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abruzzo

Ultimo Aggiornamento: 22/12/2009 08:52
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ABRUZZO

E’ lontano ormai quel tempo, quando arrivai in calzoncini corti a Celano, provocando uno scandalo tra i parenti. Dalla stazione vedevo il castello là in alto, come l’agrimensore di Kafka avrà visto quel castello famoso in quel paese sconosciuto. Solo che non c’era quell’atmosfera grigia del libro, ma un sole cocente, che mi costringeva a socchiudere gli occhi. Insomma, stavo salendo al paese per sposare una bella fanciulla a nome Lidia. La predica fu lunghissima, dato lo sforzo del prete per condurmi sulla retta via, ma ricordo ancora oggi il male alle ginocchia per la prolungata genuflessione. Talvolta si ricorda un gesto, un particolare trascurabile, invece dell’episodio più importante che trasforma la propria esistenza per gli anni a venire.
Non è questo però che volevo dire. Volevo invece tentare una descrizione del posto come mi si presentava a quell’epoca, quando ancora le donne anziane con le gonne fino a terra portavano in testa la conca dell’acqua, con un braccio sulla conca e l’altro poggiato sul fianco, in una mossa ricca di grazia.
Il paese è costruito su un’alta collina, al culmine della quale c’è un bellissimo castello molto restaurato, attorno al quale scendono a cascata le case, i palazzetti e le casupole dei cafoni, così chiamati dalla gente del posto. Ora si vedono casette pulite e decorose, anche quelle dei contadini, perchè lo sviluppo ha investito anche questa zona, grazie alla fertile pianura del Fucino, che fino all’ottocento inoltrato era un lago dalle dimensioni del Trasimeno. Era paludoso , e c’era la malaria. Venne prosciugato dal conte Torlonia, che poi si appropriò del terreno. Una legge degli anni cinquanta espropriò la famiglia, e il terreno venne diviso tra i contadini rivieraschi. Alle cinque di mattina sentivo le campanelle dei carri che scendevano al Fucino per lavorare i campi, e tornavano al calar del sole risalendo la lunga strada a tornanti. I tre Santi Martiri sono i protettori di Celano, e c’è una grossa fonte ove sarebbero stati uccisi, che porta tre grandi macchie scure. Sarebbe il sangue indelebile dei martiri laggiù sacrificati. Ed è là che le donne con la conca andavano a prendere acqua. I vicoli che adducono alla piazza erano sporchi di liquame prodotto dagli animali, e talvolta anche dai cristiani. Sì, mi colpì un donna nemmeno tanto anziana con la veste lunga, che mentre stava parlando con me faceva la pipì, ed io sentivo lo scroscio, impettito come un tacchino. Tutto normale, no? Ora tutto è cambiato, i giovani lavorano a Roma e tornano al paese a fine settimana...quando tornano!
Si sono perse però quelle caratteristiche che ne facevano un luogo particolare, ove io passavo da un vicolo all’altro per fotografare galline, ruote di carro dipinte di rosso vivo, casette colorate di azzurro o rosatello, con la porta sontuosa a riquadri, di tipo spagnolo, con il battente di ottone. E odor di letame...
Ricordo una gita in bici sull’altipiano delle rocche, dal quale si vede il Gran Sasso sullo sfondo, magnifico gruppo dolomitico che sovrasta la conca dell’Aquila dall’alto dei suoi tremila metri.
A Terranera, una frazioncina fuori mano, oggi costellata di antenne paraboliche e piena di macchine in parcheggio, fui invitato in una casetta piccolissima, con il soffitto basso a travi di legno, e una credenza chiara con incisioni di animali, e subito mi venne in mente Ovidio, nella sua “Filemone e Bauci”. Mi costrinsero a bere un boccale di vino di montagna, aspro come l’aceto. Tutto lo trangugiai, per non offendere gli ospiti...
Una notte la compagnia del luogo organizzò la gita al monte Sirente, da seicento a duemilatrecento metri, con le pile per non perdere il sentiero. Arrivammo alla vetta prima dell’alba, e vidi l’aurora, con il sole che sorgeva dall’Adriatico lontano, pennellando l’acqua con una striscia di luce brillante. Accanto avevo il mio amore. Cosa si può chiedere di più alla vita?
Una forra profondisima, chiamata “le Foci”, unisce gli altipiani al Fucino, e percorrendola ti impressionano le enormi pareti lanciate verso il cielo, pareti che talvolta si avvicinano quasi a impedire il passaggio. Con la pioggia il fondo diventa un torrente, ma normalmente il percorso in bilico sui sassi è un gran divertimento, e l’ambiente è stupendo nella sua imponenza.
E il parco nazionale? Paesini arroccati su creste di roccia... Opi, Pescasseroli, acque, boschi bellissimi, nei quali si immagina che compaia un orso marsicano da un momento all’altro...
Ora le seconde case dei romani in stile tirolese hanno coperto il territorio... e non si vedono più le fontane evocate nelle canzoni popolari che si cantavano nella piazza del paese.

O che fresca funtanelle l’acquabbelle,
e na vena de cristalle surje ebballe,
tra vajuli e tra fijule
schizza l’acqua in faccia ai sole
o che fresca funtanelle l’acquabbelle.

Sull’altipiano c’è Arano, un lunghissimo prato ove ci sono delle sorgenti di acqua freschissima. Ci si radunava spesso con la merenda, e ognuno portava ciò che di meglio sapeva fare. I peperoni ripieni erano il pezzo forte, ma poi la lasagna spessa quattro dita, il vino di Montepulciano... E canti a non finire...Le voci basse che si alternavano alle voci cristalline delle ragazze, la pelle nuda sudata sotto il sole d’estate...
Verso la fine di agosto, c’è la festa dei Santi Martiri, e nel paese confluivano le migliori bande musicali dell’Abruzzo, e veniva allestito un grande gazebo per alloggiare la banda. Veniva chiamata “la capanna ginesca”... Forse stava per “cinese”, ma tanto fa. Le bande erano come orchestre, e facevano la gara a chi riscuoteva più applausi. Gli orchestrali venivano poi invitati dalle famiglie del paese, e mi ricordo in casa dei suoceri una cena con gli orchestrali al tavolo allungato per l’occasione, e tutte le donne di casa che correvano come galline per servire gli ospiti. C’era un camino, e nei mesi freddi ci si raccoglieva davanti al fuoco, e le facce erano schizzate di luce e d’ombra, con gli occhi che brillavano di stelline. Profili da quadro di Caravaggio. Occhiate...Sorrisi...
Zia Ginetta mi aveva preso in simpatia, e mi confezionava sempre biscottini savoiardi per la mattina. Era nubile, perchè il fratello maggiore non aveva consentito il matrimonio. A quei tempi il fratello maggiore contava, e come! E lei non usciva mai di casa. Era come uno spirito domestico dei tempi antichi.
Tornai a Celano molto tempo dopo, con Anna, la seconda moglie, e forse feci un errore...Erano tutti morti, e nella casa viveva e vive tuttora Viviana, sorella di Lidia, che ci accolse con simpatia e imbarazzo. Tutto era cambiato... Il tempo si era mangiato il ricordo come il mostro della leggenda mediterranea che mangia se stesso... Solo Pupina, così chiamata per vezzo, colse un particolare, e lo disse. Vide in me una continuazione... Lidia era amata nel paese, oltre ad essere la più bella...
E mi venne in mente un tempo lontano in cui, dal treno che usciva dalla galleria di Tagliacozzo, mi apparvero le due punte del Velino bianche di neve. Sotto la Serra, il monte che incombe su Celano con i suoi duemila metri, Lidia mi stava aspettando...

eugen
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L'episodio delle ginocchia dolenti mi ha coinvolto particolarmente e rievocato simili situazioni. Evidentemente non sono affatto votato al sacrificio.

Sono ricordi indelebili che parlano di un mondo durato eguale per millenni e volatilizzato in pochi anni per portarsi alla realtà d'oggi.

Mi è davvero piaciuto. [SM=x142874]
Grazie Eugen [SM=x142848]

Giancarlo.


...

- Quando le parole hanno la musica dentro e la strofa è canto, allora il pensiero è diventato poesia.- (Cobite)
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