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Gioventù Ardente Mariana (GAM) Fondatore don Carlo De Ambrogio

Ultimo Aggiornamento: 21/09/2009 21:41
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21/09/2009 21:13

3 - SACERDOTE IN ETERNO

La Stella del suo Sacerdozio


Giunse finalmente nel 1947 l'ora tanto attesa dell'ordinazione sa­cerdotale che avvenne il 29 giugno, festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, nella chiesa parrocchiale annessa allo studentato teologico sa­lesiano di Monteortone.

Gli esercizi spirituali che precedettero l'ordinazione furono giorni di cielo, in cui poté meditare più profondamente sul mistero sublime che stava per compiersi in lui: partecipe dello stesso sacerdozio di Gesù « sommo Sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek » (Ebrei 6,20). L'autore sacro specifica che «Melchisedek, sacerdote del Dio Altissimo, è senza padre, senza madre, senza genealogia..., fatto si­mile al Figlio di Dio e rimane Sacerdote in eterno» (Ebrei 7,1.3).

Consapevole di questa grande elezione da parte di Dio, realizzò fin dall'inizio della sua vita sacerdotale un tale distacco dai suoi fami­liari e da se stesso, che nessuno quasi sapeva da dove provenisse, dato che non parlava mai dei suoi cari e tanto meno di sé. Il « seguimi » di Gesù lo attirava e concentrava tutte le sue energie.

Mentre saliva l'altare con una gioia indicibile, la sua anima canta­va il Magnificat di Maria. Sentiva come il suo Sacerdozio era legato alla Vergine-Madre. Lei che aveva formato Gesù, il Sacerdote del Pa­dre, aveva formato anche lui fin dalla più tenera età, rendendolo nel­lo Spirito Santo « alter Christus », come dice S. Agostino.

Il Papa Giovanni Paolo II dirà ai Sacerdoti: « Voi dovete annun­ciare Cristo, che è Figlio di Maria, e chi vi trasmetterà meglio la verità su di Lui, se non sua Madre?».

Don Carlo lo sapeva e consacrava tutto se stesso e il suo sacerdo­zio a Colei che, oltre ad esserle Mamma tenerissima, gli era sorella, amica, sposa, tutto... Viveva con Lei il suo Cantico dei Cantici.

« Tutto tuo io sono, o Maria, - ripeteva con le parole di S. Luigi M. Grignion de Montfort - e tutto ciò che è mio è tutto tuo ». Affi­dava al suo Cuore Immacolato tutte le anime che avrebbe incontrato sulla sua strada. Era Lei la Stella del suo sacerdozio.

Don Carlo De Ambrogio

Gesù obbediente alla sua voce

Ed eccolo all'altare a consacrare per la prima volta il pane e il vi­no. Da tutto il suo contegno semplice, ma intensamente raccolto tra­spariva una fede viva e un ardente amore per Gesù che si era consegnato nelle sue mani ed era là, sotto i veli eucaristici, «Pane vivo, disceso dal Cielo » (Gv 6,51).

A mamma Augusta non sembrava vero che fosse il suo Carletto quel Sacerdote che stava alzando l'Ostia santa dicendo: « Ecce Agnus Dei... ». Quante volte fin da piccolino aveva ripetuto quel gesto da­vanti a un piccolo altare, improvvisato sopra una seggiola o un'asse da cucina. Quanto tempo era passato? Quanti sacrifici! Ma ora non ricordava altro che la grande gioia di vederlo all'altare, così vicino al Signore, radioso come un Angelo nei sacri paramenti. E ringraziava di cuore la Vergine Santissima che l'aveva condotto a realizzare il suo sogno di sempre. Anche papà Pietro aveva un nodo alla gola quando il suo Carletto gli porse la S. Comunione.



Ogni Messa come la prima, l'ultima, l'unica...

La Messa celebrata al paese qualche tempo dopo, fu un vero trion­fo. Tutta Arsiero era presente per vedere il suo novello Sacerdote e sentirlo predicare.

Tutti si sentivano in qualche modo partecipi di quell'avvenimen­to: chi con qualche aiuto, chi con la preghiera; e c'era Sr. Luisa che tanto aveva fatto per lui; e il maestro Fontana che gli aveva insegnato a suonare; e c'erano i compagni di scuola e di gioco, Danilo e gli al­tri... Don Carlo era commosso quando rivolse a tutti parole di ringra­ziamento. La gratitudine sarà una caratteristica costante del suo ani­mo gentile e delicato.

Rimasero colpiti dalla sua gioia e dal suo modo di spiegare il Van­gelo in maniera così penetrante e nello stesso tempo semplice, tanto che tutti, anche i bambini avevano capito le parole di Gesù.

Don Carlo conservò sempre il fervore della sua prima Messa e non si lasciò mai prendere né dalla routine né dalla fretta.

Era solito dire che occorreva celebrare ogni Messa « come fosse la prima, l'ultima, l'unica Messa ». Così faceva lui. Non aveva nulla di esteriore, ma sembrava un serafino: lo sguardo raccolto; scandiva pacatamente le parole della Liturgia e coinvolgeva i presenti in un clima di fede profonda, di pace interiore e di amore a Gesù presente nella Celebrazione Eucaristica. Nell'Omelia, e più tardi anche nelle piccole monizioni suggerite dal Concilio, faceva riferimento alla Madonna.

Diceva: «Dove c'è un'Ostia consacrata, là è presente Maria in at­teggiamento di adorazione. La Mamma è qui presente, è Lei che ci dona Gesù».

Un autista, il signor R. B., che lo accompagnava spesso in mac­china nei vari spostamenti per i Cenacoli Gam dal 1977 al 1979, rac­conta di averlo un giorno accompagnato al monastero delle Suore Vi­sitandine di Treviso per celebrare la S. Messa.

Fu tale l'impressione che ne riportò che gli rimase impressa nell'a­nima: «Di solito - racconta egli stesso - mi capita di stancarmi in chiesa e di guardare l'orologio, ma quel giorno il tempo volò in un attimo. Mi sembrava di essere in Paradiso e mi sentivo così immerso in quello che Don Carlo diceva e faceva con tanta devozione, che alla fine sarei rimasto ancora tanto tempo a continuare così la preghiera. Io non ho mai visto in tanti anni celebrare la Messa come Don Carlo. Vorrei che tutti i Sacerdoti fossero come lui all'altare ».

Perché il Santo Sacrificio non fosse un momento isolato nella gior­nata, Don Carlo raccomandava di « portare tutta la vita nella Messa e tutta la Messa nella vita ».



Potevano disporre di lui liberamente

Di Don Bosco si diceva: «Era Sacerdote all'altare, in cortile tra i giovani, per la strada, ovunque... ». Lo stesso si può dire di Don Car­lo; egli continuava a celebrare la sua Messa nel sacrificio della sua gior­nata come l'obbedienza delineava.

I Superiori sapevano che potevano disporre di lui liberamente: Don Carlo era pronto al sì, sempre, con generosità e gioia, senza mai far pesare il suo sacrificio.

Appena ordinato, lo mandarono al "Don Bosco" di Pordenone, nel Friuli, un grande Collegio salesiano con scuola, internato e orato­rio. Don Carlo accettò ogni incarico, vedendo nelle disposizioni dei Superiori la volontà di Dio. Si notava in lui una ricerca attenta e amo­rosa della volontà divina, che lo porterà all'eroismo di perdere tutto, anche le cose più care e sante per compiere il disegno del Padre che la Madonna gli indicava passo passo. Aveva fatto suo il programma di Gesù: «Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e portare a compimento la sua opera» (Gv 4,34).

A Pordenone gli fu affidato l'insegnamento di italiano, latino e greco nel ginnasio, in particolare in quarta e in quinta; gli erano quin­di affidati gli adolescenti nell'età più delicata e difficile. Ma Don Car­lo aveva l'arte di Gesù: attirava con l'amore, un amore vero, sopran­naturale, trasparente.

I giovani gli rispondevano in pieno. « Sapeva ottenere tutto da noi - dice un suo ex allievo - senza alzare mai la voce. Usava modi sem­pre pazienti, era di aspetto molto mite. Anche fuori di scuola aveva una grande facilità a conquistare l'attenzione e la simpatia dei ragazzi ». Era il segreto di Don Bosco consegnato ai suoi figli salesiani nel —Si­stema preventivo", una traccia di principi educativi ispirati al Vange­lo che fa leva non sul timore del castigo, ma sull'amore. « Fatevi ama­re - diceva il Santo educatore dei giovani - se volete farvi temere».

Don Carlo trattava tutti con bontà e rispetto, senza preferenze o esclusioni: tutti anche i meno dotati e i più irrequieti sapevano di po­ter contare su di lui.

Come insegnante era molto quotato. Nei concorsi nazionali per la cattedra dell'insegnamento di lettere raggiunse il secondo posto in clas­sifica dopo Lucia de Gasperi, la figlia del grande statista cattolico. Tutto era mezzo per portare a Gesù

Il dottor P. N., suo ex allievo di 41 ginnasio, dice di lui: «Era un insegnante di livello notevole perché sapeva comunicare, aveva didat­tica, sapeva porgere le cose in maniera soave e attraente, e poi aveva sempre molti argomenti; ampliava; con una grande capacità di sintesi unificava rendendo efficace l'insegnamento. Non faccio fatica a defi­nirlo un ottimo insegnante, di un'intelligenza acuta e una profonda cultura di fondo ».

Oltre al greco, conosceva diverse lingue che aveva studiato come autodidatta, tra le quali l'ebraico e 1'aramaico di cui era appassionato perché erano la lingua di Gesù. Tale studio gli offriva inoltre la possi­bilità di comprendere meglio la Parola di Dio.

Gli avevano affidato anche l'insegnamento di musica e di canto per tutti gli allievi del collegio. Con la sua passione per la musica orientava all'ideale apostolico, trascinava fino all'entusiasmo quella mas­sa di giovani nei cori meravigliosamente preparati per le feste liturgi­che e per la S. Messa quotidiana, momenti vertice dell'azione educativa.

Così pure era tutta una festa la preparazione di canti e operette per il teatrino dei giovani in collaborazione con altri suoi Confratelli. Don Carlo si serviva di tutto per l'unico scopo: innamorare le anime giovanili di Gesù e della Mamma Celeste.

Dice un suo ex allievo: «Nelle sue omelie e nei vari momenti del suo apostolato per noi ragazzi, aveva dei punti fissi: "il Cristo" (ci parlava molto di Gesù) e la Madonna. Indicavano, la sua affezione per il Vangelo e per la Madre di Gesù. Quello della Madonna era uno de­gli argomenti che gli stava molto a cuore, del quale ci parlava con mag­gior frequenza. Celebrava raramente per noi giovani, perché general­mente era il direttore o qualche altro Superiore a farlo, ma parlava di Gesù nei momenti di passaggio tra un'attività e l'altra, al termine della ricreazione o della scuola, là dove se ne presentava l'occasione; anche nella spiegazione delle varie materie infilava qualche rapidissi­mo accenno alla Parola di Dio ».

Solo chi ha il cuore traboccante di Dio può avere la prontezza di donarlo a tutte le ore.

« Era una persona di grande fervore - dicono ancora i suoi ex al­lievi -. Faceva molto di più per noi, che lo stretto necessario imposto dal suo dovere. Dal suo comportamento si notava molta dedizione; si dava senza misura, con sacrificio ».



Trasformava in cielo l'esistenza degli altri

Era anche assistente degli interni: un compito non facile tenere a bada uno squadrone di adolescenti dall'argento vivo addosso dopo quattro, cinque ore di scuola. Don Carlo creava tra loro un clima di famiglia e di gioia. Faceva in modo che entrasse in loro Gesù, la sua Grazia, il senso della presenza di Dio, la consapevolezza di essere tan­to amati dal Padre e dalla Mamma Celeste. Poi aveva continue atten­zioni e piccole invenzioni per entusiasmare al bene, in modo che ai ragazzi diventasse facile essere buoni e compiere anche i doveri più faticosi.

Dirà più tardi: « Ognuno di noi deve trasformare in cielo l'esistenza degli altri ». Lui lo faceva. Quando qualche ragazzo gli chiedeva di suonare qualcosa al pianoforte, accondiscendeva sempre. Con il suo immancabile sorriso iniziava qualche brano classico di Beethoven o di Mozart, di Schubert, ma soprattutto di Franz Liszt, in particolare la seconda Rapsodia Ungherese, e parlava con simpatia del grande mu­sicista dalle dita lunghe e affusolate che raggiungevano i tasti da un'ot­tava all'altra del pianoforte.

Più tardi spigolando qua e là da questi grandi autori classici per comporre canti per alcuni Salmi dei giovani Gam, sottolineerà come dal Paradiso erano certamente felici e fieri che la loro musica servisse non per una gloria effimera, ma per la Parola di Dio: non c'era rea­lizzazione più alta e più feconda.



Una traduzione di greco sottobanco

«Era sempre disponibile» dice il dott. N., suo ex allievo, e rac­conta un episodio successogli in quinta ginnasio. Aveva quell'anno un altro insegnante di lettere e, al ritorno dalle vacanze di Natale, teme­va fortemente la meritata punizione del professore, perché ai compiti assegnati mancava una traduzione di greco. Non sapendo come fare, bussò alla stanza di Don Carlo. Questi, invece di fargli una sonora ramanzina, si sedette a tavolino e, con aria arguta, quasi divertita « di complice » gli fece la traduzione, raccomandando al birichino di non dire nulla a nessuno, cosa che il ragazzo naturalmente non mantenne, passando il compito straordinario a tutti i compagni.

La sua bontà che aveva tratti di delicatezza materna, avvolgeva tutti. I suoi Confratelli lo sentivano e gli volevano bene; lo chiamava­no familiarmente: il nostro Don Carletto.

Nelle feste svegliava i ragazzi con la fisarmonica e li elettrizzava con i canti più belli alla Madonna e i canti di montagna.

«Era sempre sereno, allegro - dice un suo ex allievo interno - e ci comunicava la sua esuberanza. In ricreazione partecipava sempre ai nostri interessi, giocava anche con noi. Coglieva sempre con una certa arguzia aspetti di situazioni e persone, ci sorrideva sopra e face­va delle osservazioni così argute, brevi folgorazioni ironiche, ma mai offensive, tipiche di una persona intelligentissima. Era questo un aspet­to che gli cattivava molta simpatia ». E nello stesso tempo era riservato, non parlava mai di sé e della sua famiglia, non scendeva a confi­denze con i giovani. Possedeva un forte autocontrollo e un costante dominio di sé. « Il dominio di sé - diceva - è un dono da chiedere allo Spirito Santo, perché ci è tanto necessario nel rapporto con Dio e con gli altri. È lo Spirito Santo l'equilibratore meraviglioso della no­stra anima, del nostro essere. Quando c'è Lui non c'è mai turbamen­to, ma serenità ». Ecco il segreto della sua calma inalterabile.



La lampada rimaneva accesa anche di notte

Era dimentico di sé e la sua giornata - che iniziava prestissimo - si snodava intensa tra preghiera, scuola, lezioni di musica, corre­zione di compiti, assistenza in cortile e in studio. Era tutto un dono a Dio e alle anime.

Qualche ragazzo ricorda che, come assistente degli interni, dormi­va nell'angolo di una lunga camerata. Dietro il separé di tela bianca la lampada del suo tavolino rimaneva accesa fino a notte inoltrata.

Che cosa faceva Don Carlo in quelle ore notturne rubate al sonno, reagendo alla stanchezza di una dura giornata? Forse ultimava le cor­rezioni dei compiti o stilava qualche articolo del giornalino, o conti­nuava lo studio dell'ebraico e del greco; certamente pregava e medita­va la Parola di Dio sulla piccola Bibbia tascabile che portava sempre con sé. Anche al momento della sua morte gli si troverà in tasca la Bibbia di Gerusalemme in francese. Era il suo vademecum.

Nelle vacanze estive i Salesiani portavano i ragazzi a Valgrande, nel Cadore, in un'ex colonia fascista restaurata. Era un sollievo tro­varsi all'ombra delle Dolomiti, ma era anche un notevole sacrificio sobbarcarsi l'assistenza dei ragazzi giorno e notte per un mese, dopo la fatica di un anno scolastico.

Don Carlo, richiesto dal Direttore, si prestava sempre volentieri. Qualche giovane di quel tempo conserva un ottimo ricordo di quei gior­ni animati dalla presenza sempre gioiosa di Don Carlo. La sera dopo cena, raccoglieva tutti i ragazzi e li intratteneva per ore intere con rac­conti avventurosi e fantastici che la sua fervida fantasia e lo spirito di avventura gli suggerivano al momento, accostando ambienti e vi­cende emersi dalle molte letture fatte. Portava avanti questi racconti a puntate creando un'atmosfera di suspense che attanagliava l'atten­zione di tutti quegli adolescenti.

Sul momento culmine di questi racconti o alla conclusione sapeva infilare sempre qualcuna di quelle frasi-messaggio che fanno pensare, lasciando così un seme di luce in tutti quei cuori giovanili.

Aveva indubbiamente la stoffa dello scrittore e del giornalista. I Superiori infatti se ne accorsero e gli affidarono dapprima la di­rezione e redazione del giornalino "Qui, Pordenone", piccolo orga­no di informazione e di formazione per gli alunni, le famiglie, i benefattori ecc. e poi la stesura di alcuni articoli su "Meridiano 12", una rivista Salesiana per i giovani; infine lo chiameranno a Torino per assumerne la direzione e molta parte della redazione.

Ma il suo sogno - e soprattutto il disegno del Padre - era di uti­lizzare tutti questi talenti a servizio esclusivo del Vangelo.

Negli anni successivi, quando dovrà preparare sempre nuovi pieghe­voli e fascicoletti per i giovani Gam, dirà: « La Mamma mi ha prepa­rato a questo. La strada del giornalismo era in vista di questa evangelizzazione ».



Tutto era segno per lui

Nelle giornate di pioggia intratteneva i ragazzi con la fisarmonica accompagnando i canti più belli e i cori di montagna. Accanto a lui un anziano confratello strimpellava una chitarra così scordata da far accapponare la pelle, ma i ragazzi non se ne accorsero mai, anzi ap­plaudivano perché Don Carlo cercava di coprire le stonature con il suono della fisarmonica, lodando alla fine il bravo chitarrista. Sfu­mature della carità.

Accompagnava i ragazzi nelle passeggiate ed escursioni, cercando sempre nuove mète. In quel grande scenario di boschi e di vette, lo spunto per innalzare i giovani all'amore e alla lode del Padre Celeste era immediato e Don Carlo sapeva cogliere momenti di particolare stu­pore e di meraviglia per farlo, insegnando a leggere i segni nella natu­ra, come lui faceva.

Aveva iniziato fin da bambino ad ascoltare nella voce del vento, dei fiori, delle montagne, dell'acqua... la voce di Dio che gli ripeteva: « Io ti amo » - « Sono tutte telefonate dell'amore del Padre » diceva. E tra i suoi ricordi di ragazzo racconta egli stesso un episodio incan­cellabile: « Ero salito da solo sulle Dolomiti, fermandomi ai piedi di un ghiacciaio. Mi ero steso a mezzogiorno a guardare il cielo proprio sotto i pini mughi, sotto le rocce dove terminano le lingue dei ghiac­ciai e si formano quei piccoli laghi cristallini, limpidissimi... C'era un silenzio immenso. Ad un certo momento in quel silenzio mentre guar­davo il cielo azzurrissimo, sento smuovere le pietre e vedo un capriolo che scende agilissimo. Correva sulle cenge con una rapidità e sicurez­za meravigliose. Scende fino al laghetto e comincia con la lingua, tac, a bere. Fermo, immobile l'ho guardato; una scena fantastica. Mi è venuto in mente il Salmo 41: "Come una cerva anela ai corsi d'ac­qua, così l'anima mia anela a te, o Dio" ».

Pur nell'intensità dell'azione, si immergeva facilmente nella con­templazione: trasfigurava la realtà nella preghiera e nell'amore e tut­to per lui diventava segno.

Andava sempre all'essenziale in vista del Regno di Dio. Non era facile per chi gli viveva accanto cogliere la sua realtà più vera e pro­fonda, nascosta sotto il suo costante sorriso e dietro un atteggiamen­to estremamente semplice e mite.

« Le anime che scendono in profondità, totalmente lanciate in Dio, sono destinate all'incomprensione e alla solitudine» scrisse un auto­re. Non aveva torto. Anche per Gesù è stato così.

Don Carlo guardava a Gesù e tutto nella sua vita si illuminava. Ricordava spesso che «il Vangelo è iterativo: si ripete nella nostra vi­ta ». Lui lo sperimentava e provava una gioia purissima nel riconosce­re nelle sue vicende i tratti e le somiglianze con la vita stessa di Gesù. Vivere il Vangelo infatti « sine glossa », alla lettera, e poi annunciarlo era il suo grande ideale.



GLI ANNI DI TORINO

Il suo "fiat" fu pronto, generoso, totale


« Certe grazie entrano dalla finestra rompendo i vetri », era solito ripetere. Si verificò proprio così anche per lui in quel 1956 in cui il Sig. Don Ricceri, allora Superiore responsabile della stampa e dei coo­peratori salesiani (poi Rettor Maggiore), scoperte le sue brillanti doti giornalistiche, lo chiamò a Torino come direttore della redazione di "Meridiano 12" - una rivista per i giovani a livello internazionale - e come collaboratore del "Bollettino Salesiano", organo ufficiale della Congregazione.

Iniziava per lui una nuova fase della vita in cui, libero da altre at­tività, sarebbe stato più disponibile all'annuncio del Vangelo in un cre­scendo sempre più ampio e intenso fino al culmine nel Movimento gio­vanile Gam che sorgerà nel 1975.

Tuttavia, abbandonare il suo Veneto, culla della sua vocazione e dei suoi primi anni di Sacerdozio, lasciare l'insegnamento e l'attività tra i giovani, fu per lui una piccola morte.

« A Pordenone Don Carlo era molto amato e stimato da tutti - afferma un suo confratello coadiutore che gli visse accanto per ven­t'anni nella comunità di Valdocco -. Gli era costato non poco lascia­re tante persone e cose care, soprattutto i suoi allievi a cui era affezio­nato e che lo riamavano con gli stessi sentimenti.

Parlava sempre dei suoi giovani. Eppure la sua obbedienza fu com­pleta; non pose ostacolo alcuno ed il suo "Fiat" alla chiamata del Su­periore fu pronto, generoso, totale. Seppi più tardi da alcuni confra­telli del Veneto che lasciò un grande vuoto in quella comunità, perché già allora era un Sacerdote eccezionale.

Ero molto amico di Don Carlo; spesso mi avvicinava e confidava le sue difficoltà e anche le poche gioie che provava inizialmente». Fu per lui un capovolgimento di vita: non più una vita movimen­tata e la comunicativa vitale con i giovani, ma la solitudine di un la­voro mentale che lo teneva giorno e parte della notte chiuso tra quat­tro pareti della stanza. «Non trovava momenti per il dovuto sollievo perché il lavoro da svolgere tutti i giorni era sempre molto intenso » afferma ancora quel suo confratello.

Certamente lo entusiasmava raggiungere migliaia di anime, soprat­tutto i giovani attraverso quegli articoli che sfornava in continuità sor­prendente con uno stile fresco e giovane, lasciando immancabilmente nei lettori un messaggio profondo e incancellabile. Ma è anche certo che la sua natura sensibilissima ed esuberante ne soffriva.



Entrava come un'ombra

Eppure - sottolinea quel suo confratello - « era sempre raggian­te in volto; sorrideva costantemente, ma di un sorriso angelico, celestiale. Incantava e conquistava tutti. Non l'ho mai visto una volta se­rio o turbato. Lo si vedeva attraversare il cortile e avvicinare ora que­sto ora l'altro; diceva una parola breve e sempre col sorriso anche quan­do aveva molto lavoro urgente. Era imperturbabile. Anche le persone esterne rimanevano colpite da quel sorriso.

Talvolta per motivi di lavoro doveva passare nel reparto spedizio­ni dove lavorava un gruppo di dodici impiegate.

Don Carlo entrava silenzioso come un'ombra, salutava brevemente con un sorriso e lasciava un'impressione in quelle giovani di una pre­senza soprannaturale ».

Anche il portinaio che per ben otto anni poté osservare Don Carlo nella sua quotidianità ordinaria, attesta: « Sono stato quarantatré an­ni all'estero e sono ormai da diciott'anni in servizio qui all'Istituto dei Salesiani. Ne ho incontrati tanti Sacerdoti e ne incontro, ma non ho trovato nessuno come Don Carlo. Era sempre sorridente, ma di quel sorriso sincero che non è ipocrisia. Questo lo può dire solo chi ci vive assieme. E io vivo nella comunità, perciò vengo a conoscenza delle persone. Quando uno è stanco non può sorridere, non ce la fa; eppu­re Don Carlo anche se era molto stanco aveva sempre il sorriso sulle labbra. Rimanevo stupito, perché vedevo quanti impegni aveva».



Il segreto del suo sorriso

Qual era il segreto di questa gioia, di questo suo equilibrio interio­re, di questa spinta soprannaturale che lo sosteneva in una così inten­sa attività? Lo scopriamo in un'affermazione di Bergson da lui ripor­tata: « Un'anima molto unita a Dio, un'anima mistica (che vive inti­mamente e intensamente di Dio) vede chiaro, vede grande e realizza forte ».

Ecco il suo segreto: il suo grande amore a Dio, la sua vita di pre­ghiera, di contemplazione, di unione con i Tre é con la Mamma Cele­ste. Da qui scaturiva tutto.

« A uno - dice S. Caterina - puoi chiedere solo quello che ama. Niente più ». A Don Carlo il Signore e le anime potevano chiedere tutto, perché la misura del suo amore era totale.



[Modificato da Caterina63 21/09/2009 21:14]
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