riempiono una pagina, ma questa non è che un riassunto. L’esame del sistema nervoso precisa: buon orientamento nel tempo.
Sentimenti e affetti sono entro limiti normali.
L’attenzione, spontanea o provocata, è normale. Le prove di percezione, d’associazione d’idee e di capacità di ragionamento
mostrano che il meccanismo mentale funziona bene. Eccellente la memoria visiva.
Assenza di qualsiasi segno di squilibrio mentale, esteriore o interiore.

Ecco dunque un caso straordinario, un probabile tentativo di ibridazione da parte di una razza extraterrestre; e se si fa eccezione per il caso che sarà oggetto del racconto seguente, meno documentato, è il solo conosciuto.
Beninteso, ne debbono esistere altri, ma le vittime hanno preferito conservare il silenzio.

(Dal volume: "UFO: relatà di un Fenomeno"; ARmenia Ed. 1975)

by:Ufoonline [SM=g8406]


ELIMINATO L'IMPOSSIBILE,CIO' CHE RESTA,PER IMPROBABILE CHE SIA,DEVE ESSERE LA VERITA'!

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