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Stiamo salvando il mondo dalla sicura catastrofe del "buco nell'ozono"

Ultimo Aggiornamento: 24/12/2008 18:30
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24/12/2008 09:35

Da: RaiNews24.it
Cossiga: in Italia ci sono bombe atomiche
Roma | 22 dicembre 2008
Francesco Cossiga
Francesco Cossiga

"In Italia ci sono bombe atomiche, ad esempio a Ghedi. Esse sono delle armate statunitensi, e forse anche britanniche e francesi. In caso di loro utilizzo, verrebbero coinvolti anche i vertici dello Stato italiano". Lo afferma il Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, conversando con un giornalista.

Alla domanda se i vertici dello Stato italiano debbano essere consultati, in caso di utilizzo delle bombe atomiche dislocate sul nostro territorio, Cossiga replica: "Di più. Devono dare il loro assenso".

Alla domanda se l'assenso debba venire dal Presidente della Repubblica o dal capo del Governo, Cossiga risponde: "In questo Paese il Capo dello Stato non conta un c.... Quando fui Presidente della Repubblica, una commissione, voluta dai Governi Goria e De Mita e presieduta da Paladin, stabilì che il ruolo di comandante delle Forze armate, attribuito al capo dello Stato, era in senso puramente cerimoniale".

Perché in Italia non vengono rivelati neppure i segreti di Stato piu' vecchi di 30 anni? "L'Italia - replica Cossiga - e' libera di divulgare solo i segreti che non coinvolgano altri Stati. Ad ogni modo mi creda: non esistono segreti di Stato che non siano già noti".

Cossiga dà un consiglio ai Paesi della Nato: "Nello spirito dell'atlantismo, consiglierei agli alleati del Patto Atlantico di comunicarci solo quei segreti che contengano notizie che loro vogliono divulgare".

"In Italia - conclude Cossiga - secondo una vecchia tradizione, se si vuole tutelare una notizia, l'autorità ha un solo sistema: non lasciare nulla per iscritto e mentire oralmente".

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Il XXV della fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel

In prima linea

contro la desertificazione


Compirà 25 anni il prossimo mese di febbraio la fondazione "Giovanni Paolo II per il Sahel" nata in seguito all'appello lanciato da Papa Wojtyla il 10 maggio del 1980. Si trovò immerso nel dramma della povertà dei popoli del Sahel assediati da un inarrestabile processo di desertificazione della loro terra e dal conseguente dramma della siccità. Si rivolse al mondo intero e supplicò di non abbandonare questi fratelli in così grave difficoltà. Furono le Conferenze episcopali tedesca prima e italiana dopo a rispondere con slancio a questo appello permettendo così alla solidarietà di assumere una forma organica, permanente ed efficace di soccorso. Con il capitale raccolto fu possibile costituire ufficialmente nel 1984 la fondazione alla quale si decise di dare il nome "Giovanni Paolo II per il Sahel" per favorire, come dice lo statuto "la formazione di persone che si mettano al servizio dei loro Paesi e dei loro fratelli" e "per lottare contro la desertificazione e le sue cause, nonché per soccorrere le popolazioni minacciate dalla siccità". Venne affidata a Cor Unum il cui presidente è il rappresentante legale della fondazione stessa. In particolare segue le vicende dei nove paesi della fascia del Sahel:  Burkina Faso, Capo Verde, Ciad, Gambia, Guinea Bissau, Mali, Mauritania, Niger e Senegal. Le Conferenze episcopali di questi Paesi designano un vescovo che le rappresenti nel consiglio di amministrazione.
In questi venticinque anni di vita la fondazione ha compiuto una lunga serie di interventi caritatevoli assistenziali senza fare discriminazioni di religione. Sono state create cooperative per lo sviluppo dell'artigianato, formate equipe itineranti per l'informazione igienico-sanitaria, avviate case-famiglia per giovani, sono stati scavati centinaia di pozzi e costituite vere e proprie reti idriche per la fornitura di acqua ai paesi più remoti. 
Si è trattato di un impegno di notevole portata che ora però corre il rischio di subire un pesante ridimensionamento. La crisi economica e finanziaria da un lato ed il dramma dell'emigrazione forzata in continuo aumento come unica alternativa alla precarietà e alla povertà dall'altro rendono, infatti, sempre più drammatica la situazione d'emergenza di questi popoli disastrati. Aumentano cioè le necessità e diminuiscono i fondi disponibili per gli interventi. Dunque è urgente cercare nuove fonti di finanziamento. Attorno a Cor Unum ruotano grazie a Dio, numerose organizzazioni che ne condividono gli intenti. È il caso del comitato di collegamento di cattolici per una civiltà dell'amore, che ha recentemente organizzato a Roma, nella sede del Pontificio Consiglio Cor Unum, un convegno il cui titolo è sufficientemente esplicativo "Oltre la crisi, la speranza".
Non nuovo, in questo ultimo scorcio di tempo, l'allarme crisi economico-finanziaria anche sul versante della solidarietà internazionale. "Purtroppo - ha detto monsignor Karel Kasteel, segretario del Pontificio Consiglio - le richieste di finanziamenti per progetti superano ormai abbondantemente le entrate e dobbiamo cercare vie alternative per venire incontro alle emergenze".
Il problema riguarda in modo particolare proprio le regioni saheliane. "In questo momento - ha detto ancora monsignor Kasteel - ci sono undici progetti urgenti che sono rimasti senza finanziamento. A questo punto è intervenuto il comitato di collegamento di cattolici per una civiltà dell'amore che ha chiamato a raccolta i rappresentanti di alcune aziende italiane ed ha illustrato i progetti da realizzare in Burkina Faso, in Senegal, in Ciad, in Mali e in Gambia". "Obiettivo - ha spiegato in proposito il segretario nazionale del comitato, Giuseppe Rotunno - era cercare di creare sinergie d'intenti e di azione attraverso le quali diventa possibile aiutare le persone dove si trovano". Il progetto generale va naturalmente ben al di là del momento contingente. L'Africa ha infatti bisogno di un approccio diverso alle problematiche che l'affliggono, di una nuova visione dello sviluppo. Ci sarebbe per esempio bisogno della creazione di nuovi mercati finalizzati ad una cooperazione economica internazionale che tenga conto delle ricchezze delle risorse africane a vantaggio di entrambi gli interlocutori. Per uno "strano" giro infatti poco meno di un quinto dei frutti dell'investimento fatto in Africa resta "sul posto" mentre più dei quattro quinti vanno a impinguare altri cespiti.
"Nella scelta delle aziende - ha assicurato Rotunno - si è data fiducia a quelle che hanno realmente a cuore una corretta, onesta e lungimirante cooperazione con i Paesi in via di sviluppo".



(©L'Osservatore Romano - 25 dicembre 2008)
[Modificato da zsbc08 24/12/2008 18:30]
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