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Obiezioni contro il Nuovo Testamento

Ultimo Aggiornamento: 02/09/2009 08:15
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02/09/2009 08:08

tratto dall'Enciclopedia di Apologetica - quinta edizione - traduzione del testo APOLOGÉTIQUE Nos raisons de croire - Réponses aux objection

 

Il gran numero di problemi del Nuovo Testamento la cui soluzione interessa l'apologetica cristiana, rendeva difficile la nostra scelta. Crediamo utile alla economia generale di quest'opera tralasciare i temi esposti sufficientemente nelle prime due parti, come l'insegnamento escatologico del Salvatore e il fatto della sua resurrezione, e concentrare tutta la nostra attenzione su alcuni punti dei quali si è parlato poco. Esamineremo dunque:

1. Il testo del Nuovo Testamento, solida base della nostra conoscenza del cristianesimo; 2. La storicità dei Vangeli dell'infanzia;
3. La concezione verginale;
4. La verginità perpetua di Maria;
5. Esame di alcune dichiarazioni sinottiche sulla divinità di Gesù;
6. Lo scandalo della incredulità giudaica.

 

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1. Il testo del Nuovo Testamento, solida base della nostra conoscenza del cristianesimo;

tratto dall'Enciclopedia di Apologetica - quinta edizione - traduzione del testo APOLOGÉTIQUE Nos raisons de croire - Réponses aux objection

 

CAPITOLO I. - POSSIAMO CREDERE AI TESTI DEL NUOVO TESTAMENTO?

Tutti sanno che l'originale dei testi attribuiti a Matteo, Marco, Luca, Giovanni, Paolo, Giacomo, Giuda e Pietro, che formano il Nuovo Testamento, è perduto. Le più antiche copie frammentarie di una certa estensione non vanno oltre il principio del terzo secolo e i manoscritti contenenti il testo completo sono del quarto secolo.

Ci si può quindi domandare: che valore può avere un testo i cui originali sono perduti e che si fonda su copie apparse circa centocinquant'anni dopo la composizione degli originali?

La domanda è importante, perché il testo è fondamentale per la dimostrazione della divinità del cristianesimo e dell'infallibilità della Chiesa, prima ancora di servire, unitamente alla tradizione, come fonte per la conoscenza del dato rivelato.

Il problema però dev'essere considerato nel suo contesto. Il problema critico contemporaneo è soprattutto problema di critica letteraria. Ma un notevole numero di studiosi studiano il cristianesimo partendo dal presupposto che qualsiasi credenza nel soprannaturale sia il prodotto d'una facoltà fabulatrice innata di tutti i popoli e di tutti i tempi; negando la stessa possibilità del soprannaturale, dell'intervento di Dio sulla terra, dell'Incarnazione del Verbo e della Redenzione, tentano di spiegare i racconti sacri sezionando i testi in strati successivi risalenti fino al primo secolo, e come criterio di classificazione usano l'evoluzione religiosa e la dipendenza delle credenze cristiane dalle religioni dell'ambiente.

Il vero problema dell'apologetica contemporanea dunque si pone dapprima sul terreno filosofia) per sconfinare poi nella storia della composizione dei libri. Ma lo studio della trasmissione del testo ha tuttavia grandissimo valore perché con esso possiamo fissare la data con la quale terminò certamente la pretesa manipolazione dei testi, e inoltre giungere a conclusioni certe sul valore di questa trasmissione. La critica testuale mira a darci l'opera nella sua forma originale, o la più vicina ad essa, che aveva quando essa usci dalle mani dell'autore o dell'ultimo redattore. Le lettere di Paolo scritte tra il 51 e il 67, i Sinottici redatti tra il 60 e il 70, l'Apocalisse, il quarto Vangelo e le Lettere di Giovanni datate tra il 95 e il 100 sono pervenute a noi nel testo redatto da questi scrittori? Si dubita o si è d'accordo? Quali sono le ragioni della nostra certezza? Le voci del Vangelo sono pure, o sono mescolate a voci parassite? Tale la questione; ed ecco la risposta.

1. La testimonianza degli specialisti di critica testuale. - Gli studiosi che si applicano a ricostruire il testo originale e a studiarlo nella sua trasmissione attraverso le età, si trovano di fronte a circa duemilacinquecento manoscritti

I frammenti di manoscritti greci; inoltre devono tenere presenti le antiche versioni latine, siriache, copte, armena, georgiana e gotica; utilizzare infine i lezionari e le citazioni scritturali degli antichi autori ecclesiastici. Il lavoro di collezionamento constatò un totale incalcolabile di varianti, tanto che si parlò di centocinquantamila, e perfino di duecentosessantamila varianti. Basta una semplice occhiata ad un'edizione critica per constatare che è difficile citare un solo versetto della Bibbia il quale ci sia pervenuto nella stessa forma, nell'insieme della tradizione manoscritta. Malgrado il compito enorme, gli studiosi proclamano unanimi che il testo è sicuro. Ecco alcune significative testimonianze.

1) F. J. A. Hort, in B. F. Westcott, e F. J. A. Hort, The New Testament in thè Originai Greek, Londra 1907, t. II, p. 2, scrive: " La proporzione delle parole virtualmente accettate da tutti come fuori dubbio è molto grande e in cifra tonda costituisce non meno dei sette ottavi dell'insieme. Quindi l'ultimo ottavo, consistente soprattutto nel cambiamento dell'ordine delle parole e in varianti insignificanti, costituisce tutto il campo della critica. Se i principi seguiti nella presente edizione sono esatti, tale campo può essere molto ridotto. Riconoscendo il dovere di astenersi da qualsiasi decisione perentoria nei casi in cui

1 fatti lasciano il giudizio sospeso tra due o più lezioni, troviamo che, a parte le differenze d'ortografia, le parole che restano dubbie, secondo la nostra opinione, costituiscono soltanto un sessantesimo circa del Nuovo Testamento. In questa seconda valutazione la proporzione delle lezioni insignificanti è incomparabilmente più forte che nella prima, di modo che ciò che in qualche modo possiamo chiamare divergenza sostanziale rappresenta solo una piccola frazione
delle divergenze complessive e può formare appena la millesima parte del testo a. Questa testimonianza è di grandissimo valore. L'edizione di Westcott (1835- 1901) e Hort (1828-1892) fu preparata da trent'anni di lavoro in comune e fu fatta dopo la scoperta e i confronti di Tischendorf. Essa presentava una teoria sulla storia del testo, che oggi è superata, ma che per lungo tempo raccolse l'approvazione degli studiosi. Essa sostituì il testo ricevuto con un testo riveduto che, nonostante le feroci opposizioni incontrate al principio, s'impose universalmente.

2) R. Knopf, H. Lietzmann, H. Weinel, Einfùhrung in das Neue Testament, (Introduz. al Nuovo Testamento), Giessen, 1923, p. 23, attestano" Noi non siamo arrivati al risultato di poter ricostruire un archetipo unico per l'insieme della tradizione manoscritta del Nuovo Testamento; possiamo tuttavia dire che, grazie alla ricca e antica tradizione di questi scritti, è possibile, ritrovare diversi archetipi che risalgono molto in là e che non sono molto lontani dal testo originale, per quanto non possa essere raggiunto ". I tre autori, che lavoravano a quest'introduzione, sono specialisti dell'esegesi neotestamentaria, soprattutto Lietzmann che si occupò di questioni testuali. Di lui, tra gli altri studi si veda la " introduzione alla storia del testo delle lettere di Paolo " nel a Commento alla lettera ai Romani " 13.a ed., Tubinga, 1928, pp. 1-18.

3) Citiamo infine il P. J. Lagrange, Critique textuelle, II, La critique rationelle, Introduction à l'elude du Nouveau Testament, Parigi, 1935, p. 31: a Un editore critico contrariamente ai teorici della critica radicale testuale dovrà riconoscere che, malgrado questi piccoli cambiamenti, i testi del Nuovo Testamento sono giunti a noi in una meravigliosa 'integrità, sostanzialmente tali e quali uscirono dalle mani del loro autore. Le libertà che sono state prese, anche le più ardite e che possiamo riconoscere, col limite in cui si sono tenuti i loro autori, testimoniano in modo invincibile contro la pretesa origine dei libri attraverso frammenti successivi, rimaneggiamenti, fusioni redazionali ".

2. La testimonianza delle edizioni critiche. - II nome dello studioso A. F. Tischendorf (1815-1874) figura all'origine del rinnovamento degli studi della critica testuale neotestamentaria e deve la sua celebrità al ritrovamento di uno degli unciali più preziosi del secolo quarto, il Sinaitico, e alla scoperta di una ventina di manoscritti unciali dei quali ne pubblicò diciotto per la prima volta e per primo collazionò ventitré manoscritti minuscoli. La sua opera fu coronata nell'Editto octava major (1869-1872) del Nuovo Testamento con tale ricchezza di varianti, che l'opera ancor oggi resta indispensabile a tutti gli esegeti di professione. L'edizione fu poi seguita, nel 1881, da quella di B. F. Westcott e F. J. A. Hort, di cui si è già parlato. Nei trent'anni successivi apparvero numerosi studi d'insieme e particolari, ma nessuna edizione critica importante sostituì il testo degli studiosi di Cambridge. Nel 1902 Herman von Soden cominciò la pubblicazione della sua opera monumentale: Die Schrìften des Neuen Testamenls in ihrer altesten erreichbaren Textgestalt hergestellt auf Grund ihrer Textgeschichte (Gli scritti del Nuovo Test, esposti nel loro testo più antico in base alla storia del loro testo). Parte prima: Berlino 1902. 1907. 1910; parte seconda: Gottinga 1913.

H. von Soden s'era circondato da una squadra di collaboratori che per vent'anni, assieme al loro capo, rovistarono le biblioteche e collezionarono i testi con lo scopo confessato di sostituire i lavori di Tischendorf e di Westcott-Hort. Il risultato del loro sforzo riguarda la storia del testo e il testo stesso; sull'uno e sull'altro furono proposte nuove teorie. L'edizione di von Soden, difficile al maneggio, discutibile per i principi direttivi, criticata anche nell'attestazione delle varianti, ricevette una cattiva accoglienza; perciò un comitato inglese decise di rifare su basi nuove l'edizione di Tischendorf. S. C. E. Legg nel 1935 pubblicò il primo volume che comprende il Vangelo di Marco con tutta la ricca documentazione moderna. Citiamo infine le due edizioni manuali cattoliche di F. J. Vogels, 2.a ed., Bonn 1922, e di A. Merk, 6.a ed., Roma 1948. Confrontiamo queste edizioni tra loro; la cosa è facile. L'edizione scolastica di Nestle, 13.a ed. 1932, si basa sulle edizioni di Tischendorf, Hort, Weiss (di cui non ho parlato, non avendo l'importanza delle altre) e cita quella di von Soden quando il suo testo si allontana dalle prime. Quest'edizione va per le mani di tutti, come pure quella dei due autori cattolici. Per chi si da la pena di collazionarle, la prova è evidente: esse differiscono solo in punti d'importanza insignificante per la fissazione del dato cristiano. Ora se tali lavori intrapresi con metodi divergenti arrivano a un risultato press'a poco identico, il testo ottenuto è eccellente.

3. I risultati della storia del testo. - Lo schema ideale della classificazione dei manoscritti secondo le date e i luoghi d'origine, e stabilendo l'albero genealogico fino all'archetipo comune, non è applicabile alla critica testuale del Nuovo Testamento. Non solo perché la massa dei manoscritti è immensa, ma anche perché è difficile se non impossibile scoprire la loro dipendenza. Tuttavia dopo più di un mezzo secolo di tentativi e senza pregiudicare gli studi futuri; possiamo collegarci alla classificazione che seguendo altri studiosi fu proposta dal P. M. J. Lagrange. A partire dal secondo secolo, i cristiani preoccupati della purezza del testo, rividero i loro scritti sacri, sia collazionandoli su una copia più pura, sia confrontando parecchi testi tra loro, per estrarne un altro che costituiva una recensione. Per i Vangeli il P. Lagrange distingue la recensione B, che come principali suoi rappresentanti ha i codici Vaticanus e Sinaiticus; la recensione D, che ha il suo forte sostegno nel codice Berne; è la recensione che il P. Lagrange chiama anche armonizzante popolare; la recensione A, che è il testo ecclesiastico di Costantinopoli, divenuto à testo accettato; infine un quarto tipo C, detto Cesareo, poco noto. Perciò limitiamo le nostre osservazioni ai tre precedenti. È una conquista della critica testuale l'aver rotto col testo A accettato, mentre la questione della priorità e del valore viene spesso risolta in favore delle recensioni B e D, senza tuttavia negare che in A ci siano buoni elementi. Ma già nel 1906 R. Knopf, Der Text des Neuen Testaments, Giessen 1906, p. 38, affermava che le nostre idee su Gesù, Pietro, Paolo e Giovanni non cambierebbero in nulla anche se avessimo solo il testo accettato. Altrettanto si dica delle recensioni B e D, lo studio delle quali ci permette di conoscere meglio la storia del testo, di appoggiare questa o quella variante, ma i casi discussi o insolubili non toccano minimamente i punti essenziali del dato cristiano, e anche dove D differisce di più da B, cioè nel libro degli Atti, non otterremmo un'immagine diversa dell'attività apostolica e delle credenze se preferissimo D a B. Ma c'è di più. Le nostre edizioni critiche ordinariamente fondano il loro testo sulla recensione B, senza rigettare a priori la possibilità di lezioni originali nelle altre recensioni. Il miglior testimonio di B è il Vaticanus che risale al quarto secolo. Ora questo manoscritto rappresenta un testo molto puro che dimostra un lavoro accuratissimo di trascrizione o d'edizione. Confrontandolo col testo più antico d'un centinaio d'anni, ritrovato nei papiri Beatty ed edito da F. G. Kenyon, The Chester Beatty Biblical Papyri, Londra, 1933-1936, s'è notato che nessun altro manoscritto si avvicina a questi papiri più del Vaticanus, sostegno della recensione B e base delle nostre migliori edizioni critiche Senza attribuire al Vaticanus un diritto di priorità assoluta e senza pregiudicare per l'avvenire il lavoro della critica, è certamente permesso constatare che lungi dall'indebolire la nostra certezza di possedere un testo sicuro, la storia della trasmissione manoscritta ci ha posti dinanzi a una recensione solidissima di cui le recenti scoperte hanno sottolineato il valore (cfr. A. Sandersen, a Third Century Papyrus Codex of thè Epistels of Paul, Ann Arbor, 1935, p. 24).

4. Numero e antichità dei manoscritti. . Le testimonianze degli specialisti, l'identità delle edizioni, i risultati della storia del testo, hanno il loro punto di partenza nei materiali adoperati; ora noi siamo realmente davanti a ricchezze senza paragone.

Già Helley contava 157 frammenti del Nuovo Testamento sui papiri, oggi Kanyon ne ha contati più di 170; possediamo inoltre più di 200 manoscritti o frammenti di manoscritti maiuscoli su pergamena, circa 2429 minuscoli e 1678 lezìonari, numero che aumenta considerevolmente aggiungendo le versioni: per la vecchia latina una cinquantina di manoscritti; per la Volgata sono stimati da 2.500 a 8.000; per le versioni siriache, copte, gotica, armena, georgiana ed etiopica le copie sono meno numerose, ma bisogna dire che resta molto da fare e che in ogni caso alcune di queste antiche versioni ci danno un testo che risale a un originale più antico di numerosi manoscritti greci. Balza agli occhi il beneficio di un materiale così ricco. Dove i testimoni concordano, l'autorità è indiscutibile. Abbiamo detto che il computo di Hert, anche se un po' troppo ottimista, è in favore d'un accordo straordinariamente esteso, e dove le testimonianze sono divergenti, il loro numero ci offre il mezzo per cercare la lezione buona.

Al numero dei manoscritti s'aggiunge la loro età. " Per gli autori classici il più spesso c'è un lungo spazio di tempo tra l'autografo e la sua copia più antica in nostro possesso: millequattrocento anni per il manoscritto delle tragedie di Sofocle, come pure per le opere di Eschilo, di Aristofane, e di Tucidide; milleseicento anni per quelle d'Euripide e di Catullo; milletrecento per quelle di Demostene; solo settecento anni per quelle di Terenzio e cinquecento per Tito Livio; infine per Virgilio lo scarto è solo di quattrocento anni " (E. Jac-quier, Le Nouveau Teslament dans l'Église chrétienne, t. n: Le texte du Nou-veau Testaraent, Parigi, 1913, p. 2). Il confronto è tutto in favore del Nuovo Testamento per il quale abbiamo eccellenti manoscritti della metà del quarto secolo (Vaticanus e Sinaiticus) e frammenti molto importanti nei papiri, specialmente i papiri di Beatty che ci portano a meno di duecento anni dagli originali.

Dopo un secolo di ricerche e di studi di critica testuale si può dunque considerare come un risultato definitivamente acquisito che il nostro testo del Nuovo Testamento, anche se è ancora lontano dall'essere fissato in ogni particolarità, anche se nasconde ancora il segreto delle vicissitudini che attraversò per ramificarsi in recensioni diverse, offre un tale grado di fissità che lo studio del dato rivelato cristiano, basandosi sopra di esso, ha tutte le garanzie di genuinità e di solidità.

Oggi è criticamente provato che alla fine del primo secolo i testi del Nuovo Testamento erano letti nella stessa forma sostanziale riportata dalle nostre edizioni critiche. Lo scarto tra l'originale e le recensioni si può trascurare anche se si voglia costruire una teoria dello sviluppo della credenza cristiana. Così il beneficio degli studi di critica testuale è grandissimo, perché ha ridotto il campo cronologico in cui è possibile un'evoluzione sostanziale. Se non ci sono interpolazioni dopo l'anno 100, se il tempo dei redattori e dei correttori è chiuso, ciò significa che il loro lavoro si svolse sotto l'occhio vigile dei contemporanei di Cristo, dei beneficiari del suo insegnamento e dei responsabili della sua opera.

 

 


 
 
 
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2 - Storicità del Vangelo dell'infanzia

tratto dall'Enciclopedia di Apologetica - quinta edizione - traduzione del testo APOLOGÉTIQUE Nos raisons de croire - Réponses aux objection

 

CAPITOLO II. — STORICITÀ DEL VANGELO DELL'INFANZIA

Rilievi preliminari. - Nei primi due capitoli del suo Vangelo S. Matteo espone la genealogia di Cristo, la nascita di Gesù, la venuta dei Magi, la fuga in Egitto, la strage degli innocenti e il ritorno nel paese d'Israele. Luca riporta pure la genealogia del <t Figlio di Giuseppe ", ma la separa dai primi fatti della vita di Gesù. I suoi due primi capitoli contengono un prologo a tutto il Vangelo, l'annuncio della nascita di Giovanni Battista a Zaccaria, l'annunciazione della nascita di Gesù a Maria, la visita di Maria ad Elisabetta, la nascita di Gesù a Betlemme, l'omaggio dei pastori, la circoncisione, la purificazione al tempio, la vita a Nazareth, lo smarrimento di Gesù a Gerusalemme, il ritorno a Nazareth. Questi fatti costituiscono quello che ordinariamente vien detto Vangelo dell'Infanzia.

Questi fatti sono storici? Contro di essi la critica ha presentato argomenti che tendono a rovinare l'insieme delle testimonianze e i singoli fatti. Non possiamo studiare le difficoltà minute e neppure affrontare ad una ad una le obiezioni alla storicità globale di questi capitoli di Matteo e di Luca. Più avanti esamineremo dettagliatamente la concezione verginale. Il nostro scopo è di presentare delle ragioni positive che giustificano il credito che riconosciamo a queste pagine. Prima però precisiamo il problema.

In un libro, che nulla ha perduto del suo valore dimostrativo, (L'Enfance de Jésus-Christ d'aprés les évangiles cahoniques, Parigi 1908) il P. Durand, S. J., fa due rilievi, che l'apologista dovrà sempre avere sott'occhio.
l.o Riguar-do ai fatti. Né Luca né Matteo furono testimoni dei fatti; è pure possibile che la loro testimonianza si basi su fonti orali o scritte che non fossero in contatto così immediato con gli avvenimenti come il resto della storia evangelica. D'altra parte questi fatti ebbero pochi testimoni, e accaddero in un'epoca in cui Gesù non attirava l'attenzione pubblica.
2.o Riguardo al fine che deve raggiungere l'apologista. L'apologetica tende a provare il fatto cristiano e cattolico; ora questa prova è indipendente dalla storicità del Vangelo dell'infanzia perché, anche facendo concessioni al carattere di questo, non ne segue che tutto il valore storico degli altri racconti ne sia compromesso. Di conseguenza due vie sono possibili per provare la storicità di questi racconti: dimostrata l'autorità dottrinale della Chiesa cattolica con argomenti indipendenti dai primi capitoli di Matteo e di Luca, se ne accetta l'insegnamento infallibile circa l'infanzia del Signore; questa risposta generale basta per quelli che credono nell'infallibilità. Per gli altri, e anche per quelli che, pur inchinandosi, cercano di giustificare razionalmente questa credenza, bisogna ricorrere alla prova diretta.

§ 1. - L'autenticità dei racconti.

Prima di servirsi d'una testimonianza, bisogna stabilirne l'autenticità. Negano evidentemente l'attribuzione del Vangelo dell'infanzia a Luca e a Matteo tutti coloro che rigettano l'autenticità degli stessi Vangeli e che ne fanno una creazione anonima, proveniente dalle Chiese cristiane dei primi due secoli. Supponendo dunque dimostrata l'autenticità globale dei Vangeli di San Matteo e di San Luca, dimostriamo che non si ha il diritto di staccarne i primi capitoli

1. Prove esterne.
- a) I manoscritti e le versioni più antiche e più varie posseggono il testo di questi capitoli corrispondente a quello delle nostre edizioni critiche e nessun testo importante porta tracce di notevoli addizioni e trasformazioni.
- b) Gli autori ecclesiastici del secondo e del terzo secolo, come Giustino ed Ireneo, utilizzano e citano questi capitoli.
- c) Lo stesso fanno gli eretici Cerinto e Carpocrate e nel secondo secolo conosceva questi capitoli anche il pagano Celso (Cfr. Origene, Cantra Celsum, I, XXVIII, P.G. xi. 713; II, xxn, P.G. xv, 852).
- d) Marcione e gli Ebioniti rigettano i racconti dell'infanzia, ma a causa dei loro pregiudizi dominatici che contraddicevano con i fatti raccontati; ora l'antichità cristiana insorse contro queste mutuazioni. Ireneo, Adversus Haereses, I, XXVII, 2 (P.G. vii, 688). Ibid, III, xn, 7 (P.G. vii, 900); Tertulliano, Adv. Marcionem I, i (P.L. u, 242); IV, n (P.L. n, 363)
-e) In uno scritto siriaco dello pseudo-Eus'ebio c'è una notizia secondo cui nel 430 (118-119) sotto il regno di Adriano e il consolato di Severo e di Fulvio (120) e l'episcopato di Sisto vescovo di Roma (circa 115-125) sarebbe sorta una discussione sulla stella dei Magi. Cfr. Nestle, Einfùhrung in das Grie-chische Neue Testament, (Introduz. al N. T. greco) 2.a ed. 1899, p. 210; Th. Zahn; Einleitung in das Neue Testament, (Introduzione al N. T.) t. li, Lipsia, 1921, p. 273
- f) Nel Testamento dei dodici Patriarchii apocrifo giudaico interpolato da cristiani tra il 70 e il 135 d. C, vediamo spesso utilizzato Luca, ad esempio Le. 1, 15 = Ruben, MI, l9=Levi, VI; cfr. anche Lc. 1, 25=Levi. XVI; Lc. 1, 17=Levi. V.

Ecco dunque un primo risultato: all'inizio del secondo secolo sono noti i fatti del Vangelo dell'infanzia; a metà del secolo sono messi in relazione con i testi di Luca e di Matteo né mai si conobbe un testo di Luca e di Matteo che non contenesse questi capitoli.

2. Prove interne.

- A) Matteo. - 1. I primi due capitoli di Matteo sono un tutto omogeneo e coerente, con un solo scopo: dimostrare che Gesù è il Messia e confutare certe allegazioni giudaiche. Il capitolo secondo suppone il primo, perché al versetto 13 del secondo capitolo Giuseppe entra in scena senza essere stato presentato; il versetto 20 del primo capitolo dice che Giuseppe è figlio di Davide, come ha dimostrato la genealogia 1, 1-17; i dubbi di Giuseppe provocano la rivelazione che vien fatta dall'angelo sulla concezione verginale, I, 18-25; l'adorazione dei magi insospettisce Erode che provoca la strage degli innocenti e la fuga in Egitto.

2. I primi due capitoli sono intimamente collegati all'insieme del Vangelo. Il vocabolario, la grammatica e lo stile non differiscono punto dal resto; identica la presentazione dei fatti intimamente connessi con la predizione futura dell'Antico Testamento; la storia dell'infanzia è una preparazione e un riassunto degli sviluppi contenuti nei capitoli III-XXVIII. Nelle due sezioni l'evangelista vuole provare che Gesù è il Messia annunciato dai profeti e che Israele attende: Gesù è l'Emmanuele, annunciato da Isaia, 22, 23 = Is. 7, 14; nato a Betlemme, come aveva predetto Michea: 2, 6 = Mich. 5, 2; andò in Egitto e ne fu richiamato, com'era stato predetto da Osea: 2, 15 = Os. 11, 1; egli abita a Nazareth per adempiere le predizioni dei profeti. Lo stesso metodo si ritrova più oltre. Gesù è annunciato da un precursore: S, 1 = Is. 40, 3; andrà ad abitare a Cafarnao nella Galilea dei gentili: 4, 14 = Is. 9, 1-2; guarisce gli ammalati: 8, 16 = Is. 53, 4; predica in parabole: 13, 3 = Is. 6, 1.

In entrambe le parti il Vangelo fa vedere un Gesù povero e trionfante ad un tempo: si fa battezzare da Giovanni, ma lo Spirito lo glorifica; tentato dai demoni, vengono gli angeli a servirlo; vive povero, ma gli elementi, la malattia, la morte, gli spiriti gli sono sottomessi; a una morte ignominiosa succede una resurrezione folgorante. La stessa antitesi nei racconti dell'infanzia: è il figlio di Davide, nel seno d'una povera famiglia; viene alla luce in una stalla, ma la stella dall'Oriente conduce i Magi ai suoi piedi; fugge in Egitto, ma è temuto da Erode. Non c'è quindi motivo di negare all'autore del primo Vangelo la paternità di questi capitoli.

B) Luca. - L'appartenenza dei primi due capitoli all'opera di Luca è messa molto bene in evidenza da un autore non cattolico, al quale è difficile poter negare credito, Erich Klostermann, Das Lukasevangelium, in Handbuch zum Neuen Testament, 2.a ed. Tubinga 1929 p. 4, di cui riassumo il testo con qualche chiarificazione. Data l'unità che la menzione dei tempi imprime ai capitoli (1, 26. 39. 56; 2, 1. 21 s. 42) e il parallelismo del contenuto, almeno per i capitoli I-II e IV-V, bisogna riconoscere che tutti i brani sono coerenti; inoltre portano allo stesso risultato il legame continuo delle scene particolari e la somiglianza nella forma del racconto, la lingua in genere molto semitizzante, specialmente negli inni, le finali 1, 80 e 2, 40; 2, 52, che si corrispondono; infine il carattere generale (qui Klostermann fa suo il giudizio del celebre esegeta J. Weiss): mentre Matteo nel suo Vangelo dell'infanzia rivela tendenze apologetiche e dommatiche, Luca ci racconta un placido idillio. I racconti non hanno altro scopo che se stessi nella loro bellezza edificante; è supposto come noto tutto quello che è locale e giudaico. Così la mentalità di un cristiano venuto dal giudaismo si manifesta nei sentimenti di una famiglia senza figli (1, 25, 36), nell'ideale di pietà (2, 21 s. 25. 36 s. 41) e specialmente nella concezione generale dell'apparizione di Gesù (1, 32 s. 71. 74; 2, 10. 31).

L'analisi dei libri conferma dunque l'esame delle prove esterne. Rigettare i capitoli che raccontano l'infanzia del Signore significa mutilare i libri che li riportano. Ma i fatti sono reali?

§2.-1.0 storicità dei fatti.

1. Argomento generale. - Se Matteo e Luca accettarono nel loro Vangelo il racconto di fatti che, a quanto pare, non facevano parte della catechesi primitiva della Chiesa, è perché consideravano questi fatti come storici. Non è più il tempo in cui si dubitava della sincerità dei Vangeli, " Noi dunque, dice giudiziosamente il P. Lagrange (Evangile selon saint Matthieu, Parigi, 1923, p. 43) concludiamo che il capitolo II di Alt., se isolato, non presenta un aspetto storico da sfidare la critica, deve almeno beneficiare del carattere di tutta l'opera. Tito Livio manifesta chiaramente di non credere alla storia di Romolo e di Remo; perfino Erodoto dalle origini di Ciro elimina la cagna che lo avrebbe allattato; se Mt., che in tutto il suo Vangelo riporta seriamente e coscienziosamente i fatti, espone quelli dell'infanzia come se fossero reali alla pari degli altri, non abbiamo il diritto di smentirlo ". Ciò che è vero di Matteo, lo è a fortiori dell'evangelista Luca il quale in tutto il suo racconto si dimostra storico eccellente. Il prologo contiene una dichiarazione molto netta: conosce i precedenti tentativi, l'inchiesta sarà molto accurata e riporterà tutti i fatti cominciando dal principio. Luca esporrà i risultati di quest'inchiesta con ordine e lo scopo che egli di proposito si prefigge (basare su tali fatti la catechesi cristiana) gl'impone di accettare solo racconti incontestabilmente accertati. Fu detto e ripetuto che la nostra coscienza del cristianesimo sarebbe assai difettosa senza il terzo Vangelo (Cfr. V. Taylor, The Gospel. A short Introduction, 2.a ed. Londra, 1933, p. 86). Se confrontiamo i racconti dell'infanzia di Matteo e di Luca vediamo chiaramente che quest'ultimo ha un carattere biografico più accentuato. Matteo non offre che episodi; Luca segue i fatti; Matteo è preoccupato di una tesi e d'una polemica; Luca conserva al racconto un tono sereno, pieno d'incanto e di dolcezza. Passiamo ora a un'analisi più particolareggiata.

2. Le fonti. - Né Matteo né Luca furono testimoni dei fatti che raccontano, ma dipendono dalle loro fonti orali e forse scritte. Anche qui occorre precisare bene il problema. Supponendo ammesso che Matteo e Luca abbiano utilizzato fonti scritte, non è verisimile che tutta la loro conoscenza dei fatti dell'infanzia di Gesù sia venuta loro da uno o più documenti. Questi racconti erano un patrimonio delle comunità e ne esprimevano la fede. Matteo e Luca avevano le loro informazioni da una tradizione e accettarono il documento solo in funzione di questa fede.

a) Matteo. - I negatori della verità dei fatti pretendono che Matteo o l'ultimo redattore si sia fatto l'eco di una dimostrazione della messianità di Gesù in base ai testi dell'Antico Testamento. Nelle comunità giudaiche a poco a poco sarebbe stata creata una biografia di Gesù lèggendo i libri antichi e attribuendo una realtà a fatti non mai esistiti fuori dell'annuncio dei profeti. Nessuno attribuisce a Matteo la volontà di mentire o di creare; semplicemente si fece l'interprete di sogni anonimi.

Questo punto di vista suppone che la tradizione, fonte di Matteo, sia stata creata sotto la spinta dei testi dell'Antico Testamento. Il primo evangelista può certo giustamente essere considerato come un buon apologista giudaico, che indulge alle esigenze intellettuali dei suoi contemporanei; la storia di Gesù è provvidenziale, perché nella sua vita e nella sua dottrina tutto risponde alle esigenze degli scritti sacri. Ma perché la profezia possa creare la credenza deve essere chiara, nota alle comunità e legata alla fede da un nesso evidente di causa ad effetto. Ora quante volte non si è rimproverato a Matteo di legare i fatti ai testi antichi con un sottile legame? La stella può essere debitrice della sua origine alla profezia di Balaam dove il re è figurato con una stella (Num. 24, 17)? Gesù dovette andare in Egitto perché c'era stato Israele? Gl'innocenti dovettero essere massacrati perché Rachele aveva pianto sulla deportazione dei suoi figli?

La spiegazione più naturale dirà che Matteo o l'apologetica giudaica, se si vogliono moltiplicare i casi, cercò nelle Scritture un certo numero d'analogie per illustrare i fatti reali. L'evangelista si mostra meno preoccupato di accertare la realtà che di sottolinearne l'importanza. Questo metodo non risponde certo alle nostre esigenze intellettuali contemporanee, ma si adattava ai destinatari del Vangelo, unico punto di vista da cui dobbiamo giudicare. La tradizione, che qui si mostra diffusa negli ambienti giudaici o giudeo cristiani, da chi fu creata, se non dagli oracoli profetici? Si dice: dai racconti del folklore! Noi esamineremo questa risposta dopo aver consultato la testimonianza di Luca.

b) Luca. - Molto più spinosa è la questione delle fonti di Luca. V. Hard tur synoptischen Frage. Schliesst Lukas durck 1, 1-3 die Benutzung des Matthàus ausi [Contributi alla quest. sinottica: Luca nel passo 1, 1-3 esclude l'utilizzazione di Matteo?] in Biblische Zeitschrift, t. XIII 1915, pp. 334-337) sostiene che Luca conobbe i primi capitoli e ne tenne conto per completarli. Questo però non è il parere del P. Lagrange, che inclina a credere che Luca non abbia conosciuto i primi capitoli di Matteo (Evangile selon saint Lue, Parigi, 1921, p. 92; cfr. J. Lebreton, La vìe et l'enseignement de Jésus-Christ Nostre Seigneur, t. i, Parigi, 1931, p. 46).

Messa da parte questa relazione tra il primo e il terzo evangelista, dobbiamo chiederci se Luca dipenda da una fonte scritta. Alcuni critici rifiutano questo esame. S. Antoniadis (L'Evangile de Lue. Esquisse de grammaire et de style. Collection de l'Institute néo-hellénique de l'Université de Paris. Parigi, 1930, p. 391) scrive: " Qui non sarà studiata la questione delle fonti di Luca, perché è uno dei problemi dove la critica può fare le più ingegnose invenzioni senza mai provare nulla. Parlare di quello che ci offre il testo è già un soggetto ricco e che porta in se stesso i suoi dati e le sue prove ". Il Padre Lagrange scioglie la questione delle fonti scritte negativamente (Evangile selon saint Lue. p. lxxxix) : " Nulla autorizza la critica a distinguere qui un intermediario scritto tra la tradizione orale e l'autore del terzo Vangelo ". Dello stesso parere sono il P. Médebielle, Annonciation, in Dictionnaire de la Bible. Supplement, t. i, col. 268 e il P. Prat, Jésus-Christ. Sa vie, sa doctrine, son oeuvre, t. i, Paris 1933, p. 25: a Se (Luca) scrisse in stile biblico i primi due capitoli del suo Vangelo, questo non prova che li abbia tradotti da un documento ebraico o aramaico, ma che gli era abbastanza familiare con la versione greca della Bibbia per imitarne la edizione " (Cfr. ivi 1.1, p. 115).

Durand, Dalman, Plummer, Taylor, J. Gresham Machen, Lebreton invece ammettono che l'ipotesi d'una fonte scritta "spiega meglio le particolarità di lingua e di costruzione che si notano in questi due capitoli " (Lebreton, O. e; t i, p. 33). Bisogna proprio riconoscere che gli aramaismi e gli ebraismi sono più numerosi in questi capitoli che in qualsiasi altro luogo di Luca; le citazioni e le frequenti utilizzazioni dell'Antico Testamento, la conoscenza del culto, del tempio e delle cerimonie, l'identificazione al modo giudaico dei personaggi (Zaccaria della classe di Abia, Elisabetta della tribù di Aaron, Anna figlia di Fanuel, della tribù di Aser), particolari che non interessano affatto il lettore, si spiegano più facilmente ricorrendo a una fonte scritta. In questa ipotesi si spiegherebbero meglio le tracce di particolarismi che Luca, discepolo di Paolo, l'apostolo dell'universalismo, lasciò in questi capitoli (1, 32. 33. 68. 69. 71. 73. 74).

In ogni modo la presente questione non può far deviare l'essenziale del dibattito. Anche se Luca ha riprodotto un originale greco, tradotto un testo semitico, o composto uno scritto giudaico secondo una tradizione orale imitandone il vocabolario, lo stile, il ritmo, le leggi di composizioni letterarie con parallelismo, e quindi ha dato un colore locale alla sua narrazione, tuttavia egli lasciò l'impronta della sua mano e la caratteristica del suo spirito. Se si ammette un documento anteriore si diminuisce di altrettanto la distanza tra il teste e i fatti, però facendolo suo, Luca gli dette una garanzia supplementare non trascurabile. Verso il 60, nei due anni trascorsi da Paolo in prigione a Cesarea di Palestina, Luca potè facilmente informarsi sugli atti del Salvatore: incontrò testi oculari, parenti di Gesù, vegliardi che potevano ricordarne l'infanzia; era possibile che Maria fosse ancora in vita; ad ogni modo né Maria, né Elisabetta, né Anna erano scomparse senza aver comunicato i segreti e le meraviglie della nascita ai fedeli e specialmente alle sante donne che nel Vangelo seguivano il Signore e comparivano in compagnia di Maria. Ora, come fu spesso notato, le donne hanno una parte importante nel terzo Vangelo. " Il racconto di San Matteo è concepito dal punto di vista di San Giuseppe: a lui l'angelo di Dio appare costantemente; invece in san Luca dal principio alla fine la Madre di Gesù rimane il personaggio principale della scena; vi compare tra Elisabetta e Anna, che hanno il compito di proclamarne le grandezze. Oltre Maria, madre di Giacomo e di Giuseppe, e Maddalena, conosciuta dai primi tre evangelisti, Luca ricorda anche Susanna, Marta, sorella di Maria e Giovanna, moglie di Chuza, l'intendente del tetrarca Erode. Molti miracoli, riferiti solo dal terzo Vangelo, sono fatti in favore di donne : la vedova di Naim, la peccatrice dell'ottavo capitolo, la liberazione della Maddalena, la donna guarita dal male che la tormentava da diciotto anni; vi sono anche parecchie scene dove le donne sono in primo piano: l'obolo della vedova, la parabola del giudice iniquo; le figlie di Gerusalemme che compiangono Gesù, l'ospitalità ricevuta in casa di Marta e di Maria, la donna che proclama beata la madre di Gesù. Lo stesso rilievo fu fatto per il libro degli Atti " (Durand, O. e, p. 139-140).

In ogni caso san Luca o la sua fonte attinsero i minuti particolari, che caratterizzano il racconto dell'infanzia, da un ambiente molto intimo alla Vergine o da Lei stessa. Infatti il terzo Vangelo non si limita a ricordare le parole dell'Angelo e di Maria nell'Annunciazione, ma sa anche che la Vergine fu turbata dagli elogi del saluto; riferendo l'episodio di Simeone, nota l'ammirazione di Maria davanti alle visioni profetiche del vegliardo; per Betlemme e Nazareth Luca specifica due volte (Lue. 2, 19. 51) die la madre conservava il ricordo di tutte queste cose nel suo cuore, per ricordarsene e ripensarle con amore e raccontarle più tardi; infine quando il fanciullo è ritrovato nel Tempio, i genitori non capiscono il contenuto della parola di Gesù (Le. 2, 50). Godet, Zahn, Plummer, Ramsay, Sandy, Harnarck, per citare solo i protestanti, ammettono che i racconti evangelici risalgono al circolo che attorniava Maria.

3. Prodotto del folklore. - Se è così diventa certo molto difficile pensare che questi racconti siano stati creati attraverso il folklore. Infatti, secondo alcuni critici, la fede nella messianità di Gesù prodotta dalla fede nella sua resurrezione, avrebbe persuaso i fedeli ad attribuire a Cristo un'origine diversa da quella degli altri uomini. Sotto la pressione dell'idealizzazione sentimentale e della devozione della Chiesa antica, alcune leggende riguardanti grandi uomini, come Sargon, Ciro, Romolo, o anche i miti buddistici, i misteri mitriaci, e le credenze babilonesi, avrebbero servito come sustrato alla credenza cristiana; ma queste posizioni sono troppo spesso ispirate da sistemi filosofici nei quali viene assolutamente proscritto il soprannaturale.

Occorre notare che i seguaci di queste ipotesi sono gli stessi che rigettano l'autenticità dei capitoli, per avere a disposizione un lasso di tempo sufficiente perché abbia a sbocciare e svilupparsi questa sintesi pagano-cristiana; però possiamo chiedere loro perché i racconti di Matteo e di Luca portino l'impronta della semplicità e della sobrietà e riflettano uno stato della credenza cristiana meno sviluppato di quello delle Lettere di Paolo o del Vangelo di Giovanni. Perché fecero uscire Gesù da una famiglia povera, e lo fanno nascere in una stalla? Perché dargli una mangiatoia come culla, un'umile casa per dimora? Perché lasciarono sussistere tanti tratti che sentono di particolarismo dopo che l'universalismo di Paolo aveva trionfato definitivamente? Perché il Verbo di Dio, raggiante di gloria e verità, si presta alle vessazioni di Erode, e ai disagi della fuga in Egitto? D'altra parte il racconto di Luca rivela un'arte consumata. " Questi racconti e i cantici che racchiudono fanno rivivere non il cristianesimo già maturo, che Luca aveva sotto gli occhi quando componeva il suo Vangelo, ma le prime mosse dell'era messianica e i primi raggi dell'aurora " (Lebreton, ivi, p. 83).

D'altronde " la storia di Giovanni Battista e quella di Gesù sono collegate secondo le regole del parallelismo, le quali però, lungi dall'esigere somiglianzà perfetta, danno rilievo al pensiero solo con certi contrasti, che si percepiscono tanto più facilmente quanto più l'andamento è parallelo. La storia di Giovanni e quella di Gesù raccontano gli stessi fatti, ma con lineamenti tali da dare a ciascuna vita un vero carattere e anche in modo che una è subordinata all'altra e, se Giovanni appare tanto grande, ciò è solo per far risaltare la grandezza incomparabile di Gesù. L'angelo Gabriele appare a Zac-caria, padre di Giovanni, e a Maria, Madre di Gesù: Zaccaria domanda spiegazioni, Maria vuole essere illuminata. Le due madri s'incontrano; Elisabetta saluta Maria e Giovanni trasalisce di gioia per la presenza di Gesù. I due racconti qui sono certamente connessi, ma solo l'uno conduce all'altro " (Lagrange, L'Evangile selon saint Lue, p. lxxxviii). Ora questo carattere artistico del fondo e della forma in Luca, come l'impronta di storia provvidenziale data da Matteo al suo racconto, fanno vedere che i redattori di questi racconti sono personalità capaci di dare ai fatti attinti dalla tradizione un andamento e un significato particolare. Attribuire loro, da una parte, forza di pensiero poco comune, perfetto tatto nelle narrazioni difficili, senso storico ignoto agli antichi e, dall'altra parte, credulità eccessiva, ingenuità illimitata o una facoltà creatrice di fatti leggendari significa unire in una sola persona attributi contraddittori, ignorati dalla realtà; se Luca e Matteo vollero fare della storia e dell'apologetica, o controllarono sulle migliori fonti i fatti che riferiscono, o hanno voluto ingannarci.

4. L'armonia tra Matteo e Luca e il silenzio di Marco.

- La più forte obiezione, l'unica vera difficoltà contro la storicità dei racconti, viene dagli stessi evangelisti, a) All'interno dei loro vangeli non tradiscono forse uno stato di credenza che esclude la verità dei loro primi capitoli? Il precursore che compare in Le. 7, 19, = Mt. 11, 8 e non sembra conoscere il carattere intimo di Gesù, è colui che in Le. 1, 44 riconosce la sua inferiorità davanti alla Madre del Messia? La parentela di Gesù è proprio la stessa sia quando appare nella vita pubblica e sia nei primi capitoli dove tutto la portava a riconoscere il carattere soprannaturale della nascita e della missione di Lui? b) Antichi e moderni si preoccupano dell'accordo tra Matteo e Luca. Luca non conosceva né imagi, né la strage degl'innocenti, né la fuga in Egitto. Secondo Matteo Gesù è di Nazareth solo accidentalmente. Egli è betlemita di diritto, e) Infine se la nascita di Gesù fu tanto meravigliosa, come poteva un evangelista omettere questi racconti essenziali?

Risposta. - a) Tra la nascita e la vita pubblica di Gesù trascorrono circa trent'anni. La parentela dovette sapere qualcosa delle meraviglie che ne avevano accompagnato la nascita, ma le era certamente sfuggito il senso profondo del mistero, " Constatando ogni giorno che egli non si distingueva dagli altri fanciulli, arrivarono al punto di non attendere più nulla di straordinario da lui " (Durand, ivi, p. 145). Né Luca né Marco videro contraddizioni nel loro racconio e specialmente il caso di Giovanni è molto comprensibile, poiché il precursore sulla missione messianica di Gesù non aveva ricevuto abbastanza lumi onde la sua anima impaziente potesse cogliere il modo dolce e lento del pacifico rinnovatore.

b) Tra Matteo e Luca non c'è affatto contraddizione. I punti di vista sono diversi, nessun evangelista, tanto qui che altrove, intendeva raccontare tutti i fatti, dei quali fecero una scelta ispirata dallo scopo cui miravano o dalla destinazione del loro scritto. Matteo, preoccupato1 com'è di far vedere la discendenza davidica, spiegherà come Gesù possa essere detto nazzareno, essendo nato a Betlemme. Luca potè avere motivi a noi ignoti di conservare il silenzio sui Magi, che comporta quello sulla fuga in Egitto e sulla strage degl'innocenti. L'accordo fondamentale sulla nascita verginale ha un peso enorme dopo le divergenze accidentali, né si dimentichi che, se i cristiani ricevettero le due narrazioni, è perché esse attingevano a un fondo comune, in intimo contatto con la realtà. Scrive Durand: " Occorre molta discrezione quando si tratta di dire, non già ciò che un autore ha conosciuto, ma ciò che ha ignorato, perché ha messo questo nel tal posto piuttosto che in quell'altro, e specialmente per quale motivo tace mentre, secondo ogni verisimiglianza, poteva parlare... Spesso c'è più saggezza nell'ignorare che nell'affettare un sapere di cattiva lega. Qui le soluzioni facili e il tono apodittico sono un pregiudizio sfavorevole "(ivi pp. 212-213).

c) II silenzio di Marco, che bisogna avvicinare a quello di Giovanni e di Paolo, si spiega facilmente, avendo lo scopo di riportare la catechesi cristiana; e se i fatti dell'infanzia pungono la nostra curiosità, non hanno però il carattere pubblico della predicazione, della morte e della resurrezione di Gesù.

5. Il confronto con i vangeli apocrifi. - Per escludere l'autorità storica dei primi capitoli di Matteo e di Luca, essi furono relegati al livello della produzione apocrifica del secondò secolo, che nei racconti dell'infanzia tendono a introdurre il meraviglioso a profusione. Un confronto, anche solo superficiale, mette in risalto la differenza che distingue una perla dall'imitazione volgare. La scoperta recente di un brano d'un vangelo apocrifo mostra che questo genere di letteratura si diffuse molto presto tra i cristiani. Il Protovangelo di Giacomo fa di Maria la figlia d'un ricco giudeo, la fa restare al Tempio durante tutta la giovinezza, la fa nutrire da mani angeliche, a quattordici anni le fa rifiutare il matrimonio che le è proposto e, per deciderla, occorre il miracolo del bastone di Giuseppe che sarebbe fiorito o sarebbe venuta una colomba a posarsi sul capo del vegliardo. Il falso si rivela ancor più grossolano nel racconto della nascita: Un'ostetrica, Salome, vuoi accertarsi della verginità di Maria dopo il parto ma resta con la mano disseccata, che però viene guarita al tocco del Fanciullo Gesù. Nel Vangelo di Tommaso Gesù Bambino plasma uccelli d'argilla in giorno di sabato, ed egli se ne giustifica comandando loro di volarsene via; un bambino muore per averlo urtato involontariamente; Giuseppe per due volte corregge Gesù per i suoi capricci. Il Vangelo arabo dell'infanzia è ripieno di storie ridicole e amplifica gli altri apocrifi. Questi racconti insomma portano impresso il segno dell'invenzione tanto da non poter essere accolti dalla coscienza cristiana.

Conclusione. - Imponendo ai fedeli di credere ai fatti contenuti nel vangelo dell'infanzia, la Chiesa non abusa della sua autorità dottrinale e la pratica del suo diritto riposa su basi razionali incontestabili. Le narrazioni dell'infanzia appartengono a opere storiche e beneficiano del loro credito. I credenti non ammettono soltanto la realtà di questi fatti, perché la Chiesa li insegna; essi trovano una giustificazione sufficiente nella testimonianza di Matteo e di Luca.

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02/09/2009 08:12

3 - La concezione verginale

CAPITOLO III. - LA CONCEZIONE VERGINALE

Preliminari. -1. Questo studio e il seguente (IV: La perpetua verginità di Maria) intendono provare la legittimità della fede nella verginità di Maria nella concezione, nel parto e dopo la nascita di Gesù. Ma prima d'ogni altra considerazione, occorre ricordare il dato esatto del problema.

Siamo davanti a un fatto che per la sua natura sfugge alla pubblicità. San Tommaso classifica questo miracolo nella categoria di quelli de quibus est | fides, distinguendolo dagli altri ad fidei comprobatìonem, come la guarigione di malati, la resurrezione dei morti, la moltiplicazione dei pani. Quello è più nascosto, questi sono manifesti (Summa Theologica, parte III, q. XXIX a. I, ad I 2). A noi basta dimostrare la legittimità della nostra credenza, di cui l'esame : della tradizione primitiva fa vedere l'antichità. Essa però risale agli apostoli o s'introdusse surrettiziamente nel deposito cristiano? Se fa parte delle credenze primitive del cristianesimo, non si scoprono tradizioni anteriori o contemporanee che la contraddicano? Provando che la fede nella verginità di Maria fa parte del primitivo deposito cristiano, si sarà rivendicato alla Chiesa, con argomenti storici, il diritto d'imporre questa stessa fede a tutti i fedeli.

2. Nel capitolo precedente abbiamo dimostrato la storicità del vangelo dell'infanzia, che registra le affermazioni della concezione e del parto verginale, le quali beneficiano quindi del credito che abbiamo riconosciuto all'insieme della fonte. Tuttavia per il carattere soprannaturale del racconto, i critici dalle concezioni filosofiche che escludono il miracolo, sono indotti a ricercare come queste credenze poterono nascere negli ambienti cristiani. Non è nostro compito seguirli nella loro filosofia della storia e ci dobbiamo accontentare di osservare che la loro " fede " è anteriore ed è su di un altro piano dalla ricerca storica pura, cui molti di costoro si appellano assai volentieri, e quindi non hanno motivo di rimproverare ai credenti d'essere legati dal domma. Né le prime comunità cristiane né i teologi moderni avevano bisogno d'inventare la fede nella verginità di Maria per provare la loro fede nella divinità di Gesù; accettando questa fede la Chiesa antica e attuale continua nella via imposta dai fondatori del cristianesimo.

3. Queste riflessioni impongono le divisioni e il metodo al nostro lavoro. Che Maria sia rimasta vergine nella concezione di Gesù è un problema che risulta dalla critica dei libri sacri; che sia rimasta vergine fino alla morte si può affermare solo aggiungendo alla testimonianza dei libri canonici quella della Chiesa primitiva. Queste due questioni devono essere trattate separatamente, ma unica è la via da seguire. Liberandosi dalle obiezioni particolari, di cui si potrebbe accrescere il numero, bisogna mettere in rilievo nelle fonti l'affermazione di questa credenza, stabilire l'autenticità dei testi contestati, analizzare il grado d'evoluzione che rappresentano le concezioni e dare allo sbocciare della fede una sufficiente spiegazione storica.

1. Testi. - I due Vangeli affermano categoricamente che Gesù nacque da Maria senza l'intervento di Giuseppe.

I. Matteo. - In San Matteo il vangelo dell'infanzia è concepito dal punto di vista di san Giuseppe: le genealogie finiscono a a Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale nacque Gesù che si chiama Cristo " (1, 16); la generazione di Cristo annunciata solamente (1, 18) comincia con la spiegazione data a Giuseppe della gravidanza della sua fidanzata: a Ciò che è concepito in lei è l'opera dello Spirito Santo " (1, 20); questa meraviglia si opera perché si compia l'oracolo: " Ecco, la Vergine concepirà e darà alla luce un figlio " (1, 23). Giuseppe prende Maria con sé " e non la conobbe fino al giorno in cui diede alla luce un figlio ". Giuseppe è al centro delle narrazioni di Matteo. L'evangelista tuttavia lo fa intervenire con tale insistenza solo per notare il legame di Gesù con Davide, di cui Giuseppe è figlio ( 1, 20) com'è provato dalla genealogia, e per spiegare che, pur beneficiando di questa discendenza che ne accreditava i titoli messianici presso i suoi, Gesù ne è solo figlio legale; Giuseppe accettò questa paternità ufficiale solo per il messaggio divino; per due volte l'evangelista ripete che la concezione è l'opera dello Spirito Santo (1, 19, 20).

L'affermazione di Matteo è fuori dubbio; però il suo testo non porta forse nessuna traccia d'una credenza più antica, secondo la quale Gesù sarebbe stato il figlio di Giuseppe e di Maria al modo di tutti gli altri uomini? Il versetto 16 di questo capitolo I, in realtà ci è pervenuto in tre forme:

" Giacobbe generò Giuseppe, il marito di Maria, dalla quale è nato Gesù ".
" Giacobbe generò Giuseppe, la cui fidanzata Maria vergine generò Gesù ".
" Giacobbe generò Giuseppe; Giuseppe, al quale era stata fidanzata la Vergine Maria, generò Gesù ".
La prima forma è la meglio attestata e senza contraddizioni; la seconda ha per miglior appoggio il gruppo Ferrar e alcune versioni latine siriache e armene; la terza ha come sostegno soltanto la siriaca del Sinai. In buona critica non si può disprezzare questa differenza di grado nell'attestazione; inoltre la lezione La spiega le altre. Colpito dal termine " marito di Maria " un copista rettificò precisando che Giuseppe era soltanto fidanzato e che essa era vergine; nello stesso tempo fu indotto a non lasciare " è nato " al passivo che sostituì con l'attivo " generò ", attribuito a Maria. Il traduttore siriaco, notando che " generò " nella genealogia è sempre applicato all'uomo, continuò fino alla fine la prima formulazione, stimando che l'inciso " al quale era fidanzata la Vergine Maria ", manifestasse abbastanza il suo pensiero. Il P. Lagrange {Evangile selon saint Matthieu, p. 7) dice che ammettere la 3.a forma come primitiva è un'enormità critica. Non più del traduttore siriaco, l'esegeta cattolico non si troverebbe imbarazzato dalla lezione di Syrsin, che anche il cattolico Heer adottò (Die Stumm-baume Jesu nach Matlàus una Lukas [L'albero genealogico di Gesù secondo Matteo e Luca], Friburgo in Br., 1910, p. 154 sg.). Infatti anche se il testo dice che Giuseppe generò Gesù, ci si può chiedere se egli intende significare una filiazione legale o una filiazione naturale. La soppressione dell'inciso è totalmente arbitraria. Affermare che si tratta di generazione naturale, è applicare al testo le esigenze d'un'evoluzione posta a priori in virtù di concezioni estranee alla storia o solo per impressioni personali, forse molto rispettabili, ma incontrollabili. Anche se accettiamo la soppressione richiesta, non ne risulta che sia affermata la filiazione naturale di Gesù nei riguardi di Giuseppe, poiché nell'elenco il termine " generò " non significa necessariamente la discendenza carnale: Gioram non è il padre di Ozia, né Giosia è padre di Geconia, né Geconia, che secondo Geremia (22, 30) fu sterile, è padre di Salathiel. Bisogna quindi provare:
1. che in questo caso la paternità di Giuseppe non poteva essere adottiva o legale;
2. che l'ultimo redattore tradì l'intenzione del testo primitivo con un'esegesi tendenziosa; 3. che la rettifica non è il frutto di una migliore conoscenza dei fatti, ma d'un'evoluzione della fede cristologica (1). IL Luca. - II racconto di Luca è dominato, più ancora di quello di Matteo, dall'idea della concezione soprannaturale, poiché il terzo, vangelo in un primo quadro descrive le due annunciazioni e la visitazione; in un secondo le due nascite e la presentazione al tempio; infine il racconto del viaggio di Gesù a Gerusalemme fa vedere la manifestazione della sua dignità al mondo. Ora le due annunciazioni sono presentate in modo da mettere in risalto la persona di Zaccaria da una parte, la persona di Maria dall'altra: la visitazione fa vedere la superiorità dell'attesa di Maria su quella di Elisabetta; nella presentazione al tempio Maria occupa il primo posto, e nell'episodio di Gesù tra i dottori, l'opposizione tra le parole di Maria: " tuo padre ed io " e quelle di Gesù " la volontà del Padre mio " è intenzionale. Tutto ciò dimostra il posto più importante del compito di Maria nella nascita di Gesù e inquadra in modo completamente naturale i versetti 34 e 35 : " Allora Maria disse all'Angelo : "Come potrà avvenire questo, se io non conosco uomo?" e l'angelo le risponde: '"Lo Spirito Santo verrà sopra di te, e la potenza dell'Altissimo ti coprirà della sua ombra e per questo il bambino nato (sarà) santo, sarà chiamato Figlio di Dio" ". L'economia del racconto e l'esame particolare dei testi dimostrano che essi sono autentici e fanno corpo con tutto il racconto di Luca. Infatti: 1.o Se l'angelo si rivolge a Maria come a Zaccaria, se entrambi sono autori di cantici di ringraziamento, non è forse perché questi due personaggi hanno una parte centrale nella nascita annunziata? Quale sarebbe l'originalità e la parte attiva di Maria se Ella è madre come tutte le donne?
2.o Se il miracolo della nascita di Giovanni è grande a motivo della sterilità e dell'età di sua madre, il miracolo della nascita di Gesù, che l'angelo paragona all'altro (1, 36), non dovrà consistere nella vittoria su ostacoli fisici superiori?
3.0 L'Ecce anelila Domini indica in Maria una sommissione: la sua adesione non suppone forse una discussione, e un mutamento nell'orientamento di vita che è facilmente spiegabile con la volontà di Maria di essere vergine?
4.o Gesù al tempio opponendo il suo vero padre a quello di cui parla Maria, non indica forse di non avere altri padri? L'esegeta protestante Feine, ha un'espressione giustissima ricordata da C. van Combrugghe: "Sopprimere questi due versetti significa togliere i diamanti lasciando la montatura " (De Beata Maria Virgine, Gand 1913, p. 41). Esaminando più a fondo il contesto, vi scopriamo la stessa armonia. Paragonato ai versetti 31-32, dove si dice che il figlio di Maria, die verrà chiamato Gesù, sarà grande, figlio dell'Altissimo, erede del trono di Davide, il versetto 35, che io proclama santo e Figlio di Dio, non offre contraddizione; l'angelo (v. 36), dopo aver dichiarato come il figlio della vergine sarà l'opera di Dio, senza l'uomo, poteva ora dargli il suo vero nome, e aggiungendo che Elisabetta, vecchia e sterile, aveva concepito ed era al sesto mese, Gabriele da un segno che non avrebbe più importanza se si tolgono le meraviglie del versetto 34 e 35, che è invece perfettamente a posto se si ammette che da parte di Maria, come d'Elisabetta, Dio sovvertirà le leggi naturali per dare loro un figlio. Negli stessi versetti non mancano gli indizi stilistici per accordarli col resto dei capitoli.

(1) Ci sia permesso di richiamare l'attenzione su un caso tipico del metodo di Ch. Guionebert, nel suo Je'sus, Parigi. 1933, p. 127.1) Erudizione: a prima vista sembra brillante, ma ben presto si mostra deficiente: Guignebert cita un secondo manoscritto, scoperto da Conybeare al Valicano e che appoggerebbe la lezione di Syrsin. Questo manoscritto dev'essere il Dialogue of Thimoty and Aquila, Anccd. Oxon. classiceli serie, t. vm, 1898; già da lungo tempo non si riconosceva più alcun valore a questo testimonio. Cfr. Durakd, 0. e. pp. 77-83; F. C. Burkitt, Evangdiwn da Mepharresche, Cambridge, 1904, t. n, p. 260; E. Klostermann, Dos MaUltàuS'evatìgelium,p.y.2) Interpretazione tendenziosa: nella traduzione di Syrsin Guignebert sostituisce fidanzata con sposata. La formula 1 .a è " il testo da noi accettato " senz'alcun'altra giustificazione ; la formula del gruppo Ferrar viene passata sotto silenzio. 3) Affermazione incontrollabile: p. 127, la formula di Syrsin (3.a) viene dichiarata " probabilmente anteriore alla nostra " ; questa probabilità " indiscussa " deve provare che " la lezione più antica della genealogia di Matteo terminava certamente con l'attribuire la generazione a Giuseppe ". È vero che Guignebert a questa prova aggiunge il fatto che certi eretici per provare che Gesù è veramente figlio di Giuseppe e di Maria si sono appellati alla genealogia di Matteo; ma l'esame di questo nuovo argomento ci dimostrerebbe che Cerinto, Carpocrate e gli Ebioniti imponevano ai testi modificazioni simili a quelle proposte da Guignebert.

Sono segni dello stile lucano chiamare Dio l'Altissimo, dire che lo Spirito verrà sopra di te, usare " pròs " col verbo dire, mentre ciò che si può notare contro non conta quasi nulla (2).

I testi di Matteo e di Luca asseriscono la concezione verginale di Maria. Si deve dunque considerare il valore di tale insegnamento: Lo dimostrando che questa credenza è primitiva; 2.0 rivendicando l'oggetività del fatto come unica ragione sufficiente della realtà della fede.

(2) L'autenticità di Le. 1, 34-35 è stata attaccata compattamente da numerosi critici, e soprattutto di A. Von Harnack, Zu Lue. I, 34-35 in Zeitsckr. fùr die jV. T. W., t. 11, 1901, pp. 53-57; si possono trovare i suoi argomenti acutamente ripresi e confutati in J. Gresham Macken, The Virgin Birlh, New-York, 1930, pp. 119-168 (protestante) e in J. M. Vosté, De conceplions virginali Jesu Christi, Roma, 1933, pp. 40-51. Il dotto professore riporta l'essenziale della discussione, che oggi sembra spenta.

 

2. Le obiezioni. - Che la fede nella verginità di Maria, nei racconti di Matteo e di Luca, sia primitiva risulta in modo generale dal fatto che tale dottrina appartiene realmente ai documenti che la contengono e che tali documenti hanno un ottimo valore di testimonianza, essendo fonti eccellenti. Avremo la dimostrazione completa dopo aver risolto queste questioni; allora resterà solo da fare fino nei minimi particolari, il confronto tra questa fede e il resto dei testi del Nuovo Testamento.

E prima di tutto come possiamo accordare la dimostrazione dei due evangelisti riguardo alla filiazione davidica di Gesù attraverso Giuseppe, se si esclude proprio costui dagli antenati di Cristo? D'altronde Luca non chiama forse spesso Giuseppe e Maria genitori di Gesù? Come spiegare che essi si stupiscono (2, 35-50) conoscendo l'origine soprannaturale del loro figlio? La risposta a queste difficoltà si trova nello stesso Vangelo. Al versetto 16 della sua genealogia Matteo fa vedere chiaro che gli importa solo la discendenza davidica legale, e Luca dice esplicitamente che Gesù era figlio di Giuseppe solo nell'estimazione (3, 23). Gli evangelisti si accontentarono di questo legame di Gesù con Giuseppe per ritenere che gli ascendenti dell'uno fondassero i diritti dell'altro. Si può discutere, se si voglia, il punto di vista giuridico secondo le nostre concezioni moderne, ma l'affermazione e il procedimento degli evangelisti sono indiscutibili e dopo tutte le loro spiegazioni perché affaticarci a precisare criticamente ogni volta che parlano dei genitori e del padre di Gesù? Infine il loro stupore può provenire da numerose ragioni; tra il sapere e l'esaurire l'oggetto della conoscenza, vi è largo posto allo stupore.
Il valore delle tradizioni di Matteo e di Luca viene forse diminuito dal silenzio di Marco, Paolo e Giovanni?
Abbiamo detto quello che in generale si deve trarre dall'argomento del silenzio. Possiamo ammettere la tesi di Guignebert (0. e, p. 128) che cioè la concezione verginale non suscita nessuna eco in tutto il resto del Nuovo Testamento, se proviamo immediatamente che nulla la contraddice. Dal silenzio di Marco concludere al rifiuto delle tradizioni, affermare che nella redazione primitiva di Marco lo Spirito Santo prende dimora in Gesù nel battesimo e non nella concezione, significa mascherare una ritirata dietro una nebbia artificiale.

Non stupisce forse il fatto che Marco non da mai a Gesù il nome di figlio di Giuseppe, ma quello di Figlio di Maria o di Figlio di Dio? Dove Matteo parla del figlio dell'artigiano (13, 55) e Luca del figlio di Giuseppe (4, 22) il parallelo di Marco ha figlio di Maria (6, 2). V. Rose (Etudes sur les Evangiles, Parigi, 1902, p. 56) conclude giustamente: " In ogni caso se (Marco) credeva alla nascita soprannaturale e alla verginità di Maria, non poteva parlare altrimenti ".

Né maggiori argomenti contro la concezione verginale si possono dedurre da Marco 3, 21. I parenti di Gesù, credendolo fuori di sé, un giorno vengono per prenderlo. Era con loro la madre di lui, ma se anche i " fratelli " di Gesù lo giudicano sfavorevolmente, nulla permette di attribuire le stesse idee alla Madre.

Quanto a Paolo si dice: Lo che non si sarebbe impigliato nella dottrina dell'Adamo celeste venuto a rinnovare il mondo, se avesse creduto che il Signore era nato da Maria " per opera dello Spirito ", e che 2.o il testo di Gai. 4, 4: s Dio ha mandato il Figlio suo nato da una donna " si deve intendere " come una testimonianza in favore della nascita normale di un figlio giudaico "; 3.o che, secondo la Lettera ai Romani, Gesù Cristo è nato dal seme di Davide secondo la carne ed è Figlio di Dio secondo lo spirito per la sua Resurrezione (Guignebert, o. e, p. 131). Ci stupisce di trovare continuamente ripetuti questi argomenti tante volte confutati. San Paolo ricorda solo un piccolo numero di fatti della vita terrena di Gesù e, col suo silenzio, suppone una catechesi " su quello che Gesù aveva cominciato a dire e a fare dal battesimo fino alla resurrezione " (Atti 1, 5). Nessuno pensa di negare le relazioni di Paolo e di Luca; fra i tre sinottici Luca più di tutti ha una dottrina paolina (cfr. M. J. Lagrange, Evangile selon saint Lue, p. 118 sg.), ed è una visuale storica errata opporre Luca e Paolo; ma siccome la critica cavilla tanto sull'autore degli Atti quanto sulla composizione lucana del Vangelo, ci limitiamo a esaminare solo la testimonianza paolina. Non c'è in lui una sola riga che escluda la concezione verginale. La dottrina del Nuovo Adamo è indipendente dall'origine umana di Gesù, essendo la sintesi della soteriologia del grande apostolo, che vi ricorre non per spiegare la divinità di Gesù, ma per dare un fondamento alla dipendenza del credente da colui attraverso il quale viene ogni salute. In Gai. 4, 4, Paolo insiste sull'umiltà di Gesù Cristo e trova utile ricordare che, sebbene figlio della donna, Gesù non è affatto peccatore. Se Gesù fosse figlio di un uomo e di una donna, Paolo come ne avrebbe spiegato l'esenzione dal peccato? Si può trovare più strano che l'apostolo dichiari Gesù nato dal seme di Davide, che sentire Luca e Matteo dirlo figlio di Davide?

Secondo Guignebert, lungi dal garantire la leggenda di Matteo e di Luca, Giovanni non trascurerebbe l'occasione di scrivere che Gesù è figlio di Giuseppe (1, 45; 6, 42; 7, 3-5). Possiamo soltanto rimandare agli studi speciali per lo studio di 1, 13, dove sono di fronte due lezioni: " Non è dal sangue, né da voler di carne, né da voler dell'uomo, ma è da Dio (I) che egli è nato ", o (II) " che essi sono nati ". La prima lettura, fatta collocando questa testimonianza nel suo contesto storico, vedrebbe qui un'indubitabile asserzione in favore della concezione verginale. Un autore della fine del primo secolo che conosceva le narrazioni della nascita di Gesù non poteva scrivere una frase come quella rappresentata da I, senza prender posizione in favore della divina concezione di Cristo. Ancora una volta mettiamoci nella posizione più svantaggiosa e facciamo astrazione da questo testo. I critici pensano che Luca e Matteo siano prodotti letterari assai tardivi, ma Giovanni lo sarebbe assai più di loro, giacché la cristologia del quarto vangelo sembra loro sempre più sviluppata di quella dei primi capitoli di Matteo e di Luca. È quindi molto difficile per essi negare che il redattore Giovanni conoscesse i redattori Luca e Matteo; in questo caso, l'argomento del silenzio sta contro di loro. Giovanni conobbe non solo le narrazioni sinottiche nel ministero pubblico, ma conosceva Luca e Matteo come 1i abbiamo ora e non li contraddice. Si può forse asserire che chiamando Gesù " figlio di Giuseppe " egli abbia voluto accusare di falso le dottrine riportate dai due evangelisti? Perché negargli il diritto di conformarsi a un modo già corrente di parlare che non doveva stupire i suoi lettori più di quanto non stupisca il più scrupoloso credente dei nostri giorni? La dottrina giovannea del Logos fatto carne e l'insegnamento paolino del figlio fatto uomo dispensavano gli apostoli dal riferire dettagli storici sulla nascita di Gesù senza partecipazione di uomo. Non entrando questo fatto nella sintesi della loro cristologia e soteriologia, non occorreva che tornassero su tale credenza, che era inglobata nella loro fede nella divinità di Gesù (3).

Nella tradizione cristiana primitiva non c'è nulla che permetta di supporre uno stadio di sviluppo della fede in cui si escludesse la fede nella concezione verginale. Bisogna dunque spiegare questo stato di spirito.


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02/09/2009 08:12

3. Origine della credenza. - Allo storico delle idee che cerca i fattori determinanti la fede di Matteo e di Luca, si presentano tre ipotesi. 1. Le idee possono provenire dall'ambiente greco, attraverso una contaminazione del dato cristiano con le leggende pagane; 2. Possono derivare da centri giudeo-cristiani; 3. Possono essere il prodotto della coscienza cristiana.

1. Gl'influssi greci. - Tra gli influssi pagani che poterono avere qualche relazione con la tradizione cristiana, riteniamo soltanto quello dell'ellenismo. Il problema degl'influssi, per avere qualche significato, deve restare nel concreto. Poco importa che gli Australiani o altre popolazioni possano immaginare una concezione senza unione, non avendo questi casi nulla a che fare con noi. Né bisogna dimenticare che la concezione di Gesù non è la produzione di un essere umano, divinizzato in seguito, ma l'incarnazione d'un Dio preesistente. La natura umana riceve l'esistenza non per generazione avvenuta mediante un Dio e una donna, bensì Maria genera soltanto per l'operazione divina, che supplisce miracolosamente l'unione materiale; né c'è produzione d'una nuova divinità, essendo il cristiano monoteista quanto il giudeo. (Cfr. M. J. Lagrange, La Conception surnaturelle du Christ d'après saint Lue, in Revue biblique, 1914, p. 196).

Fatta questa premessa affrontiamo la teoria delle fonti elleniche. a Nel mondo greco-romano, dice Guignebert, si scoprono le analogie più sorprendenti con la storia miracolosa di Gesù " (o. e., p. 135): Perseo nacque dalla vergine Danae e da una pioggia d'oro; Nana, madre di Attis, è incinta perché ha mangiato un frutto di melograno; i grandi uomini come Piatone, Pitagora, Augusto nascono per partenogenesi o per l'intervento d'un Dio. Su queste prove Guignebert basa il seguente ragionamento: "Si capisce molto bene come in ambienti dove circolano tante storie di questo genere, i cristiani, preoccupati di dare una prova decisiva della fondatezza della loro fede nel carattere divino di Gesù, abbiano molto naturalmente pensato alle narrazioni usate per far riconoscere gli uomini segnati del suggello della Divinità. Si sa che in simili casi non c'è un'imitazione cosciente d'una storia determinata, ma c'è l'influsso di una certa atmosfera di credulità. È un fenomeno che troviamo spesso " (ivi, p. 135).

(3) Per stimmatizzare ancora una volta la maniera di Guignebert aggiungo che nei tre passi da lui citati : 1,45 ; 6,42 ; 7,3-5 nulla autorizza a scrivere che Giovanni " non si lascia sfuggire un'occasione " per proclamare che Gesù è figlio di Giuseppe. In 1,45 è Filippo che dice a Natanaele : Abbiamo trovato colui del quale Mosè e i profeti hanno scritto : è Gesù, il figlio di Giuseppe di Nazareth ; in 6,42 i Giudei mormorano e si chiedono come Gesù possa pretendere di discendere dal cielo, mentre si conoscono suo padre e sua madre: è il figlio di Giuseppe; in 7,3-5, citato solo per fare impressione sul lettore che non andrà a verificare, si tratta dei fratelli del Signore, ma è ima questione completamente diversa. Dunque nei due casi dove Giovanni adopera il termine " figlio di Giuseppe ", lo fa per riportare le parole altrui, dimostrando chiaramente di trasmettere l'opinione altrui, senza tuttavia doverla far sua.

Contro questa teoria ci limitiamo ad alcuni argomenti decisivi.
1.o Tra le leggende pagane e la tradizione cristiana c'è tale contrasto, che l'influsso dovuto a un prestito è assolutamente inverosimile. L'idea di verginità era talmente estranea e cosi poco in onore nella mentalità del mondo pagano che non poteva venire da essa;
2.o la tradizione cristiana è immune dal mito pagano;
3.o lungi dall'attribuirgli una deificazione al modo dei pagani, i cristiani lasciarono al loro fondatore una nascita povera e oscura;
4.o l'incarnazione di un Dio preesistente è ignota al paganesimo;
5.o l'analogia con i grandi uomini superficialissima: Piatone ad esempio assomiglia a Gesù unicamente perché Aristione, come Giuseppe, non interviene nella sua concezione. Tutte le leggende pagane suppongono l'azione maritale compiuta dal dio e dal suo fantasma (cfr. Lagrange, Evangile selon saint Matlhieu, p. 44);
6.0 un domma creato in terra greca avrebbe potuto essere accolto nelle comunità palestinesi senza incontrare resistenza? Al contrario, come luogo d'origine, i testi rivelano un ambiente giudeo-cristiano.

Gl'influssi giudaici. - Eliminato l'ambiente pagano, è difficile ricorrere a un influsso puramente giudaico. Però i racconti di Matteo e di Luca hanno tracce incancellabili del vocabolario e di frasi semitiche, alludono a usi e persone che non interessano i cristiani ellenisti; Matteo suppone e non spiega le consuetudini matrimoniali; Luca, anche se non prende da una fonte scritta continua, si basa su documenti di provenienza palestinese, come il Magnificat, il Benedictus, il Nunc dimillis, la genealogia di Cristo. Però, come ammette anche il Guignebert, la Palestina non è un ambiente già favorevolmente disposto a ricevere un domma cosi nuovo, non avendo i Giudei nelle loro credenze nulla che li predisponga ad ammettere che una donna possa restar vergine nel partorire un figlio. Unico testo citabile è quello di Isaia 7, 14: " Ecco una donna non maritata è incinta e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele ".
Ma nessun passo delle tradizioni messianiche posteriori all'esilio, presenta il Messia come dovesse nascere da una Vergine, e soprattutto mai come un Dio fatto uomo.
Prodotto della coscienza cristiana? - Eccoci dunque ridotti a un ambiente cristiano e più precisamente palestinese. Vi sono due teorie.
Harnack sostenne che i cristiani, convinti che il loro Cristo fosse nato dallo Spirito di Dio nel battesimo, e leggendo in greco la profezia d'Isaia dove la parola ebraica almah (Guignebert, non sappiamo perché, scrive sempre Halamah) vien tradotta parthènos, cioè una vergine, proiettarono la profezia mal compresa nel campo della realtà e legarono le loro convinzioni anteriori a quest'esegesi d'Isaia. Qui Guignebert non è lontano dalla verità quando scrive: a Isaia potè venir considerato testimonio profetico decisivo del segno miracoloso ma non fu lui a suggerirlo " (p. 138), perché tanto gli oracoli sul servo di Jahvé, quanto la profezia delI'Emmanueie pare che non fossero familiari ai contemporanei di Gesù.

La seconda teoria, patrocinata da Loisy e Guignebert, vuole che si parta dalla credenza cristiana nella divinità di Gesù per collegarvi la sua nascita verginale quale conseguenza: avendo Dio come padre, non ha ascendenti umani; di qui tutta la storia registrata in Matteo e Luca. Notiamo che tra la morte di Gesù verso l'anno 30 e lo sbocciare di queste storie verso l'8O, al dire di Guignebert (p. 140), c'è ben poco tempo: la prima generazione cristiana non era scomparsa completamente e se essa potè credere alla resurrezione di Gesù poco dopo la morte di Cristo, era necessario un certo tempo per divinizzarlo, lavoro che era finito verso il 50, data delle prime lettere paoline; ma, secondo il sistema critico, Paolo non conosce le leggende di Luca e di Matteo che anzi si contraddicono. Bisogna dunque supporre che in poche decine d'anni sia stato possibile diffondere in tutte le comunità la fede nella concezione verginale e abbellirla con racconti divergenti inventati di sana pianta.

Si pretende appoggiare questa spiegazione sopra un testo e sopra un fatto. Il testo è quello di Le. 1, 35b, di cui bisogna presentare almeno due traduzioni:

l.a " Perciò quel che di santo nascerà, sarà chiamato Figlio di Dio "; 2.a " Perciò il bambino sarà chiamato santo, Figlio di Dio ", o ancora: a Perciò il bambino sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio ". In tutte queste espressioni Figlio di Dio può significare la natura divina di Gesù, ma numerosi commentatori non giungono fino qui, poiché le parole dell'angelo farebbero soltanto " un'allusione alla natura divina di Gesù, più che una reale affermazione ipostatica " (cfr. L. Marchal, Evangile selon saint Lue, nella Sainte Bible, edita da R. Pirot, t. x, Parigi, 1935, p. 30). Inoltre in tutte le espressioni il " perciò " indica una causalità. Se si ammette la prima traduzione, il legame di causalità viene rafforzato: la concezione verginale è la fonte della filiazione divina di Gesù; nel secondo caso la concezione verginale è prima di tutto fonte di santità, a e il legame di causalità che lega strettamente la santità all'azione dello Spirito Santo, si rallenta e indebolisce relativamente alla filiazione ". Non occorre che noi prendiamo posizione nella disputa, poiché, s'intenda 1, 35b in un senso o nell'altro, è chiaro che, in nessuna interpretazione la concezione verginale è il risultato della credenza nella filiazione divina; il rapporto è inverso: Gesù è chiamato figlio di Dio perché nato da una vergine. Il testo dice espressamente questo e più ancora: Luca al versetto 32 aveva già detto: " Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo ": non si deve quindi intendere la relazione di causalità tra filiazione e verginità di Maria come se l'esistenza della filiazione già proclamata dipendesse dalla nascita verginale, ma, grazie alla concezione verginale, Dio dimostrerà che il santo, causato dall'intervento dello Spirito, sarà suo Figlio per un titolo specialissimo. Il legame è quindi nella conoscenza: " sarà riconosciuto, vocabitur, dalla concezione verginale che... ", e nel fatto: un bambino concepito in questo modo ha Dio come padre in un modo tutto speciale, anche se non è figlio di Dio in tutta la forza del termine. Secondariamente Matteo, come Luca, riferisce in modo esplicito la nascita verginale, ma non allude affatto alla filiazione divina. Lungi quindi dal trovare un appoggio nel testo, la spiegazione evoluzionistica urta contro la testimonianza del Vangelo.

Ed ecco il fatto : " Gli ebioniti che conservarono almeno una parte delle tradizioni primitive, tanto da figurare come eretici dal secondo secolo in poi, respingevano la dottrina della concezione verginale. Su questo punto abbiamo le testimonianze formali di Giustino e d'Epifanio (Giust., Dial., 48, 4; Epifanio, Haereses, 30, 14; cfr. Guignebert, o. e, p. 132). Questo compendio è di quelli che falsano la visuale storica. Che si vuole provare? che in seno al cristianesimo c'erano due correnti: l'una che fini col creare la fede nella concezione verginale, l'altra che continuò la tradizione primitiva e confutò questa credenza. Ma non fu mai provato che gli ebioniti si collegasiaro a una tradizione più antica e i Padri, che ci trasmisero qualche notizia sulla loro setta, li collegano a Cerinto e distinguono molto nettamente tra i gruppi ebioniti; alcuni sono ortodossi, e continuano la tradizione giudeo-cristiana della Chiesa primitiva; gli altri sono eretici e professano, tra gli altri, l'errore di credere che Gesù nacque come un altro uomo. L'insieme della loro dottrina si delinea nettamente come un'alterazione d'un dato primitivo, che li condusse allo gnosticismo. L'opposizione di Cerinto al dato primitivo gli era imposta dalle sue idee teologiche: tutto il corporeo è impuro; in Gesù lo spirituale viene da Dio, il materiale può avere origine solo da una normale unione tra Giuseppe e Maria (4).

Conclusione. - Ammessa l'insufficienza della spiegazione ellenistica e giudaica della credenza cristiana è dunque vano cercare in seno al cristianesimo una spiegazione diversa da quella suggerita dagli evangelisti e specialmente da Luca: la fede viene dalla testimonianza di fonti autorizzate, che hanno la loro origine ultima solo in colei che " conservava tutte queste cose nel suo cuore ", cioè la Vergine Maria.

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02/09/2009 08:13

4 - La perpetua verginità di Maria

CAPITOLO IV. - LA PERPETUA VERGINITÀ' DI MARIA

La verginità di Maria conservata durante e dopo il parto di Gesù, £a parte del dato cristiano ed è un insegnamento che riguarda nello stesso tempo la Bibbia e la tradizione. Noi ci occuperemo in modo speciale soltanto della verginità durante il parto per dimostrare che nessun testo autorizza la negazione della perpetua verginità della Vergine.

La tradizione. - Non si può tuttavia passare sotto silenzio la tradizione, anche come argomento puramente storico. Il dato della tradizione viene cosi riassunto da D. B. Capelle: " Adhuc Virgo " chez saint Irénée in Recherches de Théologie ancienne et medievale, t. n, 1930, pp. 394-395: " Se abbiamo ben capito la sua testimonianza (di Origene), sembra che la perpetua verginità di Maria sia stata trasmessa dalla tradizione dei primi secoli più implicitamente che direttamente, come lo sarà l'Assunzione. Si spiegano cosi le negazioni di Tertulliano, il silenzio di molti, le esitazioni di alcuni, e cosi forse bisogna intendere l'atteggiamento d'Ireneo, le cui reticenze indicherebbero un delicato rispetto davanti a un mistero, più che una fede chiara in un fatto rivelato. In questo senso Ireneo, assieme a San Giustino, è testimonio — prò temporum adjunctis — del domma futuro ". Dom Capelle ricordò questa situazione solo per precisare alcune affermazioni d'un libro che gli apologisti della verginità di Maria non potevano ignorare: H. Koch, Adhuc Virgo: Mariens Jungfrau-schaft und Ehe in der altkirchlichen Uebcrlieferung bis zum Ende des 4. Jah-rhunderts, (La verginità e il matrimonio di Maria nell'antica tradizione ecclesiastica fino alla fine del secolo quarto) in Beitrage zur histor. Theol., fase, ", Tubinga, 1929; vedi le precisazioni in Theologische Revue, t. xxix, 1930.

(4) Sugli ebioniti si veda lo studio di J. Thomas, Le mouvemenl baptiste en Palestine il Syrie, 150 a. C. - 300 d. C, Gembloux 1935, p. 157. p. 153 e in Zeitschrift ffir Katholische Théologie, 1931, p. 136. (Nuova edizione interamente rifusa, Lipsia, 1937).

La Bibbia. - Noi ci proponiamo di affrontare solo la seguente questione: nel Nuovo Testamento c'è almeno una prova che escluda la perpetua verginità di Maria?

a) Alcuni fatti. - Notiamo prima di tutto una serie di fatti: 1. Dove gli evangelisti parlano dell'infanzia di Gesù, c'è un solo bambino vicino a Giuseppe e Maria e nel racconto dello smarrimento di Gesù al tempio, si ha proprio l'impressione che i genitori non abbiano altri figli. 2. I concittadini di Cristo chiamava Gesù " il Figlio di Maria ". E. Renan {Les Evangilcs, Parigi, 1877, p. 542) commenta: " Questo suppone che egli fu conosciuto a lungo come figlio unico di una vedova. Tali appellazioni in realtà si affermano solo quando il padre non c'è più e la vedova non ha altri figli ". 3. Perché Gesù morente affida la Madre a Giovanni, se ha ella altri figli? (Gv. 19, 26-27). Che cosa si deve concludere da questi fatti? Essi non possono offrire una prova nel senso stretto della parola. Non è impossibile che un amico intimo prenda con sé una donna che abbia figli. Si può dire che i " fratelli " del Signore, non avendo creduto in lui, turbarono le relazioni di famiglia. Gesù era chiamato il Figlio di Maria, ma è possibile die anche tutti i suoi fratelli fossero chiamati cosi. Infine, pur riconoscendo maggior forza di prova nel primo fatto, è sempre possibile che i figli di Maria siano posteriori al viaggio a Gerusalemme. Non ho citato l'atteggiamento dei fratelli che trattano Gesù come minore (Me. 3, 21); si potrebbe anche dire che abbiano condotto la madre per supplire alla loro mancanza di autorità e che in simili casi il privilegio dell'anzianità cede all'affetto fraterno o all'onore familiare, secondo il senso che si da a " egli è fuori di sé ". In ogni caso sembra proprio che Giuseppe non ci sia più. La convergenza dei fatti non vale una prova diretta, ma permette di affermare che i testi s'accordano molto bene al fatto che Gesù era unico figlio di Maria.

b) La risposta all'angelo. - Che pensare della risposta di Maria all'angelo: " Come potrà avvenire questo, se io non conosco uomo? " (Le. 1, 34), Conoscere ha il senso semitico di avere rapporti coniugali. Per una fidanzata che, secondo l'uso giudaico, poteva divenire sposa con semplice introduzione nella casa del marito, la domanda di Maria non ha senso, se ella vuoi dire che ignora come potrà conoscere un uomo; è pure impossibile far dire alla Vergine che l'angelo dev'essere in errore nel suo annuncio, perché ella non ha conosciuto uomo: il verbo non si può riferire al passato. Il "come potrà dunque avvenire questo " si deve spiegare: " Che cosa devo dunque fare per concepire e partorire un tale figlio ", e ciò che segue può essere inteso in due modi: et se io non conosco punto uomo ", cioè: spiegami il modo della sua concezione (I) poiché un tale bambino non può nascere da rapporto con un uomo; oppure (II) " dato che io non voglio conoscere uomo ", e in questo senso Maria manifesta di essersi fidanzata solo dopo essersi accordata con Giuseppe di astenersi dai rapporti coniugali nel matrimonio; una tale frase suppone che Maria vuole la verginità perpetua, e, in questa circostanza, sarebbe incom prensibile il fidanzamento senza un accordo preventivo col futuro marito.

Nel primo senso Maria avrebbe compreso fin dalle prime parole dell'angelo che il Figlio dell'Altissimo (v. 32) non sarebbe nato da Giuseppe e che ella sarebbe stata madre senza l'unione maritale. Però questa supposizione è gratuita. L'angelo parla di concezione e di parto senza specificare, e non sappiamo se Maria sapesse che la Madre del Messia doveva rimanere vergine. Possono dare questa spiegazione solo quelli che attribuiscono a Maria la conoscenza e l'intelligenza dell'oracolo di Isaia. Quindi non vi è che un senso ovvio, quello cioè che nelle parole di Maria vede l'affermazione d'una ferma risoluzione di conservare la verginità nel matrimonio. Quanto si può opporre a quest'interpretazione non può rovesciare questo stato di fatto, perché il testo c'è, per quanto si dica essere impossibile che una vergine entri nello stato dì matrimonio con una tale intenzione, che l'ideale della verginità era ignoto, che non c'è logica. Sarà utile ricordare l'ideale d'austera castità degli Esseni, che proponevano l'astensione coniugale e che simili idee potevano essersi infiltrate in altri ambienti. Infine alla nostra coscienza cristiana ripugna non attribuire alla madre del nostro Dio lumi speciali su un ideale di santità che nei disegni della Provvidenza doveva nobilitare il genere umano. Ma qui non siamo più nella storia.

c) I fratelli del Signore. - Svanirebbe il frutto di questo ragionamento, se i fratelli del Signore, di cui parla ripetutamente il Vangelo, sono figli di Maria, e se Gesù è veramente il primogenito d'una numerosa famiglia.

Da molto tempo fu risposto a queste obiezioni. 1. Il nome " adelphoi " usato dalla Bibbia, pur indicando più naturalmente fratelli che cugini, " non conviene soltanto a fratelli propriamente detti, né ai fratellastri (Gv. 27, 15); ma è dato anche ai nipoti (Gen. 13. 8), ai cugini germani (I Paralip. 23, 21), ai cugini più lontani (Lev. 10, 4), ai parenti in generale (4 Re 10, 13), e anche a semplici compatrioti (Gen. 19, 7), (Durand, o. e, p. 247). - 2. Gesù è il primogenito. In Israele il primogenito doveva essere presentato al Signore (Num. 8, 16). Questo obbligo poneva i primogeniti in una classe a parte, ma il titolo non comportava che vi fossero altri nati dopo. C. C. Edgar (Annales du Service des Anliquités de l'Egypte, t. xxn, 1922, pp. 7, 16, nn. 20-33) pubblicò un'iscrizione giudaica scoperta in Egitto e datata probabilmente al tempo d'Augusto, cioè un epitaffio d'una madre morta nel parto del suo " primogenito " (Cfr. J. B. Frey, Biblica, t. xi, 1930, pp. 385-390). - 3. Infine quanto Matteo, 1, 25 dice: "E non la conosceva finché diede alla luce un figlio ", bisogna ricordare quanto dice Gerolamo (PL XXVI, 24): "Non ne segue che abbiano avuto relazioni in seguito: la Scrittura fa vedere unicamente quello che non era avvenuto ".

Possiamo concludere col Lagrange, Evangile selon S. Mare, p. 89: " Non pretendiamo che sia storicamente dimostrato che i fratelli del Signore fossero cugini, ma diciamo solo che assolutamente nulla si può obiettare contro la perpetua verginità di Maria, suggerita da molti passi della Scrittura e affermata dalla tradizione ".

 

 

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5 - Esame di alcune dichiarazioni sinottiche sulla divinità di Gesù

CAPITOLO V. - ESAME DI ALCUNE DICHIARAZIONI SINOTTICHE SULLA DIVINITÀ' DI GESÙ'

Osservazioni generali. - 1. La Chiesa cristiana crede nella divinità di Gesù; questo è uno degli articoli più fondamentali del suo credo. Si può dire cristiano chi lo rigetta? Se tale articolo è un errore, la " grande illusione " di cui parlava Dielitzsch, dev'essere cercata nel Nuovo Testamento, non nell'Antica Legge, che da Abramo a Gesù, non durò di più della nuova, da Gesù a nói. Il suo campo d'azione si limitava a un popolo nel quale ci furono degli insubordinati; la fede cristiana invece vuoi conquistare il mondo e si presenta come l'ultima parola delle comunicazioni divine all'umanità. Se la Chiesa c'inganna su un punto tanto essenziale, essa bestemmia, e i caratteri di credibilità di cui è dotata, santità e unità, diffusione meravigliosa e stabilità, non sarebbero altro che appelli a un intervento divino per appoggiare l'errore. La prova della divinità di Gesù differisce da quella dell'esistenza di Dio, in cui, affidandoci al valore della nostra conoscenza, dal creato risaliamo all'increato, dal finito all'infinito, dal relativo all'assoluto. Per la divinità di Gesù invece ammettendo l'esistenza di Dio, partiamo dall'asserzione di un uomo e gli chiediamo le prove della sua dichiarazione, perché Dio non può, senza rinnegarsi, autenticare la menzogna -e un uomo senza il soccorso divino non può fare miracoli e profezie, basi solide e semplici su cui Gesù poggiava la sua dichiarazione divina. La prova dell'esistenza di Dio è un appello alla filosofia, quella della divinità di Gesù è un appello alla storia.

2. Nel momento della redazione dei sinottici, gli scritti paolini provano che il cristianesimo, partito da una predicazione molto semplice, s'era ben presto reso conto della profondità del suo insegnamento. L'apostolo delle nazioni rappresenta uno stato della teologia, della cristologia e della soteriologia che alcuni vollero opporre al dato primitivo. Paolo o Gesù, Paolo contro Gesù, fu il tema d'una discussione molto viva che ormai si tende a riconoscere come molto vana. (Cfr. C. H. Dodd, The present Task in New Testament Studies, Cambridge, 1936). Ora si è generalmente d'accordo nell'ammettere che in Paolo l'evoluzione della credenza cristiana ha raggiunto lo stadio della fede nella divinità di Gesù. Perciò i critici devono risolvere il problema posto da loro stessi e che un autore protestante formula in questi termini: I critici " non si accorgono che il problema reale sta nello spiegare la data, relativamente tarda, che la tradizione ecclesiastica assegna a questi racconti ufficiali della vita del suo fondatore; e anche nel giustificare il carattere ingenuo e primitivo della presentazione di Cristo come viene fatta in Marco, essendo affermato che questo vangelo fu scritto dopo parecchi anni di sviluppo culturale e di speculazione teologica, supposti dalle epistole di San Paolo. Ecclesiasticamente, anche se lo datiamo al 65, il Vangelo di Marco è, per così dire, già in ritardo di dieci anni sull'epoca in cui fu scritto. Se ne possono spiegare l'ingenuità e ls caratteristiche primitive da una tradizione antica e pura " (B. H. Streeter, The Four Gospel, Londra 1924, pp. 495-496; cfr. P. L. de Grandmaison, Jésus-Christ, t. ii, Parigi 1928, p. 76). Tale stato di fatto comporta una conseguenza di metodo per l'apologetica cristiana, l.o È facile far notare quanto sia vano il processo dei critici che vogliono cancellare dai sinottici ogni allusione alla divinità di Gesù. Siccome le comunità paoline avevano ricevuto un insegnamento esplicito, non c'è motivo di trovar difficile ammettere che Matteo, Marco, Luca abbiano condiviso questa fede e l'abbiano insegnata nel loro vangelo. 2.o Nello stesso tempo importa pure notare che, per rispondere alle obiezioni che dopo la scuola liberale troviamo identiche in tutti gli storici non credenti, bisogna dimostrare attraverso i sinottici che Gesù si dichiarò figlio di Dio nel senso metafisico e naturale della parola. Da parte loro i critici dovranno concedere che non occorreva, che non era necessario che tali dichiarazioni venissero fatte ad ogni pie sospinto durante il ministero. È necessario ma sufficiente dimostrare che Gesù ha emesso chiaramente questa affermazione in alcune circostanze. I critici ammetteranno pure che il silenzio di Cristo nelle narrazioni sinottiche non corrisponde a una sconfessione delle credenze paoline e giovannee, che resterebbero inspiegate. Gioverà leggere le assennate osservazioni del R. P. Benoit in Revue Biblique, t. xiv, 1947, pp. 606-612.

Varie dichiarazioni di Nostro Signore. - Questo studio si propone di esaminare i tre casi principali in cui i sinottici prestano a Gesù la rivelazione della sua filiazione divina e di mostrare che la testimonianza sinottica ha in se stessa garanzia di fedeltà e corrispondenza alle asserzioni di Gesù. Non trascuriamo il valore delle altre dichiarazioni del Signore di cui bisogna pure tener conto e che occorre richiamare prima di studiare i tre testi in questione. Gesù si dichiarò più grande dei profeti (Mt. 12, 41; cfr. 11, 9), di Giovanni Battista (Mt. 11, 9), di Davide (Mt. 22, 43), del tempio (Mt. 12, 6), degli angeli (Mt. 13, 41; 16, 27; 24, 31. 36); ha una potenza che opera miracoli e che può dare agli altri (Mt. 10, 8; Me. 3, 15; 6, 7; Le. 9, 6) che la eserciteranno riferendosi a Cristo anziché a Dio (Me. 16, 17; Le. 10, 17); Egli è padrone del sabato (Mt. 12, 8), legislatore supremo che porta perfezionamenti sostanziali alla legge di Iahvè (Mt. 5, 21. 27. 33. 34. 38); rimette i peccati (Mt. 9, 1 ss.; Me. 2, 5 ss.; Le. 5, 20 ss.; 7, 47 ss.) con un potere riservato a Dio (Me. 2, 7; Le. 10, 21) e attribuisce la stessa virtù purificante all'amore verso la sua persona, come a quello verso Dio (Le. 7, 47); delega la sua autorità senza fare appello a Dio, né a una qualsiasi procura (Mt. 16, 18; 18, 18); è il giudice del mondo (Mt. 7, 22. 23; 13, 41. 49; 16, 27; 19, 28; 24, 27; 25, 31), lo scopo, il centro d'ogni vita morale e religiosa (Mt. 5, 11; 10, 17 ss. 32. 37; 16, 24 ss.; 19, 16 ss.; 24, 9. 13). Gesù non si dice mai espressamente "figlio di Dio ", ma usa formule equivalenti: "È il figlio " (Mt. 11, 27; 24, 37; 28, 19; Me. 13, 32; Le. 10, 22); Dio è suo Padre (Mt. 7, 21; 10, 32; 11, 27; 12, 50 ecc), Gesù e gli uomini non hanno la stessa relazione verso questo Padre; Gesù non si include in una formula come " nostro Padre ", ma dice " il vostro Padre " (Mt. 5, 16. 45; Le. 6, 36; 12, 30. 32); altri gli danno il nome di Figlio (Mt. 3, 17; 17, 5; 14, 33; 16, 16; 26, 63; 27, 54); infine c'è un insegnamento più esplicito nella parabola allegorizzante del padre che manda il figlio a prender possesso della sua vigna (Mt. 21, 33); e nell'ordine dato agli apostoli di battezzare " nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo " (Mt. 28, 19). Queste le grandi linee desunte dagli apologisti nei sinottici per dimostrare la divinità di Gesù. Il riassunto che ne ho dato si trova in L. Kasters, art. Jesus Christus, nel Lexikon fui Theologie und Glaube, t. v, col. 349-350; di esso ho tralasciato i passi che saranno oggetto d'un esame più approfondito, la confessione di Cesarea, il logion giovanneo, la confessione al gran sacerdote.

§ 1. - La confessione di Cesarea

1. Testi. - Mt. 16, 13-20 " Venuto poi Gesù nelle parti di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: "Chi dice la gente che sia il Figlio dell'uomo?" Risposero essi: "Alcuni dicono che sia Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei Profeti". "Ma voi", domandò loro, "chi dite che io sia?". Gli rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". E Gesù a lui: "Beato te, Simone Bar-Iona, perché non carne e sangue te l'ha rivelato ma il Padre mio, che è nei cieli. Ora anch'io ti dico: Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa. E a te io darò le chiavi del regno dei cieli; e ciò che legherai sulla terra, resterà legato nei cieli; e ciò che scioglierai sulla terra, resterà sciolto nei cieli". Allora impose ai discepoli di non dire a nessuno che egli era il Cristo ". In Marco Gesù andando verso i villaggi che dipendevano da Cesarea di Filippo, interroga i discepoli come in Matteo, ma la risposta di Pietro è: "Tu sei il Cristo". Dalla risposta di Gesù riporta solo l'ordine di s non dire niente a nessuno " (Me. 8, 27-30); Luca qui non ci interessa, le domande sono le stesse, Pietro risponde " Tu sei il Cristo di Dio ", e l'ordine di Gesù viene riportato come in Marco (Le. 9, 18-22).

Si pone dunque questo problema: Se sia storicamente dimostrabile che Matteo riportò esattamente le parole di Pietro : " Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio "vivo" ", e in die senso le usi l'apostolo.

2. La situazione storica. - B. Weiss (Leben Jesu, t. n, p. 267) vide bene: "Non si può comprendere la scena di Cesarea di Filippo nel senso che il popolo non considera ancora Gesù come il Messia, e che gli apostoli arrivano per la prima volta a riconoscere la messianità, ma nel senso che il popolo non lo ritiene più come Messia, mentre gli apostoli perseverano in questa fede ". Al successo incontrato da Gesù quando moltiplicò i pani, segui il distacco della folla, che si spiega benissimo con l'attestazione di Giovanni, il quale dice che Gesù si ritirò sul monte e fece il discorso sul pane di vita. Bisogna anche vedere dove tende la confessione poiché i tre evangelisti notano concordi come Gesù dopo il riconoscimento incominci a parlare della sua passione e morte.

3. Importanza della confessione. - Dati i luoghi paralleli, non d può essere dubbio che Pietro abbia riconosduto la messianità di Gesù. La formula lucana si ferma qui; invece Matteo si separa dagli altri due sinottici non solo aggiungendo " il Figlio del Dio vivo ", ma anche la beatitudine rivolta a Pietro. Ci meraviglia sentire R. Bultmann (Die Frage nach dem messianischen Bewusstsein Jesu und der Petruskenntnis, [La questione della coscienza messianica di Cristo e la confessione di Pietro] in Z N T W, t. XIX, 1920, pp. 170-171) dar risalto al carattere semitico di tutto il passo e dichiarare che si devono cercare le circostanze della redazione nella più antica comunità di Gerusalemme (così, Idem, Die Geschichte der Synoptischen Tradition, [Storia della tradizio ne sinottica], Gottinga, 2.a ed. 1931, pp. 147-150, e P. Billerberk, Kommentar zum Neuen Testarnent aus Midrasch und Talmud [Commento al N. T. tratto dal Midrasch e dal Talmud], 1922, t. i, pp. 730-746). Il P. Lagrange, colpito da questa particolarità di Matteo, dapprima aveva pensato che il primo Vangelo, secondo un sistema spesso usato, avesse unito due serie di fatti in una sola narrazione. Ma poi abbandonò il suo punto di vita. In ogni caso i1 carattere semitizzante della pericope di Matteo ci fa aprire gli occhi contro un'interpretazione troppo frettolosa in favore di Marco e di Luca.

Anzitutto notiamo che in definiva le due testimonianze ne fanno una sola, perché Luca segue Marco passo passo; inoltre qui Marco pare meno vicino ai fatti che Matteo e chiunque confronti attentamente i testi non troverà più difficile spiegare il silenzio di Marco e di Luca che l'esposizione di Matteo, perché " il contesto è chiaro e logico nel primo vangelo; invece negli altri due il lettore trova un po' difficile interpretare un riassunto ". Infatti: l'omissione di queste parole " fa si che nel terzo vangelo il v. 21 si colleghi a stento a ciò che segue " (A. Durand, Evangile selon saint Mallhieu in Verbum Salutis, Parigi 1924, p. 277). Ammettiamo quindi che nulla autorizza a rifiutare come secondario il racconto di Matteo. Per la questione del primato e una precisazione sulle allegazioni moderne si veda H. Dieckmann, Neuere Ansichten uber die Echthei der Primalstelle, Mt. XVI, 17 ss. (Nuove opinioni sopra la genuinità della pericope relativa al primato) in Biblica, t. IV, 1939, pp. 169-200.

Ammesso che il testo di Matteo meriti fede, è necessario che ci vediamo una confessione della divinità di Gesù? A favore di questo riconoscimento si argomenta cosi: Lo Sarebbe strano che gli apostoli, vivendo nell'intimità del Maestro, non avessero compreso il titolo di Figlio che egli applicava in modo speciale a se stesso. - 2.0 Dopo la tempesta sedata, i dodici " adorarono " Gesù e proclamarono " tu sei veramente il Figlio di Dio " (Mt. 14, 33) dichiarazione che, messa a confronto con quella di Filippo è a come l'alba davanti al giorno ", dice Durand op. cit., p. 276. - 3.o Se Pietro riceve le felicitazioni del Maestro e se il Maestro proclama che solo la rivelazione divina potè aprirgli le profondità d'un tale segreto, ciò significa che Pietro ha fatto una professione veramente straordinaria, in armonia col riconoscimento d'un Messia divino. Per questo la maggior parte degli autori cattolici e un numero molto importante di protestanti ammettono che Pietro riconobbe la natura divina di Gesù. Vi sono però delle sfumature. Durand (Evangile selon saint Matthieu, p. 276) ci vede " l'espressione chiara, ferma, autentica " della divinità di Gesù; per il P. Lagrange a Pietro, aggiungendo l'articolo e la qualifica di Figlio del Dio vivo, professa con la chiarezza che gli è possibile, l'origine divina di Gesù, che possiede la natura dell'essere infinito, il quale ha la vita e la può trasmettere " (Evangile selon saint Matthieu, p. 322); il P. Lebreton (Orìgines, p. 295) stabilisce in primo luogo che Pietro prima di tutto riconobbe e proclamò la messianità di Gesù, poi che questo messianismo è il vero, cioè religioso e divino (p. 316); Dausch (Die drei altere Evangelien, [I tre vangeli più antichi] p. 236) pur ammettendo che la messianità è l'oggetto primario della confessione di Pietro, fa notare che la dignità di Gesù proviene dalla divina sua origine e natura, aggiungendo die " il segreto della persona di Gesù fu pienamente e veramente penetrato solo attraverso la resurrezione del Signore ". Tuttavia Tillmann, (Methodlsches und Sachliches tur Darstellung der Gotteit Christi nach dem Synoptikern gegenùber der modernen Kritik, [Metodo e realtà nella dimostrazione della divinità di Cristo secondo i Sinottici contro i critici moderni] in Biblische Zeitschrift, t. vili, 1910, p. 254) nelle parole di Pietro vuole vedere soltanto un riconoscimento della messianità.

Il giudizio di Tillmann è troppo assoluto. Scrivendo il suo vangelo Matteo usava l'espressione Figlio di Dio in senso metafisico e forse opponeva le due espressioni: Figlio dell'uomo e Figlio di Dio. È questo un dato iniziale, da cui non ci si deve allontanare; ma egli attribuisce la chiara visione di questo a Pietro nel momento della confessione? Il P. Lagrange dice molto esattamente che Pietro proclama la divinità " con la chiarezza che gli era possibile ", perché per lui Gesù non è un uomo come un altro, ha rapporti unici con Dio, di cui si dice " il Figlio " in un modo diverso da quello di tutti gli uomini; è dotato di una potenza miracolosa, di un potere spirituale straordinario; è il messia che col suo carattere speciale compensa la mancanza di regalità temporale sempre sperata. Le folle non comprendono o fraintendono la natura d'una personalità tanto complessa; gli apostoli non arrivano fino in fondo al mistero che solo il Padre può rivelare e chi riceve tale comunicazione è beato; su di lui poggerà l'edificio contro il quale gli assalti dell'inferno non prevarranno mai. C'è un termine solo per tradurre la trascendenza, la singolarità, l'appartenenza del Messia a Dio: egli è "Figlio di Dio". Più tardi lo Spirito scoprirà la profondità della rivelazione del Padre; intanto nei Dodici, assieme alla fede incrollabile nella messianità, scende il segreto dell'intima natura del Maestro. Il ricordo del grido spontaneo di Pietro e il ricordo dell'approvazione di Gesù rimarranno negli apostoli come un primo raggio proveniente da Dio, che poi irradierà il cristianesimo nascente.

§ 2. - Il " logìon " giovanneo.

1. Il testo. - Matteo, 11, 25-30: " In quel tempo Gesù prese a dire: "lo ti lodo e ringrazio, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai saggi e agli scaltri, e le hai rivelate ai semplici. SI, o Padre, perché cosi ti è piaciuto. Ogni cosa a me fu data dal Padre mio; e nessuno conosce il Figlio, se non il Padre; né alcuno conosce il Padre, se non il Figlio, e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete affaticati ed aggravati, e io vi darò sollievo. Prendete su di voi il mio giogo e apprendete da me, che sono mite e umile di cuore, e cosi troverete conforto alle anime vostre: poiché il mio giogo è soave e il mio peso è leggero". Luca, 10, 21-22. " In quel momento Gesù esultò d'allegrezza per virtù dello Spirito Santo e disse: "Io ti lodo e ringrazio, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute queste cose nascoste ai saggi e agli scaltri, e le hai rivelate ai semplici. SI, o Padre, perché così ti è piaciuto. Ogni cosa è stata data a me dal Padre mio, e nessuno conosce il Figlio, se non il Padre: né chi è il Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo" ".

2. L'autenticità. -L'autenticità parziale o totale di questi passi fu messa in dubbio da J. Wellhausen, Dos Evangelium Mallhaei, Berlino, 1904; A. Loisy, Les Evangiles synopliques, Ceffonds 1907-1908, 1.1, pp. 905-315; A. von Harnack Spriiche und Reden Jesu, (Detti e sermoni di Gesù) Lipsia 1907, pp. 189-216; E. Norden, Agnostos Theos, Lipsia 1913, pp. 277-308; R. Bultmann, Die Geschi-chle der Synoptischen Tradilion, (Storia della tradizione sinottica) 2.a ed. Got-tinga. 1932. Autori cattolici e protestanti la difesero energicamente: M. J. La-grange, Evangile selon saint Lue, Parigi 1924, pp. 300-301; id., Evangile selon saint Mallhieu, Parigi 1924, pp. 226-230; J. Lebreton, Orìgines du Dogme de la Trinile, 7.a ed. Parigi 1927, pp. 591-598; A. H. Neile, The Gospel according to S. Matthew, Londra 1915, pp. 163-167; Weiss, Das Logion Mt. Il, 25-30, in Festschrift G. Heinrici, Lipsia 1914, pp. 120-129; E. KÌostermann, Das Matlhaus-evangelium, Tubinga 1927, pp. 101-104; H. Schumacher, Die Selbsloffenbarung Jesu bei Mt., 11, 27; Le. 10, 22, (La autorivelazione di Gesù in Matteo e in Luca), in Biblische Studìen, Friburgo in Br., 1922.

I critici usarono argomenti molto speciosi e a riassumerli senza entrare nei particolari, c'è pericolo di darne solo una confutazione imperfetta; quindi è meglio rimandare agli studi speciali ricordati, specialmente a quello di H. Schumacher, J. Lebreton, e M. J. Lagrange. Accettiamo la conclusione del P. Lebreton (o. e, pp. 597-598): "Da tutti questi rilievi si conclude che il nostro testo di Mt. 11, 25-27 e di Le. 10, 21-22 è davvero il testo autentico dei due Vangeli. L'identità delle due redazioni ci costringe a risalire a una fonte comune e il dettaglio dell'espressione indica una fonte aramaica".

3. Il significato. - A questa pericope fu dato il nome di e logion giovan-neo " perché tale preghiera di ringraziamento di Gesù per una rivelazione fatta agli uomini ha una tonalità che ricorda quella del quarto vangelo. È infatti " la perla più preziosa di Matteo " (Lagrange, Saint Matthieu; p. 226). Gesù, il Figlio, afferma che:
1.o tutto gli è stato trasmesso dal Padre suo;
2.o la conoscenza che il Figlio ha del Padre è uguale a quella del Padre verso il Figlio;
3.o nessuno fuori del Padre e del Figlio ha questa conoscenza;
4.o per mezzo di lui viene agli uomini la conoscenza del Padre e di tutto quello che il Padre gli ha trasmesso;
5.0 gli uomini in lui troveranno il rivelatore divino, forza e consolazione.

Non è necessario far notare che qui Gesù si pone su un piano d'eguaglianza col Padre e che quest'uguaglianza porta su ciò che l'essere ha di più intimo: la conoscenza. In Matteo Gesù si chiama "Figlio" tre volte, e dopo aver detto " Padre " ripete per due volte " il Padre ". Quest'insistenza sulle relazioni tra Padre e Figlio, sulla conoscenza, oggetto di queste relazioni, e sulla rivelazione e la salute, ci fa entrare nell'intimità del Figlio. Nessuno può riservare la conoscenza del proprio essere a Dio e pretendere di conoscere Dio come viene conosciuto da Lui, senz'essere Dio stesso. " Basterebbe questa sola parola a determinare il domma cristiano, a fare riconoscere nel Figlio di Dio non un essere intermediario, come lo aveva concepito Filone, ma il Figlio eguale e consustanziale al Padre suo; san Paolo e san Giovanni completeranno con altre linee questa rivelazione di Cristo ma non la supereranno " (Lebreton, p. 308).

§ 3. - La confessione davanti al Sommo Sacerdote.

1. Il testo. - Mt. 26, 63-65 " Ma Gesù taceva. E il sommo sacerdote: "Ti scongiuro per il Dio vivente di dirci se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio". Gesù gli rispose: "Tu l'hai detto; anzi, vi dico che d'ora in poi vedrete il Figliuol dell'uomo seduto alla destra della Potenza (di Dio) venire sopra le nubi del cielo". Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: "Ha bestemmiato! Che bisogno abbiamo più di testimoni? Ecco, ora voi avete udito la bestemmia. Che ve ne pare?" ". I luoghi paralleli di Marco (14, 61-64) e Luca (22, 66-71) non apportano nessun cambiamento essenziale alla narrazione di Matteo. In Marco l'interrogazione è equivalente: "il Cristo, il Figlio del Benedetto", e più forte in Luca, che sopprime il "Cristo " per conservare solo: " il Figlio di Dio "

 

2. Il significato. - Gesù poteva essere consegnato ai Romani soltanto dopo un giudizio di morte del sommo sacerdote Caifa. La sentenza è decisa in anticipo, ma la procedura esige la comparsa dell'accusato, la deposizione di due testi e la sentenza. Nell'assemblea riunita affrettatamente si fini col trovare due testi che accusarono Gesù di aver voluto distruggere il tempio, ma il Maestro non si degnò di rispondere a questi infelici; il sommo sacerdote vede chiaro che sarebbe un'ingiustizia troppo clamorosa prestare fede a testimonianze contraddittorie e si decide a vincere il mutismo di Gesù, scongiurandolo in nome del Dio vivo; davanti alla legittima domanda del sommo sacerdote Gesù confessa di essere realmente il Cristo, il Figlio di Dio. La risposta dispensa da ogni inchiesta ulteriore; è il suo decreto di morte. Che cosa voleva dire Caifa domandando a Gesù se egli era il Cristo, il Figlio di Dio? Voleva forzare il Maestro e confessare la sua messianità, oppure a questa dichiarazione aggiungeva quella della filiazione divina?

Non occorre dire che Caifa capisse pienamente le parole che usava; ma, in ogni modo, nelle sue labbra " Figlio di Dio " non è sinonimo di Messia. La tradizione giudaica non ha mai accertato che Messia e Figlio di Dio siano sinonimi poiché al Messia non è dato questo titolo. Perciò Caifa non fa altro che riprendere una formula ripetuta dai discepoli e lanciata da Gesù stesso e che sarà ripetuta a Pilato. " Egli si è fatto il Figlio di Dio e, secondo la nostra legge, deve morire " (Gv. 19, 7); il centurione dirà: " Quest'uomo era davvero Figlio di Dio " (Me. 15, 39). Né Caifa, né i discepoli, né Gesù potevano asserire un'equivalenza tra Figlio di Dio e Messia, perché rivendicare il titolo di Messia non era una bestemmia, come non lo era reclamare Dio come Padre nel senso morale e religioso. Caifa " aveva scelto una formula che Gesù non poteva rifiutare senza rinnegare la propria vita, né adottare senza farsi condannare per bestemmia " (Lebreton, o. e, p. 328). M. Goguel (La Vie de Jésus, Parigi, 1932) riconosce il vero significato di questa dichiarazione.

Conclusione. - Matteo in occasione della confessione di Cesarea, Matteo e Luca nell'inno di giubilo, Matteo, Luca e Marco nella descrizione del giudizio di Gesù attribuiscono a Gesù, almeno equivalentemente, una dichiarazione d'identità sovrumana, divina, e Cristo legò a queste rivelazioni la fondazione della sua Chiesa su Pietro, l'appello all'inesauribile tesoro della "sua bontà e l'annuncio del giudizio del mondo. Quelli che ne furono testimoni fissarono questi detti come una base per la loro fede, un motivo di speranza e una sorgente d'amore. Il cristianesimo nacque e visse di essi, per essi si diffuse. Quando gli evangelisti scrivono, sull'esempio di Gesù, cristiani e apostoli hanno già dato la loro vita per affermare, come lui e per lui, questa certezza riguardo alla filiazione divina.

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02/09/2009 08:15

6 - Lo scandalo dell'incredulità giudaica

CAPITOLO VI. - LO SCANDALO DELL'INCREDULITÀ GIUDAICA

II Problema. - Dio si era scelto un popolo onde preparare la venuta del Figlio suo in questo mondo; da Abramo a Gesù Iahvé conservò in Israele l'adorazione dell'unico vero Dio e la speranza in un'era messianica, nella quale l'eletto instaurerà una nuova economia. Gesù si presentò al suo popolo come realizzatore delle profezie antiche e fondò la sua missione sulla profezia e sul miracolo. L'indomani della prima Pentecoste, Pietro notava che il popolo eletto aveva rigettato la pietra angolare e, alla fine del primo secolo, Giovanni constatava che i " suoi " non lo avevano ricevuto. Ma Gesù non aveva proclamato che rivolgeva il suo messaggio prima di tutto ai privilegiati dell'umanità, i Giudei, e san Paolo, nonostante il suo universalismo, non rivendicava forse che i discendenti di Abramo avevano speciali diritti? Il fallimento di Gesù tra i Giudei non prova che le sue pretese messianiche erano vane? Già nel quinto secolo Gennadio esprimeva questo problema prestando ai Giudei la seguente obiezione: " Una delle due cose: o è falso il Vangelo o si deve accusare Dio di menzogna. Se il vostro insegnamento ha un fondamento, Dio ci ha ingannati, perché fece ai nostri antenati promesse che non avrebbe compiuto... e ricorrere a quest'imputazione sarebbe blasfemo; dunque voi mentite e la vostra predicazione è solo falsità ".

La risposta dei primi cristiani. - II problema è antico quanto il cristianesimo e ogni autore del Nuovo Testamento, anche se non lo formulò in termini netti come Gennadio, vi diede a suo modo la propria risposta, come spiega A. Charue nel suo eccellente libro L'Incrédulilé des Juifs dans le Nouveau Testament. Elude hislorique, cxègèlìque, Ihéologique., Gembloux, 1929. Vedi anche J. Bonsirven, Les enseignements de Jésus-Christ, pp. 68-86. I Sinottici presentano Gesù come il Messia d'Israele. La sua missione non si limita ai Giudei, tuttavia è venuto prima di tutto per loro. L'insegnamento in parabole e la somministrazione della luce sulla messianità, la passione, la resurrezione, l'essenza spirituale del regno, l'appello dei gentili, la data della parusia, cioè quello che si chiama il segreto e la riserva messianica, non sono un castigo per i Giudei, ma provengono da un'intenzione misericordiosa di Dio che distribuisce la luce con riserva per lasciare che le cause seconde agiscano liberamente e attivamente; però nel medesimo tempo si manifesta l'incomprensione giudaica che ostacolerà il disegno di Dio. L'ostilità, l'odio dei capi, l'aberrazione dei farisei, l'impreparazione dei cuori nel popolo e l'attività dei demoni impediranno ai Giudei d'entrare in massa nel regno di Dio. Il quarto vangelo conferma le conclusioni tratte dai sinottici: "Azione misericordiosa di Gesù, scandalo d'un messianismo immune da ogni deviazione nazionalista, perfida ostilità dei capi del popolo, coordinamento di tutte le forze d'opposizione da parte di Satana ". Giovanni però, più che i primi tre Vangeli, vede l'incredulità come un effetto della abbagliante rivelazione della gloria di Dio in Gesù, con la causa all'interno delle anime, poiché il rifiuto del messaggio cristiano non è altro che la manifestazione dei sentimenti perversi, mentre i cuori ben disposti vengono da se stessi a Cristo. Per Paolo, Israele, con qualità e privilegi propri, è più preparato che il resto del mondo a ricevere la verità. Il cristianesimo non è altro che la continuazione del vero popolo eletto. Il Vangelo prima era annunciato a Israele e l'Apostolo stesso in ogni città cominciava a predicare nelle sinagoghe della diaspora. Il fallimento veniva dall'orgoglio dei Giudei, che rifiutarono di collaborare all'opera di salute e provocarono la collera di Dio. D'altronde Satana è il grande avversario che opera già nell'ombra e rivelerà la sua azione all'ultimo giorno, quando l'iniquità dilagherà, quando Israele si sarà convertito e salvato e quando le promesse di Dio saranno realizzate. Insomma a il carattere inatteso, deludente, mortificante del messianismo cristiano fu la pietra di scandalo. Il Salvatore fallì come spesso falliscono i riformatori. Ostacoli alla via d'accesso alla verità, nubi che interdicevano al mondo giudaico i raggi della luce furono le divergenze di fronte alle tradizioni farisaiche, alle prescrizioni antiquate del mosaismo, l'opposizione sempre più netta dei due sistemi di giustificazione, la precisazione inaudita dei privilegi dell'alleanza e ben presto la franca professione d'un universalismo assoluto che ridusse il gruppo giudaico a una minoranza nel regno promesso agli antichi, le pretese più che messianiche, credute blasfeme, di Gesù che si arroga il potere di Iahvé e innalza la propria dignità al livello della sua maestà divina, la bancarotta ufficiale della nuova religione e la morte ignominiosa del suo fondatore " (Charue, o. e, pp. 835-336). A queste cause obiettive, intellettuali e sociali, s'aggiungono le ragioni soggettive: incuria, apatia, comodità delle opinioni accettate, timore dell'autorità, orgoglio di razza e odio del barbaro r fecero ben presto respingere la verità sconcertante e rimisero lo spirito inquieto sotto l'influsso soporifico dei pregiudizi " (ivi, p. 337).

Gli autori del Nuovo Testamento si rendevano dunque perfettamente conto dello scandalo, ma lungi dallo sbigottirsi, lo esposero ai Gentili coi fatti chiarissimi; dimostrando tuttavia, nello stesso tempo, che lo scandalo veniva dalla malizia umana e al fallimento di Dio opposero il quadro d'un'economia che aveva in se stessa la giustificazione della sua difficoltà di penetrazione. " Gesù mantiene il contatto col giudaismo, ma lo purifica; conserva l'Alleanza antica, ma la perfeziona, poiché aveva il compito di restaurare lo spirito dei profeti, compierne gli oracoli, perfezionarne l'insegnamento; questo il suo posto preciso nella storia. Le rivelazioni antiche erano parziali, deficienti, perfino sperdute in un groviglio d'immaginazioni apocalittiche, o ricoperte dalle interpretazioni d'un nazionalismo limitato. Occorreva riscoprirle e pulirle, perché si facesse la sintesi nella luce definitiva del Figlio di Dio, manifestando finalmente la grandezza e la semplicità, la trascendenza e la condiscendenza, la divinità e l'umanità del messianismo autentico " (Charue, o. e, p. 340).

Il cristianesimo non poteva adattarsi alla mentalità giudaica senza rinnegarsi; resistendo ad essa continuò tutta la nobiltà e la grandezza della storia di Israele. Quando il popolo di Dio, ravveduto dei suoi errori, ritroverà la linea che fece la sua grandezza morale e spirituale, Israele aderirà al credo che il più grande dei suoi figli venne a rivelare alla terra. Questo insegna S. Paolo e questa è l'ultima risposta allo scandalo. La ripulsa e l'indurimento sono solo temporanei, ma la Chiesa ne soffre ed è impaziente di avvicinare a sé questa parte eletta della umanità.

Cause dell'incredulità dei Giudei. - L'analisi del dato cristiano offre dunque una risposta all'obiezione che abbiamo formulato; lo studio del giudaismo palestinese del tempo di Gesù permette di cogliere nel vivo il restringersi delle idee e il chiudersi dei cuori che prepararono e motivarono il fallimento.

Analizziamo i fattori delle deviazioni religiose tra i Giudei al tempo del Salvatore. Questi fattori si possono raggruppare in alcuni temi salienti.

1. Il domma nazionale. - Guarito dal male politeista, il giudaismo si era costituito come nazione religiosa sotto la tutela di Iahvé. La penetrazione greca, la persecuzione siriaca, l'attacco romano avevano suscitato la reazione di una classe nazionalista e fatto nascere il fariseismo. Fiero per le promesse di Dio, fidente nella sua legge e nel suo tempio, il popolo giudaico disprezzava tutti i Gentili, di cui subiva il giogo e temeva la contaminazione religiosa; ma a forza di imbeversi con le tradizioni antiche e coi libri specificamente giudaici, falsò la propria visuale, tanto ch-e Dio gli apparteneva un po' come cosa sua e il Signore doveva a Israele più di quanto esso gli dava. Il Messia non poteva essere che nazionale e sulle rovine dei popoli doveva fondare la regalità incontestata dei figli d'Abramo; la legge e il tempio, veramente sacri ed eterni, nella nuova economia non potevano venir sostituiti dall'adorazione in spirito e verità; perché essere giudei significava essere santi e degni di ricompensa. I Gentili erano solo uomini d'una classe inferiore e potevano partecipare alla salute solo osservando la legge e rimanendo nello stato d'inferiorità in cui la nascita li aveva fissati per sempre.

2. Il domma formalista. - Dio non è più il Dio vivo potente e misericordioso dei patriarchi, di Davide, dei profeti o del Deuteronomio, ma" monade infeconda ", isolata nella sua maestà (M. J. Lagrange, Le judaisme avanl Jésus-Christ, Parigi, 1931, p. 590). Il Messia, sia celeste o terreno, non è l'uomo umile e sofferente degli oracoli d'Isaià e neppure il Dio che sarà Gesù, ma per non vedersi rifiutato l'accesso ai cuori e non sentirsi accusato di bestemmia deve rispondere alle loro concezioni; la' loro giustizia non è affatto un dono di Dio, ma il risultato dei loro sforzi e un diritto alle sue benedizioni temporali; frutto di tale concezione è l'atteggiamento verso la legge; il loro attaccamento porterà all'osservanza puntuale, raffinata, ma esteriore e formalistica.

3. Il domma morale. - Queste idee conducono all'esaltazione dell'io. Il Giudeo è voluto da Dio per essere centro della creazione, e il creatore deve rispettare i suoi diritti; come possessore d'un Dio, dell'unico vero Dio che appartiene a lui solo, egli si sente esaltato e forte, superiore a tutti gl'infedeli. Il suo Messia, il suo Tempio, la sua Legge, i favori divini del passato, i privilegi e le donazioni del presente, crearono nel cuore di questi feroci monoteisti e osservatori della legge un orgoglio incommensurabile, che ridusse la religione al livello della ragione umana, razionalizzandola nel proprio spirito e rimpicciolendola nelle prescrizioni. In questo modo il divino viene esiliato nella categoria delle astrazioni impersonali, spogliato del suo mistero e del suo soprannaturale. L'anima giudaica resta chiusa alle rivelazioni sull'intima vita di Dio e alle rivelazioni trinitarie. Il pensiero divino cede alla speculazione umana, che prende la rivincita nelle " speculazioni sul cielo e sugli angeli con esoterismi che, al pari delle teosofie, sono opposti al vero mistero e gli sbarrano le vie d'accesso " (J. Bonsirven, Les idées juives au temps de Notre-Seigneur, Parigi, 1934, p. 212). Anche riguardo alla religione la voce dei grandi profeti non è più la norma dei sentimenti e delle azioni, ma le prescrizioni degli uomini hanno sostituito la lettera allo spirito e incatenato la parola di Dio con prescrizioni umane. Se l'uomo sostituisce Dio, egli trova nella sua pretesa la ricompensa alle sue opere. " L'effetto più appariscente delle deviazioni suesposte sarà quello di chiudere al messaggio cristiano il cuore di molte anime giudaiche, che in esso vedranno un attacco contro il monoteismo e la Torà, la fine della separazione d'Israele e l'abolizione dei suoi privilegi " (Cfr. J. Bonsirven, Le judaisme paleslinien, Parigi, 1935, t. n, p. 322).

Per notare ciò che aveva impedito a Israele l'ingresso nella nuova via tracciatagli da Gesù, abbiamo dovuto insistere sulle sue deficienze. Però accanto alle deficienze ci sono nobili qualità che mettono questo popolo, erede delle promesse, sopra un piano unico nella storia del mondo; da questo popolo usci il monoteismo che doveva prevalere in una grande parte dell'umanità, ed in esso il Figlio di Dio fatto uomo trovò i fondatori della sua Chiesa, (Cfr. Kit-tei, Die Probleme des palastinischen Spatjudentwns una das Urchristentums, [II problema del tardo giudaismo palestinese e il cristianesimo primitivo] Gutersloh, 1926).

Riassumendo, lo scandalo giudaico, conosciuto e superato in base alle spiegazioni degli autori sacri, rientra nella divina economia. Dio illumina sufficientemente gli uomini, perché la verità li guidi e rispetta il loro libero arbitrio, fino a lasciar il potere di volgersi contro di lui. In un momento della sua storia, il popolo giudaico, dimentico dei divini messaggi, volle trovare in se stesso la propria ragion d'essere, la norma di fede e d'azione. Il rifiuto di Cristo non proviene dall'imperfezione dell'economia divina, né dal Messia, ma dalla volontà di questo popolo, verso il quale il Dio di Gesù, come il Dio d'Abramo, tende le braccia della sua misericordia.

B. R.

BIBLIOGRAFIA. - i. Relativamente al capo I. Oltre le già citate edizioni del N.T. e le opere di Lagrange e Jacquier, sarà utile consultare le introduzioni di R. Gregory (1907), J. H. Volgels (1923), E. Nestle - E. von Dobschuts (1923), F. G. Kenyon (1926), K. Lare - S. New (attualmente M.e Lake) (1928) manuale eccellente, A. Scuter ( 1930) ; R. Knopf, Neue Testament, 4 ed., Giessen 1934, p. 21-70 ; P. Feine - J. Behm, Einleilung in das Neue Testament, Lipsia 1936, pp. 298-317; F. G. Kenyon, The Bible and Ancienl Manuscnpts, 4 ed., Londra 1939; H. Wh. Robinson, The Bible in its Anàent and English Version, Oxford 1940; L. Vaganay, Initiation à la critìque textuelle néotestamentaire, Bloud et Gay, Parigi 1943, con copiosa bibliografia (pp. 174-176); F. G. Kenyon, The Texl of tlie Creek Bible, Londra 1937. V. il riassunto di J. Huby, Les Evangiles, in Christus, Parigi 1935, p. 192-208. A. Vaccari in Institutiones Biblicae, 4 ed., Roma 1937, pp. 238-256. La scoperta dei papiri Beatty, d'un frammento del Diatessaron di Taziano in greco, d'un frammento del Vangelo di Giovanni e di un frammento apocrifo del secondo secolo, ha provocato numerosi studi nuovi nelle riviste in questi ultimi anni. Cfr. E. Florit, Parlano anche i papiri, Roma 1943.

2. Relativamente ai capi II-III-IV. Sul vangelo dell'infanzia e la concezione verginale si vedano i commentari di M. J. Lagrange, di Durand, di Valensin-Huby, Pirot, Dausch (in tedesco) ; nonché le vite di Gesù di Fillon, Lagrange, Lebreton, Prat, Ricciotti. Per gli studi particolari oltre quelli di Rose, Durand e Médebielle, si può consultare M. Lepin, Jésus, Messie et Fils de JDieu d'après les Evangiles synoptiques, 4 ed., Parigi 1910, pp. 196-201 320-333; E. Mangenot, Les Evangiles synopliques, Parigi 1911, pp. 89-140; A. Steinmann, Die jungfrauliche Geburt des Herrn, (La nascita verginale del Signore) in Biblische Zeitfragen, Miinster in W., 3 ed. 1926; D. Baldi, L'infanzia del Salvatore. Studio esegetico e storico sui primi due capitoli dei vangeli di San Matteo e di San Luca, Roma 1925 ; G. M. Vosté, De conceptione Virginali Jesti Christi. Accedunt excursus. I. De duplici genealogia, De fratribus Domini, in Studia theologiae biblicae Novi Testamenti, t. I, Roma 1933; K. Promm, Der christiche Glaube und der allkeideidmscìie Welt, (La fede cristiana e l'antico mondo pagano) Lipsia 1935,1.1, pp. 253-281. Vi si troverà un'abbondante bibliografia sulla storia delle religioni e l'esame parti-colareggiato delle opinioni di Gressmann, Bousset, Leisegang, Norden Dibelius. D. Hauqo, Das ersle biblische Marien-Wort (La prima parola di Maria nella Bibbia) in Bibelwissensckaf-tliche Reite, fase. I, Stoccarda 1938. U. Holzmeister, Genealogia S. Lucae, in Verbum Domini 23 ('943) PP- 9-18, Roma. I protestanti inglesi e americani hanno fornito buone difese della concezione verginale. Accanto aile opere ormai vecchie di Orr ( 1904) e di Swete ( 1907) segnaliamo V. Taylor, The historical Evidencefor thè Virgin Birth, Oxford 1921 e J. Gresham Machew, The Virghi Birth, New-York 1930. Si veda l'elenco degli studi sui particolari in J. M. Vosté, 0. e, pp. 76-80 e 129. Per la risposta agli attacchi recenti di A. Loisy e Ch. Cui-gnebert cfr. Lepin, Le Problèmi de Jésus, Parigi 1936, pp. 225-240.

3. Relativamente al capo V. Oltre i commenti e le vite di Gesù si veda soprattutto J. Lebreton, Les origines du dogme de la Trinité, 1.1, 7 ed., 1927 ; L. de Grandmaison, Jésus-Ckrìst, sapersonne, son message, sespreuves, 2 voli., Parigi 1928; le varie opere di M. Lepin: Jésus-Chrìst, sa me, son oeuvre. Esquisse des originis dvréliermes, Parigi, 6 ed. 1925 ; Le Christ Jesus, son exisience historique et sa divinite, Parigi 1930 ; Le Problème de Jésus, Parigi 1936 ; P. Van Imschoot, Jésus-Christ, Bruges 1944; J. Bonsirven, Les enseignements de Jésus-Christ, Parigi 1946, pp. 356-432.

 

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