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Omelia su san Tommaso d'Aquino

Ultimo Aggiornamento: 03/09/2009 09:41
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03/09/2009 09:30



Omelie su san Tommaso d'Aquino
Oltre al "De Divinis Nominibus", che non poteva mancare, e il "De Gerarchia Coelestis et Ecclesiastis", le due somme sono le due cattedrali costruite da San Tommaso, cioè la Summa Theologiae, che voi conoscete nella divisione fondamentale. Se seguirete i corsi dell’Ordo Praedicatorum, presso la venerabile basilica di San Domenico a Bologna, allora prenderete molta familiarità con la Summa Teologiae.


La prima parte è dedicata alla dogmatica, con i trattati de Deo Uno, de Deo Trino, de Deo Creatore e dell’ordo disciplinae. Questo ordine non si può cambiare, perché San Tommaso ha trovato quell’ordinamento delle questioni che è attinente alla cosa in sé. Certo uno potrebbe dire che è una impostazione troppo deduttiva e poco pedagogica, invece l’uomo deve elevarsi alla verità, non pretendere di abbassare la verità a sé, come è di cattivo gusto al giorno di oggi. Temo che San Tommaso abbia ragione contro i moderni nel dire: "l’ordo disciplinae" è questo: prima de Deo Uno, l’unità, l’esistenza e l’essenza di Dio, le due questioni: essenza ed esistenza di Dio, successivamente il mistero della Trinità Santissima. Vedremo come distingue tra filosofia e teologia, come la Trinità per lui è mistero essenzialmente rivelato, non è assolutamente accessibile alla ragione filosofica.

È bellissimo il trattato "De Deo Creatore", che non a caso si aggiunge in qualche modo al trattato trinitario. C’è una analogia, solo un’analogia, (non che sia una continuazione), tra le processioni divine ad intra, cioè interiori rispetto a Dio, e le processioni ad extra, che è la processione delle cose create da Dio.

Segue il trattato sulla creazione, che si articola secondo le singole opere create da Dio. C’è anche il trattato "De Nomine", l’antropologia tomistica, il trattato "De Angelis", per il quale San Tommaso si meritò il titolo di dottore angelico, doctor angelicus o anche doctor communis, perché cattolico, trasparente per tutto il popolo di Dio. Dunque: il trattato sugli Angeli e il trattato sul governo di Dio rispetto al mondo.

La seconda parte si divide in "Prima Secundae" e "Secunda Secundae", questa ultima è la parte morale. San Tommaso dice che è il reditus rationalis creaturae in Deum, cioè il ritorno della creatura razionale in Dio. Anche qui è geniale nella sua impostazione. Tutta la sua morale poggia sul fine. La prima questione della morale non è la costituzione della legge, dei precetti. Tutto questo deriva da che cosa? Dal fine. Cioè la legge di Dio non è campata per aria, è fondata nell’essere, è proprio quello che i moderni non riescono a stabilire, il legame fra ontologia e deontologia, quello che San Tommaso stabilisce tramite la finalità. La prima questione della morale è quella della finalità, dell’atto umano, atto libero, che in qualche modo è sottoposto, responsabilizzato dal fine, sottoposto alle esigenze del fine. Un atto umano buono è quello che adempie le esigenze della finalità umana, un atto umano disordinato è quello che si sottrae a queste finalità. Vedete come la morale di San Tommaso comincia con la questione del fine ultimo.

Segue il trattato sugli abiti umani, dove parla della soggettività dell’atto umano, l’influsso sul volontario. Prima vengono esaminati gli abiti, poi le virtù, i peccati e i vizi. Infine il trattato sulla legge e la grazia. Nei principi estrinseci c’è Dio che ci istruisce tramite la legge, poi ci aiuta tramite la grazia: questa è la morale generale.

Inizia poi la morale particolare, con questa ironica constatazione del prologo, nel quale San Tommaso dice: "Sermones morales universales sunt minus utiles", "i sermoni morali troppo universali sono meno utili". In morale bisogna agire. San Tommaso è un pragmatista, perché la sua morale è impostata in vista della visione beata del Cielo. Con San Bonaventura dice chiaramente che la beatitudine dell’uomo non sta né nell’amare Dio, né nel godere di Dio, ma sta nel conoscere Dio. Quindi le virtù intellettuali, come in Aristotele (anche se è chiaro in chiave cristiana, soprannaturale), continuano ad avere la preminenza sulle virtù morali. Però le virtù morali predispongono alla beatitudine che consiste nella piena realizzazione dell’intelligenza umana. Chiaramente questo atto dell’intelletto che vede Dio non è senza amore di Dio e senza godimento di Dio, questo è ovvio, però San Tommaso pone la beatitudine nell’atto dell’intelligenza.

Nella morale particolare sono trattate le virtù nella loro specie, anzitutto le virtù teologali, quindi la fede, la speranza e la carità. Seguono le altre quattro virtù cardinali, tra cui la prudenza, che per San Tommaso è molto importante. Bello questo, i moralisti oggi hanno molto dimenticato questo ruolo, di quella che è l’auriga virtutum, cioè quella che è la guida di tutte le virtù. Poi il trattato sulla giustizia, sulla fortezza e sulla temperanza. Sono così ordinate le virtù perché la prudenza è la più razionale, nell’intelletto pratico. La giustizia sta nella volontà, sempre razionale, però derivata in qualche modo dalla parte volitiva. Poi ci sono le virtù che regolano gli appetiti sensitivi, prima di tutto l’appetito irascibile, la fortezza (San Tommaso spiega che anche l’ira è una cosa buona), quindi la fortezza e la magnanimità. E’ stupendo San Tommaso nel trattato sulla magnanimità, come spiega che l’umiltà non esclude la magnanimità, ma anzi l’uomo umile è quello che ha la giusta stima di sé, alla luce di Dio, si capisce, e quindi si sente spronato a cose grandi, il cristiano non è quello che si abbassa e quindi dice: "Io sono un buono a nulla!", questo potrebbe essere anche un bel alibi per non far niente. San Tommaso dice: "Il cristiano è uno che aspira alla santità ha una visione grandiosa del cristianesimo, però umile". Vedete la grandezza dell’umiltà, San Tommaso in questo è un grande maestro.

Infine c’è il trattato aggiunto alla Secunda Secundae, che è quello sugli stati di vita, quindi lo stato clericale, laicale e lo stato religioso.

Nella terza parte, che è l’ultima, dulcis in fundo, tratta del Cristo, che ricapitola in sé tutte le cose. Oggi ci sono quelli che si scandalizzano e che dicono: "Come, San Tommaso mette il Cristo nella terza parte, come se fosse in un angolino!", invece è lì, a ragion veduta, per sottolineare la gratuità con cui Dio ci ha redenti in Cristo. Nessuno poteva pensare ad un Redentore così grande, un Redentore che fosse nel contempo Dio e Uomo, quindi San Tommaso nella terza parte svolge questi trattati sul Cristo, sull’Incarnazione del Verbo anzitutto, poi sulla soteriologia, sul Cristo salvatore, sui sacramenti. Il resto è stato aggiunto dopo traendolo dalle sentenze di Reginaldo di Priverno.

Tutto deve concludersi con i novissimi: ben vedete che la terza parte finisce con l’esecuzione, cioè il regno si è compiuto, si arriva alla meta. La Somma è un’opera proprio geniale, meravigliosa, non ho parole per descriverla. Vedere per provare, come si dice, andate a vedere, provare per credere. Provate a leggere la Summa Theologiae e vedrete che gusterete questa profonda sapienza, tanto razionale e anche tanto elevata.

L’altra Summa, quella "Contra Gentes" è anche questa meritevole di attenzione, ha una struttura veramente interessante, decisamente apologetica. Si dice che San Tommaso l’abbia scritta proprio come manuale per i predicatori che andavano in missione presso i Saraceni. Allora c’era l’idea, secondo me anche giusta, di convertire gli infedeli e non tanto di fare dialogo o eucumenismo con loro. San Tommaso inquadrava la conversione in un dialogo con loro, però lo scopo del dialogo era quello di portarli al cattolicesimo, senza scherzi.

Scrive questa "Contra Gentes" con i primi tre libri che trattano gli argomenti naturali, proprio di filosofia naturale, poi il quarto libro, che tratta di argomenti teologici. Infatti San Tommaso è ben convinto, lo dice esplicitamente, (vedete come ci insegna il vero metodo apologetico), da un lato avere il coraggio dell’apologetica. Cioè non dire dialogo, dialogo e niente apologetica, ma dialogo apologetico. Certo dialogo signorile, nessuno è più signore di San Tommaso in queste cose, tuttavia dialogo in vista della conversione. Il sottotitolo di questa Contra Gentes è: "iter de veritate cattolicae fidis" cioè il libro sulla verità della fede cattolica. In San Tommaso non c’è una specie di commercio: "noi vi diamo un pezzettino del nostro dogma e voi ci concedete qualche cosa d’altro". Ad esempio, parlando con i luterani dire: voi accettate la Madonna e noi vi sacrifichiamo i Santi. Non è un compromesso serio. Per San Tommaso non ci sono compromessi, la pienezza della verità c’è nella fede cattolica, non per merito nostro, ma per bontà, per grazia di Dio.

Tuttavia dice che per dialogare, in vista della conversione, con gli infedeli bisogna sempre procedere fondandosi su quello che loro ammettono. E i gradi sono questi: con gli eretici cristiani, che si rifanno a Cristo, per esempio con Ariani ecc., bisogna disputare basandosi sul nuovo Testamento, perché loro accettano anche quello. Con i Giudei, che accettano l’Antico Testamento, bisogna disputare almeno in base all’antico testamento, ovviamente non si può disputare sulla base del nuovo testamento, perché loro lo rifiutano. Però non perché continuino a rifiutarlo, ma affinché lo accettino. Qualcuno potrebbe dire: "San Tommaso è estremamente moderno in questo", però la sua mentalità è quella di iniziare da quello che c’è di comune, per condurre poi alla pienezza.

Quando non c’è neppure il vecchio testamento, una cosa però rimane, (è ottimista San Tommaso), "quidiquid est intellegi potest", tutto ciò che è si può conoscere con la ragione. Quindi anche se manca il lume della fede, non dovrebbe almeno mancare la ragione. San Tommaso ahimè è più ottimista di me, dice: "natura non deficit in necessariis", la natura non viene meno nelle cose necessarie, non manca il lume della ragione naturale e quindi si può sempre disputare sul terreno della filosofia. San Tommaso ha capito bene l’importanza apologetica della filosofia, è estremamente importante. La mia vocazione tomistica si fonda in gran parte su questa convinzione: oggi per condurre anime alla fede e per consolidare la fede, è necessario appoggiarla su una solida filosofia.

Troviamo molte altre questioni disputate ad esempio sulla fedeltà, sull’uso del denaro ecc. Infine le quaestiones quodlibetales, de quo libet. Si distinguevano due tipi di disputazioni all’università: una era la disputazione diciamo così determinata, nel senso che l’argomento era fissato, si diceva: "Si discuterà sul tale tema" quindi gli studenti si radunavano, c’era il magister, il cancelliere, gli studenti e si disputava su quella determinata questione. Invece nei sacri tempi dell’avvento e della quaresima si diputavano le quaestiones quodlibetales. Pensate alla vita cristiana dell’università, mi dispiace per il rettore della nostra Alma Mater Bononiensis, il quale affermava che il merito dell’università di Bologna era stato quello di separare la cultura dal cristianesimo. Invece la cultura nasce dal cristianesimo. C’era l’antica cultura scaligera, prima di quella cristiana, ma quella universitaria, c’è poco da fare, nasce con il cristianesimo. Non solo, io aggiungo che finisce con il cristianesimo. Basta guardare come è ridotta l’università al giorno di oggi per rendersene conto.

Notate come al tempo di San Tommaso la vita cristiana rientra nello svolgimento delle lezioni universitarie, c’era quasi un divertimento penitenziale, in questi tempi ove la liturgia vestiva in viola, ci si incontrava per queste dispute de quo libet. Era veramente de quo libet, domande di ogni tipo, è interessante leggerle. Per esempio sulla liceità della confessione ai laici, dice San Tommaso, "se un Crucis signatus", un crociato in sostanza, "se rimane accerchiato dai nemici e teme per la sua vita, che cosa deve fare? Si può confessare ai cavalieri, che sono laici? E’ tutta una cosa pia, però non è una assoluzione valida". Dice la scrittura che dobbiamo confessarci i peccati gli uni agli altri, quindi sistema un poco la questione, nel dire che non è una confessione sacramentale, però è una cosa buona, la confessione all’altro. Altre curiosità, come il quesito con quali fasce la Madonna avvolse Gesù Bambino, oppure diatribe sul libro della vita, quello su qui l’Angelo porterà i nomi scritti , questioni disputate di diverso tipo.

Dopo l’analisi delle opere, che potete vedere sia dall’elenco delle edizioni Marietti, sia in altre edizioni, adesso affrontiamo la dottrina. Anzitutto il rapporto tra ragione e fede. Abbiamo già visto con Sant’Alberto che la filosofia si distingue nettamente dalla teologia. Ebbene San Tommaso corrobora fortemente questa convinzione. Distinzione, separazione, ma mai contraddizione. Combatte contro due fronti, contro gli agostiniani, dice: "C’è distinzione, non si può confondere filosofia con teologia e non si fa un’opera a favore della teologia non rispettando l’autonomia della filosofia" San Tommaso parte da questa ottimistica considerazione, (questa volta l’ottimismo è fondato), questa convinzione che la ragione non può che essere amica della fede. La ragione amica della fede.

Quindi dice: "La filosofia va rispettata nella sua autonomia". San Tommaso non sarebbe contento perciò dell’espressione "filosofia cristiana". C’è il cristiano che è anche filosofo, però il suo essere filosofo sarebbe un accidens rispetto al suo cristianesimo. Suona quasi orribilmente dire che uno è cristiano per accidens rispetto alla filosofia, cioè è cristiano per sé, per la salvezza della sua anima, essenzialmente per la sua anima, ma rispetto alla filosofia lo è per accidens. Autonomia della ragione: la ragione va rispettata nella sua autonomia, proprio perché lo splendore della ragione prepari la via alla fede, non che lo conduca alla fede, ma la prepari. La fede ha quasi la funzione di Giovanni Battista, prepara la via della salvezza. Quindi distinzione tra ragione e fede.

Tommaso combatte contro gli agostiniani che riducevano la filosofia al cristianesimo. San Tommaso dice: "No, la filosofia è disciplina razionale, a sé stante, anche i pagani hanno filosofi a pieno titolo", però poi si oppone alla teoria della duplice verità. Non è concepibile che uno possa dire: "Io come cristiano, dico che l’anima è immortale, ma come avveroista dico che l’anima non è spirituale", non è possibile . Si può citare la "Humani Generis" quella bella opera di Pio XII, il quale condanna tutte le tendenze pericolose della teologia moderna e tra tante tendenze c’è anche quella evoluzionistica. Il Papa dice: "Va bene, il cristiano in tema evoluzionistico non deve pronunciarsi si o no, è un tema scientifico. Però uno scienziato cristiano non è libero in materia del monogenismo o poligenismo, perché il concilio di Trento insegna autorevolmente che l’eredità del peccato delle origini viene trasmesso mediante le generazioni". Quindi sarebbe un’assurdità se la stirpe umana fosse generata sulla terra da molti luoghi, uno in Africa, mettiamo, e l’altro in Australia, uno potrebbe dire: "Bene, quelli dell’Africa hanno il peccato originale, quelli dell’Australia sono innocenti". Non è possibile, perché sono nati sotto il peccato. Vedete che qui la fede obbliga a fare opzioni anche a livello razionale, non di violentare la ragione, semplicemente essere coerenti

San Tommaso non avrebbe ammesso il discorso di oggi: "Io sono un buon cristiano, che va a Messa tutte le domeniche, però nel contempo in materia di evoluzione la penso come Darwin etc"

continua......


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Adesso vi cito un articolo dello stesso San Tommaso che mette molto bene in luce questa distinzione tra la teologia e filosofia, è nella prima parte della "Summa Theologiae" (quando dico "Summa" è sempre Theologiae, altrimenti dico "Contra Gentes"), quindi nella prima parte della "Summa", questione 32, articolo 1, (San Tommaso è molto sostanziale, senza fronzoli, però bello), San Tommaso dice: "Impossibile est per rationem naturalem ad cognitonem Trinitatis divinarum Personarum pervenire", è impossibile tramite la ragione naturale giungere alla cognizione della Trinità delle Divine Persone. Veramente San Anselmo tranquillamente pensava che si potesse pensare questa verità con la ragione, San Tommaso dice di no.

È impossibile per principio che la ragione umana giunga alla conoscenza della Trinità delle Persone Divine. E aggiunge: "Per rationem naturalem conosci possunt de Deo ea quae pertinent ad unitatem essentiae, non ea quae pertinent ad distintionem Personarum", cioè tramite la ragione, con l’aiuto della ragione naturale, si possono conoscere di Dio tutte quelle cose che riguardano l’unità della sua essenza, non quelle cose che riguardano la distinzione delle Divine Persone. Poi dice: "Qui autem", bella questa osservazione: "Qui autem provare nititur Trinitatem Personarum naturali ratione, fidei derogant", chi ci prova a dimostrare la Trinità delle Persone Divine con la ragiona naturale, deroga alla fede, oltraggia la fede. Interessante, uno potrebbe dire: "Ma come, avere questo discorso: consistente significa non contraddittoria rispetto ad altre posizioni".

Quindi è possibile elaborare un sistema di proposizioni che è privo di contraddizioni. Però le proposizioni non significano nulla, o se significano qualcosa non dicono il vero. Però non è possibile costruire un sistema che sia vero e che sia contraddittorio. La condizione sine qua non della verità è che non sia contraddittoria. Perciò nessuna verità su un ambito può contraddire una verità di un altro ambito. Noi abbiamo sia l’evidenza naturale delle verità filosofiche, che l’evidenza soprannaturale delle verità di fede. Le due evidenze, dato che ci forniscono la verità, non possono entrare in conflitto. Nel caso che un conflitto si costituisse, bisognerebbe riesaminare la situazione, cioè con ogni probabilità la nostra ragione non è riuscita o ad afferrare bene la dimostrazione filosofica o ad interpretare bene la Sacra scrittura. Però la colpa non è delle verità, la colpa è del nostro intelletto che non riesce in qualche modo ad afferrarla a pieno.

San Tommaso, dinanzi a Galileo, avrebbe poche critiche, avrebbe detto: "se la terra gira intorno al sole o il sole intorno alla terra non fa differenza, l’uomo rimane sempre centro dell’universo, tramite la sua costituzione metafisica. Non è la sua collocazione topografica che fa la sua centralità". Quindi avrebbe detto: "Il sistema eliocentrico non cambia nulla nella fede" . E’ molto importante questo, il saper distinguere il duplice aspetto della verità naturale e soprannaturale ed ammettere anche la loro perfetta complementarità, senza contraddizioni.

Riposate un pochino, poi di nuovo tornate alla santa predica.


Seconda parte


Secondo San Tommaso la ragione è a servizio della fede in quanto ne dimostra i preamboli, i "praeambula fidei", motivi di credibilità, cosa importantissima. Miei cari, il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo ha voluto che non solo avessimo la fede soprannaturale, ossia questa luce divina, partecipata alla nostra anima, per contemplare, sia pure in enigma, non ancora faccia a faccia, quello ci è promesso per la vita eterna, quella verità che è nascosta da secoli eterni nell’essenza di Dio, "alla Tua luce, o Signore, vedremo la luce", non solo noi nella fede conosciamo delle realtà di per sé sconosciute alla luce naturale della ragione, ma oltre questo, c’è un ambito esplorabile dalla ragione, con la luce naturale dalla ragione. Nell’ambito soprannaturale, ove si esige un supplemento di luce intellettiva, qui troviamo appunto la virtù della fede.

Nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo non voleva solo che l’uomo credesse sentimentalmente: "Io credo perché la fede è così bella!". È vero, è bella la nostra cara fede cattolica, però non basta, non è fede quella, miei cari, i fideisti non credono, è questo il guaio. Dice uno scritto romano del settecento, non ricordo bene di chi "Non è possibile credere, dubitando se Dio si sia rivelato", cioè l’adesione dell’uomo alla fede suppone l’evidenza della credibilità del fatto. Altrimenti io potrei credere a qualsiasi sciocchezza, io potrei credere alla reincarnazione, potrei credere ad Hari Krisna, se mi piacesse. Quindi importante è che io non solo dia l’adesione ad una verità ma che la mia adesione abbia l’evidenza della credibilità.

Motivi di credibilità sono i miracoli del Salvatore. Perché Gesù fa tanti miracoli? Non per accontentare la curiosità della gente, nemmeno per condurli alla fede, perché molti non hanno creduto, il miracolo non obbliga alla fede, però il miracolo dà la credibilità, dà l’evidenza che lì c’è il dito di Dio. Come dice Gesù stesso: "Con il dito di Dio, Io scaccio i demoni". Quindi il miracolo è un motivo di credibilità.

Un altro motivo di credibilità è la grande diffusione della Santa Chiesa. Ma il motivo più grande, il più bello è quello filosofico, è l’analogia fidei, cioè lo splendore dei misteri rivelati, la convenienza della rivelazione rispetto alla ragione naturale dell’uomo. Quindi San Tommaso si adopera bene a spiegare questi preambula fidei, cioè ad elaborare quegli elementi che portano la parte suprema della ragione quasi a contatto, (non a contatto di continuità, ma a contatto analogico, di partecipazione similitudinaria) con quella luce superiore che è la luce della fede.

Questo schema è un po’ neoplatonico, nel senso già detto da Plotino, che la realtà suprema dell’ordine inferiore arriva a contatto con la realtà infima dell’ordine superiore. A contatto, però non nel senso che ci sia una continuità, non che si passi da un ordine all’altro, c’è una certa similitudine, affinità e quindi bisogna coltivare la metafisica, la dottrina dell’essere, che è quella più affine alla dottrina di quell’Essere per sé sussistente, che è l’Essere Increato, che è l’actus purus essendi sussistens, ossia che è Dio. Questo actus purus essendi adesso lo conosciamo metafisicamente, inadeguatamente tramite l’essere comune, oppure si conosce analogicamente tramite la metafisica e poi tramite la fede. Quindi c’è un’affinità tra la fede che ci rivela la pienezza dell’essere sussistente in Dio e la metafisica in quanto tratta dell’essere in quanto essere. Non è la stessa cosa, però c’è un’affinità. Perciò il teologo buono deve coltivare la metafisica, la sapienza filosofica.

Esprimeva Domenico delle Fiandre un’idea che San Tommaso avrebbe subito fatta sua, diceva: "Qui ignorat methaphysicam, in theologia semper erit peregrinus", come la maggior parte dei nostri nuovi teologi. Allora i nostri nuovi teologi, che sono molto nuovi ma poco teologi, ebbene non coltivando sufficientemente la metafisica, combinano dei guai, perché la teologia suppone questa cultura metafisica, presuppone i preamboli della fede.

Notate che il Concilio Eucumenico Vaticano I autorevolmente stabilisce questo fatto, che la ragione umana può conoscere delle verità naturali rispetto a Dio e scomunica (tuttora scomuniche valide, sapete, anche dopo il Vaticano II), scomunica chiunque osasse dire che non è possibile dimostrare l’esistenza di Dio e di tanti suoi attributi. Ci sono delle verità naturali che sono dei preamboli rispetto alla fede. E non solo San Tommaso, ma tutta la Chiesa, che fa sua la dottrina di San Tommaso a questo riguardo, ci insegna che bisogna approfondire i preamboli della fede, per avere una fede sempre più matura. Mi commuovo talvolta quando sento delle persone buone, ma un po’ fideistiche, e mi preoccupo per quelle anime. Uno potrebbe dire: "Ma no, padre, non si preoccupi per quelle anime, sono buoni, credono…" invece no, la fede emotiva non è fede, le emozioni non sono il soggetto della fede, soggetto della fede è l’intelletto speculativo, c’è poco da fare. Che uno possa amare visceralmente il Cristo, come dice San Paolo, nei suoi fratelli, va bene, però la fede è assoggettata all’intelletto speculativo.

Per questo motivo è estremamente importante che la fede sia coltivata, proporzionalmente alla cultura del singolo credente, ma sia coltivata in maniera razionale, teologica, teologico-filosofica, perché la teologia implica sempre filosofia. Come l’ordine soprannaturale suppone la natura, secondo quel bel detto dei medioevali, che San Tommaso spesso cita, che dice "gratia naturam non tollit, sed supponit et perficit", (questo scrivetelo a lettere d’oro nelle vostre anime beate, cioè la grazia non toglie la natura, ma la suppone e la porta a compimento), come la grazia suppone la natura, così analogicamente, secondo analogia di proporzionalità propria, la fede suppone l’intelligenza.

Ora San Tommaso si fa esplicitamente la domanda se uno che ragiona troppo, non si metta al di fuori della fede, non diminuisca il merito della fede. Si fa questa domanda, lui è molto interessato a rispondere in un certo senso, ma penso che sia stato onesto a rispondere così nella Summa, questione 32, ove dice: "bisogna distinguere, se uno ha la pretesa di dimostrare la Trinità e dice: se tu apostolo, tu predicatore non mi dimostri la Trinità delle persone divine, io non ci credo" quel tale non ha merito di fede, si chiude alla fede. Però uno che ragiona non già pretendendo la dimostrabilità di quanto non è dimostrabile, ma svolgendo delle dimostrazioni, accettando le premesse della fede cioè svolgendo il lavoro di teologo, questo lavoro di approfondimento razionale della fede non solo non la danneggia, non solo non diminuisce i meriti, ma è segno di grande amore per le verità rivelate. Riguardo ciò che si ama, si è sempre attenti. In fondo la teologia significa usare le premesse della fede ed aggiungendo le premesse della ragione, esplicitare questi stessi principi della fede. La teologia arriva a delle conclusioni, servendosi della ragione, ma partendo dai principi di fede. Un uomo che ama un bene, è sempre attento a quel bene, lo coltiva, quindi se uno ama la verità rivelata da Dio, come potrebbe non pensarci, come potrebbe non coltivarla? In questo San Tommaso è molto amico di San Bonaventura, anche per lui il motore della teologia è l’amore, però l’amore non immediatamente, ma l’amore della verità, caritas veritatis, proprio il carisma dell’Ordo Praedicatorum.

San Tommaso non poteva essere che domenicano, in questo senso, era convinto di fare la carità suprema alle anime, conducendole alla verità. Le praeambula fidei, la cultura filosofica sono indispensabile per avere anche una adeguata cultura teologica.

Ahimè, al giorno di oggi così non è, la filosofia è considerata come qualche cosa di razionalisticamente indipendente e quindi come qualche cosa di immanentistico, che con la fede non ha assolutamente niente a che fare e poi dall’altra parte la fede viene considerata come qualche cosa che deve tenersi ben lontano da qualsivoglia filosofia, addirittura da qualsivoglia pensiero, cosa che è veramente avvilente e mortificante.

In questo senso San Tommaso è veramente è un grande maestro, ci dice che compito della ragione è porsi al servizio della fede, "Philosophia ancilla Thelogiae", vi spiegai già questa espressione molto bella, che non avvilisce per nulla la ragione, la sua autonomia, ma le dà la partecipazione a qualche cosa di più nobile, di più grande ancora. Il compito della filosofia, ancella della teologia è quello anzitutto di approfondire i preambula fidei, cioè colere metaphysicam, coltivare la metafisica, per avere molta convinzione riguardo a ciò che di Dio si può conoscere naturalmente.

Ho già detto, ma qui è il luogo per sottolinearlo, per illustrare questo stato di cose, che un fideista non riesce a dare una risposta soddisfacente. Un fideista dice: "Io amo tanto il Signore" e il poeta dice: "L’amore ti dà alla testa", spesso capita agli innamorati. E’ un gioco molto facile, con questi fideisti viscerali. San Tommaso dice: "Guarda che qui c’è l’obbiettività dell’essere, della realtà, di quella realtà che non si può negare, volendo mantenere in piedi l’evidenza. Questa realtà da cui io parto mi conduce in ultima analisi all’altrettanto obbiettiva, reale esistenza di Dio". Non è che con questo io abbia già la rivelazione, ma è il presupposto della obbiettività della rivelazione.

La Sacra Scrittura non contiene delle traveggole, come per esempio, Geremia avrebbe avuto nel deserto per quanto ha digiunato. Ho sentito anch’io una interpretazione di questo tipo: "Geremia ha digiunato troppo, poi gli è venuto un capogiro..", non è così. Perché? Perché Dio può rivelarsi obbiettivamente, come Dio obbiettivamente esiste e diventare interlocutore dell’uomo. Nella Scrittura non è l’uomo che parla a sé stesso, è Dio che gli parla.

Un altro compito della ragione rispetto alla fede è quello di esemplificare simbolicamente i contenuti della fede, la teologia simbolica, analogie, paragoni etc., esemplifica quelle verità difficili della fede. D’altra parte la stessa Scrittura si serve di questi paragoni con il linguaggio mistico, molto poetico. Per esempio, il Cantico dei Cantici è uno scritto eminentemente spirituale, che però si serve del linguaggio della poesia proprio dell’amore, della poesia riguardante l’amore nuziale, sponsale, per descrivere non tanto il rapporto tra l’anima e Dio, quanto il legame che esiste tra Dio e il popolo alleato con Lui nell’antico Testamento: l’alleanza di Israele con Dio è un’alleanza nuziale.

San Tommaso stesso dirà che la Scrittura volutamente si serve di simboli manifestamente quasi materiali, quasi sconvolgenti nella loro materialità. Un tomistico si metterebbe a ridere se sentisse sacerdoti anche buoni, che vogliono condurre i ragazzi a Dio e poichè sanno che i ragazzi fanno esperienze sentimentali, dicono: "è come quando uno vuole bene ad una ragazza". Non è come quando uno vuole bene, è tutta un’altra cosa voler bene al Signore. Però l’analogia è buona, ma solo come analogia, è questo il punto. Infatti San Tommaso sottolinea che si tratta di un’analogia metaforica.

La metafora è volutamente urtante, perché se fosse troppo spirituale, potrebbe indurci all’idolatria. Una creatura che appaia come angelica, potrebbe essere scambiata con Dio stesso. La Scrittura usa a volte termini materiali, dice che Dio con braccio esteso ha liberato i figli di Israele dalla casa di schiavitù, li ha condotti dall’Egitto alla terra promessa. Tertulliano commenta tranquillamente: "La Scrittura dice che Dio ha un braccio, quindi Dio ha un corpo", ma è un ragionare da testimoni di Jeova ante litteram. La Sacra scrittura volutamente usa il braccio, proprio per dire il contrario, non per dire che Dio ha un corpo, ma per significare la potenza di Dio con un simbolo molto umano, molo materiale, volendo significare, con il linguaggio umano più povero che ci sia, una cosa così sublime.

continua.......


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03/09/2009 09:33

C’è quasi una legge di inversa proporzione, più la Scrittura usa immagini banali, più sublime è il mistero che si cela in essa. San Tommaso conosceva tutta la dottrina della pluralità dei sensi della Scrittura, dice che c’è una pluralità anche dei sensi letterali, poi naturalmente dei sensi spirituali della Scrittura. Si chiede perché ci sono tanti sensi, anche letterali e fra le tante altre cose dice anche: "perché gli uomini si diano da fare". Quasi a dire, per dare lavoro agli esegeti, in sostanza, tanti sensi perché l’uomo si dia da fare per capire quello che si cela nelle divine Scritture.

Ovviamente lo scopo della ragione nella teologia è anche apologetico. Il teologo deve disputare con chi nega la fede. Non può dimostrargliela, però può smentire apparenti dimostrazioni dell’avversario. Se uno mi dice: "La Trinità è impossibile!", allora io gli chiedo: "Perché? Favorisca dimostrarmelo", dice : "Tre non possono essere uno!", io dico : "In che senso lei dice che tre è tre e uno è uno?", poi viene fuori che uno è per lui uno matematico e tre è ancora tre matematico. C’è da distinguere, distinguere oportet, e quindi cerco di condurlo dal tre matematico al tre metafisico. Vedete il metodo apologetico, in cui, più che in ogni altro settore, vale questa sapienza degli antichi scolastici, i discepoli di San Tommaso. Si dice appunto di un buon tomista: "Raro concedit, numquam negat, semper distinguit", raramente concede qualcosa, non nega, perché generalmente è buono, però distingue, distingue sempre, queste sfumature, coglie le sfumature del discorso. Questa è la funzione apologetica della ragione nell’ambito della fede.

La ragione è autonoma a causa dei suoi primi principi. I primi principi della ragione hanno una evidenza apodittica, sono certi, ovvi, non c’è bisogno di nessuna illuminazione, di nessun tipo da parte di Dio. San Tommaso respinge nettamente la tesi agostiniana della illuminazione divina. Quindi i primi principi della ragione, le famose verità eterne di San Agostino, le verità eterne per San Tommaso non derivano affatto dalla divina rivelazione, ma sono quelle verità che appartengono in proprio all’intelletto umano. Vedete come San Tommaso dà vita alla giusta autonomia dell’intelligenza umana e fa vedere come ridurre la creatura al Creatore, non è fare un piacere al Creatore, perché il Creatore si mostra grande nel decentramento delle sue creature.

Una creatura meschina, ridotta, non manifesta un Creatore grande. Una creatura robusta, (scusate se dico così, non penso alla robustezza fisica), robusta ontologicamente, ricca ontologicamente, una creatura ontologicamente consistente narra le meraviglie dell’ente, canta le glorie di Dio.

San Tommaso è ben convinto di questo, che Dio fece le creature dotandole di una certa autonomia persino da Lui, proprio perché questa è la più grande manifestazione della sua bontà. Quindi se l’uomo fosse pensante tramite l’intelletto divino, certo sarebbe una bella cosa, ma l’uomo non sarebbe uomo, l’intelletto non gli apparterrebbe. San Tommaso osserva sia negli agostiniani, sia negli avverroisti la disistima dell’uomo, la stessa disistima, disprezzo quasi implicito, per la natura umana. Gli uni credono che l’uomo pensa con il cervello dell’infima sfera animale, gli altri dicono che l’uomo pensa come la mente di Dio. In entrambi i casi non è l’uomo che pensa. Invece San Tommaso ha questa semplice convinzione che sia proprio l’uomo che pensi e con questo l’uomo è creatura, ma questa creatura dotata dell’autonomia dell’essere, del pensare, dell’agire rivela la grandezza di Dio. E’ comprensibile questo discorso? E’ un punto importante per capire questa impostazione tomistica. Perché talvolta ai cristiani di oggi San Tommaso appare quasi troppo profano, quasi empio (San Tommaso mi perdoni).

San Tommaso sottolinea l’autonomia della creatura per mettere in risalto la grandezza di Dio. In San Tommaso non c’è mai questo aut, aut, c’è questo et, et, c’è l’analogia, non la dialettica. Un guaio, ho letto un bel libro riguardo a Lutero, dice delle cose attendibili e tra l’altro dice che Lutero aveva la mentalità dialettica, o una cosa o l’altra, se non la prima, allora l’altra, come dire: "Giustificazione forense, allora non la grazia interiore". San Tommaso direbbe tranquillamente: "Ma c’è l’una e c’è l’altra". E’ chiaro che Dio mi giustifica con un atto di giustificazione esterna, dice: "Io ti perdono, figliolo", ma nel contempo mi dà la grazia che è l’effetto del suo perdono. Questa è la mentalità di San Tommaso che si potrebbe chiamare non dialettica, ma analettica, ricorre all’analogia.

Questo et, et ha diversi gradi di essere, non di un essere contro un non essere che si combattono a vicenda. Quindi in tal senso San Tommaso non dice: "Se c’è creatura, c’è poco Creatore", no, San Tommaso dice: "Più c’è della creatura, più c’è del Creatore, più l’uomo pensa, più è il riflesso di quel pensiero sussistente che è Dio". In questo senso, dice San Tommaso, l’intelligenza umana è autonoma, perché la luce della nostra intelligenza è in grado di cogliere i primi principi, che sono interamente suoi, mentre i principi di fede derivano, questi sì, dalla illuminazione divina. I principi di fede sono estrinseci, derivano da Dio, mentre i primi principi evidenti della ragione derivano dalla ragione stessa, prescindendo dai postulati di fede. Questi sono i principi evidenti, assolutamente indimostrabili, perché nella proposizione è per sé evidente il legame fra soggetto e predicato ed è talmente stretto, che non può esservi inserito un termine intermedio, non è suscettibile di dimostrazione. Anche in questo San Tommaso segue Aristotele che dice: "l’intelletto umano ha dei primi principi evidenti e su questa evidenza dei primi principi fonda poi le precognizioni".

Tuttavia la nostra intelligenza nel conoscere dipende da un lato dai primi principi, per sé evidenti, da un altro lato ha un’altra dipendenza, la dipendenza dei sensi. Vedete il realismo di San Tommaso. A San Anselmo diceva: "Guarda che mi piace la tua definizione di Dio come l’essenza assoluta, pensata dall’anima umana, però quello che noi pensiamo di Dio è ben poco, l’essenza non la afferriamo, se no sarebbe già la visione beatifica. Gli angioletti, mi dispiace, ma gli angioletti non li vedo". San Tommaso penso che si preoccuperebbe se li vedesse troppo spesso. Ogni tanto, in qualche atto mistico gli capitava anche questo, sapete che prima di morire ebbe questa visione, durante la celebrazione della Santa Messa (egli aveva tanta devozione eucaristica, sempre celebrava una Santa Messa lui, poi seguiva un’altra Messa come ringraziamento, poco liturgico secondo le ultime norme, ma è bello ringraziare con una Messa, per aver celebrato una Messa prima), durante una di quelle Messe, San Tommaso è entrato in estasi. Gli chiede poi fra Reginaldo, che era suo amico: "Maestro, perché non scrive più?", gli faceva quasi capire, poco fraternamente, che doveva morire presto. San Tommaso ha capito bene questa obbiezione implicita e dice: "No, non posso scrivere, perché ho visto delle cose davanti alle quali la Summa mi appare come una paglia.." Da quel tempo in poi gli anti-intellettualisti dicono: "Bé, anche San Tommaso dice che è tutto paglia, quindi chi ce lo fa fare studiare la Summa?". Però prima di dire che è tutto paglia, bisogna aver scritto tutta la Summa. Non ci sono scorciatoie nella divina filosofia. In tal senso San Tommaso era anche un grande mistico, ma aveva questo realismo nel dire che la visione di Dio, delle cose spirituali, non ci è data abitualmente. Quindi il nostro intelletto, di per sé, nella condizione naturale, è legato al senso.

La stessa conoscenza mistica sarà poi un’attuazione dei doni dello Spirito Santo, soprattutto del dono della sapienza, ma la conoscenza a noi connaturale è legata ai sensi: noi conosciamo astraendo dai dati sensibili. Vi anticipo ora questo, ma lo ripeterò, vi stancherò, ma è molto importante. San Tommaso è d’accordo su questo punto con Kant, Kant pure dice che la nostra intelligenza è limitata alla sensibilità, anche San Tommaso dice: "La nostra intelligenza si limita ai sensi", però, dice San Tommaso: "come punto di partenza, non come punto di arrivo". Kant ha una limitazione dell’intelligenza ai sensi nel punto di arrivo, San Tommaso nel punto di partenza. Noi nel dato sensibile, per astrazione, scorgiamo qualcosa che oltrepassa la sensibilità, ossia noi non abbiamo l’immediato contatto con l’intelligibile, noi contempliamo l’intelligibile nel sensibile, però nel sensibile noi non contempliamo solo il sensibile, ma anche l’intelligibile.

Quindi io le leggi dell’essere, dell’ente in quanto ente, non le contemplo in sé, se no sarei nella visione beatifica, io vivendo su questa terra conosco le leggi dell’ente in quanto ente nelle cose sensibili, però nelle cose sensibili afferro dei principi che appartengono alle cose sensibili, non in quanto sensibili nella loro contingenza passeggera, ma in quanto enti. Importantissimo questo, se si capisce questo, si capisce quasi tutto San Tommaso, dico quasi, ma è veramente fondamentale.

Notiamo poi che il trascendente è spiegabile con la estrapolazione analogica, cioè in qualche modo il dato sensibile è univoco, però nell’univoco si contemplano delle proprietà, che poi analogicamente competono al sensibile e a ciò che sensibile non è. Quindi è permesso all’intelletto umano dal sensibile, analogicamente, innalzarsi al non sensibile. Noi non possiamo vedere gli angioletti, ma possiamo ragionare sugli angioletti, checchè ne dica Kant. Tanto più su Dio.


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03/09/2009 09:34

Adesso in breve accenno solo alla fede, poi alla filosofia, per spiegarvi come San Tommaso distingueva questi due aspetti della ragione e della fede. La fede è interamente grazia, però non vale il discorso: "se la fede è grazia, io quella grazia non ce l’ho, quindi non credo". Sarebbe troppo facile. San Tommaso dice che la fede si può definire come l’adesione obbediente dell’intelletto speculativo alle verità rivelate. Questa evidenza o certezza la fede l’ha in comune con la scienza. Però la differenza sta qui, cioè nell’origine dell’evidenza, l’evidenza della fede non deriva interamente dalla ragione. Vi farò una sottile, bizantina distinzione, ma importante, cioè la fede si attua nella ragione, la fede è sempre un atto della ragione, ma non è un atto che ha la sua evidenza dalla ragione. Chi crede è la ragione, non è il cuore, né altre viscere, però non ha la sua evidenza interamente nella ragione. Mentre la scienza non solo è propria della ragione, ma anche la sua evidenza deriva interamente dalla ragione. Non amo tante parole, perché diceva già Lucrezio, di beata memoria, che sarebbe stoltezza compiacersi troppo in questi giochi di parole, che in filosofia sono inevitabili. Questa distinzione tra fede della ragione, ma non dalla ragione mi sembra non possa distinguersi in altri termini.

Il credente crede con un atto di ragione, però l’evidenza della fede, che il credente ha in comune con lo scienziato, questa evidenza non deriva dalla ragione, come nella scienza, ma da che cosa? Ecco la domanda: "da che cosa?" E qui San Tommaso si manifesta, (perché lo era), un grande discepolo di San Agostino. Non lo segue da per tutto, come abbiamo visto, ma qui lo segue e dice: "la fede è un assenso cogitato", da cogitare, pensare, con assenso. Questo assenso è dato dall’amore della verità rivelata, l’amore è una disposizione della volontà, quindi ci deve essere la volontà che muova la ragione in direzione di Dio, che ci fa aderire alla verità rivelata. Chi muove la volontà? Ecco qui la grazia attuale: l’inizio della fede in San Tommaso è la grazia attuale di Dio, che muove la volontà, la volontà muove l’intelligenza e l’intelligenza, aderendo alla verità rivelata, (questo atto di condizione soprannaturale), induce l’atto di fede.

Adesso parliamo della teoria della conoscenza, gnoseologia. Qui San Tommaso è in disputa con tutti i moderni. E non a caso i sommi Pontefici, quasi idolatri agli occhi dei moderni, si raccomandavano ai frati, ai preti e compagnia bella di ritornare a San Tommaso :"ite ad Thomam!", esclamava ancora il Papa Giovanni XXIII, ripetendo la frase "ite ad Joseph", quando Giuseppe era in Egitto e il padre diceva ai fratelli "ite ad Joseph!", quando i fratelli di Giuseppe avevano fame, andavano in Egitto, "andate da Giuseppe che vi darà da mangiare!". Diceva Giovanni XXIII ai suoi preti: "Ite ad Thomam!" e loro non lo hanno seguito, significa che la fame del corpo ha ben più esigenze della fame dello spirito, "Ite ad Tomam!", perché? Perché la depravazione (scusate se parlo schietto), la depravazione dei tempi moderni, (questa moderna calamitas di cui parla Pio X nella "Pascendi Dominici Gregis", il grande santo pastore della Chiesa), questa modernistica depravazione consiste anzitutto nel soggettivismo e non c’è medicina più serena, più buona, più solida, più robusta e più chiara nel contempo del tomismo.

Il modernismo tenta questo duplice gioco riguardo al tomismo: o non prenderlo in considerazione oppure metterlo in sincretismo con Kant, Hegel, Haidegger. C’è l’uno e l’altro metodo, ma non praevalebunt. San Tommaso avrà ancora la meglio, perché è fin troppo lampante, leggendo in certe pagine di Haidegger come distorce San Tommaso, per adeguarlo a Kant. Insomma fra San Tommaso e Kant non ci sono possibilità di scendere a patti, non c’è possibilità di una certa concordia tra un sistema genialmente soggettivistico, come quello kantiano (vedete bisogna avere rispetto di questo grande pensatore, io l’ho perché veramente, Kant è un grande filosofo, uno dei più grandi), ma certamente con realismo, come dicevano una volta i bravi commentatori di San Tommaso, come diceva padre Garrigou Lagrange, oggi un poco nel dimenticatoio, il quale sottolineava quella che è la consapevolezza di San Tommaso, che non c’è composizione tra soggettivismo e realismo epistemologico con una posizione non contraria, suscettibile di qualche cosa di intermedio, ma contraddizione come l’opposizione tra l’affermazione e la sua negazione, senza la possibilità di mediazione. Purtroppo è così, bisogna avere anche il coraggio dei contrasti. Pur stimando l’intelligenza, tuttavia quia magna res agitur, si tratta di una grande cosa, questa opzione (che poi opzione non è, ma evidenza), questo incamminarsi in un senso o nell’altro determina tutta la filosofia. Tutto il pensiero dipende da questa direzione, direbbe Hegel, da questo dirimere la questione se il pensiero dipende dall’essere, come dice San Tommaso, o se l’essere dipende dal pensiero, come dice Kant. Non c’è altra possibilità.

San Tommaso è convinto che la facoltà conoscitiva, tutte le facoltà conoscitive, non solo l’intelletto, anche i sensi, tutte le facoltà conoscitive siano transoggettive. Uso una parola difficile, ma poi è facile comprenderla, voi che siete avvezzi alla divina filosofia, quindi conoscete anche i vocaboli. Tutte le facoltà conoscitive sono transoggettive, trans vuol dire "al di là", cioè oltrepassano la soggettività, incontrando ovviamente l’oggetto. Quindi sono aperte alla rappresentazione dell’oggetto. San Tommaso ha questa bella domanda nella Summa, cioè se l’intelligenza conosce le proprie idee o se conosce l’essere tramite le proprie idee, una domanda ben posta. Il soggettivismo moderno risponde: "La nostra mente non conosce l’essere, conosce il proprio pensare", allora ovviamente in ultima analisi l’esistenza di Dio non può essere ammessa, perché esiste solo la mente, che sia autodivinizza

Il sottoscritto, l’avete ben capito, crede ancora agli spiriti del male e vede qui l’aspetto satanico, demoniaco di questa autodivinizzazione dell’uomo, il quale pensa di poter determinare l’essere tramite il pensiero. E’ chiaro, qui c’è già implicitamente, anche se non si trae la conseguenza esplicita, c’è già la negazione di Dio. Dio, per me, in quel momento non esiste, perché l’essere non l’ho ricevuto, l’essere ce l’ho perché lo penso. "Cogito ergo sum", però nel senso santo della parola: Cartesio è innocente, fino a quel punto non ci arriva. Il peccato delle origini: mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, la mela non è quello che la gente generalmente pensa. Un peccato molto raffinato quello delle origini, la superbia intellettuale. Non il peccato di aver pensato, come dicono i marxisti, quando ripetono che i cattolici considerano il pensare un peccato. San Tommaso sarebbe un grande peccatore! Il peccato non è quello di pensare, ma quello di presumere di determinare, con il pensiero, l’essere. Invece San Tommaso è convinto che non è il pensiero che determina l’essere, ma è l’essere che determina il pensiero.

Solo Dio si può permettere il lusso di essere idealista, perché solo Dio determina l’essere, distinto da Lui, ovviamente, perché il suo essere non è determinabile, però tutti gli altri esseri distinti da Dio sono determinati dal pensiero di Dio. Quindi l’uomo che pensa di poter pensare le proprie idee, indipendentemente dall’essere, è un uomo che si pone al posto di Dio. Qui c’è veramente una affinità con la demonologia, l’antropologia diventa demonologia.

San Tommaso aveva questa convinzione che la mente umana è transoggettiva, cioè aperta all’oggetto e vi cito, per avviare il discorso che completeremo domani, questo bel testo di San Tommaso nel De Anima, cioè il commento al De Anima di Aristotele, terzo libro, ottavo capitolo, lezione 13, ove San Tommaso dice così: "Per hunc modum dicitur intellectus in actu esse, ipsum intellectum in actu", "in questo modo l’intelletto in atto si dice la stessa cosa intellettivamente conosciuta in atto". Che cosa vuol dire? Per San Tommaso l’atto di cognizione consiste nell’attuare identità tra il conoscente in atto e il conosciuto in atto. Molto profonda questa osservazione. L’essenza della conoscenza consiste non nel passaggio dalla potenza all’atto: le cose fisiche si muovono passando dalla potenza all’atto, le cose conoscenti non hanno un’attività fisica, hanno un’attività psichica, cognitiva, intenzionale, che consiste non nel passaggio dalla potenza all’atto, ma nella presenza di un atto a un altro atto, nella fusione di due atti. L’atto dell’intelligibile è l’atto dell’intelletto, l’intellegibile e l’intelligente si fondono nell’atto dell’intelligere, cioè nell’atto dell’intelletto umano.

Prosegue poi San Tommaso: "In quantum species intellecti est species intellectus in actu", cioè in quanto la specie della cosa conosciuta, è la specie dell’intelletto conoscente in atto. Notate bene che nel concetto noi rappresentiamo la cosa esterna quanto alla sua specie. Quindi la stessa specie che costituisce l’uomo (tanto per fare un ovvio esempio), è nell’uomo in quanto all’essere. La stessa specie c’è anche nel concetto, quanto al conoscere intellettivo. C’è identità tra la specie rappresentata e la specie che c’è nella cosa e che nel contempo è la stessa specie nell’intelletto conoscente. Vedete il modo di essere è il vero, la specie è il conoscere. Cioè l’umanità conosciuta è un duplice conoscere: è l’umanità in Deo e l’umanità nella mia intelligenza, mentre mi riconosco come uomo. Quindi ha un essere più sicuro ed un esse cognitum, ma l’umanità è sempre la stessa.

"Anima data est homini loco omnium formarum", l’anima è stata data all’uomo in luogo, in sostituzione quasi, di tutte le altre forme, "ut sit homo quodadmodum…."affinché l’uomo sia in qualche modo tutto l’ente. Vedete il privilegio dell’uomo, come Dio ci ha voluto bene creandoci uomini! Dio ci ha dato un’anima che in qualche modo è tutto l’essere. Tutte le altre cose extraumane sono solo sé stesse, il canarino è un canarino e basta, poi ha qualche impressione sensoriale e basta. Invece l’anima umana, intellettiva è non solo sé stessa, cioè l’uomo, ma è anche tutte le cose che conosce, universalmente. San Tommaso dice, commentando Aristotele, che l’anima umana è data in luogo di tutte le forme, perché l’uomo sia in qualche modo tutto l’ente. "In quantum secundum animam est quodamomodo omnia", bello questo "quodamomodo omnia". Cioè l’uomo, secondo la sua anima, è in un certo qual modo tutte le cose. La sua anima determina due esistenze nell’uomo: uno l’essere fisico dell’uomo, poi tanti esseri.

Secondo San Tommaso l’intelletto, facoltà di un’anima legata al corpo, dipende da un lato dai sensi, ma nel conoscere le entità materiali, procede per astrazione dai corpi. Quindi per il legame coi sensi l’anima non conosce se non tramite i sensi, dall’altro lato però ha anche l’emergenza dai sensi. Tramite che cosa? Tramite l’astrazione. Cioè l’anima parte dal dato sensibile, ma non si ferma ad esso, trascende il dato sensibile su cui si appoggia la sua conoscenza, l’anima lo trascende tramite l’astrazione intellettiva.

Ci sono molti che si chiamano tommasiani per non chiamarsi tomisti, sono un po’ sofisti, il fatto è che i tomisti erano della brava gente, prima hanno capito tutto San Tommaso, certo, ma i grandi maestri hanno sempre la sfortuna di non essere mai capiti in tutto. Io stesso vi confesso che San Tommaso mi sembra un tale gigante, che ho sempre gli stessi sentimenti di Savonarola, il quale diceva che leggeva la Summa per esercizio di umiltà. Entrare nella Summa è come entrare in un tempio, quella elevatezza, come quella di una cattedrale, che toglie il fiato, come Notre Dame di Parigi o altre: viene meno il fiato nel vedere queste volte così slanciate verso l’alto. Analogamente la Summa Theologiae provoca lo stesso effetto di ammirazione, quello che San Tommaso stesso avrebbe chiamato timore riverenziale. Non bisogna pretendere che tutti i tomisti abbiano capito tutto San Tommaso, il grande Gaetano, Priceps tomistarum, certamente mette in evidenza tanti aspetti giusti, altri aspetti li vede un po’ meno bene, ma c’è la complementarietà nella scuola tomistica.

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03/09/2009 09:35

C’è chi dice: "Si vis intelligere Caietanum, lege Thomam" questa è un po’ una malizia, sapete il Gaetano era il grande commentatore di San Tommaso, del cinquecento, ebbene questo dire "se vuoi capire Gaetano leggi San Tommaso è poco carino verso il Gaetano, come dire, il commento è del tutto inutile, per capire il commento, bisogna interpretarlo alla luce del testo originale. Questa è una cattiveria, nel senso che il Gaetano spiega tante cose, però non sempre è ligio alla lettera di San Tommaso, quindi bisogna leggere sempre entrambi, cioè bisogna leggere San Tommaso, la lettera, il testo, poi i commentari cardinalis Caietani, (bellissimi sono soprattutto i commenti di San Giovanni di San Tommaso, una cosa monumentale, stupenda). Purtroppo la parte metafisica, la filosofia non c’è. C’è la logica, la psicologia, ma non c’è la metafisica. C’è invece un "Cursus Theologiae" completo e quindi le implicazioni metafisiche le vedrete poi eventualmente nel cursus theologicus. Perché dico questo? Il pensiero tomistico è qualche cosa di vivo, qualche cosa che continua, che và sempre avanti. E’ curioso che questi innovatori ad oltranza amino fare delle cesure nella storia, per annientare la tradizione.

Quindi gli scolastici, giustamente interpretando San Tommaso, sogliono differenziare l’oggetto formale, che è quello che dà specie alla conoscenza, cioè specifica, determina il tipo di conoscenza dall’oggetto materiale. Quello materiale è la cosa in sé, la cosa conosciuta, ogni cosa, in quanto conoscibile, è l’oggetto materiale. Non ha tanta importanza la cosa che si conosce, quanto piuttosto l’aspetto sotto il quale la si conosce. Questo si chiama l’oggetto formale. Vi posso fare un esempio tratto dalla teologia delle virtù teologali, la speranza e la carità hanno lo stesso oggetto materiale: Dio, non cambia. Nessuna virtù teologale può avere come fine, come oggetto, qualche bene creato, sia la speranza che la carità si rapportano a Dio. Tuttavia vi si rapportano in maniera diversa. La carità ama Dio perché è Dio, la speranza anche essa ama Dio, ma non tanto perché è Dio (anche quello!), ma soprattutto perché Dio è beatificante rispetto all’uomo. La speranza vuole Dio per noi, la carità vuole Dio per sé. Sono virtù tutte e due, anche se vi erano dei rigoristi che negavano la validità della speranza: i protestanti, i giansenisti, tendono a questi slanci dell’amore più puro, senza interesse. Lutero che dice: "Io voglio andare all’inferno, è questo il vero amore". No, il buon Dio non ha piacere che tu voglia andare all’inferno, il Signore vuole che lo amiamo con purezza, ma anche con questo santo interesse di andare non all’inferno, ma in paradiso. Quindi la carità non è inquinata dalla speranza, la carità però è incommensurabilmente superiore alla speranza, questo è giusto affermarlo.

La differenza sta proprio nel modo di rapportarsi della volontà all’oggetto. E’ sempre la volontà che si rapporta a Dio, in questo non c’è differenza, ma è l’aspetto del rapportarsi che è diverso: la speranza vuole Dio per noi, come la beatitudine dell’anima, mentre la carità vuole Dio in sé, vuole che Dio sia Dio, si compiace nel fatto che il Signore sia così grande.

Quindi la speranza e la carità non sono distinte né dal soggetto, né dall’oggetto materiale, ma dall’oggetto formale. L’oggetto formale si distingue ancora in oggetto formale comune e proprio (vedete gli scolastici che belle distinzioni! edificano sempre con questo rigore logico), quindi l’oggetto formale comune e l’oggetto formale proprio. L’oggetto formale comune è quello che compete a una facoltà in quanto è sé stessa, cioè quella determinata facoltà. L’oggetto proprio le compete in quanto è così concretamente realizzata.

L’oggetto proprio le compete in quanto è così in questo determinato modo concretamente realizzata, per esempio l’intellettualità realizzata nell’uomo in maniera imperfetta, cioè a titolo di razionalità discorsiva. Adesso applichiamo questo concetto alla intellettualità e alla razionalità. L’oggetto formale comune spetta all’intelletto in quanto è intelletto, non si differenzia ancora l’intelletto di Dio, degli Angeli e dell’uomo, l’intellettualità in sé. Poi l’oggetto formale proprio è quello che si addice alla facoltà in quanto è realizzata in quel determinato modo, perfetto o imperfetto, in quel soggetto: perfettissimamente in Dio, più perfetto riguardo all’uomo negli Angeli, meno perfettamente nell’uomo. Sicché l’oggetto formale comune dell’intelletto in quanto intelletto, altro non è se non l’ente in quanto è: la realtà, il reale, in tutta la sua estensione, in tutta la sua ricchezza. Siccome l’ente è ciò che ha l’essere, in ultima analisi l’ente in quanto ente comprende in sé, come sommo analogato, l’essere, che è l’ipsum esse, lo stesso essere. L’intelligenza umana intravede con una prospettiva come di rana, anziché con una prospettiva di aquila, vede l’essere da quaggiù in su, invece che da lassù in giù, come fa l’aquila.

In sostanza ogni intelletto mira alla comprensione dell’ente in quanto ente e del suo sommo analogato che è l’ipsum esse. Anche il nostro intelletto ci ha aiutato, molto sporadicamente. Perciò questo è l’oggetto formale comune di ogni intelletto. Però il nostro intelletto umano, come oggetto formale proprio, ha la capacità di acquisire le cose materiali, cioè l’essenza delle cose materiali, l’essenza dei sensibili. Vedete questa dualità è molto importante, questo sdoppiamento dell’oggetto formale comune e proprio è molto importante, soprattutto nell’intelligenza. Così vedete che sia Dio, sia l’Angelo, sia l’uomo sempre conoscono l’ente, solo che Dio conosce l’ente tramite la pienezza dell’essere, l’Angelo tramite la spiritualità della sua essenza, l’uomo tramite un’essenza che non è nemmeno spirituale.

E’ quello che bisogna dire contro Kant: Kant dice: "dal dato sensibile non si può passare a qualche cosa che non è non è afferrabile con i sensi". Invece San Tommaso è del parere ben contrario, dice: "E’ vero che noi conosciamo solo la quiddità delle cose sensibili, però nella quiddità delle cose sensibili conosciamo le leggi dell’essere, che competono al sensibile, non in quanto è sensibile, ma in quanto è ente". Quindi l’uomo è capace di metafisica, non solo è capace, ma è obbligato ad essere metafisico, giacché lo è per natura. Pensateci bene, perché qui c’è proprio l’opposizione tra San Tommaso e Kant, Kant che determina in gran parte la mentalità moderna che è nettamente antimetafisica, perciò stesso, dico io, antiumana. Non c’è da meravigliarsi che la vita moderna si disumanizzi sempre più, bisogna tornare alla metafisica per darle un’impronta di umanità di nuovo. Bisogna elevarsi sopra all’uomo, per diventare uomini. Questo è l’insegnamento tomistico dell’oggetto formale comune e proprio. Non bisogna accontentarsi di contemplare nel sensibile il sensibile, come fa la scienza. E’ già molto e gli scienziati ci riescono con grande perfezione, però è poco rispetto a quello che è il nostro dovere, dobbiamo contemplare ben di più, cioè lo stesso essere nel sensibile. Sempre nel sensibile, purtroppo, perché non siamo né angeli, né tanto meno Dio, però nel sensibile possiamo e dobbiamo contemplare, anche se con minore precisione, pure l’essere in quanto tale, l’ente in quanto ente.

Mi sono spiegato? Questo mi conforta al massimo, perché questo è un tema non facile, ma siccome lo riprenderemo spesso (voi lo sapete che io sono ripetitivo in certe cose, in certi pallini che ho, li tiro sempre fuori) allora penso di avere ancora occasione di parlarne.

Quindi abbiamo detto che l’intelletto nella conoscenza stessa dell’oggetto suo proprio, che è l’attività delle cose materiali, procede astrattivamente: è l’astrazione dell’intelletto. Conoscere è astrarre. Con voi, miei cari, talora posso anche sfogarmi, quindi vi comunico anche le mie emozioni personali, quando sento certe sciocchezze. Una di queste sciocchezze è quando si dice: "Sa, padre, quel discorso è molto bello, ma è troppo astratto", bisognerebbe anzi dire: "Quel discorso è molto bello, perché è molto astratto". Il fatto è che la concretezza coincide con l’imbecillità, scusate la mia schiettezza. Solo l’astrazione è intelligenza, l’astrazione si identifica con l’intelligenza, l’astratto è bello. Perché? L’astratto è l’intelligibile, l’astrazione è quel processo in cui si rende intelligibile ciò che causa la sua materialità, di per sé non intelligibile. La qualità che c’è nell’uomo lo obbliga ad elevarsi al di sopra della materia, partendo dalla materia. Quindi l’uomo parte dal dato sensibile, ma non si ferma ad esso, perché è il senso che conosce il sensibile, ma l’intelletto, tramite il senso, fondandosi sul senso, conosce il suo oggetto, che va al di là del sensibile, benché parta dal sensibile. Come è possibile trascendere il sensibile, partendo dal sensibile? Ebbene, intellettualizzando il sensibile, questa intellettualizzazione del sensibile è una sua immaterializzazione, ovvero una sua universalizzazione. L’astrazione è un processo di immaterializzazione ed universalizzazione e perciò stesso il processo di rendere intelligibile quello che di per sé non è tale.

Il materiale, il concreto non è intelligibile, già Aristotele diceva: "De singularibus non est scientia". Ovviamente parlava formalmente, non diceva: "Io non conosco un uomo singolo, una cosa singola", no conosco i singoli, ma tramite l’essenza universale, non conosco il singolo in quanto è singolo, conosco il singolo tramite il concetto che è universale.

Ci siamo? Allora procediamo con coraggio. Dunque San Tommaso dice che il processo della conoscenza è anzi tutto un processo astrattivo. Questa astrazione per sé (non l’ho previsto nel corso su San Tommaso annuale, lo accenno brevemente), questa astrazione è di un duplice tipo, si parla di astrazione totale e formale. Lo accenno appena, perché lo vedrete poi in epistemologia. L’astrazione totale è quella che astrae il tutto dalle sua parti inferiori. Per esempio: il concetto uomo che astrae dai singoli uomini. Come vedete, questa astrazione totale, che astrae il tutto dalle parti inferiori, cioè tutto l’uomo, da tutti gli inferiori che sono Tizio, Caio e Sempronio, questa astrazione è però depauperante, cioè svuota il contenuto del concetto, la tipica astrazione logica. Giustamente si dice: il concetto è esteso, ma è povero di contenuto, questo è il tipo di astrazione totale. Poi c’è l’astrazione detta formale, questa astrazione prescinde dalla parte materiale, mantenendo la parte formale. Non è la separazione del tutto da tutte le parti, ma è la separazione della parte formale dalla parte materiale, l’astrazione della forma, si potrebbe dire. Così per esempio per conosce l’anima, come il costitutivo dell’uomo, si astrae l’anima dal corpo. Anche l’essenza, considerata come forma, non come universale, ma come forma costitutiva della sostanza, anche l’essenza è afferrata a livello di una astrazione formale, l’essenza che fa parte della sostanza.

Il genere è astratto dalla specie, la specie dagli individui, tramite l’astrazione totale. La forma è astratta dalla materia e l’essenza dalla sostanza concreta, tramite l’astrazione formale. Naturalmente l’astrazione metafisicamente, conoscitivamente decisiva è quella formale, che però sempre suppone anche quella totale. La formazione del concetto è astrazione totale, però poi nell’astrazione totale, grazie ad essa, si afferra la parte formale.

L’astrazione formale a sua volta si colloca a tre livelli di astrazione, ove, per quanto abbiamo visto, l’astrazione è conoscenza. Conoscere significa astrarre, tuttavia fra questi tre gradi astrattivi non significa di per sé che uno sia meglio dell’altro. Sotto un certo aspetto, si può anche dire che indicano una maggiore nobiltà dell’oggetto intelligibile, il terzo grado ha un oggetto più nobile, in quanto la sua intelligibilità, rispetto il secondo e il secondo rispetto al primo. Tuttavia nell’uomo, nell’intelletto imperfetto come quello umano, la nobiltà dell’oggetto è accompagnata dalla imprecisione di conoscenza che se ne ha. Quindi se la metafisica conosce Dio e la matematica conosce dei rapporti di quantità, è chiaro che la metafisica è superiore alla matematica per quanto concerne l’oggetto, però la matematica è ben più precisa della metafisica, perché la metafisica è balbuziente rispetto a Dio, la matematica fa un preciso discorso rispetto alle quantità.

San Tommaso dice sempre che quel poco che sappiamo di metafisica è ben più prezioso di quel molto che con tanta precisione sappiamo nelle altre discipline. Questo un filosofo deve sempre meditarlo in cuor suo: questo detto è più che giusto.

Allora i tre gradi astrattivi sono questi: il primo grado di astrazione astrae dalla materia infima, lasciando da parte la materia individuale, la concretezza, ultimamente determinata, mantenendo però la materia sensibile universale, specifica. Faccio un esempio banale, pensiamo alla zootecnica, uno zoologo studia i cavalli e chissà quanti altri animali domestici. Ciò che interessa di per sé non è l’individualità del cavallo, quello che lo interessa è effettivamente il suo essere cavallo, ovviamente poi con i vari tipi dell’animale, ci possono essere varie razze, etc., quindi lo zootecnico astrae da varie individualità del cavallo, afferra però che cosa? Afferra il cavallo, ciò che spetta al cavallo, ad ogni cavallo, per così dire, l’anatomia, la fisiologia di ogni cavallo in quanto tale, astraendo da quella istanza concreta, non lo interessa quel tale cavallo.

[…]

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03/09/2009 09:36

Lo zootecnico studia quello che prescinde dalla materia individuale, da quello o quell’altro animale, mantenendo però l’animale nella sua materialità sensibile specifica. Alla cavallinità, per usare un termine platonico, spetta avere materia, avere corpo, anche se si astrae dalla differenziazione individuale. Il secondo stato di astrazione è quello matematico, la matematica considera la quantità astratta, la fisica moderna è molto dipendente dalla matematica, quindi si potrebbe pensare che sia in qualche modo uno stato intermedio tra il primo e il secondo grado astrattivo. Voi mi dite, perché la quantità? La quantità si può rendere in qualche modo indipendente dalla sostanza a cui appartiene, proprio perché la quantità, essendo proprietà della materia, precede la costituzione della sostanza tramite la forma.(è una cosa curiosa, pensateci voi stessi, io ve lo propongo come tema di meditazione).

Questo è già un esistenzialismo che gli altri accidenti non hanno. E’ possibile in qualche modo porre la quantità di per sé, cioè separandola dalla sostanza a cui appartiene, così il matematico non è interessato a sapere se il due e il tre che fanno cinque insieme sono mele, pere o che altro. Ai bambini si insegna la matematica con i numeri concreti, ove vi è rilevanza se il tre sono pere o mele, la matematica cerca poi di sganciarsi da questo. Interessa il due, tre quattro, cinque in sé, non rispetto a ciò che è quantificato, la materia specifica non c’è più. Nel cavallo la materia è specifica, nel due, tre o cinque non c’è materia specifica, non c’è la materia della pera o della mela o del cavallo, però una materialità intelligibile, la chiamano gli scolastici, ci deve pur essere, perché la quantità è una proprietà della materia. Quindi il matematico, considerando le relazioni di quantità, struttura un qualche cosa che lui pensa a modo materiale, senza che sia materiale. Pensate che la matematica più avanzata parla di spazi, uno spazio topologico non esiste, però questi rapporti complessi di quantità li struttura sapendo che c’è qualcosa di strutturato e allora lo chiama spazio, in linea teorica li chiama campi.

Tutte immagini abbastanza materiali, che danno ragione a San Tommaso in questo, quindi anche la matematica modernissima, euclidea è definibile perfettamente in chiave del secondo stato astrattivo, cioè si astrae sempre dalla realtà sensibile, però poi la matematica è molto indipendente, può immaginarsi numeri che non esistono, degli spazi a N dimensione, però partendo sempre dalla fondamentale astrazione di uno spazio che esiste. Non è il caso che mi si dica: "Padre, lo spazio N dimensionale non è estraibile dai sensibili", certamente no, però lo spazio tridimensionale certamente lo è, poi se gli aggiungo N-3 altre dimensioni, questa è una estrapolazione astrattiva che è consentita dal tipo di astrazione matematica.

Non posso estrapolare da una cavallinità qualunque altre proprietà, nella matematica invece sì, c’è più libertà, io ho dinanzi a me una materia intellettiva quantificabile, e la quantifico facendo delle supposizioni, parto da assiomi e deduco dei teoremi, anche dei teoremi che poi non hanno corrispondenza nel mondo sensibile. Questa è l’astrazione matematica.

L’astrazione metafisica invece è quella che prescinde da ogni tipo di materialità, anche dalla materia diciamo così intelligibile, prescinde persino (questo è molto importante), dalla stessa differenza fra materia e forma, da materia e spirito. Quindi studia anche le forme materiali, ma facendo come se non fossero materiali, anzi l’uomo non può studiare nella metafisica se non le cose materiali, però studiando, nelle cose materiali, ciò che si applica anche al di là delle cose materiali. Una volta c’era un nostro confratello che ci predicava gli esercizi spirituali, mi è rimasto impresso, mi citò un suo maestro di filosofia che fece stupire, per esemplificare come dagli esseri infimi si può dedurre la realtà più sublime, diceva che un buon metafisico è in grado di dedurre tutta la metafisica da uno sterco di cavallo. Diceva: "c’è tutto, c’è la sostanza, ci sono gli accidenti, c’è la disposizione accidentale, c’è una certa operatività". Comunque questo metafisico entusiasta si servì di questo esempio decisamente estremo per spiegare che nella realtà sensibile infima si deduce tutta questa bellezza dell’essere, dell’essenza, della forma, della materia, delle forme separate, delle gerarchie angeliche, tutta la metafisica è deducibile dal dato sensoriale, da cui facciamo astrazione in concreto, ma comunque da qualunque dato materiale, si può dedurre tutta la metafisica.

Questo è molto importante, il metafisico non perde l’aggancio con la materia. E’ questo che spesso si obbietta contro la metafisica. Noi siamo antimetafisici, perché? Perché noi conosciamo solo il dato sensibile. Anche San Tommaso lo sapeva, ma San Tommaso sapeva che nel sensibile c’è l’universale, c’è l’intelligibile, c’è l’essere. In ogni sensibile, anche nel più modesto, in tutto l’universo, nessuna cosa esclusa, c’è la partecipazione dell’essere ed anche la partecipazione similitudinaria della suprema essenza, che è quella divina. In qualche modo l’uomo per quanto è legato ai sensi, è però in grado di elevarsi al di sopra dei sensi, ed essendo in grado, è anche obbligato a farlo.

San Tommaso dice: "tutta questa dottrina è fondata su un moderato realismo" ed ancora: "Nello stesso dato sensibile è insito l’universale. In questi strati ci sono gli elementi materiali". Per esempio nel tavolino, che cosa c’è? C’è il pezzo di legno, di una determinata specie, un botanico potrebbe fare l’analisi di questo legno, potrebbe prendere un campione e vedere a che specie di albero appartiene. Ecco le tre dimensioni nelle quali allo sguardo del metafisico e comunque dello scienziato, si svela la realtà delle cose partendo dal sensibile. Il primo colpo d’occhio, la prima dimensione, è quella di vedere la specie della cosa materiale. Il botanico, da un tavolino, che è già una materia più nobile, il botanico fa vedere che appartiene a quella specie di albero di cui fa tutta la storia, come l’albero è strutturato, quali sono le sua proprietà. Il matematico considera nel tavolino, che cosa? La qualità astratta, lo misura, fa vedere a quali leggi quantitative di estensioni sottostà, lo studia da geometra, nel senso classico della parola, nel senso che misura le cose. Però il misurato è concreto, la misura è astratta, quindi l’operazione matematica è dalla parte del misurante.

Infine il metafisico considera il tavolino né come una natura fisica, né come una quantità estraibile a livello matematico, ma lo considera come un ente. Allora si chiede: il tavolino è una essenza? E’ una sostanza? Che tipo di sostanza è? Subito scopre per esempio che il tavolino non è sostanza, è un artefatto, quindi è un accidens. Si chiederà di quali sostanze è composto, dal legno, dal ferro. Perché il legno è una sostanza? Perché ha una struttura essenziale etc. Queste sono le domande che si fa il metafisico, invece il matematico, lo scienziato naturalista non si pongono queste domande. Ecco i tre attimi di rivelazione dell’universale nel concreto: c’è questo oggetto formale, ai tre tipici gradi di astrazione questo oggetto nella sua universalità è insito nel concreto. Sono riuscito a spiegarmi? Oggi lo Spirito Santo me la manda proprio buona, perché non è facile.

Ricordate quello che dice San Tommaso: solo l’universale è conoscibile. De singularibus non est scientia, dunque l’uomo conoscendo si converte ai fantasmi sensibili, alle rappresentazioni sensibili, per compiere l’astrazione.

Bisogna fare un collegamento con Kant, che mi pare importantissimo, Kant diventa soggettivista perché è estremo nominalista. La tesi di Kant dice: "Tutte le proposizioni necessarie ed universali sono a priori". Dunque l’universale necessario non c’è nell’oggetto, sta unicamente dalla parte del soggetto. Perché Kant dice questo? Ebbene, per partito preso, perché secondo lui, nominalista come era, l’universale non esiste in re, dove esiste? Nelle forme della soggettività, nelle forme a priori della sensibilità, come categorie dell’intelletto. Notate questa anima nominalistica della filosofia kantiana. San Tommaso avrebbe contestato Kant dicendo che l’universale a priori non puoi dimostrarlo, perché l’universale è insito nelle cose stesse. Il cavallo concreto, certamente è concreto, ma non si riduce nella sua concretezza, è portatore di proprietà che sono comuni anche ad altri cavalli, così è per tutte le altre cose. Quindi bisogna vedere come nel concreto si realizza qualche cosa che oltrepassa il concreto, questo permette all’uomo, all’intelligenza umana, di partire dal sensibile, ma di trascenderlo mediante il processo dell’astrazione.

Ora l’astrazione psicologicamente procede così: ci sono cinque sensi esterni, i quali sono coordinati dal senso detto comune, il primo senso interno. Interessante come i neurologi approvano molto la dottrina di San Tommaso sui sensi interni, proprio perché vedono una corrispondenza con le tesi moderne. Quindi c’è una specie di coordinamento dei sensi esterni. Notate che tutti i sensi esterni hanno un organo corporeo, per esempio la vista è nell’occhio, però anche qualche cosa di psichico, che è localizzato nel cervello, nel sistema nervoso, il nervo ottico, poi i centri cerebrali della vista. San Tommaso insiste nel dire che i sensi sono organicamente legati, quindi anche il senso interno è il primo senso comune che coordina il dato sensibile, di per sé disparato. Dice San Tommaso nella teoria del sogno: "Noi abbiamo talvolta dei sogni un po’ strani, proprio perché il senso comune non coordina, è come se le sensazioni accumulate durante la giornata, mantenute nella memoria sensitiva, nella fantasia, fossero non più dominate dal senso comune, quindi in qualche modo ci sono delle cose assurde che uno può sognare". Il senso comune è coordinatore.

Poi c’è la fantasia immaginativa, l’immaginazione, che elabora già minimamente, visualizza il sensibile, c’è la memoria sensitiva e la vis estimativa, la memoria sensitiva che conserva questi fantasmi, questi elaborati immaginativi e possiede una certa prontezza nell’evocarli, secondo la legge dell’associazione. E’ qui appunto a livello della memoria sensitiva che si colloca quello che noi chiamiamo la memoria psicologica, il processo inconscio dell’associazione. Poi c’è la vis estimativa, che è qualcosa di conoscitivo, ma conoscitivo per appetito, per istinto, una conoscenza tramite l’istinto. San Tommaso la spiega dicendo: "La pecora appena nata trova da mangiare presso la mamma senza aver bisogno che qualcuno glie lo indichi, trova immediatamente il nutrimento. Così poi, quando cresce, impara a mangiare l’erba e via dicendo. Sicuramente fugge il nemico naturale, il lupo, le pecore non hanno bisogno di dirsi a vicenda che il lupo è pericoloso, per istinto fuggono il lupo". E’ ovviamente banale, però illustra questo fatto, che anche l’inclinazione istintuale dà un’informazione.

Questa vis estimativa avrà la sua importanza, perché nell’uomo poi si chiamerà la vis cogitativa o la ratio interior, si avvicina già molto alla ragione. Aristotele ha questa affermazione un po’ amena, per la verità cioè dice che la pecora fuggendo il lupo è già in grado di annunciare una proposizione negativa, cioè con la fuga nega il lupo, mentre il nutrimento lo afferma, quindi ha già la capacità di giudizi affermativi e negativi.

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03/09/2009 09:37

Ora importante è questo: i sensi esterni in qualche modo raccolgono i dati che sono poi ordinati dal senso interno, il così detto senso comune. La fantasia fa una rudimentale astrazione, che però non giunge all’universale, ma ha questo di proprio, che riesce a mantenere, conservare, fissare il dato sensibile. La fantasia non solo in qualche modo eleva il dato sensibile, ma è in grado di percepirlo anche là dove l’oggetto sensibile non c’è. Il senso può elaborare solo alla presenza della sensazione, la fantasia no, è indipendente. E’ interessante questa elevazione della fantasia. Ora nella fantasia ci sono i dati sensibili come sigillati e mantenuti, conservati ed è sulla fantasia che fa leva l’astrazione. L’astrazione non si fa direttamente sulla percezione sensibile, ma bensì sui fantasmi conservati dalla fantasia stessa e dalla memoria, che poi è in grado di rievocarli. Noi, quando pensiamo, tiriamo fuori dal registro della memoria sensitiva. Facciamo l’esempio del tavolo. Quando io dico "il tavolo", concettualizzo, vi porto il concetto del tavolo, tuttavia nel contempo mi ricordo di qualche tavolo particolare, dal quale io ho astratto il tavolo come tale. C’è sempre ricorso ai fantasmi. Introspettivamente ci rendiamo conto che è proprio così. San Tommaso era d’accordo.

L’astrazione ritorna sul fantasma, questo dato sensibile rielaborato dalla fantasia, tramite l’intelletto agente, il quale è pura attività intellettiva, privo di contenuto, è la pura attività di concettualizzare, non passa dalla potenza sensitiva. E’ un puro atto, non di contenuto, di essenza, ma puro atto di attività intellettiva. Si potrebbe quasi dire, (qui vedete la parentela tra uomo e Dio, il Signore non si offenda, non è la stessa cosa), ma si potrebbe dire che come Dio è l’atto puro di essere, così l’intelletto agente è l’atto puro di svolgere in qualche modo un’attività astraente (non di pensare, perché i contenuti non ci sono). L’intelletto agente illumina il fantasma e lo eleva in maniera tale da astrarne l’atto umano, il concetto. Il concetto in un primo stadio, in una prima tappa si chiama la specie impressa, perché astratto dall’intelletto agente, il concetto è ricevuto dall’intelletto detto possibile. Poi l’intelletto possibile, pensando alla specie impressa, esprime questa specie come specie espressa, che termina con l’intelletto possibile. Quindi la specie impressa è il mezzo tramite il quale si conoscono le cose. Ma questo bisogna che lo facciamo la prossima volta, perché abbiamo già fatto tardi, quindi chiedo scusa. Finiamo il discorso quando ci vediamo la settimana prossima. Vi ringrazio tanto della gentile attenzione, buon fine settimana.




Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, amen. Ti rendiamo grazie o Signore Dio Onnipotente per tutti i tuoi benefici, tu che vivi e regni nei secoli dei secoli, amen.

Di nuovo grazie.



San Tommaso, la dottrina, parte seconda



Carissimi, abbiamo già visto in parte la dottrina della conoscenza di San Tommaso. Raccomando molto alla vostra attenzione quello che abbiamo detto, come l’anima umana sia considerata da San Tommaso quasi la forma di tutte le forme. Partendo da Aristotele, San Tommaso mette in rilievo questa apertura universale dell’anima intellettiva. Già l’anima sensitiva è dotata di conoscenza, però una conoscenza sempre materiale e particolare. Il materiale è sempre concreto, la parte individuale è sempre materiale, le sostanze materiali sono individue, sono concrete. Invece il processo dell’intelligenza è un processo di concettualizzazione e quindi di universalizzazione, Perciò la nostra anima è in grado di cogliere non solo le forme della materia, come il senso, che poi è la forma della materia nella concretezza, ma la nostra mente è in grado di cogliere la forma nel suo essere forma, questo si chiama processo di astrazione.

Questa capacità dell’anima di avere presente in sé la forma della realtà altrui, in quanto è altrui, avere in sé la forma nella sua alterità, fa sì che la nostra anima sia in qualche modo tutte le cose, come dice già Aristotele, "quodammodo omnia". Ed è interessantissimo questo, cioè la nostra anima non è solo, per così dire, sé stessa, non è solo la forma del corpo umano, ma anche ha la funzione di essere la forma di tutte le cose, di ricevere in sé in qualche modo tutto l’ente e tutte le differenze dell’ente, tutto il reale e tutte le differenze e le sfumature del reale. Questo fa sì che la teologia tomistica, già a livello naturale, filosofico (perché qui siamo in filosofia) fa vedere come l’uomo sia portatore nella sua anima di una somiglianza con Dio. Infatti è proprio di Dio essere non solo qualche cosa in particolare, ma essere eminentemente tutte le possibilità dell’essere, in Dio non c’è nessuna possibilità di essere che rimanga non attuata. Non è ovviamente che Dio sia per esempio il minerale o la pianta, certamente no, ma Dio è infinitamente più che un minerale o di una pianta, quindi tutte le differenze dell’essere sono in qualche modo racchiuse in Dio. Similmente nell’uomo tutte le differenze dell’essere sono racchiuse nell’uomo, perché l’uomo non è pari a Dio, però ci sono nell’uomo tutte le differenze dell’essere in quanto al pensiero, perché se io non sono il tavolino, tuttavia io posso pensare al tavolino. Si potrebbe dire che la concezione filosofica tomistica faccia vedere la verità dell’uomo, quale essere che, pur nella sua finitezza entitativa, tuttavia è infinitamente aperto sotto l’aspetto della intenzionalità. Qui mi pare che la filosofia moderna abbia molte difficoltà.

E’ interessante questo paradosso dell’uomo, l’uomo si pone al confine tra il finito e l’infinito: questa è la sua grandezza, ma anche la sua grande tentazione. In fondo il peccato delle origini è proprio quello di aver scambiato il pensiero con l’esistenza, una tentazione tremenda. Il nostro idealismo (scusate se butto lì nella filosofia un poco di teologia), il nostro idealismo moderno è rifare il peccato di Adamo, cioè mangiare dall’albero del bene e del male significa avere la pretesa, non già di fare qualche peccatuccio banale (quando penso alla mela penso ai peccatucci piuttosto superficiali)), non è questo il peccato di Adamo e di Eva: l’aver mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male significa aver la pretesa di determinare la differenza fra il bene e il male, che è la stessa differenza che corre tra l’essere e il non essere con il solo pensiero. Questo solo Dio può farlo, perché solo Dio, in cui il pensiero è l’essere, determina l’essere con il pensiero. L’uomo con il pensiero pensa l’essere, ma non lo determina.

Ora l’uomo è dotato di questa apertura infinita, Aristotele dice: "In fondo gli dei non hanno dato all’uomo nessuno strumento di difesa" non abbiamo i denti, come gli animali, gli artigli, però abbiamola mente e abbiamo la mano, che è lo strumento degli strumenti, così che possiamo con la mano elaborare qualsiasi strumento adatto alla difesa o al lavoro. Similmente con la mente possiamo in qualche modo adattarci a quella che è la realtà che ci circonda, molto meglio di quanto non si adattino gli animali. Una cosa molto curiosa, si riconnette con il problema dell’evoluzionismo. E’ paradossale, Darwin non la spiega bene questa faccenda, già ammesso per assurdo che l’uomo si sia evoluto da qualche scimmione o da qualche altro animaletto, non ha importanza quale, il fatto è questo che se c’è qualcosa di disadattato, se c’è un ludus naturae, un gioco, quasi una presa in giro della natura, ebbene è davvero il cervello, la mente umana, perché è veramente un guasto della natura, qualcosa di disadattato in partenza, che però si adatta nelle conseguenze. Quindi non è così facile spiegare nei termini di puro adattamento all’ambiente il nascere del cervello. Certamente, di per sé, almeno nelle origini, il cervello è molto disadattato, perché il cervello tende a divagare, a distrarsi, a porsi sopra alle nuvole, anziché adattarsi ai rigori dell’ambiente che ci circonda, quindi io credo molto di più a queste meditazioni platoniche, aristoteliche, che fanno vedere come in fondo l’uomo è un animale sprovveduto, al quale poi gli dei danno un dono, che non è un dono particolare, ma un dono universale, che contiene in sé, nonostante la sprovvedutezza, tutti gli altri doni.

Quindi come l’uomo ha la mano che è lo strumento di tutti gli strumenti, così l’uomo ha la mente che è forma del corpo, il pensiero che è in grado di pensare ogni reale, ma di pensarlo, non di crearlo e di determinarlo. La tentazione della filosofia moderna è di pretendere che l’uomo sia il buon Dio e quando si accorge che l’uomo non è il buon Dio, se la prende con il buon Dio. Sartre, Camus, tutta la faccenda dell’esistenzialismo moderno, farebbe ridere, se non facesse piangere, questo uomo che pretende di essere Dio! Poi si riconosce dio fallito, ma non gli viene in mente neanche per sogno che potrebbe avere un riflesso del divino, senza però essere Dio. Però è molto importante vedere questa imago Dei, questa apertura universale dell’anima. L’uomo è portatore di pensiero, è portatore dell’infinito, portatore di una realtà veramente infinita. Questo è San Tommaso nel suo commento al De Anima.

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03/09/2009 09:38

Ora l’ultima volta ci siamo fermati a questo processo astrattivo, cioè abbiamo visto come l’intelletto, a differenza del senso che conosce i particolari, conosce la realtà diversa dal soggetto, ogni conoscere consiste nell’aver presente il diverso in quanto è diverso, aver in sé qualche cosa che non è sé stesso, qualche cosa di altro. Anche gli animali hanno in sé la conoscenza, la capacità di ricevere in sé la rappresentazione di altro da sé, però ricevono questa rappresentazione solo nel concreto, non hanno una capacità di astrarre la forma in sé stessa. Io dico sempre forma e materia. Invece nell’uomo c’è la capacità intellettiva. Sottolineo con veemenza questo fatto, perché mi sta a cuore, sentendo questi discorsi materialistici, il volgare materialismo che dilaga un po’ da per tutto al giorno di oggi, che si camuffa in apparenze diverse dal materialismo. L’angelo delle tenebre si traveste da angelo della luce, altrimenti non farebbe nessun colpo, non trascinerebbe all’inferno nessuna anima, se non rendesse l’inferno un po’ appetibile, così il materialismo si camuffa con il pragmatismo. L’agire è bello, il contemplare è un pregiudizio borghese, l’agire è bello, il fare è il sommo dell’uomo. Per di più c’è questa tendenza a dire: "Il concreto è bello", il discorso astratto è un discorso in qualche modo emarginato in partenza, Socrate non ha fortuna ai nostri tempi, come non l’aveva in Atene. Il fatto è che il materialista quasi istintivamente compie un processo estremamente metafisico (quello che il metafisico sa), dicendo che la materialità è sorgente di concretezza, l’uomo non metafisico lo intuisce, cioè lui sa che la materialità è concretezza, quindi ama la concretezza, perché ama la materialità.

Si dice al giorno di oggi: "Che prediche astratte dobbiamo sentire! No, concretezza, ci vuole, bisogna parlare del terzo mondo!". Non voglio esagerare ma il fatto è questo: bisogna pensare che astrazione è intelligenza, perché? Perché la nostra mente conosce immaterializzando il suo io. L’oggetto, in quanto è materiale e concreto, non è intelligibile, manca di intelligibilità. Dice già Aristotele, molto saggiamente, "de singularibus non est scientia", e non lo sarà mai. Noi potremmo inventare microscopi elettronici potentissimi, ma il concreto, in quanto è concreto, non lo conosceremo mai. Conosceremo i quark, ma non li conosceremo nella particolarità in quanto è particolarità, sempre avremo un concetto di quello che è un quark o mesone o qualche particella subatomica.

In sostanza la nostra mente astrattiva adatta l’oggetto al ricettacolo che è essa stessa, che è immateriale. Ora la nostra mente si sforza e riesce a conoscere, a separare conoscitativamente, non entitativamente, qui c’è l’errore di Platone, dice Aristotele, l’unico errore di Platone sta in questo: che lui ha scambiato il pensiero con l’essere, ma non alla maniera degli idealisti moderni, i quali pensano che l’essere dipenda dal pensiero. Platone faceva dipendere piuttosto il pensiero dall’essere, ma sempre identificandolo. Secondo Platone il vero essere è l’essere pensato, ma è l’essere, l’essere reale, che è l’intelligibile e l’intelligente. San Tommaso commenta l’errore di Platone, seguendo Aristotele, in questi termini, esso consiste nell’aver pensato che le cose esistono come noi le pensiamo. Siccome noi pensiamo le cose come stato di astrazione, cioè di separazione, Platone pensava che le cose esistessero in stato di astrazione. Platone ha perfettamente ragione in quanto al pensiero, non in quanto all’essere. L’uomo ideale di Platone esiste, ma esiste nella nostra mente, non esiste nella realtà. Però ogni volta che noi pensiamo formiamo un concetto, basandoci su un dato sensibile, ma innalzandoci al di sopra di esso.

Ora questo processo di astrazione è compiuto da una duplice facoltà intellettiva. C’è una certa dualità, nella volontà e nella intelligenza, perché la volontà è una facoltà che tende al fine e tendendo al fine, assieme al fine, per giungere al fine considera anche i mezzi. San Tommaso infatti giustamente paragona la volontà al movimento. Non che la volontà sia movimento, perché qui si tratta di analogie, ma nella volontà c’è qualche cosa di analogico al movimento. Se un treno si muove, per esempio da Bologna a Roma e fa via Firenze, attraverso Firenze arriva fino a Roma, non c’è un movimento fino a Firenze ed uno fino a Roma, c’è una fermata di mezzo. La volontà si muove verso il fine ultimo, ma nella intentio, nello stesso movimento volitivo coinvolge anche i mezzi.

Invece l’intelletto, a differenza della volontà, che è una facoltà motiva, l’intelletto è una facoltà rappresentativa, la conoscenza è sempre rappresentativa. Però questo essere presente, siccome avviene tramite l’astrazione, bisogna pensare che sia l’attuazione della mente umana per mezzo dell’intelligibile in atto. Vi ricordo ancora questo perno, attorno al quale gira tutta l’epistemologia realistica di San Tommaso, cioè l’identità reale tra l’intelligibile e l’intelletto nell’atto dell’intelligenza. San Tommaso ha questa bellissima frase che dice: "l’intelligibile e l’intelletto in atto sono la stessa cosa, si identificano". In qualche modo ciò che è l’atto della cosa conosciuta, diventa anche l’atto della mente pensante. Per esempio, se io al tavolino (faccio questo esempio che è vicino), se io penso al tavolino, che cosa faccio? Astraggo la sua forma e la imprimo nella mia mente. Ora la mia mente, quando conosce, quando è in atto di conoscere, sottostà alla stessa forma alla quale sottostà il tavolino fisicamente. La mia mente, nel conoscere l’oggetto, sottostà conoscitivamente, astrattivamente alla stessa forma alla quale sottostà la realtà fisica conosciuta. Importantissimo questo: identità della forma. La forma poi che assume due aspetti diversi, notate come si pone nella dottrina tomistica nella distinzione tra essenza ed essere. C’è l’essenza della forma, che è sempre la stessa, che però assume due modi di essere, uno ce l’ha già, fisico, l’altro lo riceve dall’astrazione della mente. Notate che la mente è attuata dall’aver presente non tutta la forma, che è materiale, ma la forma separata per astrazione dalla cosa.

A questo punto giustamente San Tommaso è d’accordo con Aristotele, anche se ci sono coloro che si dichiarano tomisti e che si ribellano contro questo sdoppiamento, che mi pare che sia inevitabile. Certo non bisogna moltiplicare gli enti senza necessità, ma qui mi sembra che la necessità ci sia, c’è uno sdoppiamento tra intelletto agente e intelletto possibile. L’intelletto possibile riceve l’attuazione dalla forma astratta, dal concetto, però il concetto per poter attuare l’intelletto possibile, deve in qualche modo essere derivato dalla cosa nell’intelletto possibile. Ora chi compie questa attività di derivazione, di astrazione della forma, per imprimerla nell’intelletto possibile? Certo non l’intelletto possibile, perché nulla, che è in potenza, può indurre sé stesso dalla potenza all’atto, quindi bisogna pur pensare all’intelletto agente. Intelletto agente, pur non essendo l’essere, altrimenti sarebbe Dio in persona, il puro atto di pensare, il contenuto pensato, questo intelletto agente, è una specie di luce che illumina l’oggetto. Però una luce attiva, se volete, come la luce che cade sull’oggetto divino, è una luce che illumina ed estrae la forma, attivamente, l’intelletto agente estrae questa forma che è nella materia, per imprimerla poi in questo substrato della separazione intenzionale- astrattiva, per imprimerla nell’intelletto.

In questo processo di astrazione (voi lo sapete dalla psicologia, vi dico cose già conosciute, ma poiché rientrano nel tomismo, bisogna pur dirle) in questa astrazione l’intelletto agente, che è la causa principale, il fantasma sensibile, l’immagine sensibile elaborata dall’immaginazione, è come strumento della stessa astrazione. Notate che in ogni pensiero umano c’è sempre la conversione, il fantasma, San Tommaso è sempre molto realista, la nostra mente è sempre molto legata ai sensi. Non solo la prima volta, quando noi formiamo il concetto, cioè ci facciamo alla materia sensibile, ma abbiamo anche una memoria sensitiva in cui rimane impresso il fantasma che abbiamo elaborato prima, quando facemmo la prima astrazione. Quindi ogni volta che noi pensiamo ad un concetto, in quel concetto è contenuto il primo fantasma, da cui lo abbiamo astratto, anche se l’oggetto sensibile non c’è più. Talvolta vi sono dei sorprendenti aspetti psicologici, ci si ricorda anche della propria infanzia, poiché succede che l’astrazione avviene quando vi è l’uso della ragione, quel momento felice in cui si risveglia la razionalità, a questo punto avvengono le prime astrazioni. Pensando, ad esempio, ad un tavolino, si pensa a un tavolino che uno ha visto a cinque anni, è persino un po’ buffo. Non è che sempre uno si renda conto dell’astrazione, però sempre c’è questa connotazione del sensibile in ogni concetto. C’è questa dualità: il fantasma sensibile, che è il punto di partenza e poi il concetto che viene astratto. ……..



continua....


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03/09/2009 09:39



Seconda parte della dottrina



S. Anselmo ha chiarito solo una cosa: non che Dio esista realmente, ma che l’essenza di Dio non è pensabile, se non come esistente, ma l’esistenza che io penso di Dio è un’esistenza solo pensata, non un’esistenza reale, da qui l’esigenza di un confronto del giudizio tra l’essere pensato con l’essere reale. Quindi per arrivare ad un giudizio che rappresenti non un essere puramente pensato, ma un essere reale, bisogna partire da qualche cosa di reale e nel contempo conoscibile dall’uomo.

Ora ciò che è realmente per noi, ciò che si conosce da parte nostra, è l’oggetto proprio della nostra mente, l’attività delle cose materiali, il mondo sensibile. Ecco perché San Tommaso esclude tutte le prove, tranne quella cosmologica, che parte dal dato sensibile.

Perciò Dio, che è il primo intelligibile in sé, è l’ultimo inteso, cioè conosciuto intellettivamente da noi. Noi abbiamo bisogno di dimostrare l’esistenza di Dio e lo possiamo solo fare partendo dalle realtà più umili, più basse nella scala dell’essere, però delle quali abbiamo la certezza che esistano realmente. Ora le prove tomistiche sono cinque: sono le celebri vie per dimostrare l’esistenza di Dio. Queste cinque vie dimostrative, suscettibili di esplicitazioni diverse, ma raggruppabili in questi cinque tipi, hanno una struttura paradigmatica comune: partono sempre dal dato sensibile, per elevarsi a Dio tramite la causalità.

Questa salita a Dio tramite la causalità avviene oltrepassando il dato sensibile e questo è possibile solo se il dato sensibile è visto come qualche cosa di dipendente da altro. Quindi, per aprire la strada a Dio, bisogna in qualche modo afferrare quello che io chiamo la insufficienza ontologica del dato sensibile. Cioè il dato sensibile è un ente, che però non è pienamente ente, cioè è un ente finito, limitato, dipendente, causalmente dipendente. Si fa vedere, alla base delle prove, in quanti modi un ente sensibile, da me afferrabile, dipenda da altro, dall’essere, in quanti modi è causato.

I tipi di causalità su cui San Tommaso fa leva sono anzitutto la causalità efficiente, passiva ed attiva: passiva essere causato ed attiva causare, però in dipendenza da un’altra causa che mi muove a causare. Poi la causalità quasi materiale, la contingenza del sensibile, la non necessità del sensibile, la corruttibilità del sensibile. Ancora la causalità formale estrinseca od esemplare, il fatto che le perfezioni limitate dipendono dalla perfezione illimitata, non partecipata, essenziale. Ed infine la causalità finale, delle tendenze teleologiche, finalistiche, che dipendono da un finalizzatore. Finalizzatore, non architetto del mondo di massonica memoria, finalizzatore creatore, cioè il creatore delle finalità, non architetto come un uomo che prende i mattoni e costruisce il mondo. Questo meriterebbe del tempo, mi limito a dire che San Tommaso insiste col dire che l’essere è dato all’essenza secondo la proporzione dell’essenza stessa. Quindi Dio è causa datrice dell’essere, questo è il punto delicato, solo Dio ha questo attento rispetto dell’essenza, solo Lui può averlo, perché raggiunge l’essenza finita tramite l’essere che infonde all’essenza. Una essenza entra in conflitto con un’altra se si agisce sul piano essenziale, cioè una essenza contro un’altra essenza, mentre in Dio non c’è un’essenza che entra in conflitto con un’essenza finita, ma è un datore di essere che dona un essere partecipato alle essenze limitate. Ecco come San Tommaso in chiave metafisica, cioè in chiave della dottrina dell’essere dell’essenza, riesce filosoficamente ad interpretare questo fortiter et suaviter, su cui abbiamo meditato anche all’inizio dell’avvento, quando abbiamo cantato quella bella antifona che parla della sapienza che raggiunge i confini dell’universo, con fortezza e dispone tutto con soavità. Iddio pervade tutto con l’essere, però l’Essere si adatta ad ogni essenza, quindi dispone tutto con soavità. Questa è la chiave di lettura che è appunto l’analogia entis.

In tal senso non si pone il problema della libertà e della predeterminazione divina. Dio predetermina la libertà all’uomo libero, determina la libertà a determinare sé stessa. Ovviamente è da distinguere la necessità di infallibilità e la necessità di coazione, cioè se Dio mi predestina a fare del bene, in quel determinato momento, ebbene allora io lo farò, ma ciò non toglie che io lo farò liberamente, perché la libertà si dice rispetto alla causa seconda, la infallibilità rispetto a quella prima. Quindi un’azione può essere benissimo infallibile, nel contempo libera. Infallibilmente accadrà che io liberamente faccia del bene. Questo è un po’ la formula. Similmente San Tommaso risolve una questione un po’ capziosa, c’è chi dice: "Ma se c’è la predestinazione, inutile pregare, perché con la preghiera non posso cambiare nulla". San Tommaso dice: "Attenzione, il Buon Dio conosce tutto, ma conosce anche le tue preghiere, quindi ha tutto predisposto, ma lo ha predisposto tenendo conto anche di quello che tu dirai nella tua orazione". Quindi pregare non guasta, più si prega, meglio è e la predestinazione non toglie nulla né alla preghiera, né alle opere buone. Vedete come San Tommaso è sempre attento sia a questa supremazia di Dio, a questa trascendenza di Dio, ma nel contempo alla consistenza delle cause seconde. Il fascino della dottrina tomistica sta proprio in questo: l’aver sempre dato il primato a Dio, ma senza schiacciare, anzi promuovendo al massimo quella che può essere la consistenza degli enti derivati da Dio, quelli che sono enti per partecipazione e non per essenza. Inutile che ci dilunghiamo.

Accenniamo solo brevemente alla politica secondo San Tommaso. Egli ha anche degli scritti politici, sia il commento ad Aristotele, sia il famoso scritto al re di Cipro. Si dice che il re di Cipro avesse delle inclinazioni tiranniche e che fosse alquanto sorpreso da queste tesi sovversive, a suo modo di vedere le cose, di San Tommaso. Pensate che lo stesso Santo Padre Pio IX ebbe un piccolo sussulto quando i domenicani gli presentarono le tesi di San Tommaso, perché sapete che Pio IX col Sillabo (giustamente, secondo il contesto storico) ha condannato i tirannicidi, perché è troppo facile dire che uno è tiranno per ammazzarlo, altrimenti qualsiasi gruppo sovversivo può trovare questa legittimazione. Questo anche San Tommaso lo dice chiaramente, dice che sono sempre i cittadini meno onesti che gridano contro il tiranno, ad ogni disposizione, ad ogni autorità, subito c’è una sommossa da parte dei cittadini, non sempre i più edificanti.

Quindi non c’è dubbio che Pio IX fece bene, il Sillabo è un’opera stupenda. Però ricevette una scossa leggendo San Tommaso, che asseconda in sostanza la tesi degli antichi, secondo la quale uccidere un tiranno, che però sia oggettivamente tale, non è peccato. Bisogna però che non si faccia per vendetta privata, ma deve essere proprio legittima difesa. San Tommaso dice che la tirannide è una specie di guerra civile, cioè è una guerra che il tiranno muove al popolo che pretende di governare, quindi sopprimere il tiranno diventa una legittima difesa. Però il re di Cipro, che si vedeva nella figura del tiranno, non fu molto convinto dalla lettura di questo libro. Al di là di queste curiosità storiche, è importante vedere il modo in cui San Tommaso considera la legge. C’è questa bellissima triade di leggi: c’è la legge eterna, la legge naturale e la legge positiva.

Al giorno di oggi, quando si parla di legge, sempre se ne parla con un pochino di rifiuto, perché le norme non piacciono. Ebbene, quando si pensa alla legge, al giorno di oggi, si pensa al codice. San Tommaso dice: "C’è anche quel terzo grado di legge è la legge positiva, quella dello stato, la legge canonica, tutto quello è la legge positiva", ciò ha una notevolissima importanza, però bisogna vedere quali sono queste disposizioni umane (doverose, perché non tutto è regolato dalla natura). La natura deve essere aiutata dall’arte, l’arte politica è proprio in qualche modo l’impostare la convivenza umana secondo l’arte, perché lì la natura non l’ha ancora determinata questa convivenza, però ne ha determinato le regole fondamentali. Quindi è necessaria l’opera del legislatore umano, però quello a cui San Tommaso tiene molto (e oggi ce ne dimentichiamo) è che il legislatore umano non può legiferare contro il legislatore divino. Cioè la legge umana, dice San Tommaso, o è applicazione della legge naturale o "est potius corruptio legis quam lex". Ogni volta che sento parlare delle disposizioni in tema di aborto mi viene in mente questa frase. Con ciò non vuol dire che tutto il codice sia sbagliato, perché ci sono delle parti oneste, ma ce ne sono alcune che sono un po’ preoccupanti.

Perché dico questo? Perché qui si tratta di legiferare contro la legge naturale. Sant’ Agostino dice che non è necessario che il legislatore umano sopprima tutti i vizi, d’altra parte sarebbe impossibile, questo è evidente. E’ chiaro che il legislatore umano può tollerare certi vizi, addirittura lo deve. Tuttavia un certo tipo di male non và tollerato, ed è il male di ingiustizia, tutti i tipi di ingiustizia. Il cittadino ha diritto di aspettarsi dai suoi governanti che lo proteggano in materia di giustizia, perché proprio questo gli spetta per natura, non per contratto uso umano, ma per natura. Ora quando il legislatore umano depenalizza un assassinio vero e proprio, ha mancato al suo dovere. Ci sono determinati contenuti morali che non possono non trovare una corrispondenza anche nel codice. Se non trovano quella corrispondenza, la legislazione per quella parte è già opposta alla legge naturale di Dio.

Quindi San Tommaso è molto attento a questa duplice partecipazione: che la legge naturale sia una partecipazione della legge eterna e che della legge umana debba essere, se onesta e corretta, una partecipazione alla legge naturale, un’applicazione della legge naturale.

Per legge eterna si intende la stessa disposizione divina nell’intelletto divino, l’essenza stessa divina, l’intelligenza divina che tutto dispone. Però ex parte intellectus Dei, dalla stessa parte dell’intelletto divino. Anche quella è una legge, perché universalmente si definisce legge ( San Tommaso ne da questa definizione) quella disposizione dell’intelletto pratico di chi ha l’autorità su una società perfetta, a condizione che questa disposizione sia promulgata dalla stessa autorità. Questa è la definizione della legge.

Ebbene, Iddio promulga nel suo stesso intelletto delle disposizioni intellettive, che a noi sono sconosciute ovviamente, però al vertice di tutte le leggi c’è questa lex divina, eterna. Poi dalla legge eterna discende la legge naturale, che ne è un’espressione. Cioè Dio dispone di creare, di porre in essere determinate creature. Però Dio onnipotente non dà solo alla creatura la sua essenza o natura, ma le dà anche la sua operatività. Cioè Dio non si è semplicemente accontentato di dare alle cose la dignità di esistenti, ma ha dato anche alle cose la dignità di operanti, di agenti. Iddio ha dato all’uomo, che è un agente libero, che quindi dispone sé stesso al fine ultimo ed anche ai fini intermedi, la libertà, però al di là della libertà gli ha dato anche un certo indirizzo finalistico, al quale l’uomo deve sottostare per agire onestamente. Questo indirizzo finalistico, insito nella stessa natura umana, si chiama legge naturale. Iddio ha promulgato in qualche modo la sua volontà legislativa nei nostri riguardi. Se io vedo, per esempio, che l’intelligenza aspira al vero, non posso dire che l’intelligenza possa servire ad altro, che a conoscere il vero. L’intelligenza non può essere usata con astuzia per ingannare, per esempio. Io posso usarla anche così, però allora agisco immoralmente, perché agisco contro la legge naturale, faccio violenza alla mia intelligenza, perché di per sé l’intelligenza tende a conoscere il vero, a comunicare il vero al prossimo etc.

Così tutte le altre facoltà umane, ne abbiamo già parlato. L’esempio più discusso è quello della facoltà procreativa, che viene adesso contestato che sia procreativa. Pare che sia abbastanza evidente che Dio creatore ha voluto indirizzare questa facoltà in quel determinato modo, avendo ovviamente anche altri aspetti, però sempre facendone un uso onesto, secondo la legge naturale, se si rispetta il fine così detto primario della facoltà procreativa nella sessualità umana. Analogamente per tutte le altre facoltà: ognuna ha il suo indirizzo particolare ed in base a questa finalità si organizza in qualche modo la legge naturale.

Poi c’è la legge positiva, la quale, come abbiamo visto, applica la legge naturale secundum artem, cioè l’arte della natura non determina nulla e il legislatore umano deve organizzare la convivenza umana, ma sempre nel religioso rispetto di quelle che sono le esigenze della legge naturale. E’ interessante questo punto, San Tommaso non era affatto un clericale, si pone al di là della disputa tra clericali e laicisti, San Tommaso dice chiaramente che il governo della cosa pubblica ha un contenuto assolutamente naturale, cioè spetta all’ambito laicale, in sostanza, governare non spetta ai sacerdoti, in quanto sacerdoti. Anzi, è dannoso per la loro professione sacra immischiarsi in negozi politici. Voi sapete che il codice commina le pene ecclesiastiche ai sacerdoti, a persone ecclesiastiche che si impegnano direttamente in politica, che militano nei partiti e cose del genere. In sostanza il governo deve essere affidato alla ragione umana, che certo ha bisogno della illuminazione della fede, ma sempre indirettamente, in quanto c’è la piaga del peccato delle origini, quindi una inclinazione al male. Di per sé è la ragione umana dovrebbe giungere ad orientare bene la cosa pubblica.


continua....

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03/09/2009 09:41

Quindi San Tommaso ha questa convinzione dell’autonomia della ragione, della natura nell’ambito politico. Dice che la sorgente di ogni autorità discende da Dio, questo vale non solo sul piano soprannaturale, ma anche sul piano naturale. Gesù dice dinanzi a Pilato: "Tu non avresti nessuna autorità su di me, se non ti fosse data dall’alto". Ogni autorità discende da Dio, ogni governo, che sia monarchico, democratico o qualsiasi altro non ha importanza, ogni governo è governo per volontà di Dio, non per volontà del popolo. San Tommaso ha questa difficoltà: la costituzione deve iniziare, come si faceva nel medio evo, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e poi segue tutto il resto. Invece ora si dice: " nel nome del popolo" e via dicendo, c’è un certo contrasto nella impostazione. Però San Tommaso non esclude il popolo. E’ interessante notare questo, che nel medio evo: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo era scontato, però il popolo, questa era una novità. San Tommaso effettivamente lo fa entrare, cioè dice: "L’autorità discende da Dio, però strumentalmente passa attraverso la moltitudine politica". Quindi il popolo è detentore della sovranità, datagli però da Dio, perché Dio ne è la causa in ultima analisi. Il popolo detiene questa sovranità, ma non la detiene per tenersela, ma la detiene strumentalmente per delega. Un governo totalmente referendario sarebbe un’anarchia. San Tommaso è convinto che il popolo, per quanto sia sovrano, in questo senso strumentale, deve ricevere la sovranità da Dio e passarla a coloro che si sceglie come suoi governanti. C’è un principio di libertà, quasi di democrazia si potrebbe dire, in questa impostazione.

E’ noto poi che San Tommaso, seguendo Aristotele, riconosce tre tipi legittimi di governo, cioè un governo monarchico, aristocratico e democratico. E’ chiaro che per lui il governo monarchico è quello più vicino alla perfezione di Dio, la perfezione con cui Dio governa l’universo. Però sosteneva che c’è bisogno di temperare gli eccessi di una costituzione con elementi tratti da altre costituzioni. Questa è già una esigenza della politeia aristotelica e penso che quella sia una grande saggezza, poiché le costituzioni estreme sono sempre destinate a crollare. Questo per quanto riguarda la politica tomistica, potrete poi approfondirla leggendo letteratura a tale riguardo.

San Tommaso parla di estetica, anche se non ha scritto un trattato su questo tema. Ha una considerazione molto profonda del pulchrum, del bello. Tanto è vero che gli scolastici giustamente dicono che il pulchrum (San Tommaso esplicitamente lo dice) è un trascendentale, una perfezione che conviene all’ente. Ogni ente, in quanto ente è bello, e Dio, che è il sommo ente, è sommamente bello. Questo è un aspetto che la teologia moderna riesce ancora ad intravedere. Comunque questo è un aspetto dell’essere di Dio, Dio è anche sommamente bello. Notate che San Tommaso in questo si riallaccia al platonismo, sgancia la bellezza dalla materialità, belle sono non solo le cose materiali, opere d’arte o cose del genere, bello è l’essere, l’essere, in quanto essere, è bello.

Però che cosa fa sì che l’essere sia bello? E’ diciamo la bontà, quindi il pulchrum è un aspetto del bene, però è una bontà particolare, la bontà della verità, un certo splendore della verità. Una convenienza della verità al soggetto, che la conosce. San Tommaso dice che noi in ammirazione davanti ad un’opera d’arte, ammiriamo non tanto il rappresentato, ma il modo della rappresentazione. Cioè il rappresentato può essere anche qualche cosa di brutto, di violento, di distorto, però la rappresentazione deve essere bella, cioè deve piacere. Veramente qui faccio la mia confessione agostiniana, cesso di essere tomista a questo punto e scendo nella positività. Un’arte, miei cari, un’arte che rinuncia a servire il bello, cessa anche di essere un’arte e non ci sono scuse di sorta. Ogni tanto sento dire: "L’arte moderna è così brutta (non si può fare a meno di riconoscerlo), ma ha il diritto di essere brutta perché l’uomo moderno è tormentato". Ebbene, non c’è tormento che possa in qualche modo spiegare questa abdicazione al servizio del bello. L’artista deve sempre sentirsi al servizio del bello. Certe aberrazioni sono offensive, l’arte ha una certa affinità con la religione, profanare il bello è come profanare il sacro, una cosa spaventosa in sostanza. Generalmente quando crolla una cultura, crollano tutte le idee platoniche, crolla questa triade: il bene, il vero, il bello. In tutti tre gli ambiti c’è una specie di crisi, sia rispetto al vero, soggettivismo, sia rispetto al bene, relativismo, sia rispetto al bello, il culto della bruttura, lo vedete da per tutto.

San Tommaso invece è convinto che è lecito rappresentare cose brutte, ma se le rappresento e sono un artista onesto, devo farlo in maniera bella, piacevole, con una grande dignità. Così si dice dice: "Io sono tormentato, quindi per offendere il prossimo, gli piazzo lì un oggetto orrendo". Certi musei di arte moderna ostentano oggetti veramente sgradevoli sotto ogni aspetto, alla vista, all’olfatto, non mi dilungo, che cose orrende! In ogni modo questo non è legittimato dal fatto che uno soffra, che è tormentato dentro. L’arte, ogni arte, è obbligata rispetto alla bellezza. Può essere tormentata, spesso la poesia nasce dalla sofferenza, non c’è nessun poeta che non abbia sofferto, però è necessario che abbia questa dignità. E’ questione di una certa nobiltà spirituale, questo non perdere le staffe, in sostanza. Soffrire con dignità, quindi anche le cose più tormentate esprimerle con stile, San Tommaso ci tiene a questo aspetto.

Per quanto riguarda i sensi che sono in grado di percepire il bello, questo splendore del vero, questa bontà del vero, richiedono sempre l’intelletto. L’intelletto gode nel conoscere il vero. Per esempio la filosofia è questione anche di estetica, quando uno contempla un essere, contempla la struttura ontologica, metafisica, evidentemente ha un certo compiacimento nella bontà della verità che gli si manifesta e questa è proprio una percezione spirituale del bello. I sensi percepiscono il bello, ma solo a livello dei sensi più spirituali, più emancipati dalla utilità, perchè il bello, a questo livello, è onesto, imparentato con l’onesto, il bello è fine a sé stesso. L’uomo di oggi ha una grossa difficoltà ad amare le cose per sé stesse, una crisi di benevolenza, una crisi di affettività, per dire la verità, proprio una impossibilità di amare un bene semplicemente perché è buono, si insinua sempre la domanda: "E chi me lo fa fare? E a che cosa serve?" Socrate andava in escandescenze quando uno gli faceva la domandina: "E a che cosa mi serve?". Poverino, in Atene aveva ancora il paradiso in terra, al giorno di oggi chissà quali tribolazioni avrebbe dovuto subire. Ebbene, il fatto è che l’arte è sempre innamorata del bene, della verità per il bene stesso, non ha secondi fini, l’arte è un lusso, sempre è un lusso, inutile dire: "E’ possibile che qualche cosa sia bello ed utile nel contempo". E’ possibile, materialmente, che lo stesso oggetto sotto un aspetto sia bello, sotto un altro sia anche utile, però in quanto è bello, non è utile, in quanto utile, non è bello.

E’ per questo che solo i sensi più emancipati dalla materialità sono in grado di percepire il bello. Solo l’uomo ha sviluppato l’estetica, San Tommaso è convinto di questo. Solo i due sensi più spirituali ne sono capaci, che sono la vista e l’udito. L’olfatto, il tatto, il gusto partecipano in maniera molto oscura e molto ridotta. C’è chi dice che gli animali sono utilitaristi, un leone non si rallegra del muggito di un bue, è solo una preda. Tanto meno si rallegra di una sinfonia, la quinta di Beethoven, perché naturalmente non ci vede la preda. Invece l’uomo, il quale ha questa emancipazione della vista e dell’udito dalla pura utilità, legata al senso tattile, al puro istinto nutritivo e sessuale, l’uomo che si eleva al di sopra di questi istinti, ha questa emancipazione dei sensi e quindi la possibilità di godere del piacevole per sé stesso. Benché, sia detto fra parentesi, io abbia sentito dire che hanno trasmesso la musica rock a dei pesciolini e sembra che abbiano protestato. Pare che abbiano anche loro il buon gusto.

Ad ogni modo, per San Tommaso c’è questo triplice aspetto del bello, che è appunto la integrità, cioè la perfezione, l’integrità della realtà, poi la debita proportio ed infine una certa claritas. Integritas, debita proportio, claritas, queste sono le condizioni del bello.


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