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Ultimo Aggiornamento: 08/12/2008 16:07
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molto bello ghebbo [SM=x346134]
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Vedete voi...
La capacità di ragionare non gli apparteneva più, o forse più probabilmente aveva una coscienza maggiore riguardo la sua ininfluenza in certi ambiti di illogicità confusa, di assurdo, e tenue candore di mani. In fondo, però, sapeva ancora pensare. Si sarebbe addirittura riuscito a vedere, a ridisegnare, nell’oscurità. Era una sagoma appena accennata, fasci di tagli di buio nel buio più nero delle pareti spente. Una linea bianca di mento ed il luccicare di un occhio alla luce della luna che, timida, entrava da un piccolo spiraglio fra le tende, ma sporcata da gialle luci sfocate, ben più vicine. E fuori lo scorcio del cielo. Di grandi palazzi senza anima, che si rimiravano ebeti, in ghirlande di lampade e lampadine. E qualche stella, forse ormai esplosa, forse spenta, che allungava il suo ultimo grido fin dove l’universo ancora poteva udirla. E lui le vedeva. Due. No, tre. Dietro tutto, al di sopra di ogni cosa. Quei tetti parevano scalfirne una, grattarla, come a volerle dire di scendere, come a tentare di strattonarla verso il mondo smorto ed ipocrita in cui loro tenevano le fondamenta. Ma lei non ascoltava, quel grido puro e lontano, echi cosmici di assolutezza, giravano e contrastavano in un cielo sbiadito.
Piano, d’istinto, si disse che doveva alzarsi e scostare più a lato la tenda. Voleva vedere. Vederne ancora. Sperava che altre sarebbero spuntate, da dietro le nubi, solo perché c’era finalmente qualcuno che desiderava ammirarle, e assortamente ascoltarle.
Scostò la mano che era poggiata alla sua. Leggermente, giusto il minimo indispensabile per potersi allontanare, non sentito. Carezzò la pelle che sapeva esser bianca, e non trovò parole che un solo semplice soffio fra i neri capelli.
Lo scricchiolio del divano fu docile, anche se pressante, mentre si alzava. Poi fece un passo.
“Dove vai?” la voce femminile che adesso lo accompagnava verso la finestra era calma, pur essendo in un certo qual modo intimorita dal suo movimento.
“Alla finestra.” Rispose sussurrando, mentre con la mano allargava quel taglio di luce lunare. “Dormi ancora. Ora torno da te.”
“Mi accorgo quando non ci sei.” Fra i bisbigli si riconobbe una piccola risata vivace, da bambina. Ugualmente sincera ed ugualmente fiera.
Alla luce perlacea e a quella sconvolta dei neon fuori, ora si stagliavano perfettamente le linee di un ragazzo dai lunghi capelli. Si appoggiava con la fronte al vetro, e gli pareva di sentir freddo, ma non ebbe ad importarsene. Aveva il torso nudo, e portava unicamente lunghi pantaloni di tela. Si passò una mano sul petto, quasi a sincerarsi avesse ancora qualcosa addosso a sè stesso, distesa sui suoi muscoli, o sulle ossa, o di sbieco sopra l’anima. O nel niente. Controllava che non fosse sparito dietro quelle stelle che così insistentemente lui voleva stare a guardare. E poi quella frase, e quelle dita.
Svaniva tutto attorno a lui e rimaneva da solo con punti di luce verso un vergognoso infinito di scientifica nullità. Credete, pensò, che un mio ricordo possa dimorare fra di voi? E se anche fosse, riuscireste a portarlo ovunque sulla terra? Forse invece dovrei concederlo alla luna. Sarebbe lei così cara da recapitarlo ad ogni essere vivente che scalpita in ardore su di un pianeta insignificante? Forse, dico, saprebbe tenerlo con sé per secoli e generazioni di uomini e donne. Avrebbe la capacità, dite, di mantenere stretto a sé questo mio pensiero? O, forse, se sarete voi a concedermi questa grazia, sareste capaci di gridarlo ancora, come gridate la vostra luce, ad interminabili spazi ed infinite velocità?
Ma dove lo stavano portando quei sentieri. Si ripeté che non poteva regalare un ricordo. E pure lo avrebbe voluto donare a tutti, fuori che tenerlo per sé, così inutile e fastidioso. Forse, piuttosto, avrebbe voluto dire: così senza speranza.
“Amore…” la voce gli giunse come l’eco del riflesso di un suono. Sbattuto in mezzo a piogge di meteore fiammeggianti, nel gorgogliare di un pianeta scontroso. Ma la udì, e ne fu lieto. Non era corso troppo lontano, dopotutto.
Si voltò verso l’interno della camera e scorse il viso della ragazza. Stava quella appoggiata ad un basso mobile di legno e lo guardava fisso ma di sottecchi, tenendo con una mano una folta ciocca di capelli a lato del viso. L’aria indispettita. “Che cosa succede?”
“Temo di aver sognato.” Rispose il ragazzo, con noncuranza malcelata.
“E cosa c’è di male in questo? Niente. Niente per cui temere di farlo.” Eppure anche lei avvertiva qualcosa di indefinito nell’indifferenza sibilante della voce e dietro quelle poche parole.
“Ed il sogno era un ricordo.” Concluse l’altro, tornando a guardare il cielo di fuori. “Niente fantasie immaginifiche.” Riprese parlando più a sé stesso che a lei. “C’ero io, quel luogo, quella notte. E fu tutto istante.”
“Edward, di che cosa stai parlando?” Le uscirono di bocca parole amare, e da qualche parte sentì che forse avrebbe dovuto sputargliele addosso, invece che levigargliele sulla guancia. Eppure lei era lì, avvicinatasi, dolce e quieta, all’amato capo, accarezzando i capelli lisci che gli parlavano di notti senza sonno e movimenti selvaggi. E le labbra sulla pelle fredda e le verdi parole imploranti.
“Di una persona che ho visto. Che ho conosciuto. E che stanotte ha spostato menti e costellazioni, palazzi e sospiri, per giungere dove sono ora e farmi domandare: dove mai si troverà, in questo preciso momento?”
Edward, teneramente, abbracciò la ragazza, e volle per lei il meglio che lui potesse darle. Desiderò per quel cuore grato tutto quello che di bello un uomo vorrebbe dare alla propria amata. Si disse che amava e che di altro Amore veniva ricambiato, ma non in egual misura. Sebbene di infiniti ancora si trattasse. Ed in quella notte lo avvertii più finemente. Un battito irregolare lo scuoteva e recava un altro nome, molto lontano ma davvero ancora così forte. Non avrebbe potuto amare più di così. A nessun altro avrebbe concesso o promesso di concedere tanto.
La ragazza si irrigidì. Quale persona?
“Anita,” disse il ragazzo, con tono fermo. Ma quella non rispose, nascondendo il proprio viso sotto il mento di Edward. “Anita, io ti amo.” E lo disse con assoluta sincerità. Sentiva chiaramente il proprio cuore scaldarsi con garbo a tali parole. Era libero, come se nessuna altra fosse mai esistita a parte la sua dolce Anita. Ma c’era.
“Chi aspetti, Ed? Cosa ancora speri?” La voce di Anita era timida, ma fresca, di nuovo. Forse intuiva, forse capiva.
“Io, sinceramente, non lo so.” Qualcosa che non ha da essere sperato, né aspettato, concluse fra sé e sé.
“Edward, anche io ti amo. Dal profondo del mio cuore.” Anita si alzò sulle punte, dopo aver deciso di mostrargli nuovamente il viso. Lo baciò. Come sempre, con trasporto.
Forse era proprio quello il punto in cui lui sarebbe venuto meno. Nel profondo del proprio cuore. Egli aveva già nascosto qualcuno nell’ultima cella dell’ultima ala della rocca. E non avrebbe certo ardito a tornarvici e raccattare da quei luoghi sconfinati altro Amore per Anita.
“Mi ami davvero? Più di ogni altra donna pensata con Amore?” La domanda innocente della ragazza lo stupì ed in verità lo colse alla sprovvista. L’unica risposta che seppe trovare fu: “Ti amo infinitamente, piccola mia.”
Alla giovane bastarono quelle parole, si volse indietro e trascinando Edward da una mano lo spinse di nuovo a sedere, sul panno sgualcito al caldo del quale fino a pochi minuti prima entrambi dormivano, abbracciati, chiusi nell’intimità di una stanza vuota, solo per loro. La festa di capodanno era stata lunga e gli altri avrebbero dormito ancora molto.
Lei per prima si sdraiò.
“Vieni.” Disse con finta malizia.
Risero entrambi.
L’ombra era passata, e forse mai era davvero calata sulle fronti di quei due sinceri amanti.
“Signorina, la sua voce mi comunica intenzioni poco consone al suo rango.” Scherzò Edward, caricando il tono di una nobiltà fraudolenta.
“Oh, mio giovane signore, la carne è pur sempre carne e pure le principesse hanno bisogno di sfogare umani istinti, non crede? Per cui, quale migliore opportunità di un nobile cavaliere quale voi siete.”
“E’ ben tardi, o ben presto. Forse c’è chi non si è ancora addormentato. Chi magari sta per svegliarsi. Tutto questo è rischioso, principessa.”
L’eco dell’ultima parola che aveva pronunciato fu stoicamente tenuto a tacere. Il sorriso sarebbe voluto venir meno, ma egli lo trattenne eroicamente incastrato fra le sue guance.
Per un ultimo istante visse in un mondo fatto di lei, ancora di lei. Quella persona lontana, mai dimenticata, mai dimenticabile, che avrebbe condiviso senza saperlo ogni suo pensiero, a cui lui avrebbe dedicato un bel mattino, o un romantico tramonto. Il cui nome sarebbe stato nominato in silenzio dietro ad occhi indagatori, fra sorrisi informi, e nell’ipocrisia dilagante di un mondo fatto di ipocriti che negano la propria ipocrisia. Le celle, per un solo indomabile attimo, furono tutte spalancate ed egli vide visi, espressioni, sentimenti fatti in musica, cornici, chiacchiere sotto un cielo che schernisce ma non riesce a colpire, iridi senza ritorno, viaggi senza méta, notti senza sonno, mattini senza voglia, onde gobbe e dalle voci gutturali, bianchi baci, sincere carezze, vogliose intensità d’occhi, lacrime d’abbandono, momenti inattesi, minuti insperati, tempi che rimanevano a mezzo passato e futuro, presenti solfeggianti di decisa volontà, fiammelle di feste e sale spiegate, odori invitanti, parole appena accennate, tentati passi incerti e poi presi di forza, litigi, incomprensioni, risa di pronta guarigione, speranze ininterrotte, speranze infrante, delusioni, indulgenze, menzogne, verità saettanti, fulmini e tuoni in una notte di pioggia e due mani che si stringevano fra loro, diverse ma dello stesso calore, occhi nell’oscurità ma che mai, nemmeno persi in essa, mancavano del loro colore, sorrisi che colpiscono fin dentro le ossa e fanno tremare, coscienza di fortune che mai nessuno nel lungo corso della storia ha potuto assaporare a quel modo, e conoscenza, esperienza, sentenziosa vita.
“Ti amo.” Disse, alfine.
“Anche io ti amo.” Gli rispose Anita, e dunque lo prese dai fianchi, tirandolo a sé. Cominciò a baciarlo sul fianco destro, profondamente, salendo poi fino al petto e prima di arrivare al collo indugiò sulla spalla. Forti brividi percorrevano il corpo dell’amante il quale, piano piano, ricominciava ad assaporare il calore delle labbra della ragazza. A quella piacevole sensazione lui dimenticò di nuovo tutto, riponendo ogni cosa, però, con il consueto riguardo entro le rispettive mura.

Il guardiano delle carceri dell’ultima ala della rocca stava sapientemente armeggiando con le chiavi dei lucchetti quando volle ancora una volta, prima di chiudere il portone, guardare all’interno. Ammirò i cieli e le terre, dai colori inusitati, ed ebbe a chiedersi se mai avesse potuto entrarvi, vivere in quei giardini che brillano perché due soli e due lune vi danzano screziando i propri raggi del colore dell’erba. Assaggiare rosse mele, bianche sul fianco. E fiumi di acqua impalpabile, liscia e tesa, che avresti paura a doverne assaggiare un poco per non doverne morire alla vista. E foreste oscure, fronde sospinte da un vento caldo che le smuove e le fa risuonare di imperioso tormento.
Ma il guardiano ben sapeva quale fosse il suo compito, chiudere quel lontano e sofferto prigioniero entro limiti nascosti, eppure in lui restava quella speranza inaudita, saputa assurda, coscientemente impossibile a realizzarsi, ma continuava ad esserci, come il richiamo di un tempo troppo lontano per essere considerato. E’ laggiù che la speranza brilla ancora, dove il tempo forse più non conterà, ai limiti di baie e faraglioni, mari in tempesta, sul punto estremo di spazio, stelle e cielo. Una speranza impossibile diventa forse probabile nello spazio e nel tempo impossibile? Dubitando di questo egli chiudeva il portone e serrava i lucchetti. Ma già da dentro gridavano i mille cieli e le grandi terre, d’estetismo ridente vivevano queste ultime ed d’un testardo agnosticismo si eran ripieni i primi.

“Ti amo.” Disse Edward, ansimando, goduto l’amplesso. E accarezzava con mani affettuose il caldo seno di Anita, salendo di quando in quando fino al mento. E la guardava.
Lei già dormiva, vinta dal torpore di un piacere fino in fondo goduto ed ora coccolata entro braccia forti e caldi pensieri d’Amore.
Le stelle stavano svanendo, l’alba era vicina. Lui diede un altro sguardo alla volta che si schiariva, stemperando dietro ai monti alle spalle dei palazzi. Proprio non lo volete, il mio ricordo? Pensò tristemente.
“Una speranza impossibile diventa forse probabile nello spazio e nel tempo impossibile?” Edward pronunciò queste parole con reverenza, dando forma al mulinello di pensieri che l’avevano ossessionato durante la notte, dopo il sogno e durante, sì, anche il rapporto con Anita.
“Una speranza…impossibile…spazio e tempo…impossibile…” era perso in quella domanda così perdutamente irrazionale. Aveva davvero perduto la capacità di ragionare.
E attorno a lui la vita tornava. Una risata nella stanza di fianco gli annunciò che Eileen era sveglia.
L’indifferenza lo colse di slancio.
Impossibile, si disse. Ma aspettava una casa sul mare, mentre viveva la sua vita senza volerla.

[SM=x346125]
§Johan Razev§
[Modificato da Johan 18/09/2008 04:19]

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"Possiamo solo decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso" Gandalf
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"Venite amici che non è tardi per scoprire un mondo nuovo.
Io vi propongo di andare più in là dell'orizzonte
E se anche non abbiamo l'energia
che in giorni lontani
mosse la terra e il cielo,
siamo ancora gli stessi,
unica eguale tempra di eroici cuori
indeboliti forse dal fato
ma con ancora la voglia di combattere
di cercare
di trovare
e di non cedere." A. Tennyson - Ulysses -
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Veramente Immenso

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