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Pascendi Dominicis Gregis e Lamentabili Sane Exitu condanna a 65 tesi moderniste

Ultimo Aggiornamento: 27/02/2016 09:46
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28/11/2008 18:43
 
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IL GIURAMENTO ANTIMODERNISTA
Acta Apostolicæ Sedis, 1910, pp. 669-672

IO (NOME). fermamente accetto e credo in tutte e in ciascuna delle verità definite, affermate e dichiarate dal magistero infallibile della Chiesa, soprattutto quei principi dottrinali che contraddicono direttamente gli errori del tempo presente.
Primo: credo che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza e può anche essere dimostrato con i lumi della ragione naturale nelle opere da lui compiute (cf Rm 1,20), cioè nelle creature visibili, come causa dai suoi effetti.

Secondo: ammetto e riconosco le prove esteriori della rivelazione, cioè gli interventi divini, e soprattutto i miracoli e le profezie, come segni certissimi dell'origine soprannaturale della religione cristiana, e li ritengo perfettamente adatti a tutti gli uomini di tutti i tempi, compreso quello in cui viviamo.

Terzo: con la stessa fede incrollabile credo che la Chiesa, custode e maestra del verbo rivelato, è stata istituita immediatamente e direttamente da Cristo stesso vero e storico mentre viveva fra noi, e che è stata edificata su Pietro, capo della gerarchia ecclesiastica, e sui suoi successori attraverso i secoli.

Quarto: accolgo sinceramente la dottrina della fede trasmessa a noi dagli apostoli tramite i padri ortodossi, sempre con lo stesso senso e uguale contenuto, e respingo del tutto la fantasiosa eresia dell'evoluzione dei dogmi da un significato all'altro, diverso da quello che prima la Chiesa professava; condanno similmente ogni errore che pretende sostituire il deposito divino, affidato da Cristo alla Chiesa perché lo custodisse fedelmente, con una ipotesi filosofica o una creazione della coscienza che si è andata lentamente formando mediante sforzi umani e continua a perfezionarsi con un progresso indefinito.

Quinto: sono assolutamente convinto e sinceramente dichiaro che la fede non è un cieco sentimento religioso che emerge dall'oscurità del subcosciente per impulso del cuore e inclinazione della volontà moralmente educata, ma un vero assenso dell'intelletto a una verità ricevuta dal di fuori con la predicazione, per il quale, fiduciosi nella sua autorità supremamente verace, noi crediamo tutto quello che il Dio personale, creatore e signore nostro, ha detto, attestato e rivelato.

Mi sottometto anche con il dovuto rispetto e di tutto cuore aderisco a tutte le condanne, dichiarazioni e prescrizioni dell'enciclica Pascendi e del decreto Lamentabili, particolarmente circa la cosiddetta storia dei dogmi.

Riprovo altresì l'errore di chi sostiene che la fede proposta dalla Chiesa può essere contraria alla storia, e che i dogmi cattolici, nel senso che oggi viene loro attribuito, sono inconciliabili con le reali origini della religione cristiana.

Disapprovo pure e respingo l'opinione di chi pensa che l'uomo cristiano più istruito si riveste della doppia personalità del credente e dello storico, come se allo storico fosse lecito difendere tesi che contraddicono alla fede del credente o fissare delle premesse dalle quali si conclude che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non siano positivamente negati.

Condanno parimenti quel sistema di giudicare e di interpretare la sacra Scrittura che, disdegnando la tradizione della Chiesa, l'analogia della fede e le norme della Sede apostolica, ricorre al metodo dei razionalisti e con non minore disinvoltura che audacia applica la critica testuale come regola unica e suprema.

Rifiuto inoltre la sentenza di chi ritiene che l'insegnamento di discipline storico-teologiche o chi ne tratta per iscritto deve inizialmente prescindere da ogni idea preconcetta sia sull'origine soprannaturale della tradizione cattolica sia dell'aiuto promesso da Dio per la perenne salvaguardia delle singole verità rivelate, e poi interpretare i testi patristici solo su basi scientifiche, estromettendo ogni autorità religiosa e con la stessa autonomia critica ammessa per l'esame di qualsiasi altro documento profano.

Mi dichiaro infine del tutto estraneo ad ogni errore dei modernisti, secondo cui nella sacra tradizione non c'è niente di divino o peggio ancora lo ammettono ma in senso panteistico, riducendolo ad un evento puro e semplice analogo a quelli ricorrenti nella storia, per cui gli uomini con il proprio impegno, l'abilità e l'ingegno prolungano nelle età posteriori la scuola inaugurata da Cristo e dagli apostoli.

Mantengo pertanto e fino all'ultimo respiro manterrò la fede dei padri nel carisma certo della verità, che è stato, è e sempre sarà nella successione dell'episcopato agli apostoli (1), non perché si assuma quel che sembra migliore e più consono alla cultura propria e particolare di ogni epoca, ma perché la verità assoluta e immutabile predicata in principio dagli apostoli non sia mai creduta in modo diverso né in altro modo intesa (2).

Mi impegno ad osservare tutto questo fedelmente, integralmente e sinceramente e di custodirlo inviolabilmente senza mai discostarmene né nell'insegnamento né in nessun genere di discorsi o di scritti. Così prometto, così giuro, così mi aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio.



Note:

1 Ireneo, Adversus haereses, 4, 26, 2: PG 7, 1053.
2 Tertulliano, De praescriptione haereticorum, 28: PL 2, 40.



san Pio X


Per quanto non si usi più fare questo giuramento, esso NON potrà mai essere "abolito", entrato nella storia del Magistero della Chiesa nè è diventato parte integrante e, come dice san Paolo, parte di quel DEPOSITO DELLA FEDE che accresce la nostra sana Tradizione...


“Pascendi Dominici Gregis”: l’attualità dell’antimodernismo di san Pio X


Storici e teologi a convegno per il centenario dell’enciclica


Di Luca Marcolivio

ROMA, giovedì, 29 novembre 2007 (ZENIT.org).- L’enciclica Pascendi Dominici Gregis compie cent’anni ma rimane attualissima. Se ne è parlato in un convegno tenutosi martedì sera presso la Pontificia Università San Tommaso.

Pascendi Dominici gregis - Lettera Enciclica - 8 settembre 1907
www.totustuus.biz/users/magistero/p10pasce.htm

Gli aspetti eminentemente storici dell’enciclica sono stati esposti da Roberto de Mattei, docente di Storia del cristianesimo all’Università di Cassino e all’Università Europea di Roma. “L’elezione di Papa Pio X nel 1903 – ha esordito il professor de Mattei – fu, in primo luogo, un fatto inaspettato, $risultando favorito, in quel conclave, il cardinal Rampolla”.

De Mattei ha poi illustrato lo sfondo storico-culturale di quegli anni: “L’inizio del secolo XX si caratterizza per una grande accelerazione del progresso tecnologico e sociale. Modernismo e progressismo sono le parole chiave del pensiero dell’epoca che inizia a permeare il mondo cattolico, anche grazie a notevoli mezzi finanziari”.

“In queste circostanze la salita al soglio pontificio del Cardinal Giuseppe Sarto, con il nome di Pio X – ha proseguito lo storico – ruppe certe dinamiche interne alla Chiesa stessa. Egli era un uomo di autentica pietà e assoluta ortodossia, dotato di grandi capacità pastorali, ma poco incline alla diplomazia e al compromesso”.

“Lavorando in stretta simbiosi con il Segretario di Stato vaticano, il Cardinale Merry Del Val – ha spiegato De Mattei – si circondò di pochi e fidati collaboratori in ambito curiale, attirandosi notevoli ostilità da parte di una grossa fetta del mondo cattolico”.

“Sin dai primi anni del pontificato lavorò a quattro importanti obiettivi: il nuovo Catechismo; il nuovo Codice di Diritto Canonico; l’incoraggiamento dei fedeli a una comunione frequente; la lotta al modernismo. Quest’ultimo punto ebbe uno sviluppo significativo con la pubblicazione del decreto Lamentabili, una sorta di nuovo Sillabo nel quale citava 65 errori delle nuove dottrine”.

“Di poco successiva è la Pascendi, pubblicata in un’epoca in cui il cattolicesimo aveva già, oltre ai nemici dichiarati, molti avversari occulti che operavano al suo interno – ha aggiunto – . Costoro, ovviamente erano i più subdoli e pericolosi, avendo una conoscenza diretta della Chiesa. Il loro obiettivo era quello di trasformare la Chiesa da dentro lasciandone intatto l’involucro strutturale”.

“La lotta al modernismo si concretizzò essenzialmente nei seguenti punti:

- un ritorno alla dottrina tomista;
- un maggiore controllo sui seminari con relativa sospensione di quei formatori che risultassero ‘infetti dal modernismo’;
- vagliare le pubblicazioni a stampa, proibendo le letture contro la morale;
- istituzione dei ‘censori ecclesiastici’;
- proibizione dei congressi per sacerdoti non autorizzati dai Vescovi;
- istituzione di ‘consigli di vigilanza’ per il clero;
- obbligo da parte dei Vescovi di riferire ogni quattro anni alla Santa Sede sul rispetto dei punti sopra elencati”.


“Con il decreto del 1° settembre 1907, il Papa impose il ‘giuramento antimodernista’: fu un colpo mortale a questa corrente di pensiero che, caduta nel dimenticatoio per oltre cinquant’anni, riemerse come un fiume carsico soltanto a cavallo del Concilio Vaticano II”, ha continuato.

“Fu in quegli anni che Jacques Maritain affermò: ‘il modernismo storico fu un modesto raffreddore da fieno, se paragonato all’attuale febbre modernista’. Pochi anni dopo, nel 1972, papa Paolo VI, lanciò il celebre allarme sul ‘fumo di satana’ ormai ‘entrato nel tempio di Dio’”.

“A distanza di un secolo – ha poi concluso de Mattei – la Pascendi Dominici Gregis con la sua condanna del modernismo quale ‘sintesi di tutte le eresie’ è ancora attualissima ed è auspicabile che i cattolici la riscoprano per contrastare il modernismo attuale, ben più nocivo di quello del passato, sia per i mezzi intellettuali più perfidi e sopraffini, sia perché ripete un errore che è stato già condannato”.

Di carattere filosofico è stata la relazione di Giovanni Turco, docente di Filosofia e Storia all’Università di Udine. “Con il modernismo – ha affermato – la storia, la religione e la ragione sono depotenziate: la storia diventa fenomeno del divenire e la religione sentimento religioso. Questo percorso impedisce di accogliere la fede autenticamente intesa come adesione alla rivelazione”.

“Le conseguenze più deteriori del modernismo – ha aggiunto il professor Turco – sono l’attribuzione di una medesimo valore a tutte le religioni, la riduzione della carità a filantropia, la riduzione della ragione a doxa (opinione) fino ad arrivare, in ultima analisi all’indifferentismo assiologico e all’agnosticismo. La ragione umana, al contrario, è capace di riconoscere i doveri dell’uomo verso Dio”.

“La strada da seguire è ben diversa e implica un ritorno alla metafisica, ovvero all’incontro libero e liberante tra l’intelligenza e la realtà, sulla scia di san Tommaso”, ha poi concluso.

È poi seguito il contributo di padre Giovanni Cavalcoli, OP, docente alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna. “Papa Pio X – ha sottolineato – non era un prelato dagli spiccatissimi interessi accademici. Era tuttavia un santo e, con grande spirito sovrannaturale, intuì quanto le dottrine moderniste erano ispirate dalla superbia del demonio”.

“Quanto al modernismo attuale – ha proseguito il religioso – esso compie l’errore di giudicare il tomismo e il magistero della Chiesa con criteri, per l’appunto, modernisti. In questa concezione della fede, l’uomo sente Dio come immanente o interno a sé; Dio si manifesta nel sentimento e nella coscienza, quindi non è trascendente”.

“Oggi il modernismo è ben più pervasivo di cent’anni, avendo contagiato anche una parte della Curia cardinalizia e dell’espiscopato. Il clero dovrebbe, al contrario, regolare il suo agire sulla base dell’umile affidamento a Cristo e al magistero, non certo sulla base del successo facile o del rispetto umano”, ha poi concluso.

La chiusura del convegno è stata affidata a monsignor Luigi Negri, Vescovo di San Marino e Montefeltro. Anche monsignor Negri ha accennato al problema dell’equivoco post-conciliare ricordando la condanna della “ermeneutica della discontinuità” da parte di Papa Benedetto XVI. “Un’ermeneutica che vede il Vaticano II come l’alba di una nuova chiesa”, ha commentato.

“San Pio X – ha affermato Negri – ha dimostrato come tutte quelle correnti vicine al razionalismo e al modernismo portano inevitabilmente all’ateismo. Esse rappresentano un impietoso tentativo di eliminare Dio dalla considerazione della vita e della società. Se si elimina il divino, l’uomo diventa oggetto di manipolazione in tutti i sensi”.

“I totalitarismi non sono stati ‘incidenti di percorso’ ma consapevoli e deliberate costruzioni di società senza Dio”, ha aggiunto il Vescovo.

“A tutto ciò si contrappone la Dottrina Sociale della Chiesa che, da circa un secolo e mezzo, pone al centro la dignità della persona umana, la priorità della famiglia, la libertà scolastica, secondo i principi della sussidiarietà che il modernismo nega, attribuendo allo Stato un ruolo privilegiato: non a caso il totalitarismo rimpiazzò l’Europa delle nazioni con l’Europa degli Stati”, ha ricordato.

“Oggi ci troviamo di fronte a una battaglia epocale tra una concezione autentica e una concezione razionalista e ‘massonica’ della Chiesa – ha proseguito il presule –. Parimenti c’è un ecumenismo giusto, quello che affianca al dialogo la missione e un ecumenismo ‘d’accatto’ che contrappone dialogo e missione”.

“All’inizio del secolo attuale, nell’anno giubilare è stata pubblicata la dichiarazione Dominus Jesus che indica chiaramente nella Chiesa la fonte della verità: auspichiamo che al pari del Sillabo e della Pascendi, la Dominus fra cento anni possa essere ricordato come il documento magisteriale che ha impedito la dissoluzione del cattolicesimo nel mondo”, ha poi concluso.




Cooperator Veritatis (motto episcopale di J.Ratzinger oggi Benedetto XVI)

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Per quanto non si usi più fare questo giuramento, esso NON potrà mai essere "abolito", entrato nella storia del Magistero della Chiesa nè è diventato parte integrante e, come dice san Paolo, parte di quel DEPOSITO DELLA FEDE che accresce la nostra sana Tradizione...insomma, si va avanti e mai indietro, la Chiesa andando avanti NON abolisce ciò in cui credeva e ciò che riteneva utile
dunque è stata SOSTITUITA la formula, che in termini ecclesiali e magisteriali significa che NON è cambiata la sostanza....

questa la formula attuale:

PROFESSIONE DI FEDE
E GIURAMENTO DI FEDELTÀ
NELL’ASSUMERE UN UFFICIO
DA ESERCITARE A NOME DELLA CHIESA 

 

NOTA DI PRESENTAZIONE

I fedeli chiamati ad esercitare un ufficio in nome della Chiesa sono tenuti ad emettere la « Professione di fede », secondo la formula approvata dalla sede apostolica (cf. can. 833). Inoltre, l'obbligo di uno speciale « Giuramento di fedeltà » concernente i particolari doveri inerenti all'ufficio da assumere, in precedenza prescritto solo per i vescovi, è stato esteso alle categorie nominate al can. 833, nn. 5-8. Si è reso necessario, pertanto, provvedere a predisporre i testi atti allo scopo, aggiornandoli nello stile e nel contenuto perché siano più conformi all'insegnamento del Concilio Vaticano II e ai documenti successivi.

Come formula della « Professio fidei » viene riproposta integralmente la prima parte del precedente testo in vigore dal 1967 e contenente il Simbolo niceno costantinopolitano (cf. AAS 59 [1967], 1058). La seconda parte è stata modificata, suddividendola in tre commi al fine di meglio distinguere il tipo di verità e il relativo assenso richiesto.

La formula dello « Iusiurandum fidelitatis in suscipiendo officio nomine Ecclesiae exercendo », intesa come complementare alla « Professio fidei », è stabilita per le categorie di fedeli elencate al can. 833, nn. 5-8. È di nuova composizione; in essa sono previste alcune varianti ai commi 4 e 5 per il suo uso da parte dei superiori maggiori degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica (cf. can. 833, n. 8).

I testi delle nuove formule di « Professio fidei » e di « Iusiurandum fidelitatis » entreranno in vigore dal 1o marzo 1989.

 

PROFESSIONE DI FEDE

(Formula da usarsi nei casi in cui è prescritta la professione di fede)

Io N.N. credo e professo con ferma fede tutte e singole le verità che sono contenute nel Simbolo della fede, e cioè:

Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine.

Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti.

Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.

Credo pure con ferma fede tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio scritta o trasmessa e che la Chiesa, sia con giudizio solenne sia con magistero ordinario e universale, propone a credere come divinamente rivelato.

Fermamente accolgo e ritengo anche tutte e singole le verità circa la dottrina che riguarda la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.

Aderisco inoltre con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio dei Vescovi propongono quando esercitano il loro magistero autentico, sebbene non intendano proclamarli con atto definitivo.

 

GIURAMENTO DI FEDELTÀ
NELL’ASSUMERE UN UFFICIO
DA ESERCITARE A NOME DELLA CHIESA

(Formula da usarsi da tutti i fedeli indicati nel can. 833 nn. 5-8)

Io N.N. nell’assumere l’ufficio di... prometto di conservare sempre la comunione con la Chiesa cattolica, sia nelle mie parole che nel mio modo di agire.

Adempirò con grande diligenza e fedeltà i doveri ai quali sono tenuto verso la Chiesa, sia universale che particolare, nella quale, secondo le norme del diritto, sono stato chiamato a esercitare il mio servizio.

Nell’esercitare l’ufficio, che mi è stato affidato a nome della Chiesa, conserverò integro e trasmetterò e illustrerò fedelmente il deposito della fede, respingendo quindi qualsiasi dottrina ad esso contraria.

Seguirò e sosterrò la disciplina comune a tutta la Chiesa e curerò l’osservanza di tutte le leggi ecclesiastiche, in particolare di quelle contenute nel Codice di Diritto Canonico.

Osserverò con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori dichiarano come autentici dottori e maestri della fede o stabiliscono come capi della Chiesa, e presterò fedelmente aiuto ai Vescovi diocesani, perché l’azione apostolica, da esercitare in nome e per mandato della Chiesa, sia com­piuta in comunione con la Chiesa stessa.

Così Dio mi aiuti e questi santi Vangeli che tocco con le mie mani.

(Variazioni del paragrafo quarto e quinto della formula di giuramento
da usarsi dai fedeli indicati nel can. 833 n. 8)

Sosterrò la disciplina comune a tutta la Chiesa e promuoverò l’osservanza di tutte le leggi ecclesiastiche, in particolare di quelle contenute nel Codice di Diritto Canonico.

Osserverò con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori dichiarano come autentici dottori e maestri della fede o stabiliscono come capi della Chiesa, e in unione con i Vescovi diocesani, fatti salvi l’indole e il fine del mio Istituto, presterò volentieri la mia opera perché l’azione apostolica, da esercitare in nome e per mandato della Chiesa, sia compiuta in comunione con la Chiesa stessa.




*************

Testo originale in latino:

PROFESSIO FIDEI
ET IUSIURANDUM FIDELITATIS
IN SUSCIPIENDO OFFICIO
NOMINE ECCLESIAE EXERCENDO
*

 

NOTA DI PRESENTAZIONE

I fedeli chiamati ad esercitare un ufficio in nome della Chiesa sono tenuti ad emettere la « Professione di fede », secondo la formula approvata dalla sede apostolica (cf. can. 833). Inoltre, l'obbligo di uno speciale « Giuramento di fedeltà » concernente i particolari doveri inerenti all'ufficio da assumere, in precedenza prescritto solo per i vescovi, è stato esteso alle categorie nominate al can. 833, nn. 5-8. Si è reso necessario, pertanto, provvedere a predisporre i testi atti allo scopo, aggiornandoli nello stile e nel contenuto perché siano più conformi all'insegnamento del Concilio Vaticano II e ai documenti successivi.

Come formula della « Professio fidei » viene riproposta integralmente la prima parte del precedente testo in vigore dal 1967 e contenente il Simbolo niceno costantinopolitano (cf. AAS 59 [1967], 1058). La seconda parte è stata modificata, suddividendola in tre commi al fine di meglio distinguere il tipo di verità e il relativo assenso richiesto.

La formula dello « Iusiurandum fidelitatis in suscipiendo officio nomine Ecclesiae exercendo », intesa come complementare alla « Professio fidei », è stabilita per le categorie di fedeli elencate al can. 833, nn. 5-8. È di nuova composizione; in essa sono previste alcune varianti ai commi 4 e 5 per il suo uso da parte dei superiori maggiori degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica (cf. can. 833, n. 8).

I testi delle nuove formule di « Professio fidei » e di « Iusiurandum fidelitatis » entreranno in vigore dal 1o marzo 1989.

I

PROFESSIO FIDEI

(Formula deinceps adhibenda in casibus
in quibus iure praescribitur Professio fidei
)

 

Ego N. firma fide credo et profiteor omnia et singula quae continentur in Symbolo fidei, videlicet:

Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem, factorem cœli et terrae, visibilium omnium et invisibilium et in unum Dominum Iesum Christum, Filium Dei unigenitum, et ex Patre natum ante omnia saecula, Deum de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero, genitum non factum, consubstantialem Patri per quem omnia facta sunt, qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit de cœlis, et incarnatus est de Spiritu Sancto, ex Maria Virgine, et homo factus est, crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato, passus et sepultus est, et resurrexit tertia die secundum Scripturas, et ascendit in cœlum, sedet ad dexteram Patris, et iterum venturus est cum gloria iudicare vivos et mortuos, cuius regni non erit finis; et in Spiritum Sanctum Dominum et vivificantem, qui ex Patre Filioque procedit; qui cum Patre et Filio simul adoratur et conglorificatur qui locutus est per Prophetas; et unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam. Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum, et exspecto resurrectionem mortuorum, et vitam venturi saeculi. Amen.

Firma fide quoque credo ea omnia quae in verbo Dei scripto vel tradito continentur et ab Ecclesia sive sollemni iudicio sive ordinario et universali magisterio tamquam divinitus revelata credenda proponuntur.

Firmiter etiam amplector ac retineo omnia et singula quae circa doctrinam de fide vel moribus ab eadem definitive proponuntur.

Insuper religioso voluntatis et intellectus obsequio doctrinis adhaereo quas sive Romanus Pontifex sive Collegium Episcoporum enuntiant cum Magisterium authenticum exercent etsi non definitivo actu easdem proclamare intendant.

II

IUSIURANDUM FIDELITATIS
IN SUSCIPIENDO OFFICIO
NOMINE ECCLESIAE EXERCENDO

(Formula adhibenda a christifidelibus de quibus in can. 833, n. 5-8)

 

Ego N. in suscipiendo officio... promitto me cum catholica Ecclesia communionem semper servaturum, sive verbis a me prolatis, sive mea agendi ratione.

Magna cum diligentia et fidelitate onera explebo quibus teneor erga Ecclesiam, tum universam, tum particularem, in qua ad meum servitium, secundum iuris praescripta, exercendum vocatus sum.

In munere meo adimplendo, quod Ecclesiae nomine mihi commissum est, fidei depositum integrum servabo, fideliter tradam et illustrabo; quascumque igitur doctrinas iisdem contrarias devitabo.

Disciplinam cunctae Ecclesiae communem sequar et fovebo observantiamque cunctarum legum ecclesiasticarum, earum imprimis quae in Codice iuris canonici continentur, servabo.

Christiana obœdientia prosequar quae sacri Pastores, tamquam authentici fidei doctores et magistri declarant aut tamquam Ecclesiae rectores statuunt, atque Episcopis diœcesanis fideliter auxilium dabo, ut actio apostolica, nomine et mandato Ecclesiae exercenda, in eiusdem Ecclesiae communione peragatur.

Sic me Deus adiuvet et sancta Dei Evangelia, quae manibus meis tango.

(Variationes paragraphi quartae et quintae formulae iurisiurandi,

adhibendae a christifidelibus de quibus in can. 833, n. 8)

Disciplinam cunctae Ecclesiae communem fovebo observantiamque cunctarum legum ecclesiasticarum urgebo, earum imprimis quae in Codice Iuris canonici continentur.

Christiana obœdientia prosequar quae sacri Pastores, tamquam authentici fidei doctores et magistri declarant, aut tamquam Ecclesiae rectores statuunt, atque cum Episcopis diœcesanis libenter operam dabo, ut actio apostolica, nomine et mandato Ecclesiae exercenda, salvis indole et fine mei instituti, in eiusdem Ecclesiae communione peragatur.


* AAS 81 (1989), 104-106.



************************
[Modificato da Caterina63 17/05/2012 15:22]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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“Instaurare omnia in Christo”....

con queste parole san Pio X iniziava il suo Pontificato all'inizio del '900....
quale significato hanno per noi oggi? ce lo dice Giovanni Paolo II quando nel 1993 andò a visitare la Parrocchia a LUI DEDICATA a Roma....e nei tre incontri avuti sia con i bambini, che con i giovani che con il CONSIGLIO PASTORALE......ebbe a portare a tutti quale esempio SAN PIO X sottolineando l'importanza di avere certo una parrocchia ma che fosse anche intitolata a QUALCUNO CHE SIA DI ESEMPIO A NOI OGGI.... [SM=g27988]


Visita alla parrocchia di San Pio X, 31 gennaio 1993

diceva Giovanni Paolo II:

San Pio X ha trovato queste parole: “Instaurare omnia in Christo”. “Instaurare”, innovare, cercare in Lui sempre il recupero, l’instaurazione, la restaurazione di quello che è giusto, che è umano, che è pacifico, che è bello, che è sano e che è santo.

“Instaurare omnia” e “omnia” vuol dire la vita personale, la vita delle famiglie

**********

INSTAURARE OMNIA IN CHRISTO fu anche il motto tanto caro a don Orione....TANTO DA RICEVERE una indulgenza a chi lo recitasse...

Don Orione chiese una particolare indulgenza legata alle "parole "Instaurare omnia in Christo" dell'apostolo Paolo, si pronuncino esse da una sola o più persone con frase tutta unita, o si pronuncino staccate e da più individui, (come si suole nelle Case della Congregazione, dicendo: Instaurare omnia e rispondendosi: in Christo!), avendole come una aspirazione e un voto delle anime nostre che Cristo risusciti in tutti i cuori, e rinnovi in sé tutto l'uomo e tutti gli uomini".

Già il giorno seguente la domanda di Don Orione, Mons. Bandi rispondeva accordando l'indulgenza all'"invocazione "Instaurare omnia in Christo "; sia che si reciti da una sola o più persone, con frase tutta unita, e separata; e ciò toties quoties nella giornata, purché recitata devotamente".

Quest'uso del motto "Instaurare omnia in Christo" come giaculatoria fu tanto caro e inculcato da Don Orione perché sintesi di identità e di programma della Piccola Opera della Divina Provvidenza. E' bello che continui ancor oggi nella Famiglia orionina, sia nelle preghiere che in incontri comunitari o pubblici, sia da parte di religiosi che di laici: Instaurate omnia in Christo......
[Modificato da Caterina63 30/06/2009 19:08]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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...nel 2007 l'Encilica ha compiuto 100 anni....ricordo che ci fu qualche trafiletto qua e la in qualche rivista Cattolica, ma nulla d più...eppure rileggendola e meditandola, si comprende quanto san Pio X fu profeta...
Ciò che descrive è vero che riguarda la SUA EPOCA, ma ciò che resta impressionante è che i pericoli da lui descritti NOI LI STIAMO  vivendo pienamente realizzati... Imbarazzato

DALL'ENCICLICA “PASCENDI DOMINICI GREGIS”

CONTRO IL MODERNISMO

Ma ad accecare l'animo e trascinarlo nell'errore assai più di forza ha in sé la superbia: la quale, trovandosi nella dottrina del modernismo quasi in un suo domicilio, da essa trae alimento per ogni verso e riveste tutte le forme. Per la superbia infatti costoro presumono audacemente di se stessi e si ritengono e si spacciano come norma di tutti. Per la superbia si gloriano vanissimamente quasi essi soli possiedano la sapienza, e dicono gonfi e pettoruti: "Noi non siamo come il rimanente degli uomini"; e per non essere di fatto posti a paro degli altri, abbracciano e sognano ogni sorta di novità, le più assurde. Per la superbia ricusano ogni soggezione, e pretendono che l'autorità debba comporsi colla libertà. Per la superbia, dimentichi di se stessi, pensano solo a riformare gli altri, né rispettano in ciò qualsivoglia grado fino alla potestà suprema. No, per giungere al modernismo, non vi è sentiero più breve e spedito della superbia.

(...)

Quindi accade che la medicina giunga talora troppo tardi, quando cioè pel troppo attendere il male ha già preso piede. Vogliamo adunque che i Vescovi, deposto ogni timore, messa da parte la prudenza della carne, disprezzando il gridio dei malvagi, soavemente, sì, ma con costanza, adempiano ciascuno le sue parti; memori di quanto prescriveva Leone XIII nella Costituzione Apostolica "Officiorum": "Gli Ordinari, anche come Delegati della Sede Apostolica, si adoperino di proscrivere e di togliere dalle mani dei fedeli i libri o altri scritti nocivi stampati o diffusi nelle proprie diocesi". Con queste parole si concede, è vero, un diritto: ma s'impone in pari tempo un dovere. Né stimi veruno di avere adempiuto cotal dovere, se deferisca a Noi l'uno o l'altro libro mentre altri moltissimi si lasciano divulgare e diffondere. Né in ciò vi deve rattenere il sapere che l'autore di qualche libro abbia altrove ottenuto l'Irnprimatur; sì perché tal concessione può essere simulata, sì perché può essere stata fatta per trascuratezza o per troppa benignità e per troppa fiducia nel l'autore, il quale ultimo caso può talora avverarsi negli Ordini religiosi. [...]

Ciò che loro sia scrive a colpa, essi l'hanno per sacrosanto dovere. Niuno meglio di essi conosce i bisogni delle coscienze perché si trovano con queste a più stretto contatto che non si trovi la potestà ecclesiastica. Incarnano quasi in sé quei bisogni tutti: e quindi il dovere per loro di parlare apertamente e di scrivere. Li biasimi pure l'autorità, la coscienza del dovere li sostiene, e sanno per intima esperienza di non meritare riprensioni ma encomii. Pur troppo essi sanno che i progressi non si hanno senza combattimenti, né combattimenti senza vittime: e bene, saranno essi le vittime, come già i profeti e Cristo. Né perché siano trattati male, odiano l'autorità: concedono che ella adempia il suo dovere. Solo rimpiangono di non essere ascoltati, perché in tal guisa il progredire degli animi si ritarda: ma verrà senza meno il tempo di rompere gl'indugi, giacché le leggi dell'evoluzione si possono raffrenare, ma non possono affatto spezzarsi. E così continuano il lor cammino, continuano benché ripresi e condannati, celando un'incredibile audacia col velo di un'apparente umiltà. Piegano fintamente il capo: ma la mano e la mente proseguono con più ardimento il loro lavoro. E così essi operano scientemente e volentemente; sì perché è loro regola che l'autorità debba essere spinta, non rovesciata; si perché hanno bisogno di non uscire dalla cerchia della Chiesa per poter cangiare a poco a poco la coscienza collettiva; il che quando dicono, non si accorgono di confessare che la coscienza collettiva dissente da loro, e che quindi con nessun diritto essi si dànno interpreti della medesima.

Non si curano poi, nello scrivere, di insistere sulla propria sincerità: sono essi già noti presso i razionalisti, sono già lodati siccome militanti sotto una stessa bandiera; della quale lode, che ad un cattolico dovrebbe fare ribrezzo, essi si compiacciono [...].

[...] quando parlasi di modernismo, non parlasi di vaghe dottrine non unite da alcun nesso, ma di un unico corpo e ben compatto, ove chi una cosa ammetta uopo è che accetti tutto il rimanente. Perciò abbiam voluto altresì far uso di una forma quasi didattica, né abbiamo ricusato il barbaro linguaggio onde i modernisti fanno uso. Ora, se quasi di un solo sguardo abbracciamo l'intero sistema, niuno si stupirà ove Noi lo definiamo, affermando esser esso la sintesi di tutte le eresie. Certo, se taluno si fosse proposto di concentrare quasi il succo ed il sangue di quanti errori circa la fede furono sinora asseriti, non avrebbe mai potuto riuscire a far meglio di quel che han fatto i modernisti. Questi anzi tanto più oltre si spinsero che, come già osservammo, non pure il cattolicesimo ma ogni qualsiasi religione hanno distrutta. Così si spiegano i plausi dei razionalisti: perciò coloro, che fra i razionalisti parlano più franco ed aperto, si rallegrano di non avere alleati più efficaci dei modernisti.

[…] queste intime esperienze quali dai modernisti si spacciano [...] se queste esperienze hanno si grande forza e certezza, non l'avrà uguale quella esperienza che molte migliaia di cattolici affermano di avere, che i modernisti cioè battono un cammino sbagliato?

Per lo che il Nostro Predecessore Gregorio XVI a buon diritto scriveva (Lett. Enc. "Singulari Nos", 25 giugno 1834): "È grandemente da piangere nel vedere fin dove si profondino i deliramenti dell'umana ragione, quando taluno corra dietro alle novità, e, contro l'avviso dell'Apostolo, si adoperi di saper più che saper non convenga, e confidando troppo in se stesso, pensi dover cercare la verità fuori della Chiesa cattolica, in cui, senza imbratto di pur lievissimo errore, essa si trova".

Ma qui già siamo agli artifici con che i modernisti spacciano la loro merce. Che non tentano essi mai per moltiplicare gli adepti? Nei Seminari e nelle Università cercano di ottenere cattedre da mutare insensibilmente in cattedre di pestilenza. Inculcano le loro dottrine, benché forse velatamente, predicando nelle chiese; le annunciano più aperte nei congressi: le introducono e le magnificano nei sociali istituti. Col nome proprio o di altri pubblicano libri, giornali, periodici.

Per dar poi, o Venerabili Fratelli, disposizioni più generali in sì grave materia, se nelle vostre diocesi corrono libri perniciosi, adoperatevi con fortezza a sbandirli, facendo anche uso di solenni condanne.

[…] vigilino i Vescovi che i librai per bramosia di lucro non spaccino merce malsana: il certo è che nei cataloghi di taluni di costoro si annunziano di frequente e con lode non piccola i libri dei modernisti. Se essi ricusano di obbedire, non dubitino i Vescovi di privarli del titolo di librai cattolici; [...].

[…] ordiniamo una osservanza più diligente di quanto si prescrive nell'articolo XLII della citata Costituzione "Officiorum", cioè: "È vietato ai sacerdoti secolari, senza previo permesso dell'Ordinario, prendere la direzione di giornali o di periodici". Del quale permesso, dopo ammonitone, sarà privato chiunque ne facesse mal uso. Circa quei sacerdoti, che hanno titoli di corrispondenti o collaboratori, poiché avviene non raramente che pubblichino, nei giornali o periodici, scritti infetti di modernismo, vedano i Vescovi che ciò non avvenga; e se avvenisse, ammoniscano e diano proibizione di scrivere. Lo stesso con ogni autorità ammoniamo che facciano i Superiori degli Ordini religiosi: i quali se si mostrassero in ciò trascurati, provvedano i Vescovi, con autorità delegata dal Sommo Pontefice.

Ricordammo già sopra i congressi e i pubblici convegni come quelli nei quali i modernisti si adoprano di propalare e propagare le loro opinioni. I Vescovi non permetteranno più in avvenire, se non in casi rarissimi, i congressi di sacerdoti. Se avverrà che li permettano, lo faranno solo a questa condizione: che non vi si trattino cose di pertinenza dei Vescovi o della Sede Apostolica, non vi si facciano proposte o postulati che implichino usurpazione della sacra potestà, non vi si faccia affatto menzione di quanto sa di modernismo, di presbiterianismo, di laicismo.

Scrutino con attenzione gl'indizi di modernismo tanto nei libri che nell'insegnamento; con prudenza, prontezza ed efficacia stabiliscano quanto è d'uopo per la incolumità del clero e della gioventù. Combattano le novità di parole, e rammentino gli ammonimenti di Leone XIII (S. C. AA. EE. SS., 27 gennaio 1901): "Non si potrebbe approvare nelle pubblicazioni cattoliche un linguaggio che ispirandosi a malsana novità sembrasse deridere la pietà dei fedeli ed accennasse a nuovi orientamenti della vita cristiana, a nuove direzioni della Chiesa, a nuove ispirazioni dell'anima moderna, a nuova vocazione del clero, a nuova civiltà cristiana". Tutto questo non si sopporti così nei libri come dalle cattedre.

È parimente officio dei Vescovi impedire che gli scritti infetti di modernismo o ad esso favorevoli si leggano se sono già pubblicati, o, se non sono, proibire che si pubblichino. Qualsivoglia libro o giornale o periodico di tal genere non si dovrà mai permettere o agli alunni dei Seminari o agli uditori delle Università cattoliche: il danno che ne proverrebbe non sarebbe minore di quello delle letture immorali; sarebbe anzi peggiore, perché ne andrebbe viziata la radice stessa del vivere cristiano.

Assecondi Iddio i Nostri disegni e Ci prestino aiuto quanti di vero amore amano la Chiesa di Gesù Cristo. Ma di ciò in altra opportunità. A Voi intanto, o Venerabili Fratelli, nella cui opera e zelo sommamente confidiamo, imploriamo di tutto cuore la pienezza dei lumi Celesti, affinché in tanto periglio delle anime per gli errori che da ogni banda s'infiltrano, scorgiate quel che far vi convenga; e con ogni ardore e fortezza lo eseguiate. Vi assista colla Sua virtù Gesù Cristo autore e consumatore della nostra fede; vi assista coll'intercessione e coll'aiuto la Vergine Immacolata profligatrice di tutte le eresie.

E Noi, come pegno della Nostra carità e delle divine consolazioni fra tante contrarietà, impartiamo con ogni affetto a voi, al vostro clero ed ai vostri fedeli l'Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 8 settembre 1907, nell'anno V del Nostro Pontificato.
 

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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11/09/2009 23:33
 
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La sfida al modernismo nell’enciclica Pascendi
 di Emanuele Samek Lodovici


Nell’analisi della Pascendi Dominici Gregis (1907), l’enciclica antimodernistica di San Pio X, Samek Lodovici mette in luce gli aspetti di attualità del documento magisteriale, la sua eccezionale carica teoretica e, di converso, il dogmatismo insito nel modernismo. Perché il giudizio degli storici non può qualificare il valore dell’enciclica.

[Da AA.VV., «Cultura, scuola e società nel cattolicesimo lombardo del primo Novecento», Atti del convegno di studio, Brescia, 24-25 novembre 1979, Ce.Doc., Brescia, 1981, pp. 173-181]

Il mio intervento sarà piuttosto atipico rispetto agli interventi che ml hanno preceduto e, presumibilmente, rispetto a quelli che mi seguiranno. Vale a dire che non sarà tecnicamente storico, a meno che per storia non si intenda quella di cui parla il grande storico dell’età vittoriana, Litton Strachey, il quale dice, se ben ricordo, che l’ignoranza è il requisito dello storico; solo grazie a questa ignoranza egli può parlare, perche seleziona grazie alla sua ignoranza ciò che gli fa comodo fra l’enorme cumulo di materiale prodotto dalla storia.
Dopo questa dichiarazione di voto, passo a spiegare il titolo della mia comunicazione perché ha una dose di ambiguità. «Sfida al modernismo nell’enciclica Pascendi». Di quale modernismo intendo parlare? La mia intenzione ê far vedere come e possibile cogliere, dall’enciclica Pascendi, alcuni criteri di interpretazione di tutti i tipi di modernismo. Si può subito vedere la possibile obiezione al mio discorso: «modernismo» è una categoria troppo vasta, essendo i modernismi, o le posizioni moderniste, estremamente frastagliate. Ma, naturalmente, parlare per categorie ha la sua utilità. In fisica, per esempio, si usano concetti come «vuoto assoluto»; in termologia come «zero assoluto». Hanno, questi concetti, anche se il vuoto assoluto non è mai realizzabile sperimentalmente, il loro valore. Come il suo valore ha per esempio, parlare di ragione, o di idealismo, oppure di scientismo. Naturalmente ha valore proprio per individuare alcuni elementi.

Devo anche indicare un elemento che mi permette di parlare qui tra voi. Il titolo di questo convegno ê «Cultura, scuola e società». Io parto dal presupposto che anche un’enciclica sia cultura, fino a prova contraria. Ora intendo far vedere come l’enciclica Pascendi almeno in due punti (ma ce ne sono altri), sia assolutamente moderna, perché è in grado di parlare e di individuare temi di estrema rilevanza speculativa. Per far questo leggerò due punti dell’enciclica che mi permetteranno di fare alcune brevissime considerazioni, sperando di essere chiaro.
Il primo punto che leggerò, è il punto in cui l’autore dell’enciclica [che sia Pio X o che siano altri che hanno suggerito e che poi Pio X ha assunto per proprio è un problema irrilevante], prende a tema il concetto di dogma nel modernismo che, secondo me, è il concetto di dogma di tutti i tipi di modernismo.

Lo leggo e poi lo commento. Purtroppo non esiste una traduzione sufficientemente adeguata dell’enciclica; la traduzione che ora leggerò è una traduzione d’epoca, ma piuttosto carente. Ecco il passo che m’interessa: «A conoscere però bene la natura del dogma, bisogna ricercare innanzitutto quale relazione passi fra le formule religiose ed il sentimento religioso; nel che non troverà difficoltà chi tenga fermo che il fine di tali formule altro non è se non di dar modo al credente di rendersi ragione della propria fede». Fin qui quindi l’interpretazione che l’enciclica dà del valore delle formule nel modernismo mi sembra sia un’interpretazione quanto mai accettabile dal punto di vista dell’ortodossia. Il dogma è il modo con cui il credente rende ragione a se stesso della propria fede. Però l’enciclica continua: «Per la qual cosa esse formule stanno come di mezzo fra il credente e la fede di lui. Per rapporto alla fede sono espressioni inadeguate del suo oggetto, e sono dai modernisti chiamate ‘simboli’; per rapporto al credente si riducono a meri strumenti».
 
Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che le formule dogmatiche hanno due caratteristiche fondamentali per il modernismo come categoria. La prima caratteristica ê quella di essere «simboli» rispetto a ciò che esse formule vogliono dire. Prendiamo una formula normale: Dio è persona. «Dio è persona» è simbolo rispetto alla verità che indica. Simbolizzare vuol dire indicare qualcosa, «stare per» qualcosa d’altro. Poi, aggiunge ancora l’enciclica, le formule hanno un altro valore: sono strumenti riguardo al credente, strumenti attraverso i quali quello esprime la sua fede. Quanto invece all’oggetto della fede le formule dogmatiche sono puri simboli.

Continua a questo punto l’enciclica: «Non è lecito pertanto in nessun modo sostenere che essi esprimano una verità assoluta. Come simboli sono immagini di verità [cioè a dire: non sono verità], e perciò da doversi attaccare al sentimento religioso... Come strumenti sono veicoli di verità, e perciò da adattarsi a loro volta all’uomo...». Provo a riassumere questo discorso. La formula dogmatica ha, rispetto all’oggetto, una funzione di pura indicazione: non tocca l’oggetto; ha una relazione con l’oggetto ma non lo tocca, è un’immagine dell’oggetto. Per quanto riguarda invece il soggetto, questa formula è uno strumento. Vi è però un inciso estremamente importante in questa dichiarazione dell’enciclica, che me la rende assolutamente attuale. Dove sta questo inciso? Là dove dice che questo simbolo, che rispetto all’oggetto non ha un valore se non indicativo, non «morde» assolutamente nell’oggetto, questo simbolo è sempre in relazione al soggetto, è sempre in funzione del soggetto. Ora, vorrei far vedere come questo aspetto sia estremamente importante per individuare uno di quelli che io ritengo i più gravi errori teoretici della teologia moderna. E qui qualcuno potrà subito vedere che non mi interessa tanto il riferimento ad autori contemporanei dell’enciclica quanto far vedere come la carica teoretica dell’enciclica possa valere adesso; mi interessa, in ultima analisi, il carattere paradossalmente moderno di una enciclica contro il modernismo.

Dove sta il carattere assolutamente moderno di un’enciclica di questo tipo? Sta nel dire: badate che il grande rischio di una posizione che parla delle formule dogmatiche come puri simboli, è quella di sostituire alla relazione all’oggetto che la formula dovrebbe avere — e che qui sembra avere — la mia relazione alla formula. Vediamo di far vedere come questo sia possibile. Se al posto di dire «Dio è persona», come una formula che tocca in qualche modo qualche cosa al di là di essa, e cioè Dio, sotto forma di un tu, un tu avente una consistenza, se al posto di quella formula riferita ad un oggetto io dico la stessa formula ma non più riferita all’oggetto bensì al soggetto, vuol dire che tutte le volte che dico «Dio è persona» non faccio altro che dire che io credo che Dio è persona. Cioè sostituisco alla relazione che la formula ha all’oggetto, la mia relazione di soggetto alla formula.

Proviamo un attimo a vedere questo rovesciamento con qualche esempio, perche è molto importante vederne le applicazioni nel mondo cattolico. Proviamo a prendere una frase qualunque. Quando io dico, per esempio, «nella vita religiosa quello che conta è Dio». Proviamo a vedere come questo termine «Dio» può improvvisamente e progressivamente sparire e sostituirsi ad esso la relazione che il soggetto ha a questo termine. Quando alla frase «nella vita religiosa quello che conta è Dio», sostituisco la frase «nella vita religiosa quello che conta è l’esperienza di Dio» che cosa avviene? Avviene che il termine «Dio» comincia ad avere un senso soltanto se è legato e riferito a un termine antropologico come «esperienza di Dio». Ma poi la progressiva sparizione del termine può continuare. Come quando dico «nella vita religiosa quello che conta è l’esperienza della fede». Oppure quando vado a un livello successivo, e dico «nella vita religiosa quello che conta è l’esperienza di cooperazione».
 
A un certo momento al posto della formula «Dio» in cui vi è un contenuto significativo di possibile confutazione, viene sostituita la mia relazione a questa formula. Badate che cosa avviene. Avviene che il valore di assolutezza della parola Dio, viene contenuto ormai nella formula antropologica, nella «esperienza di cooperazione». Vogliamo avere un esempio di questo, alla portata dell’esperienza pratica di tutti? Credo che a molti possa capitare, o sia capitato, di sentire in chiesa un canto di questo tipo: «Ubi charitas et amor ibi Deus est» - «Laddove c’è carità e amore, lì c’è Dio». Il significato sottile che può essere colto in questo canto è che, in quanto vi è carità e amore, allora c’è Dio. C’è una citazione di Buonaiuti, perfettamente calzante rispetto a questo atteggiamento: che cosa è l’Eucarestia? Il fatto che noi siamo insieme. Ma allora vuol dire che il senso della formula come riferita a un oggetto altro da me è perduto: rimane il fatto che noi crediamo a quella formula, rimane il fatto che noi poi siamo insieme: e quel termine antropologico viene caricato di valori divini.

Questo processo, di cui il modernismo indicato dall’enciclica è soltanto un momento, una stazione, è cominciato con Feuerbach e continua oggi. C’è una citazione, a mio avviso molto .agghiacciante, di Karl Rahner, che rende perfettamente questo tipo di discorso; cioè quando la formula dogmatica [in questo caso la Resurrezione] viene sostituita con una formula antropologica. Mi permetto semplicemente di leggerlo. Si trova nel IX volume degli scritti di Teologia; ripeto ancora una volta che il mio intervento non ê storico, e di questo mi scuso. Ma l’avevo indicato all’inizio.


Nel IX volume degli scritti a p. 551, K. R. si chiede che cosa vuol dire il mistero della risurrezione, il fatto che Cristo è risorto. E dice: «Per spiegarlo potremmo tranquillamente cominciare come la cristologia anteriore a Paolo e a Giovanni: con l’uomo Gesù di Nazareth. Noi dovremmo, in partenza, parlare ad esempio della sua resurrezione in modo tale che essa (anche se miracolo in assoluto) subito fosse intesa come la manifestazione della nostra propria assoluta autoafferrnazione nata dalla grazia. Sicché al limite non possa essere fraintesa [la resurrezione di Gesù di Nazareth, sottinteso] come ritorno miracoloso di un morto nel nostro ambito di esistenza».

Che cosa vuol dire per Rahner che Gesù Cristo è risorto? Vuol dire che noi siamo pieni di grazia; cioè vuol dire che, invece di dire qualcosa riferentesi ad un oggetto, io ho una relazione a questo qualcosa detto. La formula dogmatica non si riferisce più a un oggetto, ma indica soltanto ed esclusivamente la mia relazione, la relazione che io ho con quella formula.
Prendiamo il secondo aspetto di attualità dell’enciclica. Laddove l’enciclica parla del modernista credente e si chiede su che cosa il modernista credente basa la sua affermazione di Dio. Anticipo immediatamente la conclusione del passo dell‘enciclica, perché è un po’ difficoltosa; la traduzione, soprattutto, è un po' un mostro di subordinate. La risposta che dà l’enciclica alla questione su che cosa il modernista basi la propria affermazione di Dio riposa su un concetto di esperienza religiosa originaria e in qualche modo nativa, fontale.

Ecco il testo: «Che se poi cerchiamo qual fondamento abbia tale asserzione [sottinteso, dell’esistenza di Dio, nel credente] i modernisti rispondono: l’esperienza individuale. Ma nel dir ciò, se si differenziano dai razionalisti [che negano in questo caso l’esistenza di Dio], cadono nell’opinione dei protestanti e dei pseudo mistici. Cosi infatti essi discorrono [l’enciclica sta riportando la posizione generale come denominátore comune dei modernisti]. Nel sentimento religioso si deve riconoscere quasi una certa intuizione del cuore, la quale mette l’uomo in contatto immediato con la realtà stessa di Dio e gli infonde una tale persuasione della esistenza di lui e della sua azione, sì dentro, sì fuori dell’uomo, da sorpassare di gran lunga ogni convincimento scientifico. Asseriscono pertanto una vera esperienza e tale da vincere qualsivoglia esperienza razionale... Ora, questa esperienza, quando alcuno l’abbia conseguita, è quella che lo costituisce propriamente e veramente credente».

Dopo aver riportato questa posizione, l’enciclica fa l’obiezione. L’obiezione può essere riassumibile così: se il fondamento dell’esistenza di Dio si basa su una esperienza originaria e fontale, un’esperienza religiosa originaria e fontale, con determinate caratteristiche (adorazione, senso di indegnità, ecc.), allora noi dobbiamo dire che laddove vi sia un’esperienza religiosa di questo tipo vi sarà una religione vera. E quindi se noi fondiamo la verità della religione sulla base della pura esperienza religiosa, se noi fondiamo la verità di una religione storica sulla base di queste caratteristiche di una esperienza religiosa originaria, non sarà più possibile dire quale religione è vera; perché tutte saranno vere. Il che è lo stesso che dire tutte saranno false. Ora leggo l’enciclica e poi traggo le conclusioni da questo punto di vista, che è, dal punto di vista della intelligenza dell’enciclica, una individuazione eccezionale di un criterio che oggi, in sede scientifica, è estremamente attuale e cioè del criterio, perché qualche tesi sia considerata vera, che possa essere sottoposta a falsificazione.

«Qui giova subito notare che, posta questa dottrina dell’esperienza unitamente all’altra del simbolismo [di cui si è parlato precedentemente], ogni religione, sia pur quella degli idolatri, deve ritenersi vera». Se il fondamento della verità è l’esperienza, con le caratteristiche tipiche della individualità, autenticità dell’esperienza, «ogni religione, sia pur quella degli idolatri, sarà vera».

Perché non dovrebbe essere possibile che tali esperienze si incontrino in ogni religione? Quale sarà il criterio di verità o di falsità delle religioni, se essa dipenderà dall’esperienza? Perché negare, per esempio, che l’islamismo o l’induismo o anche una ideologia non possano essere veri, se il loro criterio di verità è che siano esperiti, che siano sentiti? È chiaro che l’enciclica vuole sottolineare in modo sottile una cosa: che non è possibile fare dell’esperienza religiosa il criterio di verità di qualcosa. Poiché non si può prescindere dal fatto che questa esperienza si deve tradurre in una formula dogmatica. Questo vuol dire esattamente che se io non indico come questa mia esperienza religiosa si esprima con una formula, è come se io avessi un orologio che mi ticchetta ma senza lancette: ho questa esperienza, ma non so che cosa mi dice questa esperienza. Togliete le lancette, l’orologio funziona, ma certamente non dice, non è significativo.

Perché questo aspetto individuato dall’enciclica è di enorme importanza? perché ci permette di vedere da che parte stia il dogmatismo. Io credo che tutti i presenti sappiano che fa parte delle cose che si affermano ex communiter dictis parlare della Pascendi negativamente, dicendo: non è altro che un digest, una sorta di condensato di dogmatismo, di repressione. Ora, a mio avviso, la dimostrazione tipica di dove stia il dogmatismo sta riflettendo intorno a ciò che stiamo dicendo. E mi spiego perché. Se io dico che il criterio della verità è l’esperienza, un’esperienza che non deve mai tradursi in una dichiarazione precisa qui e adesso, una dichiarazione per esempio del tipo «Dio è persona» (formula dogmatica), allora che cosa avviene? Che da una parte certamente questa esperienza religiosa non potrà mai essere confutata; ma dall’altra non si potrà assolutamente dire che questa esperienza religiosa sia vera. Perché qualche cosa sia vero, e possa essere quindi oggetto di discussione, bisogna che questo qualche cosa venga posto e sia indicato chiaramente come qualcosa su cui possa vertere la discussione. Ma se io evito sempre di esprimere con una dichiarazione o proposizione chiara quello che dico, è dalla mia parte che sta il dogmatismo, perché non potrà mai essere confutato non accettando mai la possibilità di una verifica.

Faccio un esempio riprendendolo da K. Popper che in questo momento è il suggeritone occulto del mio argomentare: immaginiamo che io dica questa frase «esiste una formula latina in grado di curare tutte le malattie infettive». Se dico questa frase, dico certamente una cosa che non può essere confutata, perché non ê possibile sottoporre a esperienza tutte le possibili formule latine. Ma con questo, la mia frase pur essendo inconfutabile, non sarà per questo vera, non sarà un contenuto su cui sarà possibile un giudizio di verità e falsità. E dunque, allora, solo chi rischia la propria esperienza religiosa in formule dogmatiche, solo questi ê colui che è disponibile alla discussione e alla confutazione; non chi non la rischia in formule dogmatiche, chi afferma che esiste una sorta di esperienza religiosa originaria mai traducibile in proposizioni aventi un significato preciso.

Alla relazione di Emanuele Samek Lodovici seguono alcuni interventi. Per completezza di informazione forniamo una sintesi di quelli più significativi e attinenti al tema trattato da Samek (NdC).

Nel primo intervento, di Massimo Marcocchi dell’Università di Pavia, si osserva che «il giudizio degli storici sulla Pascendi è più articolato (e più profondo) di quanto non emerga dall’intervento di Samek Lodovici. Gli storici dicono che la Pascendi ha fatto del modernismo un sistema, incompatibile con la fede cattolica, mentre il modernismo, come ha rilevato lo stesso Samek Lodovici, è stato un fenomeno molto frastagliato e variegato, e non riducibile a sistema. La Pascendi, insomma, per la preoccupazione pastorale di dare una definizione dottrinale del modernismo, ha presentato il movimento come un blocco monolitico, conferendogli una omogeneità che non aveva mai avuto, ed ha pronunciato una condanna globale, senza distinguere tra le posizioni di coloro che avevano operato per la riforma della chiesa nell’alveo della tradizione e gli atteggiamenti di coloro che erano scivolati in eccessi o nell’eresia. Il fatto è che la Pascendi si muove entro una prospettiva filosofico-teologica, che è diversa dalla prospettiva squisitamente storica» (pp. 181-182).

Samek Lodovici al contrario «ha proposto una lettura in chiave filosofica dell’enciclica, ma sarebbe auspicabile una lettura anche in chiave storica, che individui i redatori della Pascendi e ponga in luce il loro orientamento filosofico e teologico, esamini e confronti le redazioni attraverso le quali è passato il testo, valuti le correzioni e il loro significato» (p. 182).
L’intervento si conclude lamentando che «purtroppo ad una ricerca del genere […] frappone un serio ostacolo la chiusura dell’Archivio Vaticano (consultabile fino al 1903)» (ibidem).

Giorgio Rumi, dell’Università Statale di Milano, trova invece che il modernismo, «nonostante i molti sforzi e i significativi risultati raggiunti» (p. 184), attenda ancora di essere adeguatamente studiato nelle sue implicazioni sociali e politiche. Inoltre, sempre secondo Rumi, «forse, solo il trascorrere del tempo darà serenità alla ricerca ed al giudizio, fuori delle ricorrenti tentazioni dell’una e dell’altra apologetica. La prospettiva processuale non paga in termini di duraturo avanzamento della storiografia. Gli studi sull’età del fascismo sono lì a dimostrare valore e significato di questa lenta opera di decantazione» (ibid.).

Segue infine la replica finale di Samek Lodovici.

Replica del prof. Samek Lodovici

Ringrazio l’amico Rumi per avermi interpretato, anche se penso che la migliore interpretazione sia una autointerpretazione. Ora vorrei rispondere ai due interventi, che ritengo interessanti perché mi costringono ad alcune precisazioni. Li riassumo perché proprio per questo possa diventare chiaro dove eventualmente li distinguo.
Chi è intervenuto ha detto che il modernismo non è un sistema. I modernisti — sempre ammettendo che la categoria valga (ma su questo ml pare che il problema non sussista, perché sul tema della categoria non è stato fatto problema) — i modernisti si distinguono l’uno dall’altro, sono figure storiche, evidentemente, con destini privati irripetibili e di conseguenza difficilmente sovrapponibili l’uno con l’altro. Quindi chi è intervenuto ha poi aggiunto: «non è vero che noi storici diciamo che la Pascendi è una raccolta, una sorta di antologia di dogmatismo».

Io penso che questo sia solo parzialmente esatto. Come modesto lettore di storia del modernismo, mi trovo di fronte ad autori come il Poulat, oppure come il Martina, che non dicono esattamente «la Pascendi è una digest di dogmatismo», ma fanno capire, leggendo fra le righe, che ci troviamo di fronte a una sorta di reazione pavloviana di fronte a un fenomeno culturale complesso e inafferrabile come il modernismo e perciò non eccessivamente meditata. Però ritengo che questo tipo di obiezione non sia ancora quella che mi interessa. Credo che quella interessante che è emersa, sia questa: a noi piacerebbe sapere chi ha collaborato alla stesura della Pascendi; se è stato il cardinale Billot, oppure il padre redentorista di cui si parlava, ecc. Perché, si sottintende, se noi conosciamo la genesi del documento possiamo qualificarne il valore e, eventualmente, sapere qual è la scuola teologica che ne è stata la base. Ora, io ritengo che questo tipo di posizione esprima perfettamente la posizione dello storico, ma non quella del filosofo. E mi spiego per quale ragione.

Dire che per capire il valore di un asserto bisogna percorrerne la genesi storica, significa non tener presente che un fatto può avere una genesi, ma il valore di quel fatto non dipende dalla genesi che ha avuto. Farò un esempio molto banale; tutti sanno che, per esempio, nella posizione freudiana si dice che Dio sorge nella coscienza attraverso l’immagine del padre. (Questo è probabilissimo; è probabilissimo, per esempio, che io sia passato per l’immagine di Dio, attraverso il rapporto che ho con mio padre: la oblatività di mio padre, l’autorità di mio padre, la gratificazione che può dare a me come figlio, ecc. Quindi è possibilissimo che io, bambino, arrivi all’idea di Dio attraverso il rapporto con mio padre. Ma questo non vuoi dire affatto che l’idea di Dio dipenda dal rapporto che io ho con mo padre; vuol dire semplicemente che io non posso arrivare a Dio se non attraverso, umanamente, quel tipo di rapporto. Ma non vuol dire che il valore di Dio dipende dalla mia storia privata. Un altro esempio molto banale fatto da un grande storico delle religioni come Mircea Eliade: gli egizi avevano un problema, quello della irrigazione della valle del Nilo. Per irrigare la valle del Nilo applicarono i teoremi della geometria; ma questo non vuol dire affatto che il valore dei teoremi della geometria dipende dal bisogno degli egizi di irrigare la valle del Nilo. Il valore dei teoremi rimane del tutto indipendente dalla genesi con cui essi sono stati trovati.
 
A proposito del secondo intervento. Io ritengo che sia estremamente interessante, sul piano storico, vedere concretamente come questi singoli autori dell’età del modernismo siano stati eventualmente colpiti sul piano, per esempio, della pratica pastorale dall’autorità di Pio X: questo è un problema storico. Ma, ripeto ancora, il problema storico non è il valore dell’enciclica; si tratta di sapere se l’enciclica dice cose vere e se colpisce errori veri. Faccio un esempio molto molto semplice: chi legge Loisy e legge l’enciclica, può trovare perfettamente che l’enciclica non sta sparando sopra un bersaglio. Ancora sul secondo intervento: certamente il problema della coscienza, dell’autorità, sono tutti problemi che sono di grande interesse per uno storico; si cercherà allora, appunto, di storicizzare certi eventuali errori pastorali. Ma il mio problema di fondo è un altro; e cioè di sapere se l’enciclica sia acuta, se individui — indipendentemente dal fatto che poi non vi fossero persone che esprimevano quegli errori in modo completo — degli errori, e se quelli sono errori. Questa è la risposta, o meglio, questa è la domanda. È molto interessante, secondo me, il riferimento a Gentile. Si dice a proposito di Gentile e del modernismo: «anche da sinistra mi fa piacere che sia detto ‘da sinistra’] il modernismo è stato accusato».

Questo è molto interessante perché in realtà — e qui sarebbe interessante andare a vedere come — Gentile accusa il modernismo non perché, secondo il solito corto circuito che fanno normalmente — questa sia una prova in più della retrodatezza o della inerzia della enciclica, come se si dicesse: «Guardate, perfino Gentile è d’accordo con l’enciclica per dare addosso al modernismo». In realtà Gentile critica il modernismo per una ragione ben diversa: perché vede nei modernisti quelli che usurpano quello che lui vuol fare in filosofia; perché quello che i modernisti fanno in religione è esattamente il suo programma in filosofia. Perché? Lo spiego subito.

Quale è il valore del dogma per un modernista? Nel modernista tipo il valore del dogma è quello di uno strumento dialettico che il sentimento religioso originario pone di fronte a sé per negarlo. È come se io mi mettessi di fronte un ostacolo solo per oltrepassarlo. Come voi sapete, è lo stesso rapporto che la luce ha con gli oggetti: la luce non può illuminare se non ha di fronte degli oggetti; appunto perché la luce possa essere tale bisogna che illumini qualcosa come diverso da sé e lo ponga di fronte a sé. E questa è la posizione esatta che Gentile vuole in filosofia quando vede nei sistemi filosofici delle opposizioni dialettiche di un atto che si fa continuamente. Rispetto alla filosofia della prassi marxista dove l’oggetto è qualcosa che vien fatto, nell’attualismo gentiliano, l’oggetto è posto perché sia il soggetto a farsi; il soggetto si fa attraverso la negazione degli oggetti. Il sentimento religioso — ecco la traduzione in termini modernistici — vive attraverso la successiva opposizione e negazione delle formule dogmatiche.
Questa credo che sia una cosa molto interessante: poter vedere [e in queste considerazioni non sono minimamente originale perché altri le hanno già fatte come Augusto Del Noce o Vittorio Mathieu] l’estrema somiglianza tra il modernismo e il gentilianesimo e quindi l’impossibilità di quegli argomenti anti-Pascendi che suonano: «guardate, persino Gentile ha dato contro al modernismo. Dunque, allora...».

C’è un ultimo punto del secondo intervento che era molto interessante. La mia posizione, si dice, avrebbe questo limite che io suppongo che le definizioni dogmatiche bastino a se stesse. lo credo che non sia questa la posizione dell’enciclica e non è certamente la mia. Quando mai la Chiesa anche la Chiesa di Pio X, ha mai potuto pensare che la finalità della fede sia quella di porre le formule dogmatiche? Una cosa è dire ‘tutto, eccetto Dio, è mezzo e solo Dio è ultimo fine’, e un’altra cosa è dire ‘le formule non servono’.





si ringrazia il sito: Contro la leggenda nera

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Un ottima riflessione sulla Pascendi, riepilogativa e di facile comprensione, adatta anche per un approccio immediato ai problemi ivi trattati...
Un grazie al sito Associazione Cattolici genovesi

ENCICLICA PASCENDI
Condanna del modernismo

Il 16 settembre 1907 viene pubblicata l'ENCICLICA PASCENDI che rappresenta una precisa analisi delle dottrine moderniste espresse negli ultimi anni e relativa condanna delle medesime. Premessa una parte introduttiva in cui si espone la gravità delle tesi moderniste che addirittura trovano seguito nell'ambito della stessa CHIESA e ricordato i tentativi di riportare sulla giusta via i devianti, si procede alla descrizione del sistema modernista attraverso l'analisi delle posizioni del filosofo, del teologo, della storico, del critico, dell'apologeta e del riformatore modernista.

IL FILOSOFO - ritiene impossibile esaminare il problema di DIO dal solo punto di vista scientifico. La FEDE nasce dal bisogno interno del divino; quindi si riduce ad un sentimento. La rivelazione non è altro che un sentimento che il credente cerca di palesare e trasformare in concetto. La coscienza è la fonte del sentimento religioso e della rivelazione a cui tutti devono sottostare compresa la stessa autorità della CHIESA. Il cattolicesimo è nato attraverso un identico processo nella coscienza di CRISTO modello assoluto. I dati del sentimento analizzati dall'intelletto sono espressi in proposizioni semplici che sanciti dalla CHIESA formano i dogmi. I dogmi in quanto espressione inadeguata di una verità assoluta sono immagine di sentimenti religiosi cioè dei simboli. In quanto espressione di sentimenti possono mutare quindi, è possibile l'evoluzione' del dogma.

IL TEOLOGO - Per il modernista la realtà divina esiste solo nell'anima del credente e non si preoccupa se possa esistere oggettivamente. La realtà divina si acquista attraverso l'esperienza personale sotto la spinta di una certa intuizione del cuore che è superiore a qualsiasi certezza scientifica. Poiché ogni individuo può fare esperienza del divino, tutte le religioni sono vere In caso di conflitto con altre religioni, la cattolica sarebbe la più vera.

SCIENZA E FEDE - Non e possibile nessun dissidio tra scienza e fede poiché si occupano di cose diverse. La fede di ciò che è divino mentre la scienza della realtà fenomenica. Nel caso che la fede si occupi di aspetti che appartengono alla scienza si deve adeguare.
La scienza è libera di fronte alla fede che ne è invece soggetta. Per il modernismo DIO è immanente all'uomo e le rappresentazioni della realtà divina sono simboliche. La verità dell'immanenza è completata con la permanenza divina e del suo evolversi CRISTO ha ricevuto il germe divino nella sua coscienza completo di ogni sviluppo futuro. 'La fede determina la Chiesa, i dogmi ed i riti. Il dogma nasce dal bisogno di chiarezza, il culto dal bisogno di dare una espressione sensibile e origina i sacramenti ed i riti che non sono privi di una certa efficacia.
La CHIESA è il frutto di una coscienza collettiva nata dal bisogno di sentirsi società; Come organizzazione, la CHIESA necessita di una autorità che però non viene da DIO ma è espressione della Chiesa stessa Da qui deriva che il cattolico come cittadino ha diritto e dovere di perseguire quanto ritiene il bene comune trascurando totalmente consigli e comandi che gli derivano dalla CHIESA.

EVOLUZIONE - La CHIESA ha la funzione di stabilire in campo dogmatico dottrinale la formulazione più confacente alla coscienza comune. I dogmi sono quindi delle formule soggette ad evoluzione.
L'evoluzione é lo scontro tra le posizioni opposte di forze conservatrici della tradizione esercitate dall'autorità religiosa e le forze progressiste date dalle coscienze individuali. Il modernismo propone la democratizzazione della CHIESA e considera progresso, il compromesso tra le due forze sopra indicate. pretendono di spingere la CHIESA ai necessari cambiamenti per far evolvere la coscienza collettiva. Fanno una netta distinzione tra il CRISTO storico ed il CRISTO della fede. I libri sacri hanno subito una evoluzione vitale data dall'evoluzione della fede ed a questo pervengono attraverso il riesame e la critica.

APOLOGETICA - Ha lo scopo di condurre il non credente a fare esperienza religiosa attraverso la via oggettiva della continuità della religione cattolica ed una via soggettiva di progressivo sviluppo, tramite continuo adattamento alle circostanze del messaggio di GESU'.
Dopo questa breve esposizione delle teorie moderniste l'enciclica ne fa ampia analisi critica definendo la nuova dottrina come "il compendio di tutte le eresie".


I modernisti sono accusati di negare ogni soggezione all'autorità per ignoranza della scolastica che li porta ad esaltare la filosofia moderna.
I modernisti sono accusati di:

- AGNOSTICISMO perché considerano indimostrabile l'esistenza di DIO;

- SOGGETTIVISMO - esperienza personale del divino e negazione dell'oggettività della VERITA';

- IMMANENTISMO - ogni conoscenza avviene attraverso la coscienza;

- COMUNITARISMO - La CHIESA come esperienza collettiva e non come istituzione divina voluta da GESU' CRISTO;

- SIMBOLISMO - I dogmi sono rappresentazioni simboliche e mutevoli da riesaminare col mutare del tempo e dei sentimenti e non VERITA' ASSOLUTE RIVELATE da DIO e che la CHIESA ci propone di credere;

- SENTIMENTALISMO - La fede è un sentimento, nella realtà è una virtù Divina che ci rende capaci di CREDERE, sull'autorità di DIO ciò che egli ha rivelato e ci propone a credere per mezzo della CHIESA;

- CRITICISMO STORICO - i modernisti escludono gli interventi soprannaturali,la Fede cattolica considera gli interventi soprannaturali possibili e frequenti;

- PSICOLOGISMO - riduzione di ogni contenuto conoscitivo a meccanismi psicologici ed a fenomeni soggettivi della coscienza;

- DOTTRINE MORALI LASSISTE;

- DEMOCRAZIA - Per i modenisti tutti partecipano dando un contributo alla coscienza collettiva che è la CHIESA, quindi un rifiuto dell'autorità della stessa CHIESA. Nella realtà solo la CHIESA docente in quanto infallibile e non il popolo può definire la VERITA';

- ASPETTI UMANI - l'ENCICLICA PASCENDI accusa i modernisti di traviamenti dovuti a superbia, presunzione e ignoranza.


Rimedi


l'Enciclica PASCENDI propone come rimedio lo studio della filosofia e teologia SCOLASTICA Indica altresì direttive per evitare il dilagare della piaga modernista.

 

Fraternamente CaterinaLD

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15/01/2010 19:02
 
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Così il predecessore di san Pio X il Beato Pio IX affrontava il problema della modernismo


A centocinquant'anni dall'enciclica «Nullis certe verbis» di Pio IX

Le ragioni di Pietro
di fronte alla modernità


di Raffaele Alessandrini

Centocinquant'anni fa, a pochi mesi dall'armistizio di Villafranca - la fine della seconda guerra d'indipendenza italiana - Papa Pio IX, il 19 gennaio 1860, promulgava la lettera enciclica Nullis certe verbis che ribadiva con maggiore ampiezza i contenuti della precedente Qui nuper (18 giugno 1859). In più, ora, il nuovo documento pontificio conteneva una risposta diretta a Napoleone iii nel contesto di una vivace dialettica avviata in seguito alla pubblicazione dell'opuscolo del diplomatico e scrittore Arthur Dubreuil-Hélion visconte de La Guéronnière dal titolo Le Pape et le Congrès - in preparazione a un Congresso da tenere a Parigi che poi non ci sarebbe mai stato.
 
Il testo era ispirato, e forse dettato, dallo stesso imperatore dei francesi. In quelle pagine si proponeva in sostanza di lasciare al Papa solo la città di Roma e dintorni, affermando che la limitazione del potere temporale non avrebbe diminuito, ma, al contrario, avrebbe aumentato il prestigio del vescovo di Roma liberandolo, allo stesso tempo, delle preoccupazioni di gestire uno Stato, un'amministrazione, una polizia e un esercito. Seguiva uno scambio di lettere tra il Papa e Napoleone iii. Questi, nella più nota di queste missive, invitava Pio IX a "far sacrificio delle province ribelli affidandole a Vittorio Emanuele". Nella Nullis certe verbis Pio IX comunicava ai vescovi la sua posizione decisa a non voler rinunciare alle province dell'Emilia.

A che cosa si riferiva?
Mentre piemontesi e francesi combattevano, e sconfiggevano, gli austriaci, respingendoli al di là dei confini naturali a nord dell'Italia, una serie di moti liberali erano scoppiati in Toscana e nello Stato del Papa. Le Marche e l'Umbria furono prontamente riconquistate con interventi energici delle truppe pontificie dove, specialmente a Perugia, la repressione fu severa. A Parma, Modena e a Bologna invece si instaurarono in accordo tra piemontesi e francesi le "dittature" liberali di Giuseppe Manfredi, di Luigi Carlo Farini e Leonetto Cipriani e i territori si sarebbero distaccati definitivamente da Roma riunendosi poi al Piemonte con i plebisciti del 11 e 12 marzo 1860. Il resto dei domini pontifici, a eccezione di Roma, sarebbe  poi  finito  al  Piemonte  il 18 settembre di quello  stesso  anno,  quan- do l'esercito piemontese, guidato dal generale  Enrico  Cialdini, sconfiggerà nella piana di Castelfidardo i pontifici del generale Christophe de Lamoricière. Esattamente dieci anni e due giorni prima di Porta Pia.

Proprio dopo la presa di Roma Pio IX avrebbe ripercorso per iscritto tutte le fasi del progressivo disgregarsi dello Stato della Chiesa in un'altra enciclica la Respicientes ea in omnia del 1° novembre 1870 nella quale il Papa protestò con forza contro la presa di Roma dichiarando inoltre di considerare la Santa Sede Apostolica come prigioniera di fatto:  "Non possiamo qui passare sotto silenzio quell'enorme delitto che certamente vi è noto (...) come se i possessi e i diritti della Sede Apostolica, sacri e inviolabili per tanti titoli e sempre riconosciuti per tanti secoli, potessero essere contestati e rimessi in discussione".

Né il Pontefice avrebbe omesso di sottolineare come "per abbellire la sacrilega spoliazione che abbiamo sofferta con ogni disprezzo del diritto naturale e umano si escogitò quell'apparato e quella finzione di plebiscito usata nelle province strappate a Noi".

Uno sguardo anche sommario di questi documenti dimostra che l'atteggiamento intransigente di Papa Mastai Ferretti nella difesa del potere temporale non solo è dettato da ragioni storiche, ma anche pastorali e dottrinali. Come ha osservato Giacomo Martina, "la creazione di uno Stato laico non implicava solo l'affermazione di libertà per tutti, individui e associazioni, compresa la Chiesa, ma la volontà di ridurre o escludere l'influsso sociale della Chiesa e una lotta aperta contro gli istituti religiosi, soprattutto quelli contemplativi (...) Non solo la società cambiava il suo volto e strutture ormai anacronistiche tramontavano, ma in molti casi si tentava di diminuire l'antica fede, sostituendola con una concezione acristiana, laica della vita e con una morale separata dalla religione" (Pio IX, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1986, pp. 148-149).

È alla luce di ciò che si comprende l'enciclica Quanta cura e l'annesso Sillabo sui principali errori dell'epoca (8 dicembre 1864). Ovvio che con la mentalità contemporanea - e una conoscenza storica di massa le cui fonti fondamentali sono sempre più modeste - una condanna tout court del liberalismo come principio filosofico possa facilmente suscitare più di una critica. Non si può invece negare una grande lungimiranza in Pio IX almeno nell'avere intuito i rischi dipendenti dalla tendenza a separare la politica e l'economia dalla morale, e dall'attribuzione di poteri sconfinati allo Stato. Sembra infatti difficile poter negare come nel secolo xx proprio l'esasperazione di tali fenomeni abbia trovato piena formalizzazione nei sistemi totalitari.

Quanto al potere temporale, la storiografia tende ora a sottolineare il rapporto innegabile con l'esigenza di libertà presto avvertita dalla Chiesa di Roma. Una libertà che più volte nei secoli molti avrebbero cercato di minare e di distruggere. Espressione e fondamento per oltre un millennio dell'indipendenza del magistero pontificio, il potere temporale in una prospettiva storica veniva a incidere fortemente non sulla natura della Chiesa, ma sulla "credibilità" umana della Chiesa stessa. Per tale ragione Papa Mastai Ferretti riteneva di non poter rinunciare al principato civile proprio come non vi avevano rinunciato predecessori di cui portava il nome come Pio vi e Pio vii. Anzi proprio per difendere tale diritto acquisito nei secoli, il primo era morto in esilio e il secondo aveva dovuto patire l'odiosa prigionia napoleonica.

Nel contesto del movimento risorgimentale italiano, è quindi d'importanza capitale ricordare e comprendere il dramma interiore di Pio IX, figlio del suo tempo, tendenzialmente aperto al nuovo, e tutt'altro che privo di amore per il suo Paese; ma vincolato al passato dalla sua veste di principe temporale. Una veste che egli personalmente asseriva di indossare come "dovere di coscienza". Pur aggiungendo:  come fosse quest'ultimo "un pensiero assai secondario in confronto dell'altro (...) di procurare cioè che i popoli cattolici conoscano la verità, e siano rischiarati sui principi della virtù e del vizio che oggi si tenta di capovolgere" (Martina, Pio IX, già citato, p. 147).

Tale dunque la situazione di un papato da un lato avversato dalla rivoluzione liberale, laica e laicizzatrice, come reazionario e misoneista, dall'altro combattuto anche dagli stessi sovrani legittimisti, nelle loro costanti tentazioni giurisdizionalistiche - fossero gallicane, giuseppinistiche o febroniane. E dunque, secondo una tradizione antica, inclini ad abbassare il più possibile le prerogative del Pontefice romano per affermare e consolidare il proprio assolutismo.

È sempre alla luce di tali avversioni, contraddittorie solo in apparenza, che, in seguito, debbono essere lette le reazioni aspramente contrarie al concilio Vaticano i del 1870 e in particolare di fronte alla proclamazione del dogma dell'infallibilità. Significativo in proposito è ricordare come Paolo vi, il 5 marzo 1978, nel primo centenario della morte di Pio IX, tenesse a sottolineare  quanto  le definizioni del Vaticano i risplendano ancora oggi "come fari luminosi nel secolare sviluppo della teologia e come altrettanti punti fermi nel turbine dei movimenti ideologici (...) occorre infatti rilevare che promulgando la costituzione dogmatica Pastor aeternus, Pio IX - sottolineò Papa Montini - non fece che porre l'architrave di quella solida costruzione ecclesiologica che è stata completata e perfezionata dal concilio Vaticano ii nella Lumen gentium".


(©L'Osservatore Romano - 16 gennaio 2010)
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22/05/2010 19:40
 
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il tassello mancante

Il Santo Papa Pio X aveva visto giusto: i modernisti non si accontenteranno finché non avranno completato la loro agenda con l'ultimo tassello che oggi con  falsi pretesti reclamano a gran voce al fine di distruggere la Fede e la Chiesa. Ma "non prevalebunt!".

"Per ultimo restano da dire poche cose del modernista in quanto si pretende riformatore. Già le cose esposte finora provano abbondantemente da quale smania di innovazione siano presi questi uomini. e tale smania ha per oggetto quanto vi è nel cattolicesimo. Vogliono riformata la filosofia specialmente nei seminari: cosicché, relegata la filosofia scolastica alla storia della filosofia in combutta con gli altri sistemi ormai superati, si insegni ai giovani la filosofia moderna, unica, vera e rispondente ai nostri tempi.

A riformare la teologia, vogliono che quella, che diciamo teologia razionale abbia per fondamento la moderna filosofia. Chiedono inoltre che la teologia positiva si basi principalmente sulla storia dei dogmi. Anche la storia chiedono che si scriva e si insegni con metodi loro e precetti nuovi.

Dicono che i dogmi e la loro evoluzione debbano accordarsi colla scienza e la storia. Per il catechismo esigono che nei libri catechistici si inseriscano solo quei dogmi, che siano stati riformati e che siano a portata dell'intelligenza del volgo. Circa il culto, gridano che si debbano diminuire le devozioni esterne e proibire che si aumentino, benché, a dir vero, altri più favorevoli al simbolismo si mostrino in questa parte più indulgenti. Strepitano a gran voce perché il regime ecclesiastico debba essere rinnovato per ogni verso, ma specialmente in campo disciplinare e dogmatico. Perciò pretendono che dentro e fuori si debba accordare colla coscienza moderna, che tutta è volta a democrazia; perché, dicono, doversi nel governo dar la sua parte al clero inferiore e perfino al laicato, e decentrare l'autorità troppo riunita e ristretta nel centro. Le congregazioni romane si devono svecchiare: e, in capo a tutte, quella del Santo Offizio e dell'Indice.

Deve cambiarsi l'atteggiamento dell'autorità ecclesiastica nelle questioni politiche e sociali, talché si tenga essa estranea dai civili ordinamenti, ma pur vi si acconci per penetrarli del suo spirito. In fatto di morale, danno voga al principio degli americanisti, che le virtù attive debbano anteporsi alle passive, e di quelle promuovere l'esercizio, con prevalenza su queste.

Chiedono che il clero ritorni all'antica umiltà e povertà; ma lo vogliono di mente e di opere consenziente coi precetti del modernismo. Infine non mancano coloro che, obbedendo volentierissimo ai cenni dei loro maestri protestanti, desiderano soppresso nel sacerdozio lo stesso sacro celibato. Che si lascia dunque d'intatto nella Chiesa, che non si debba da costoro e secondo i loro princìpi riformare?"

SAN PIO X, Enciclica «Pascendi dominici gregis» sulle dottrine moderniste, 8 settembre 1907, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 4, Pio X, Benedetto XV (1903-1922), ed. bilingue, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 1998, pp. 273/275.

[Modificato da Caterina63 29/05/2010 21:43]
Fraternamente CaterinaLD

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03/11/2010 11:23
 
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Pio XI con l'Enciclica CHE TROVATE INTEGRALMENTE QUI, e l'instaurazione della Festa di Cristo RE non fece altro che applicare il Magistero dei suoi Predecessori, in particolare quello di san Pio X

“Instaurare omnia in Christo”....


La Festa di Cristo Re
E perché più abbondanti siano i desiderati frutti e durino più stabilmente nella società umana, è necessario che venga divulgata la cognizione della regale dignità di nostro Signore quanto più è possibile. Al quale scopo Ci sembra che nessun’altra cosa possa maggiormente giovare quanto l’istituzione di una festa particolare e propria di Cristo Re.
Infatti, più che i solenni documenti del Magistero ecclesiastico, hanno efficacia nell’informare il popolo nelle cose della fede e nel sollevarlo alle gioie interne della vita le annuali festività dei sacri misteri, poiché i documenti, il più delle volte, sono presi in considerazione da pochi ed eruditi uomini, le feste invece commuovono e ammaestrano tutti i fedeli; quelli una volta sola parlano, queste invece, per così dire, ogni anno e in perpetuo; quelli soprattutto toccano salutarmente la mente, queste invece non solo la mente ma anche il cuore, tutto l’uomo insomma. Invero, essendo l’uomo composto di anima e di corpo, ha bisogno di essere eccitato dalle esteriori solennità in modo che, attraverso la varietà e la bellezza dei sacri riti, accolga nell’animo i divini insegnamenti e, convertendoli in sostanza e sangue, faccia si che essi servano al progresso della sua vita spirituale.
D’altra parte si ricava da documenti storici che tali festività, col decorso dei secoli, vennero introdotte una dopo l’altra, secondo che la necessità o l’utilità del popolo cristiano sembrava richiederlo; come quando fu necessario che il popolo venisse rafforzato di fronte al comune pericolo, o venisse difeso dagli errori velenosi degli eretici, o incoraggiato più fortemente e infiammato a celebrare con maggiore pietà qualche mistero della fede o qualche beneficio della grazia divina. Così fino dai primi secoli dell’era cristiana, venendo i fedeli acerbamente perseguitati, si cominciò con sacri riti a commemorare i Martiri, affinché — come dice Sant’Agostino — le solennità dei Martiri fossero d’esortazione al martirio [35]. E gli onori liturgici, che in seguito furono tributati ai Confessori, alle Vergini e alle Vedove, servirono meravigliosamente ad eccitare nei fedeli l’amore alle virtù, necessarie anche in tempi di pace.

E specialmente le festività istituite in onore della Beata Vergine fecero sì che il popolo cristiano non solo venerasse con maggior pietà la Madre di Dio, sua validissima protettrice, ma si accendesse altresì di più forte amore verso la Madre celeste, che il Redentore gli aveva lasciato quasi per testamento. Tra i benefici ottenuti dal culto pubblico e liturgico verso la Madre di Dio e i Santi del Cielo non ultimo si deve annoverare questo: che la Chiesa, in ogni tempo, poté vittoriosamente respingere la peste delle eresie e degli errori.
In tale ordine di cose dobbiamo ammirare i disegni della divina Provvidenza, la quale, come suole dal male ritrarre il bene, così permise che di quando in quando la fede e la pietà delle genti diminuissero, o che le false teorie insidiassero la verità cattolica, con questo esito però, che questa risplendesse poi di nuovo splendore, e quelle, destatesi dal letargo, tendessero a cose maggiori e più sante.
Ed invero le festività che furono accolte nel corso dell’anno liturgico in tempi a noi vicini, ebbero uguale origine e produssero identici frutti. Così, quando erano venuti meno la riverenza e il culto verso l’augusto Sacramento, fu istituita la festa del Corpus Domini, e si ordinò che venisse celebrata in modo tale che le solenni processioni e le preghiere da farsi per tutto l’ottavario richiamassero le folle a venerare pubblicamente il Signore; così la festività del Sacro Cuore di Gesù fu introdotta quando gli animi degli uomini, infiacchiti e avviliti per il freddo rigorismo dei giansenisti, erano del tutto agghiacciati e distolti dall’amore di Dio e dalla speranza della eterna salvezza.

Ora, se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società.

Il “laicismo”

La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso.
 
I pessimi frutti, che questo allontanamento da Cristo da parte degli individui e delle nazioni produsse tanto frequentemente e tanto a lungo, Noi lamentammo nella Enciclica Ubi arcano Dei e anche oggi lamentiamo: i semi cioè della discordia sparsi dappertutto; accesi quegli odii e quelle rivalità tra i popoli, che tanto indugio ancora frappongono al ristabilimento della pace; l’intemperanza delle passioni che così spesso si nascondono sotto le apparenze del pubblico bene e dell’amor patrio; le discordie civili che ne derivarono, insieme a quel cieco e smoderato egoismo sì largamente diffuso, il quale, tendendo solo al bene privato ed al proprio comodo, tutto misura alla stregua di questo; la pace domestica profondamente turbata dalla dimenticanza e dalla trascuratezza dei doveri familiari; l’unione e la stabilità delle famiglie infrante, infine la stessa società scossa e spinta verso la rovina.

Ci sorregge tuttavia la buona speranza che l’annuale festa di Cristo Re, che verrà in seguito celebrata, spinga la società, com’è nel desiderio di tutti, a far ritorno all’amatissimo nostro Salvatore. Accelerare e affrettare questo ritorno con l’azione e con l’opera loro sarebbe dovere dei Cattolici, dei quali, invero, molti sembra non abbiano nella civile convivenza quel posto né quell’autorità, che s’addice a coloro che portano innanzi a sé la fiaccola della verità.
Tale stato di cose va forse attribuito all’apatia o alla timidezza dei buoni, i quali si astengono dalla lotta o resistono fiaccamente; da ciò i nemici della Chiesa traggono maggiore temerità e audacia. Ma quando i fedeli tutti comprendano che debbono militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re, con ardore apostolico si studieranno di ricondurre a Dio i ribelli e gl’ignoranti, e si sforzeranno di mantenere inviolati i diritti di Dio stesso.

La preparazione storica della festa di Cristo Re

E chi non vede che fino dagli ultimi anni dello scorso secolo si preparava meravigliosamente la via alla desiderata istituzione di questo giorno festivo? Nessuno infatti ignora come, con libri divulgati nelle varie lingue di tutto il mondo, questo culto fu sostenuto e sapientemente difeso; come pure il principato e il regno di Cristo fu ben riconosciuto colla pia pratica di dedicare e consacrare tutte le famiglie al Sacratissimo Cuore di Gesù. E non soltanto famiglie furono consacrate, ma altresì nazioni e regni; anzi, per volere di Leone XIII, tutto il genere umano, durante l’Anno Santo 1900, fu felicemente consacrato al Divin Cuore.
Né si deve passar sotto silenzio che a confermare questa regale potestà di Cristo sul consorzio umano meravigliosamente giovarono i numerosissimi Congressi eucaristici, che si sogliono celebrare ai nostri tempi; essi, col convocare i fedeli delle singole diocesi, delle regioni, delle nazioni e anche tutto l’orbe cattolico, a venerare e adorare Gesù Cristo Re nascosto sotto i veli eucaristici, tendono, mediante discorsi nelle assemblee e nelle chiese, mediante le pubbliche esposizioni del Santissimo Sacramento, mediante le meravigliose processioni ad acclamare Cristo quale Re dato dal cielo.

A buon diritto si direbbe che il popolo cristiano, mosso da ispirazione divina, tratto dal silenzio e dal nascondimento dei sacri templi, e portato per le pubbliche vie a guisa di trionfatore quel medesimo Gesù che, venuto nel mondo, gli empi non vollero riconoscere, voglia ristabilirlo nei suoi diritti regali.
E per vero ad attuare il Nostro divisamento sopra accennato, l’Anno Santo che volge alla fine Ci porge la più propizia occasione, poiché Dio benedetto, avendo sollevato la mente e il cuore dei fedeli alla considerazione dei beni celesti che superano ogni gaudio, o li ristabilì in grazia e li confermò nella retta via e li avviò con nuovi incitamenti al conseguimento della perfezione.
Perciò, sia che consideriamo le numerose suppliche a Noi rivolte, sia che consideriamo gli avvenimento di questo Anno Santo, troviamo argomento a pensare che finalmente è spuntato il giorno desiderato da tutti, nel quale possiamo annunziare che si deve onorare con una festa speciale Cristo quale Re di tutto il genere umano.
In quest’anno infatti, come dicemmo sin da principio, quel Re divino veramente ammirabile nei suoi Santi, è stato magnificato in modo glorioso con la glorificazione di una nuova schiera di suoi fedeli elevati agli onori celesti; parimenti in questo anno per mezzo dell’Esposizione Missionaria tutti ammirarono i trionfi procurati a Cristo per lo zelo degli operai evangelici nell’estendere il suo Regno; finalmente in questo medesimo anno con la centenaria ricorrenza del Concilio Niceno, commemorammo la difesa e la definizione del dogma della consustanzialità del Verbo incarnato col Padre, sulla quale si fonda l’impero sovrano del medesimo Cristo su tutti i popoli.

L’istituzione della festa di Cristo Re

Pertanto, con la Nostra apostolica autorità istituiamo la festa di nostro Signore Gesù Cristo Re, stabilendo che sia celebrata in tutte le parti della terra l’ultima domenica di ottobre, cioè la domenica precedente la festa di tutti i Santi. Similmente ordiniamo che in questo medesimo giorno, ogni anno, si rinnovi la consacrazione di tutto il genere umano al Cuore santissimo di Gesù, che il Nostro Predecessore di santa memoria Pio X aveva comandato di ripetere annualmente.
In quest’anno però, vogliamo che sia rinnovata il giorno trentuno di questo mese, nel quale Noi stessi terremo solenne pontificale in onore di Cristo Re e ordineremo che la detta consacrazione si faccia alla Nostra presenza. Ci sembra che non possiamo meglio e più opportunamente chiudere e coronare 1′Anno Santo, né rendere più ampia testimonianza della Nostra gratitudine a Cristo, Re immortale dei secoli, e di quella di tutti i cattolici per i beneficî fatti a Noi, alla Chiesa e a tutto l’Orbe cattolico durante quesl’Anno Santo.
E non fa bisogno, Venerabili Fratelli, che vi esponiamo a lungo i motivi per cui abbiamo istituito la solennità di Cristo Re distinta dalle altre feste, nelle quali sembrerebbe già adombrata e implicitamente solennizzata questa medesima dignità regale.
Basta infatti avvertire che mentre l’oggetto materiale delle attuali feste di nostro Signore è Cristo medesimo, l’oggetto formale, però, in esse si distingue del tutto dal nome della potestà regale di Cristo. La ragione, poi, per cui volemmo stabilire questa festa in giorno di domenica, è perché non solo il Clero con la celebrazione della Messa e la recita del divino Officio, ma anche il popolo, libero dalle consuete occupazioni, rendesse a Cristo esimia testimonianza della sua obbedienza e della sua devozione.

Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti.
Pertanto questo sia il vostro ufficio, o Venerabili Fratelli, questo il vostro compito di far sì che si premetta alla celebrazione di questa festa annuale, in giorni stabiliti, in ogni parrocchia, un corso di predicazione, in guisa che i fedeli ammaestrati intorno alla natura, al significato e all’importanza della festa stessa, intraprendano un tale tenore di vita, che sia veramente degno di coloro che vogliono essere sudditi affezionati e fedeli del Re divino.

I vantaggi della festa di Cristo Re

Giunti al termine di questa Nostra lettera Ci piace, o Venerabili Fratelli, spiegare brevemente quali vantaggi in bene sia della Chiesa e della società civile, sia dei singoli fedeli, Ci ripromettiamo da questo pubblico culto verso Cristo Re.
Col tributare questi onori alla dignità regia di nostro Signore, si richiamerà necessariamente al pensiero di tutti che la Chiesa, essendo stata stabilita da Cristo come società perfetta, richiede per proprio diritto, a cui non può rinunziare, piena libertà e indipendenza dal potere civile, e che essa, nell’esercizio del suo divino ministero di insegnare, reggere e condurre alla felicità eterna tutti coloro che appartengono al Regno di Cristo, non può dipendere dall’altrui arbitrio.
Di più, la società civile deve concedere simile libertà a quegli ordini e sodalizi religiosi d’ambo i sessi, i quali, essendo di validissimo aiuto alla Chiesa e ai suoi pastori, cooperano grandemente all’estensione e all’incremento del regno di Cristo, sia perché con la professione dei tre voti combattono la triplice concupiscenza del mondo, sia perché con la pratica di una vita di maggior perfezione, fanno sì che quella santità, che il divino Fondatore volle fosse una delle note della vera Chiesa, risplenda di giorno in giorno vieppiù innanzi agli occhi di tutti.

La celebrazione di questa festa, che si rinnova ogni anno, sarà anche d’ammonimento per le nazioni che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti: li richiamerà al pensiero del giudizio finale, nel quale Cristo, scacciato dalla società o anche solo ignorato e disprezzato, vendicherà acerbamente le tante ingiurie ricevute, richiedendo la sua regale dignità che la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principî cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell’amministrare la giustizia, sia finalmente nell’informare l’animo dei giovani alla santa dottrina e alla santità dei costumi.
Inoltre non è a dire quanta forza e virtù potranno i fedeli attingere dalla meditazione di coteste cose, allo scopo di modellare il loro animo alla vera regola della vita cristiana.
Poiché se a Cristo Signore è stata data ogni potestà in cielo e in terra; se tutti gli uomini redenti con il Sangue suo prezioso sono soggetti per un nuovo titolo alla sua autorità; se, infine, questa potestà abbraccia tutta l’umana natura, chiaramente si comprende, che nessuna delle nostre facoltà si sottrae a tanto impero.
 
Conclusione
Cristo regni!

È necessario, dunque, che Egli regni nella mente dell’uomo, la quale con perfetta sottomissione, deve prestare fermo e costante assenso alle verità rivelate e alla dottrina di Cristo; che regni nella volontà, la quale deve obbedire alle leggi e ai precetti divini; che regni nel cuore, il quale meno apprezzando gli affetti naturali, deve amare Dio più d’ogni cosa e a Lui solo stare unito; che regni nel corpo e nelle membra, che, come strumenti, o al dire dell’Apostolo Paolo, come “armi di giustizia” [36] offerte a Dio devono servire all’interna santità delle anime. Se coteste cose saranno proposte alla considerazione dei fedeli, essi più facilmente saranno spinti verso la perfezione.

Faccia il Signore, Venerabili Fratelli, che quanti sono fuori del suo regno, bramino ed accolgano il soave giogo di Cristo, e tutti, quanti siamo, per sua misericordia, suoi sudditi e figli, lo portiamo non a malincuore ma con piacere, ma con amore, ma santamente, e che dalla nostra vita conformata alle leggi del Regno divino raccogliamo lieti ed abbondanti frutti, e ritenuti da Cristo quali servi buoni e fedeli diveniamo con Lui partecipi nel Regno celeste della sua eterna felicità e gloria.
Questo nostro augurio nella ricorrenza del Natale di nostro Signore Gesù Cristo sia per voi, o Venerabili Fratelli, un attestato del Nostro affetto paterno; e ricevete l’Apostolica Benedizione, che in auspicio dei divini favori impartiamo ben di cuore a voi, o Venerabili Fratelli, e a tutto il popolo vostro.

Dato a Roma, presso S. Pietro, il giorno 11 Dicembre dell’Anno Santo, quarto del Nostro Pontificato.
PIUS PP. XI
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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05/04/2011 23:11
 
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San Pio X denuncia i preti modernisti

da cordialiter:

Venerabili Fratelli [...] per opera del nemico dell'uman genere, mai non mancarono "uomini di perverso parlare (Act. X, 30), cianciatori di vanità e seduttori (Tit. I, 10), erranti e consiglieri agli altri di errore (II Tim. III, 13)".

Pur nondimeno gli è da confessare che in questi ultimi tempi, è cresciuto oltre misura il numero dei nemici della croce di Cristo; che, con arti affatto nuove e piene di astuzia, si affaticano di render vana la virtù avvivatrice della Chiesa e scrollare dai fondamenti, se venga lor fatto, lo stesso regno di Gesù Cristo. [...] i fautori dell'errore già non sono ormai da ricercarsi fra i nemici dichiarati; ma, ciò che dà somma pena e timore, si celano nel seno stesso della Chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono in vista.

Alludiamo, o Venerabili Fratelli, a molti del laicato cattolico e, ciò ch'è più deplorevole, a non pochi dello stesso ceto sacerdotale, i quali, sotto finta di amore per la Chiesa, scevri d'ogni solido presidio di filosofico e teologico sapere, tutti anzi penetrati delle velenose dottrine dei nemici della Chiesa, si dànno, senza ritegno di sorta, per riformatori della Chiesa medesima; e, fatta audacemente schiera, si gittano su quanto vi ha di più santo nell'opera di Cristo, non risparmiando la persona stessa del Redentore divino, che, con ardimento sacrilego, rimpiccioliscono fino alla condizione di un puro e semplice uomo.

[Brano tratto dall'Enciclica "Pascendi Dominici gregis" di San Pio X]

e val la pena di riflettere sulle parole profetiche di san Pio X:

San Pio X, nella sua prima enciclica E supremi apostolatus, del 4 ottobre 1903, esprime il timore che l’epoca di apostasia in cui la Chiesa entrava fosse il tempo dell’Anticristo:


...ci atterriscono, sopra ogni altra cosa, le funestissime condizioni, in cui ora versa l'umano consorzio. Giacché chi non scorge che la società umana, più che nelle passate età, trovasi ora in preda ad un malessere gravissimo e profondo, che, crescendo ogni dì più e corrodendola insino all'intimo, la trae alla rovina? Voi comprendete, o Venerabili Fratelli, quale sia questo morbo: l'apostasia nei confronti di Dio, e senza dubbio non c’è nulla che conduca più sicuramente alla rovina, stante la parola del profeta: «Ecco che coloro i quali da te si dilungano, periranno» (Psal. LXXII, 26). […] Del che se dubitassimo, dovremmo, ingiustamente, ritenervi o inconsci o noncuranti di quella guerra sacrilega che ora, può darsi in ogni luogo, si muove e si mantiene contro Dio.

Giacché veramente contro il proprio Creatore «fremettero le genti e i popoli meditarono cose vane» (Psal. II, 1), talché è comune il grido dei nemici di Dio: «Allontanati da noi» (Iob. XXI, 14). E conforme a ciò, vediamo nei più degli uomini estinto ogni rispetto verso Iddio Eterno, senza più riguardo al suo supremo volere nelle manifestazioni della vita privata e pubblica; che anzi, con ogni sforzo, con ogni artifizio si cerca che fin la memoria di Dio e la Sua conoscenza sia del tutto distrutta.

Chi tutto questo considera, bene ha ragione di temere che siffatta perversità di menti sia quasi un saggio e forse il cominciamento dei mali, che agli estremi tempi son riservati; che già sia nel mondo il figlio di perdizione, di cui parla l'Apostolo (II Thess. II, 5). Tanta infatti è l'audacia e l'ira con cui si perseguita dappertutto la religione, si combattono i dogmi della fede e si adopera sfrontatamente a sterpare, ad annientare ogni rapporto dell'uomo colla Divinità! In quella vece, ciò che appunto, secondo il dire del medesimo Apostolo (Sap. XI, 24), è il carattere proprio dell'Anticristo, l'uomo stesso, con infinita temerità si e posto in luogo di Dio, sollevandosi soprattutto contro ciò che chiamasi Iddio; per modo che, quantunque non possa spegnere interamente in se stesso ogni notizia di Dio, pure, manomessa la maestà di Lui, ha fatto dell'universo quasi un tempio a sé medesimo per esservi adorato: «Si asside nel tempio di Dio mostrandosi quasi fosse Dio» (II Thess. II, 2).

(PIO X, Lettera Enciclica, E supremi apostolatus, 1903)



[Modificato da Caterina63 28/05/2011 10:07]
Fraternamente CaterinaLD

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[SM=g1740758] DECRETO  Condanna di 65 Proposizioni moderniste.

Le Encicliche di Papa Pio X

«LAMENTABILI SANE EXITU»

SUPREMA SACRA INQUISIZIONE ROMANA ED UNIVERSALE

Con deplorevoli frutti, l'età nostra, impaziente di freno nell'indagare le somme ragioni delle cose, non di rado segue talmente le novità, che, lasciata da parte, per così dire, l'eredità del genere umano, cade in errori gravissimi. Questi errori sono di gran lunga più pericolosi qualora si tratti della disciplina sacra, dell'interpretazione della Sacra Scrittura, dei principali misteri della Fede.

È da dolersi poi grandemente che, anche fra i cattolici, si trovino non pochi scrittori i quali, trasgredendo i limiti stabiliti dai Padri e dalla Santa Chiesa stessa, sotto le apparenze di più alta intelligenza e col nome di considerazione storica, cercano un progresso dei dogmi che, in realtà, è la corruzione dei medesimi.

Affinché dunque simili errori, che ogni giorno si spargono tra i fedeli, non mettano radici nelle loro anime e corrompano la sincerità della Fede, piacque al Santissimo Signore Nostro Pio per divina Provvidenza Papa X, che per questo officio della Sacra Romana ed Universale Inquisizione si notassero e si riprovassero quelli fra di essi che sono i precipui.

Perciò, dopo istituito diligentissimo esame e avuto il voto dei Reverendi Signori Consultori, gli Eminentissimi e Reverendissimi Signori Cardinali Inquisitori generali nelle cose di fede e di costumi, giudicarono che le seguenti proposizioni sono da riprovarsi e da condannarsi, come si riprovano e si condannano con questo generale Decreto:

  1. La legge ecclesiastica che prescrive di sottoporre a previa censura i libri concernenti la Sacra Scrittura non si estende ai cultori della critica o dell'esegesi scientifica dei Libri dell'Antico e del Nuovo Testamento.
  2. L'interpretazione che la Chiesa dà dei Libri sacri non è da disprezzare, ma soggiace ad un più accurato giudizio e alla correzione degli esegeti.
  3. Dai giudizi e dalle censure ecclesiastiche, emanati contro l'esegesi libera e superiore, si può dedurre che la fede proposta dalla Chiesa contraddice la storia, e che i dogmi cattolici in realtà non si possono accordare con le vere origini della religione cristiana.
  4. Il magistero della Chiesa non può determinare il genuino senso delle sacre Scritture nemmeno con definizioni dogmatiche.
  5. Siccome nel deposito della fede non sono contenute solamente verità rivelate, in nessun modo spetta alla Chiesa giudicare sulle asserzioni delle discipline umane.
  6. Nella definizione delle verità, la Chiesa discente e la Chiesa docente collaborano in tale maniera, che alla Chiesa docente non resta altro che ratificare le comuni opinioni di quella discente.
  7. La Chiesa, quando condanna gli errori, non può esigere dai fedeli nessun assenso interno che accetti i giudizi da lei dati.
  8. Sono da ritenersi esenti da ogni colpa coloro che non tengono in alcun conto delle riprovazioni espresse dalla Sacra Congregazione dell'Indice e da altre Sacre Congregazioni Romane.
  9. Coloro che credono che Dio è l'Autore della Sacra Scrittura sono influenzati da eccessiva ingenuità o da ignoranza.
  10. L'ispirazione dei Libri dell'Antico Testamento consiste nel fatto che gli Scrittori israeliti tramandarono le dottrine religiose sotto un certo aspetto particolare in parte conosciuto e in parte sconosciuto ai gentili.
  11. L'ispirazione divina non si estende a tutta la Sacra Scrittura al punto che tutte e singole le sue parti siano immuni da ogni errore.
  12. L'esegeta, qualora voglia affrontare con utilità gli studi biblici, deve, anzitutto, lasciar cadere quel certo qual preconcetto inerente l'origine sovrannaturale della Sacra Scrittura.
  13. Gli stessi Evangelisti e i Cristiani della seconda e terza generazione composero le parabole evangeliche in modo artificioso così da spiegare gli esigui frutti della predicazione di Cristo presso i giudei.
  14. Gli Evangelisti riferirono in molte narrazioni non tanto ciò che effettivamente accadde, quanto ciò che essi ritennero maggiormente utile ai lettori, ancorché falso.
  15. Gli Evangeli furono soggetti a continue aggiunte e correzioni, fino alla definizione e alla costituzione del canone; in essi, pertanto, della dottrina di Cristo, non rimase che un tenue e incerto vestigio.
  16. I racconti d Giovanni non sono propriamente storia, ma mistica contemplazione del Vangelo; i discorsi contenuti nel suo Vangelo sono meditazioni teologiche sul Mistero della Salvezza, destituite di verità storica.
  17. Il quarto Evangelo esagerò i miracoli, non solo perché apparissero maggiormente straordinari, ma anche affinché fossero più adatti a significare l'opera e la gloria del Verbo Incarnato.
  18. Giovanni rivendica a sé il ruolo di testimone di Cristo; in verità egli non è che un eccellente testimone di vita cristiana, ovvero della vita di Cristo alla fine del primo secolo.
  19. Gli esegeti eterodossi espresso più fedelmente il vero senso della Scrittura di quanto non abbiano fatto gli esegeti cattolici.
  20. La Rivelazione non poté essere altro che la coscienza acquisita dall'uomo circa la sua relazione con Dio.
  21. La Rivelazione, che costituisce l'oggetto della Fede cattolica, non si è conclusa con gli Apostoli.
  22. I dogmi, che la Chiesa presenta come rivelati, non sono verità cadute dal cielo, ma l'interpretazione di fatti religiosi, che la mente umana si è data con travaglio.
  23. Può esistere, ed esiste in realtà, un'opposizione tra i fatti raccontati dalla Sacra Scrittura ed i dogmi della Chiesa fondati sopra di essi; sicché il critico può rigettare come falsi i fatti che la Chiesa crede certissimi.
  24. Non dev'essere condannato l'esegeta che pone le premesse, cui segue che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non neghi direttamente i dogmi stessi.
  25. L'assenso della Fede si appoggia da ultimo su una congerie di probabilità.
  26. I dogmi della Fede debbono essere accettati soltanto secondo il loro senso pratico, cioè come norma precettiva riguardante il comportamento, ma non come norma di Fede.
  27. La Sacra Scrittura non prova la Divinità di Gesù Cristo; ma è un dogma che la coscienza cristiana deduce dal concetto di Messia.
  28. Gesù, durante il suo Ministero, non parlava per insegnare di essere il Messia, né i suoi miracoli miravano a dimostrarlo.
  29. Si può ammettere che il Cristo storico sia molto inferiore al Cristo della Fede.
  30. In tutti i testi evangelici, il nome "Figlio di Dio" equivale soltanto a nome "Messia" e non significa assolutamente che Cristo è vero e naturale Figlio di Dio.
  31. La dottrina su Cristo, tramandata da Paolo, Giovanni e dai Concili Niceno, Efesino e Calcedonense, non è quella insegnato da Gesù, ma che su Gesù concepì la coscienza cristiana.
  32. Non è possibile conciliare il senso naturale dei testi evangelici con quello che i nostri teologi insegnano circa la coscienza e la scienza infallibile di Gesù Cristo.
  33. È evidente a chiunque non sia influenzato da opinioni preconcette che Gesù ha professato un errore circa il prossimo avvento messianico, o che la maggior parte della sua dottrina, contenuta negli Evangeli sinottici, è priva di autenticità.
  34. Il critico non può affermare che la scienza di Cristo non sia circoscritta da alcun limite, se non ponendo ipotesi - non concepibile storicamente e che ripugna al senso morale - secondo la quale Cristo abbia avuto la conoscenza di Dio in quanto uomo e non abbia voluto in alcun modo darne notizia ai discepoli e alla posterità.
  35. Cristo non ebbe sempre la coscienza della sua dignità messianica.
  36. La Risurrezione del Salvatore non è propriamente un fatto di ordine storico, ma un fatto di ordine meramente sovrannaturale, non dimostrato né dimostrabile, che la coscienza cristiana lentamente trasse dagli altri.
  37. La Fede nella Risurrezione di Cristo inizialmente non fu tanto nel fatto stesso della Risurrezione, quanto nella vita immortale di Cristo presso Dio.
  38. La dottrina concernente la Morte espiatrice di Cristo non è evangelica, ma solo paolina.
  39. Le opinioni sull'origine dei Sacramenti, di cui erano imbevuti i Padri tridentini, e che senza dubbio ebbero un influsso nei loro Canoni dogmatici, sono molto distanti da quelle cui ora gli storici del Cristianesimo dànno credito.
  40. I Sacramenti ebbero origine perché gli Apostoli e i loro successori interpretarono una certa idea e intenzione di Cristo, sotto la persuasione e la spinta di circostanze ed eventi.
  41. I Sacramenti hanno come unico fine di ricordare alla mente dell'uomo la presenza sempre benefica del Creatore.
  42. La comunità cristiana inventò la necessità del Battesimo, adottandolo come rito necessario e annettendo ad esso gli obblighi della professione cristiana.
  43. L'uso di conferire il Battesimo ai bambini fu un'evoluzione disciplinare, ragion per cui il Sacramento è diventato due, cioè il Battesimo e la Penitenza.
  44. Nulla prova che il rito del Sacramento della Confermazione sia stato istituito dagli Apostoli; la formale distinzione di due Sacramenti, cioè del Battesimo e della Confermazione, non risale alla storia del cristianesimo primitivo.
  45. Non tutto ciò che narra Paolo a proposito dell'istituzione dell'Eucaristia [I Cor., 11, 23-25] è da considerarsi fatto storico.
  46. Il concetto della riconciliazione del cristiano peccatore, per autorità della Chiesa, non fu presente nella comunità primitiva: fu la Chiesa ad abituarsi lentamente a questo concetto. Per di più, dopo che la Penitenza fu riconosciuta quale istituzione della Chiesa, non veniva chiamata col nome di Sacramento, poiché era considerata come Sacramento vergognoso.
  47. Le parole del Signore "Ricevete lo Spirito Santo; a coloro ai quali rimetterete i peccati saranno rimessi e a coloro ai quali non li rimetterete non saranno rimessi" [Joh., 20, 22-23] non si riferiscono al Sacramento della Penitenza, anche se i Padri tridentini vollero affermarlo.
  48. Giacomo, nella sua epistola [Jac., 5, 14 sqq.], non volle promulgare un Sacramento di Cristo, ma raccomandare una pia pratica e se in ciò riconobbe un certo qual mezzo di Grazia, non lo intese con quel rigore con cui lo intesero i teologi che stabilirono la nozione e il numero dei Sacramenti.
  49. Coloro che erano soliti presiedere alla cena cristiana acquisirono il carattere sacerdotale per il fatto che essa progressivamente andava assumendo l'indole di un'azione liturgica.
  50. Gli anziani che, nelle adunanze dei Cristiani, esercitavano l'ufficio di vigilanza, furono dagli Apostoli creati preti o vescovi per provvedere all'ordinamento necessario delle crescenti comunità, e non propriamente per perpetuare la missione e la potestà Apostolica.
  51. Il Matrimonio fu riconosciuto dalla Chiesa come Sacramento della nuova Legge solo molto tardi; infatti, perché il Matrimonio fosse considerato Sacramento, era necessario che lo precedesse la piena dottrina della Grazia e la spiegazione teologica del Sacramento.
  52. Cristo non volle costituire la Chiesa come società duratura sulla terra, per lunga successione di secoli; anzi, nella mente di Cristo, il regno del Cielo, unitamente alla fine del mondo, doveva essere prossimo.
  53. La costituzione organica della Chiesa non è immutabile; ma la società cristiana, non meno della società umana, va soggetta a continua evoluzione.
  54. I dogmi, i sacramenti, la gerarchia, sia nel loro concetto come nella loro realtà, non sono che interpretazioni ed evoluzioni dell'intelligenza cristiana, le quali svilupparono e perfezionarono il piccolo germe latente nel Vangelo con esterne aggiunte.
  55. Simon Pietro non ha mai sospettato di aver ricevuto da Cristo il primato nella Chiesa.
  56. La Chiesa Romana diventò capo di tutte le Chiese non per disposizione della Divina Provvidenza, ma per circostanze puramente politiche.
  57. La Chiesa si mostra ostile ai progressi delle scienze naturali e teologiche.
  58. La verità non è immutabile più di quanto non lo sia l'uomo stesso, poiché si evolve con lui, in lui e per mezzo di lui.
  59. Cristo non insegnò un determinato insieme di dottrine applicabile a tutti i tempi e a tutti gli uomini, ma piuttosto iniziò un certo qual moto religioso adattato e da adattare a diversi tempi e circostanze.
  60. La dottrina cristiana fu, nel suo esordio, giudaica; poi divenne, per successive evoluzioni, prima paolina, poi giovannea, infine ellenica e universale.
  61. Si può dire senza paradosso che nessun passo della Scrittura, dal primo capitolo della Genesi fino all'ultimo dell'Apocalisse, contiene una dottrina perfettamente identica a quella che la Chiesa insegna sullo stesso argomento, e perciò nessun capitolo della Scrittura ha lo stesso senso per il critico e per il teologo.
  62. Gli articoli principali del Simbolo apostolico non avevano per i cristiani dei primi tempi lo stesso significato che hanno per i cristiani del nostro tempo.
  63. La Chiesa si dimostra incapace a tutelare efficacemente l'etica evangelica, perché ostinatamente si attacca a dottrine immutabili, inconciliabili con i progressi odierni.
  64. Il progresso delle scienze richiede una riforma del concetto che la dottrina cristiana ha di Dio, della Creazione, della Rivelazione, della Persona del Verbo Incarnato e della Redenzione.
  65. Il Cattolicesimo odierno non può essere conciliato con la vera scienza, a meno che non si trasformi in un cristianesimo non dogmatico, cioè in protestantesimo lato e liberale.

Nella seguente Feria V, il giorno 4 dello stesso mese ed anno, fatta di tutte queste cose accurata relazione al Santissimo Signor Nostro Pio Papa X, Sua Santità approvò e confermò il Decreto degli Eminentissimi Padri e diede ordine che tutte e singole le sopra enumerate proposizioni siano considerate da tutti come riprovate e condannate.

Pietro Palombelli,
Notaro della Sacra Inquisizione Romana ed Universale

Dato a Roma, presso il Palazzo del Sant'Uffizio, il giorno 3 del mese di Luglio dell'Anno 1907.





[SM=g1740771]


Fraternamente CaterinaLD

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san Pio X
Sacrorum antistitum

Motu proprioche stabilisce alcun eleggi per respingere il pericolo del modernismo (traduzione fatta dagli Acta Apostolicae Sedis, AAS 02 [1910], pp. 655-669, presenti in http://www.vatican.va , a cura di Mammadidario del forum di www.totustuus.name: si chiede un'Ave in ringraziamento)

 

Riteniamo che non sia sfuggito a nessuno dei santi vescovi, che i modernisti, la maliziosissima categoria d'uomini che avevamo smascherato per loro nella Lettera enciclica Pascendi Dominici Gregis, non si sono astenuti dai propositi di turbare la pace della Chiesa.

Infatti hanno continuato ad adescare nuovi seguaci e a farli associare mediante un’alleanza segreta, e con essi ad inoculare nelle vene del cristianesimo il virus delle loro opinioni, pubblicando, anonimamente o sotto pseudonimi, libri ed articoli.

Se, riletta la summenzionata Nostra Lettera, si considera con più attenzione lo sviluppo di quest'audacia, per mezzo della quale Ci è arrecato tanto dolore, apparirà chiaramente che uomini di tale condotta non sono altro che quelli che abbiamo già descritto là, nemici tanto più temibili quanto più sono vicini; i quali abusano del loro ministero per porre sull'amo un'esca avvelenata con cui corrompere gli sprovveduti, divulgando un'apparenza di dottrina, in cui è contenuta la somma di tutti gli errori.

Dato che questa peste si sparge attraverso quella parte del campo del Signore da cui ci si aspetterebbero i frutti più lieti, se da un lato è proprio di tutti i Vescovi spendersi in difesa della fede cattolica, e vigilare con somma diligenza affinché l'integrità del deposito divino non riceva alcun danno, dall’altro lato a Noi è di massima pertinenza fare ciò che ha comandato Cristo Salvatore, il quale a Pietro (il cui principato, seppur indegnamente, Noi abbiamo ricevuto,) disse: Conferma i tuoi fratelli.Appunto per questa causa, cioè, affinché gli animi dei buoni siano confermati nell'affrontare la presente battaglia, abbiamo ritenuto opportuno riportare delle frasi e delle prescrizioni del Nostro suddetto documento, espresse con queste parole:

 

«Perciò vi preghiamo e scongiuriamo che, in una questione di tanto rilievo, non Ci lasciate minimamente desiderare la vostra vigilanza e diligenza e fortezza. E quel che chiediamo ed aspettiamo da voi, lo chiediamo e lo aspettiamo anche dagli altri pastori d'anime, dagli educatori e maestri del giovane clero, e specialmente dai Superiori generali degli Ordini religiosi.

  1. Per ciò che riguarda gli studi, vogliamo e decisamente ordiniamo che a fondamento degli studi sacri si ponga la filosofia scolastica. Bene inteso che, "se dai Dottori scolastici qualcosa fu ricercato troppo sottilmente o trattato con poca avvedutezza; se fu detta cosa poco coerente con dottrine accertate dei secoli seguenti, o in qualsiasi modo non ammissibile; non è nostra intenzione che tutto ciò sia proposto come esempio da imitare anche ai nostri giorni" (Leone XIII, Enc. "Æterni Patris").

Ciò che conta anzitutto è che come filosofia scolastica, che Noi ordiniamo di seguire, si deve precipuamente intendere quella di San Tommaso d'Aquino: intorno alla quale tutto ciò che il Nostro Predecessore stabilì, intendiamo che rimanga in pieno vigore e, se necessario, lo rinnoviamo e confermiamo, e ordiniamo severamente che sia da tutti osservato. Se nei Seminari ciò si è trascurato, toccherà ai Vescovi insistere ed esigere che in futuro si osservi. Lo stesso comandiamo ai Superiori degli Ordini religiosi. Ammoniamo poi quelli che insegnano, di ben persuadersi che il discostarsi dall'Aquinate, specialmente in cose metafisiche, non avviene senza grave danno. Un errore piccolo in principio, così si possono utilizzare proprio le parole dell'Aquinate stesso, è grande alla fine. (De Ente et Essentia, proem.)

Posto così il fondamento della filosofia, si innalzi con somma diligenza l'edificio teologico. Venerabili Fratelli, promuovete con ogni sforzo possibile lo studio della teologia, affinché i chierici, uscendo dai Seminari, ne portino con sé un'alta stima ed un grande amore e l'abbiano sempre carissimo. Infatti "nella grande e molteplice abbondanza di discipline che si porgono alla mente assetata di verità, a tutti è noto che alla sacra Teologia appartiene il primo posto, tanto che fu antico detto dei sapienti, che è dovere delle altre scienze ed arti di servirla ed aiutarla come ancelle" (Leone XIII, Lett. Ap. "In magna", 10 dicembre 1889). Aggiungiamo qui, che Ci sembrano degni di lode anche coloro che, mantenendo intatto il rispetto alla Tradizione, ai Padri e al Magistero ecclesiastico, con saggio criterio e utilizzando le norme cattoliche (cosa che non è da tutti) cercano di illustrare la teologia positiva, attingendo lume dalla storia. Alla teologia positiva deve ora darsi più larga parte che in passato: ciò nondimeno deve farsi in modo tale che la teologia scolastica non ne venga a perdere nulla, e si disapprovino quali fautori del modernismo coloro che innalzano tanto la teologia positiva da sembrar quasi spregiare la Scolastica.

In quanto alle discipline profane basti richiamare quel che il Nostro Predecessore disse con molta sapienza (Allocuz. "Pergratus Nobis" 7 marzo 1880): "Adoperatevi strenuamente nello studio delle scienze naturali, nel cui campo gli ingegnosi ritrovati e gli utili ardimenti dei nostri tempi sono, a ragione, ammirati dai contemporanei, cosi come avranno perpetua lode ed encomio dai posteri". Questo però senza danno degli studi sacri: cosa di cui ammoniva lo stesso Nostro Predecessore con queste altre gravissime parole (Loc. cit.): "Ad una ricerca più attenta, si comprenderà come la causa di simili errori stia principalmente nel fatto che in questi nostri tempi, quanto più fervono gli studi delle scienze naturali, tanto più vengono meno le discipline più severe e più alte: alcune di queste, infatti, sono quasi cadute in dimenticanza; alcune sono trattate stancamente e con leggerezza, e, ciò che è indegno, perduto lo splendore della primitiva dignità, sono inficiate da opinioni sbagliate e da enormi errori". Con questa legge ordiniamo che si regolino nei Seminari gli studi delle scienze naturali.

II. A questi ordinamenti tanto Nostri che del Nostro Predecessore occorre volgere l'attenzione ogni qual volta si tratti di scegliere i rettori e gli insegnanti dei Seminari e delle Università cattoliche. Chiunque in alcun modo sia contaminato da modernismo, sia tenuto lontano senza riguardi di sorta sia dall'incarico di reggere sia da quello d'insegnare: se già si trova con tale incarico, ne sia rimosso: si faccia lo stesso con coloro che in segreto o apertamente favoriscono il modernismo, o lodando modernisti e giustificando la loro colpa, o criticando la Scolastica, i Padri e il Magistero ecclesiastico, o ricusando obbedienza alla potestà ecclesiastica, da chiunque essa sia rappresentata; lo stesso con chi in materia storica, archeologica e biblica si mostri amante di novità; e infine, con quelli che non si curano degli studi sacri o paiono anteporre a questi i profani. In questa parte, o Venerabili Fratelli, e specialmente nella scelta dei maestri, non sarà mai eccessiva la vostra attenzione e fermezza; dato che sull'esempio dei maestri si formano per lo più i discepoli. Poggiati dunque sul dovere di coscienza, procedete in questa materia con prudenza sì, ma con fortezza.

Con pari vigilanza e severità dovrete esaminare e scegliere chi debba essere ammesso al sacerdozio. Lungi, lungi dal clero l'amore di novità: Dio non vede di buon occhio gli animi superbi e arroganti! A nessuno in futuro si conceda la laurea in teologia o in diritto canonico, se non ha prima completato per intero il corso stabilito di filosofia scolastica. Se tale laurea ciò nonostante venisse concessa, sia nulla. Le disposizioni che la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari emanò, nell'anno 1896, per i chierici d'Italia secolari e regolari, circa il frequentare le Università, stabiliamo che d'ora innanzi siano estese a tutte le nazioni. I chierici e sacerdoti iscritti ad un Istituto o ad una Università cattolica non potranno seguire nelle Università civili quei corsi, di cui vi siano cattedre negli Istituti cattolici ai quali essi appartengono. Se in alcun luogo ciò si è permesso per il passato, ordiniamo che non si conceda più nell'avvenire. I Vescovi che formano il Consiglio direttivo di tali cattolici Istituti o Università veglino con ogni cura perché questi Nostri comandi vi si osservino costantemente.

III. È parimenti compito dei Vescovi impedire che vengano letti gli scritti modernisti, o che sanno di modernismo, se già pubblicati, o, se non lo sono ancora, proibire che si pubblichino. Non si dovrà mai permettere alcun libro o giornale o periodico di tal genere né agli alunni dei Seminari né agli uditori delle Università cattoliche: il danno che ne proverrebbe non sarebbe minore di quello delle letture immorali; sarebbe anzi peggiore, perché ne verrebbe viziata la radice stessa del vivere cristiano. Lo stesso si dovrà giudicare degli scritti di taluni cattolici, uomini del resto di non malvagie intenzioni, ma che, digiuni di studi teologici e imbevuti di filosofia moderna, cercano di accordare questa con la fede e di farla servire, come essi dicono, ai vantaggi della fede stessa. Il nome e la buona fama degli autori fanno sì che tali libri siano letti senza alcun timore e risultino quindi più pericolosi, attraendo al modernismo a poco a poco.

Per dar poi, o Venerabili Fratelli, disposizioni più generali in materia tanto grave, se nelle vostre diocesi sono in vendita libri dannosi, adoperatevi con forza a bandirli, facendo anche uso di solenni condanne. Benché questa Sede Apostolica si adoperi in ogni modo per togliere di mezzo simili scritti, ormai ne è tanto cresciuto il numero, che a condannarli tutti non bastano le forze. Quindi accade che la medicina giunga talora troppo tardi, quando cioè, per il troppo attendere, il male ha già preso piede. Vogliamo dunque che i Vescovi, deposto ogni timore, messa da parte la prudenza della carne, trascurando lo strepito dei malvagi, soavemente, sì, ma con costanza, facciano ciascuno la sua parte; memori di quanto prescriveva Leone XIII nella Costituzione Apostolica "Officiorum": "Gli Ordinari, anche come Delegati della Sede Apostolica, si adoperino di proscrivere e di togliere dalle mani dei fedeli i libri o altri scritti nocivi stampati o diffusi nelle proprie diocesi". Con queste parole si concede, è vero, un diritto: ma s'impone al contempo un dovere. E nessuno reputi di aver adempiuto a tale dovere se ha deferito a Noi l'uno o l'altro libro, mentre moltissimi altri si lasciano divulgare e diffondere. Né in ciò vi deve trattenere, Venerabili Fratelli, il sapere che l'autore di qualche libro abbia ottenuto altrove la facoltà comunemente detta Imprimatur; sia perché tale concessione può essere simulata, sia perché può essere stata fatta per trascuratezza o per troppa benignità e troppa fiducia nell'autore, caso questo che può talora avverarsi negli Ordini religiosi. Si aggiunga che, come non ogni cibo si confà a tutti egualmente, così un libro che in un luogo sarà indifferente, in un altro, per le circostanze, può risultare nocivo. Se pertanto il Vescovo, udito il parere di persone prudenti, stimerà di dover condannare nella sua diocesi anche qualcuno di tali libri, gliene diamo ampia facoltà, anzi gliene facciamo un dovere. La cosa sia fatta convenientemente, restringendo la proibizione soltanto al clero, se questo basta; ma in tal caso sarà obbligo dei librai cattolici non porre in vendita i libri condannati dal Vescovo. E dal momento che Siamo in argomento, i Vescovi vigilino che i librai, per bramosia di lucro, non spaccino merce malsana: è certo che nei cataloghi di alcuni di essi vengono proposti di frequente, e con non poca lode, i libri dei modernisti. Se essi rifiutano di obbedire, i Vescovi non esitino a privarli del titolo di librai cattolici; tanto più, se avranno quello di vescovili; e se avessero titolo di pontifici, siano deferiti alla Sede Apostolica. A tutti infine ricordiamo l'articolo XXVI della menzionata Costituzione Apostolica "Officiorum": "Tutti coloro che abbiano ottenuto facoltà apostolica di leggere e ritenere libri proibiti, non sono per questo autorizzati a leggere libri o giornali proscritti dagli Ordinari locali, se nell'indulto apostolico non sia data espressa facoltà di leggere e ritenere libri condannati da chiunque".

IV. Ma non basta impedire la lettura o la vendita dei libri cattivi; occorre anche impedirne la stampa. Quindi i Vescovi non concedano la facoltà di stampa se non con la massima severità. E poiché è grande il numero delle pubblicazioni, che, secondo la Costituzione "Officiorum", esigono l'autorizzazione dell'Ordinario, e il Vescovo non le può revisionare tutte da solo, in talune diocesi si sogliono determinare in numero adeguato censori d’ufficio per l'esame degli scritti. Somma lode noi diamo a tale istituzione di censura; e non solo esortiamo, ma ordiniamo che si estenda a tutte le diocesi. Dunque in tutte le Curie episcopali si stabiliscano Censori per la revisione degli scritti da pubblicarsi; si scelgano questi dall'uno e dall'altro clero, uomini di età, di scienza e di prudenza e che nel giudicare sappiano tenere il giusto mezzo. Spetterà ad essi l'esame di tutto quello che, secondo gli articoli XLI e XLII della detta Costituzione, ha bisogno di permesso per essere pubblicato. Il Censore darà per iscritto la sua sentenza. Se sarà favorevole, il Vescovo concederà la facoltà di stampa con la parola Imprimatur, la quale però sarà preceduta dalla formula Nihil obstat e dal nome del Censore. Anche nella Curia romana non diversamente che nelle altre, si stabiliranno censori di ufficio. L'elezione dei medesimi, una volta interpellato il Cardinale Vicario e coll'assenso ed approvazione dello stesso Sommo Pontefice, spetterà al Maestro del sacro Palazzo Apostolico. A questo pure toccherà determinare per ogni singolo scritto il Censore che lo esamini. La facoltà di stampa sarà concessa dallo stesso Maestro ed insieme dal Cardinale Vicario o dal suo Vicegerente, premesso però, come sopra si disse, il Nulla osta col nome del Censore. Solo in circostanze straordinarie e molto di rado si potrà, a prudente arbitrio del Vescovo, omettere la menzione del Censore. Agli autori non si farà mai conoscere il nome del Censore, prima che questi abbia dato giudizio favorevole: affinché il Censore stesso non abbia a patir molestia mentre esamina lo scritto o in caso che ne disapprovi la stampa. Non si sceglieranno mai Censori dagli Ordini religiosi, senza prima aver sentito segretamente il parere del Superiore provinciale: questo dovrà secondo coscienza attestare dei costumi, della scienza e della integrità della dottrina del candidato. Ammoniamo i Superiori religiosi del gravissimo dovere che essi hanno di non  permettere mai che alcunché sia pubblicato dai loro sottoposti senza la previa facoltà loro e dell'Ordinario diocesano. Per ultimo affermiamo e dichiariamo che il titolo di Censore, di cui taluno sia insignito, non ha alcun valore né mai si potrà arrecare come argomento per dar credito alle private opinioni del medesimo.

Detto ciò in generale, ordiniamo espressamente un'osservanza più diligente di quanto si prescrive nell'articolo XLII della citata Costituzione "Officiorum", cioè: "È vietato ai sacerdoti secolari, senza previo permesso dell'Ordinario, assumere la direzione di giornali o di periodici". Del quale permesso, dopo ammonizione, sarà privato chiunque ne facesse cattivo uso. Circa quei sacerdoti, che hanno titoli di corrispondenti o collaboratori, poiché avviene non raramente che pubblichino, nei giornali o periodici, scritti infetti da modernismo, vedano i Vescovi che ciò non avvenga; e se avvenisse, ammoniscano e diano proibizione di scrivere. Lo stesso ammoniamo con ogni autorità che facciano i Superiori degli Ordini religiosi: e se questi si mostrassero in ciò trascurati, provvedano i Vescovi, con autorità delegata dal Sommo Pontefice. I giornali e periodici pubblicati dai cattolici abbiano, per quanto sia possibile, un Censore determinato. Sarà obbligo di questo leggere integralmente e con attenzione i singoli fogli o fascicoli, dopo che sono stati pubblicati: se troverà qualcosa di pericoloso, ordinerà che sia corretto nel foglio o fascicolo successivo. Lo stesso diritto avrà il Vescovo, anche nel caso in cui il Censore non abbia reclamato.

V. Ricordammo già sopra i congressi e i pubblici convegni, in cui i modernisti si adoprano di propalare e propagare le loro opinioni. I Vescovi non permetteranno più in avvenire, se non in casi rarissimi, i congressi di sacerdoti. Se avverrà che li permettano, lo faranno solo a questa condizione: che non vi si trattino cose di pertinenza dei Vescovi o della Sede Apostolica, non vi si facciano proposte o postulati che implichino usurpazione della sacra potestà, non vi si faccia affatto menzione di quanto sa di modernismo, di presbiterianismo, di laicismo. A tali convegni, che dovranno permettersi solo di volta in volta e per iscritto e al momento adatto, non potrà intervenire alcun sacerdote di altra diocesi, se non porta una lettera di raccomandazione del proprio Vescovo. A tutti i sacerdoti poi non passi mai di mente ciò che Leone XIII raccomandava con parole gravissime (Lett. Enc. "Nobilissima Gallorum", 10 febbraio 1884): "Sia intangibile presso i sacerdoti l'autorità dei propri Vescovi; si persuadano che il ministero sacerdotale, se non si esercita sotto la direzione del Vescovo, non sarà né santo, né molto utile, né rispettabile".

VI. Ma che gioveranno, o Venerabili Fratelli, i Nostri comandi e le Nostre prescrizioni, se non si osserveranno a dovere e con fermezza? Perché questo si ottenga, Ci è parso espediente estendere a tutte le diocesi ciò che i Vescovi dell'Umbria (Atti del Congr. dei Vescovi dell'Umbria, nov. 1849, tit. II, art. 6), molti anni or sono, con savissimo consiglio stabilirono per le loro: "Per estirpare - così essi dicono - gli errori già diffusi e per impedire che si diffondano ulteriormente,  o che rimangano ancora maestri di empietà, attraverso i quali si perpetuano i perniciosi effetti originati da quella diffusione, il sacro Congresso, seguendo gli esempi di San Carlo Borromeo, stabilisce che in ogni diocesi si istituisca un Consiglio di uomini commendevoli dei due cleri, a cui spetti controllare se e con quali arti i nuovi errori si dilatino o si propaghino, e informarne il Vescovo, così che questi, raccolti i suggerimenti, possa prendere rimedi estinguendo il male già sul nascere, senza lasciare che si diffonda sempre più a rovina delle anime, e, ciò che è peggio, si rafforzi e crescacol passar del tempo". Stabiliamo dunque che un siffatto Consiglio, che si chiamerà di vigilanza, si istituisca quanto prima in tutte le diocesi. I membri di esso si sceglieranno con le stesse norme già prescritte per i Censori dei libri. Ogni due mesi, in un giorno determinato, si radunerà in presenza del Vescovo: le cose trattate o stabilite saranno sottoposte a legge di segreto. I doveri degli appartenenti al Consiglio saranno i seguenti: Scrutino con attenzione gli indizi di modernismo tanto nei libri che nell'insegnamento; con prudenza, prontezza ed efficacia stabiliscano quanto è necessario per l’incolumità del clero e della gioventù. Combattano le novità di parole, e rammentino gli ammonimenti di Leone XIII (S. C. AA. EE. SS., 27 gennaio 1901): "Non si potrebbe approvare nelle pubblicazioni cattoliche un linguaggio che, ispirandosi a malsana novità, sembrasse deridere la pietà dei fedeli ed accennasse a un nuovo ordinamento della vita cristiana, a nuove prescrizioni della Chiesa, a nuove necessità dell'anima moderna, a nuova vocazione sociale del clero, a nuova civiltà cristiana, e molte altre cose di questo genere". Non sopportino tutto questo, né nei libri né dalle cattedre. Non trascurino i libri nei quali si tratti o delle pie tradizioni di ciascun luogo o delle sacre Reliquie. Non permettano che tali questioni si agitino nei giornali o in periodici destinati a fomentare la pietà, né con espressioni che sappiano di ludibrio o di disprezzo né con affermazioni definitive specialmente, come il più delle volte accade, quando ciò che si afferma o non passa i termini della probabilità o si basa su pregiudicate opinioni. Circa le sacre Reliquie si abbiano queste norme. Se i Vescovi, i quali sono i soli giudici in questa materia, sanno con certezza che una reliquia è falsa, la toglieranno senz'altro dal culto dei fedeli. Se le autentiche di una Reliquia qualsiasi sono andate smarrite o per i disordini civili o in altro modo, essa non si esponga alla pubblica venerazione, se prima il Vescovo non ne abbia fatta ricognizione. L'argomento di prescrizione o di fondata presunzione avrà valore solo quando il culto sia commendevole per antichità: il che risponde al decreto emanato nel 1896 dalla Congregazione delle Indulgenze e sacre Reliquie, in questi termini: "Le Reliquie antiche sono da conservarsi nella venerazione che finora ebbero, salvo nel caso particolare in cui si abbiano argomenti certi che sono false o supposte". Nel portar poi giudizio delle pie tradizioni si tenga sempre presente, che la Chiesa in questa materia fa uso di tanta prudenza, da non permettere che tali tradizioni si raccontino nei libri, se non con grandi cautele e premessa la dichiarazione prescritta da Urbano VIII: il che pure adempiuto, non per questo ammette la verità del fatto, ma solo non proibisce che si creda, ove a farlo non manchino argomenti umani. Così appunto la sacra Congregazione dei Riti dichiarava fin da trent'anni addietro (Decreto 2 maggio 1877): "Siffatte apparizioni o rivelazioni non furono né approvate né condannate dalla Sede Apostolica, ma solo passate come da piamente credersi con sola fede umana, conforme alla tradizione di cui godono, confermata pure da idonei testimoni e documenti". Nessun timore può ammettere chi a questa regola si tenga. Infatti il culto di qualsiasi apparizione, quando riguarda il fatto stesso ed è detto relativo, ha sempre implicita la condizione della verità del fatto: quando invece è assoluto, si fonda sempre nella verità, giacché si dirige alle persone stesse dei santi che si onorano. Lo stesso vale delle Reliquie. Diamo mandato infine al Consiglio di vigilanza, di tener d'occhio assiduamente e diligentemente gl'istituti sociali come pure gli scritti di questioni sociali affinché non vi si celi nulla di modernista, ma ottemperino alle prescrizioni dei Romani Pontefici.

VII. Affinché le cose fin qui stabilite non vadano in dimenticanza, vogliamo ed ordiniamo che i Vescovi di ciascuna diocesi, trascorso un anno dalla pubblicazione delle presenti Lettere, e poi ogni triennio, con diligente e giurata esposizione riferiscano alla Sede Apostolica intorno a quanto si prescrive in esse, e sulle dottrine che corrono in mezzo al clero e soprattutto nei Seminari ed altri istituti cattolici, non eccettuati quelli che pur sono esenti dall'autorità dell'Ordinario. Lo stesso imponiamo ai Superiori generali degli Ordini religiosi a riguardo dei loro sottoposti».

 

A queste cose, che chiaramente confermiamo tutte, pena un peso sulla coscienza per coloro che avranno rifiutato di ascoltare quanto detto, ne aggiungiamo altre, che sono specificamente riferite agli aspiranti sacerdoti che vivono nei Seminari e ai novizi degli istituti religiosi.

- Nei Seminari certamente occorre che tutte le parti dell'istituzione tendano al medesimo fine di formare un sacerdote degno di tale nome. Ed infatti non si può ritenere che simili tirocini si estendano solamente o agli studi o alla pietà. L'ammaestramento fonde in un tutto unico entrambi gli aspetti, ed essi sono simili a palestre finalizzate a formare la sacra milizia di Cristo con una preparazione duratura. Dunque affinché da essi esca un esercito ottimamente istruito, sono assolutamente necessarie due cose, la cultura per l’istruzione della mente, la virtù per la perfezione dell'anima. L'una richiede che la gioventù che si prepara al sacerdozio sia massimamente istruita in quelle scienze che hanno un legame più stretto con gli studi delle cose divine; l'altra esige una straordinaria eccellenza di virtù e di costanza. Vedano dunque i rettori quale aspettativa di disciplina e di pietà si possa nutrire riguardo agli allievi, e scrutino quale sia l'indole dei singoli; se seguono il loro istinto più giusto o se sembrano abbracciare delle disposizioni di spirito profane; se sono docili nell'obbedire, inclini alla pietà, umili, osservanti della disciplina; se aspirano alla dignità di sacerdote perché si sono prefissati il giusto obiettivo, o perché spinti da ragioni umane; se, infine, sono adeguatamente ricchi di santità di vita e di cultura; o se, mancando loro qualcosa di queste, si sforzano almeno di acquisirla con animo sincero e pronto. Né l'indagine presenta troppa difficoltà; giacché i doveri religiosi compiuti lamentandosi, e la disciplina osservata a causa del timore e non della voce della coscienza, rivelano immediatamente la mancanza delle virtù che ho elencato. Colui che tiene come principio il timore servile, o si infiacchisce per debolezza di carattere o disprezzo, è quanto mai lontano dalla speranza di poter esercitare santamente il sacerdozio. Infatti difficilmente si può credere che uno che disprezza le discipline domestiche non verrà poi meno alle leggi pubbliche della Chiesa. Se il rettore della scuola avrà individuato qualcuno con questa disposizione d’animo, e se, dopo averlo ammonito più volte, fatta una prova di un anno, avrà capito che quello non desiste dalla sua consuetudine, lo espella, in modo tale che in futuro non possa più essere accettato né da lui né da alcun vescovo.

Dunque per promuovere i chierici si richiedano assolutamente queste due; l'onestà di vita unita alla sana dottrina: E non sfugga che quei precetti e moniti coi quali i vescovi si rivolgono a coloro che stanno per ricevere gli ordini sacri, sono rivolti a questi non meno che a coloro che vi aspirano, allorché viene detto: "Si deve fare in modo che quelli scelti per tale compito siano illustri per saggezza spirituale, onestà di costumi e costante rispetto della giustizia ... Siano onesti e assennati tanto nella scienza quanto nelle opere … splenda in essi la bellezza della santità nella sua interezza".

E certamente dell'onestà di vita si sarebbe detto abbastanza, se questa potesse con poco sforzo essere separata dalla cultura e dalle opinioni, che ciascuno si sarà riservato di sostenere. Ma, come è nel Libro dei Proverbi: L'uomo è stimato secondo la sua cultura (Prov. XII, 8) e come insegna l'Apostolo: Chi... non rimane nella dottrina di Cristo, non possiede Dio (II Giov., 9). Quanto impegno sia da dedicare alle molte e varie cose da imparare bene, lo insegna persino la stessa pretesa dell’epoca attuale, la quale proclama che niente è più glorioso della luce dell’umanità che progredisce. Dunque quanti sono nelle file del clero, se vogliono dedicarsi al loro compito conformemente ai tempi; con frutto esortare gli altri nella sana dottrina e convincere quelli che la contraddicono (Tito, I,9); applicare le risorse dell’ingegno a vantaggio della Chiesa, devono necessariamente raggiungere una conoscenza delle cose tutt’altro che di basso livello, e avvicinarsi all’eccellenza nella cultura. Infatti c'è da lottare con nemici tutt'altro che inesperti, i quali aggiungono ai buoni studi un sapere spesso intessuto di trabocchetti, e le cui sentenze belle e vibranti sono proposte con grande abbondanza e rimbombo di parole, affinché in esse sembri risuonare quasi un qualcosa di esotico. Perciò bisogna predisporre opportunamente le armi, cioè, preparare abbondante foraggio di cultura per tutti coloro che, nella vita ritirata della scuola, si stanno accingendo ad assumere incarichi santissimi e difficilissimi.

E' vero che, poiché la vita dell'uomo è circoscritta da limiti tali per cui da un fonte ricchissimo di conoscenze a stento è dato di assaggiare qualcosa a fior di labbra, bisogna anche temperare la sete di apprendimento e rammentare l'affermazione di Paolo: non è pio sapere tutto quanto necessita sapere, ma sapere in giusta misura (Rom. XII,3). Per cui, dato che ai chierici già sono imposti molti e pesanti studi, sia per quanto riguarda le sacre scritture, i fondamenti della Fede, le consuetudini, la conoscenza delle devozioni e delle celebrazioni, che vanno sotto il nome di ascetica, sia per quanto riguarda la storia della Chiesa, il diritto canonico, la sacra eloquenza; affinché i giovani non perdano tempo nel seguire altre questioni e non vengano distratti dallo studio principale, vietiamo del tutto a costoro la lettura di qualsiasi quotidiano e periodico, anche se ottimo, pena un onere sulla coscienza di quei rettori che non avranno vigilato scrupolosamente per impedirlo.

 

Inoltre per allontanare il sospetto che qualsiasi modernismo si introduca di nascosto, non solo vogliamo che siano assolutamente rispettate le cose prescritte sopra al n° II, ma comandiamo inoltre che ogni singolo insegnante, prima di cominciare le lezioni all'inizio dell'anno, mostri al suo Vescovo il testo che si propone di insegnare, o le questioni che tratterà, oppure le tesi; quindi che per quell’anno stesso sia tenuto sotto osservazione il metodo d’insegnamento di ciascuno; e se questo sembrerà allontanarsi dalla sana dottrina, sarà causa sufficiente per rimuovere quell’insegnante. Ed infine, che, oltre alla professione di fede, presti giuramento al suo Vescovo, secondo la formula sotto riportata, e firmi.

 

Questo giuramento, preceduto da una professione di fede nella formula prescritta dal Nostro Predecessore Pio IV, con allegate le definizioni del Concilio Vaticano, lo presteranno dunque davanti al loro vescovo:

I. I chierici che stanno per ricevere gli ordini maggiori; ad essi singolarmente sia previamente consegnato un esemplare sia della professione di fede, sia della formula del giuramento da emettere, in modo che le conoscano in anticipo accuratamente, essendovi una sanzione, come si vedrà sotto, in caso di violazione del giuramento.

II. I sacerdoti destinati a raccogliere le confessioni, e i sacri predicatori, prima che sia loro concessa facoltà di svolgere tali compiti.

III. I Parroci, i Canonici, i Beneficiari prima di entrare in possesso del beneficio.

IV. Gli ufficiali nelle curie episcopali e nei tribunali ecclesiastici, inclusi il Vicario generale e i giudici.

V. Gli addetti ai sermoni che si tengono nei tempi quaresimali.

VI. Tutti gli ufficiali nelle Congregazioni Romane o nei tribunali, in presenza del Cardinale Prefetto o del Segretario di quella Congregazione o di quel tribunale.

VII. I Superiori e i Docenti delle Famiglie e Congregazioni religiose, prima di assumere l'incarico.

 

I documenti della professione di fede, di cui abbiamo detto, e dell'avvenuto giuramento siano conservati in appositi registri presso le Curie episcopali, e parimenti presso gli uffici di ciascuna Congregazione Romana. Se poi qualcuno osasse, Dio non voglia, violare qualche giuramento, costui sia deferito al tribunale del Sant'Uffizio.

 

 

FORMULA DEL GIURAMENTO

 

Io ... fermamente accetto e credo in tutte e in ciascuna delle verità definite, affermate e dichiarate dal magistero infallibile della Chiesa, soprattutto quei principi dottrinali che contraddicono direttamente gli errori del tempo presente.

 

Primo: credo che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza e può anche essere dimostrato con i lumi della ragione naturale nelle opere da lui compiute (cf Rm 1,20), cioè nelle creature visibili, come causa dai suoi effetti.

 

Secondo: ammetto e riconosco le prove esteriori della rivelazione, cioè gli interventi divini, e soprattutto i miracoli e le profezie, come segni certissimi dell'origine soprannaturale della religione cristiana, e li ritengo perfettamente adatti a tutti gli uomini di tutti i tempi, compreso quello in cui viviamo.

 

Terzo: con la stessa fede incrollabile credo che la Chiesa, custode e maestra del verbo rivelato, è stata istituita immediatamente e direttamente da Cristo stesso vero e storico mentre viveva fra noi, e che è stata edificata su Pietro, capo della gerarchia ecclesiastica, e sui suoi successori attraverso i secoli.

 

Quarto: accolgo sinceramente la dottrina della fede trasmessa a noi dagli apostoli tramite i padri ortodossi, sempre con lo stesso senso e uguale contenuto, e respingo del tutto la fantasiosa eresia dell'evoluzione dei dogmi da un significato all'altro, diverso da quello che prima la Chiesa professava; condanno similmente ogni errore che pretende sostituire il deposito divino, affidato da Cristo alla Chiesa perché lo custodisse fedelmente, con una ipotesi filosofica o una creazione della coscienza che si è andata lentamente formando mediante sforzi umani e continua a perfezionarsi con un progresso indefinito.

 

Quinto: sono assolutamente convinto e sinceramente dichiaro che la fede non è un cieco sentimento religioso che emerge dall'oscurità del subcosciente per impulso del cuore e inclinazione della volontà moralmente educata, ma un vero assenso dell'intelletto a una verità ricevuta dal di fuori con la predicazione, per il quale, fiduciosi nella sua autorità supremamente verace, noi crediamo tutto quello che il Dio personale, creatore e signore nostro, ha detto, attestato e rivelato.

 

Mi sottometto anche con il dovuto rispetto e di tutto cuore aderisco a tutte le condanne, dichiarazioni e prescrizioni dell'enciclica Pascendi e del decreto Lamentabili, particolarmente circa la cosiddetta storia dei dogmi.

 

Riprovo altresì l'errore di chi sostiene che la fede proposta dalla Chiesa può essere contraria alla storia, e che i dogmi cattolici, nel senso che oggi viene loro attribuito, sono inconciliabili con le reali origini della religione cristiana.

 

Disapprovo pure e respingo l'opinione di chi pensa che l'uomo cristiano più istruito si riveste della doppia personalità del credente e dello storico, come se allo storico fosse lecito difendere tesi che contraddicono alla fede del credente o fissare delle premesse dalle quali si conclude che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non siano positivamente negati.

 

Condanno parimenti quel sistema di giudicare e di interpretare la sacra Scrittura che, disdegnando la tradizione della Chiesa, l'analogia della fede e le norme della Sede apostolica, ricorre al metodo dei razionalisti e con non minore disinvoltura che audacia applica la critica testuale come regola unica e suprema.

 

Rifiuto inoltre la sentenza di chi ritiene che l'insegnamento di discipline storico-teologiche o chi ne tratta per iscritto deve inizialmente prescindere da ogni idea preconcetta sia sull'origine soprannaturale della tradizione cattolica sia dell'aiuto promesso da Dio per la perenne salvaguardia delle singole verità rivelate, e poi interpretare i testi patristici solo su basi scientifiche, estromettendo ogni autorità religiosa e con la stessa autonomia critica ammessa per l'esame di qualsiasi altro documento profano.

 

Mi dichiaro infine del tutto estraneo ad ogni errore dei modernisti, secondo cui nella sacra tradizione non c'è niente di divino o peggio ancora lo ammettono ma in senso panteistico, riducendolo ad un evento puro e semplice analogo a quelli ricorrenti nella storia, per cui gli uomini con il proprio impegno, l'abilità e l'ingegno prolungano nelle età posteriori la scuola inaugurata da Cristo e dagli apostoli.

 

Mantengo pertanto e fino all'ultimo respiro manterrò la fede dei padri nel carisma certo della verità, che è stato, è e sempre sarà nella successione dell'episcopato agli apostoli (S. Ireneo, Adversus haereses, 4, 26, 2: PG 7, 1053), non perché si assuma quel che sembra migliore e più consono alla cultura propria e particolare di ogni epoca, ma perché la verità assoluta e immutabile predicata in principio dagli apostoli non sia mai creduta in modo diverso né in altro modo intesa (Tertulliano, De praescriptione haereticorum, 28: PL 2, 40).

 

Mi impegno ad osservare tutto questo fedelmente, integralmente e sinceramente e di custodirlo inviolabilmente senza mai discostarmene né nell'insegnamento né in nessun genere di discorsi o di scritti. Così prometto, così giuro, così mi aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio.

 

 

DELLA SACRA PREDICAZIONE

(parte non ancora tradotta di sole 9 pagine: si cercano volontari)
[…]

 

Dato in Roma, presso San Pietro, il giorno 1 settembre dell’anno 1910, ottavo del Nostro Pontificato.

 

Pio PP. X

  Magistero pontificio - Copertina  




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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27/02/2016 09:46
 
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MOTU PROPRIO 
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO X

PRAESTANTIA SCRIPTURAE

LE DECISIONI DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DI STUDI BIBLICI 
E LE PENE CONTRO I TRASGRESSORI 
DELLE PRESCRIZIONI ANTIMODERNISTICHE
  

Avendo riconosciuta l'eccellenza delle Sacre Scritture e avendone raccomandato lo studio nella lettera enciclica Providentissimus Deus, del 18 novembre 1893, Leone XIII, nostro predecessore di immortale memoria, dettò leggi per il retto ordinamento degli studi biblici; e avendo dichiarato divini i Libri, contro gli errori e le calunnie dei razionalisti, li ha difesi dalle opinioni di una falsa dottrina che si decanta come critica più sublime; le quali opinioni altro non sono se non invenzioni del razionalismo derivate dalla filologia e da simili discipline.

Per ovviare poi all'allora crescente pericolo della propagazione di idee sconsiderate e deviate, lo stesso Nostro predecessore con la lettera Vigilantiae studiique memores del 30 ottobre 1902, istituiva il Pontificio Consiglio o Commissione Biblica, composta di alcuni cardinali di santa romana Chiesa insigni per dottrina e per prudenza, ai quali venivano aggiunti vari ecclesiastici, scelti fra i dotti in scienza teologica e biblica, di diverse nazionalità e di diverso metodo e opinione negli studi esegetici, nominati come consultori. Il Pontefice vedeva vantaggioso e adattissimo agli studi e al momento storico il far sì che il Consiglio fosse il luogo in cui venissero presentate, sviluppate e discusse idee con ogni libertà; e che, secondo la citata lettera apostolica, prima di giungere ad una qualsiasi ferma decisione, i padri porporati dovessero conoscere ed esaminare gli argomenti favorevoli e contrari alle questioni e nulla fosse trascurato di quanto avesse potuto mettere in piena luce l'autentico e sincero stato dei problemi biblici posti in discussione. Soltanto dopo aver completato questo procedimento, essi avrebbero dovuto sottoporre al sommo Pontefice le decisioni prese perché le approvasse, per poter essere quindi pubblicate.

Dopo lunghi esami e attentissime deliberazioni, sono state felicemente emanate dal Pontificio Consiglio biblico alcune decisioni molto utili per un autentico incremento degli studi biblici e per una sicura norma nell'orientarli. Tuttavia vediamo che non mancano alcuni che, troppo inclini ad opinioni e metodi infetti di perniciose novità e nel loro studio oltremodo trascinati da una falsa libertà che è vera e smodata licenza e che si mostra pericolosissima in materia dottrinale e feconda di mali molto gravi contro la purezza della fede, non hanno accolto né accolgono con quell'ossequio che sarebbe opportuno quelle decisioni, malgrado l'approvazione ad esse data dal Pontefice.

Per questa cosa, vediamo di dover dichiarare e decretare, come con il presente atto dichiariamo ed espressamente decretiamo che tutti sono tenuti in coscienza a sottomettersi alle decisioni del Pontificio Consiglio Biblico, sia a quelle finora già emanate, sia a quelle che saranno emanate nel futuro, allo stesso modo che ai decreti delle sacre Congregazioni riguardanti la dottrina approvati dal Pontefice; e che coloro i quali avversano tali decisioni verbalmente o per iscritto non possono evitare la nota tanto di disobbedienza, tanto di temerità, né perciò sono esenti da colpa grave; questo indipendentemente dallo scandalo che arrecano e dalle conseguenze in cui possono incorrere davanti a Dio per ulteriori temerità ed errori pronunciati in aggiunta, come accade nella maggior parte dei casi.

Inoltre, per reprimere la crescente audacia di molti modernisti i quali con ogni sorta di sofismi e di artifici si sforzano di togliere forza ed efficacia non solo al decreto Lamentabili sane exitu, emanato per Nostro ordine dalla Sacra Congregazione del Santo Ufficio il 3 luglio 1907, ma anche alla Nostra lettera enciclica Pascendi dominici gregis dell'8 settembre di questo stesso anno, rinnoviamo e confermiamo, in virtù della Nostra autorità apostolica, tanto quel decreto della Suprema Sacra Congregazione, quanto la Nostra lettera enciclica, aggiungendo la pena della scomunica per coloro che li contraddicono; e dichiariamo e deliberiamo che chiunque avrà l'audacia di sostenere, il che Dio non permetta, una qualsiasi proposizione, opinione o dottrina condannata nell'uno o nell'altro documento sopra citato, sarà soggetto per ciò stesso alla censura di cui al capo Docentes della costituzione Apostolicae Sedis, che è la prima delle scomuniche automatiche riservate semplicemente al romano Pontefice. Questa scomunica è poi da intendere indipendente dalle pene nelle quali coloro che mancheranno in ordine a qualche punto dei documenti menzionati possono incorrere, come propagatori e difensori di eresie, se le loro proposizioni, opinioni o dottrine siano eretiche, il che agli avversari dei due menzionati documenti accade più di una volta, specialmente quando propugnano gli errori dei fautori del modernismo, sintesi di tutte le eresie.

Presi questi provvedimenti, raccomandiamo nuovamente con forza agli ordinari diocesani e ai superiori degli Istituti Religiosi di voler vigilare con attenzione sugli insegnanti, primariamente su quelli dei seminari; qualora li trovino imbevuti degli errori dei modernisti e fautori di pericolose novità, o troppo poco docili alle prescrizioni della sede apostolica in qualunque modo pubblicate, li interdicano del tutto dall'insegnamento. Parimenti, escludano dai sacri ordini quei giovani sui quali gravi il più piccolo dubbio di correre dietro a dottrine condannate o a dannose novità. Allo stesso modo li esortiamo a non cessare di esaminare attentamente i libri e le altre pubblicazioni, certamente troppo diffusi, che presentino opinioni e tendenze simili a quelle condannate per mezzo della lettera enciclica e del decreto citati sopra; curino di eliminarli dalle librerie cattoliche e molto più dalle mani della gioventù che studia e del clero. Se ciò cureranno con sollecitudine, promuoveranno la vera e solida formazione intellettuale, alla quale massimamente deve essere rivolta la sollecitudine dei sacri presuli.

In virtù della Nostra autorità, Noi vogliamo e comandiamo che tutte queste disposizioni abbiano efficacia e restino ferme, nonostante qualunque disposizione contraria.

Roma, presso San Pietro, 18 novembre 1907, anno V del Nostro pontificato.

 

PIO X





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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