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Che c'entra "la teoria della mente bicamerale" con le religioni e con gli UFO?

Ultimo Aggiornamento: 16/09/2008 11:18
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16/09/2008 11:18

Il punto: "La teoria della mente bilaterale e le religioni"
da www.ilpalo.com
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 97
La religione degli antichi greci
Secondo un’idea tradizionale e generalizzata non ci fu una vera religione in Grecia fino al IV secolo a.C. e gli dèi dei poemi omerici sarebbero semplicemente una «gaia invenzione di poeti », come è stato detto da illustri studiosi.4 Questa idea erronea si deve al fatto che la religione è concepita come un sistema di etica, una sorta di subordinazione a dèi esterni nello sforzo di comportarsi in modo virtuoso. E in effetti in questo senso gli studiosi hanno ragione. Dire però che gli dèi dell’Iliade siano un’invenzione degli autori del poema significa fraintendere completamente il senso degli eventi. I personaggi dell’Iliade non hanno momenti in cui si fermano a riflettere sul da farsi. Non hanno come noi una mente cosciente, e certamente non hanno la facoltà dell’introspezione. Per noi, esseri dotati di soggettività, è impossibile renderci conto in modo adeguato di tale situazione. Quando Agamennone signore di popoli sottrae ad Achille la sua amante, è una dea ad afferrare Achille per la chioma bionda e ad ammonirlo a non colpire Agamennone (I, 197 sgg.). E una dea che sorge poi dalle spume del mare e lo consola nel suo pianto d’ira sulla spiaggia presso le nere navi, è ancora una dea che sussurra a Elena di togliersi dal cuore la nostalgia per la patria lontana, è una dea che avvolge Paride in una nebbia proteggendolo così dall’attacco di Menelao, è un dio che induce Glauco a scambiare le sue armi d’oro per armi di bronzo (VI, 234 sgg.), sono dèi che guidano gli eserciti in battaglia, che parlano a ogni guerriero nei momenti decisivi, che discutono e dicono a Ettore che cosa deve fare, che spronano i guerrieri o li sconfiggono gettando incantesimi su di loro o diffondendo nebbie nel loro campo visivo. Sono gli dèi che danno inizio alle contese fra uomini (IV, 437 sgg.), che sono la vera causa della guerra (III, 164 sgg.) e ne decidono poi la strategia (II, 56 sgg.). E una dea che fa promettere ad Achille che non andrà in guerra, un’altra che lo sollecita ad andare, e un’altra che lo avvolge in un fuoco dorato che sale fino al cielo, e grida attraverso la gola di lui sul campo coperto di sangue verso i troiani, suscitando in loro un panico incontrollabile. Insomma, gli dèi prendono il posto della coscienza.
Le azioni non trovano il loro inizio in piani, ragioni e motivi coscienti, bensì nelle azioni e nei discorsi di dèi. Per un’altra persona che lo osservi, un uomo sembra la causa del proprio comportamento, ma tale non appare a se stesso. Quando, verso la fine della guerra, Achille ricorda ad Agamennone come questi gli ha sottratto la
sua amante, il signore di popoli dichiara: «Non io fui la causa di tale atto ma Zeus e la mia parte e le Eninni che camminano nel buio: furono loro che nell’assemblea gettarono la furiosa ate su di me il giorno che io tolsi arbitrariamente ad Achille la sua preda. Che cosa dunque potevo fare? Gli dèi la vincono sempre» (XIX, 86-90). Che questa non fosse una particolare invenzione di Agamennone per sottrarsi alle sue responsabilità risulta chiaro dalla disponibilità di Achille, che obbedisce anche lui ai suoi dèi, ad accettare senza riserve questa spiegazione. Gli studiosi che, nel commentare questo passo, dicono che il comportamento di Agamennone è diventato «estraneo al suo io », non si spingono molto lontano. Il problema è infatti: qual è la psicologia dell’eroe dell’Iliade? E io sostengo che egli non aveva alcun io.
Il poema stesso non è opera di uomini nel nostro senso. Le sue prime tre parole sono Menin aeide thea, «Canta l’ira, o dea!». E l’intero racconto epico che segue è il canto della dea che l’aedo posseduto «udì» e cantò ai suoi ascoltatori dell’età del ferro fra le rovine del mondo di Agamennone.
Se noi mettiamo da parte tutti i nostri preconcetti sulla poesia e consideriamo il poema come se non avessimo mai sentito parlare prima di poesia, siamo colpiti immediatamente dalla qualità anormale del discorso. Oggi chiamiamo tale qualità «metro». Ma quanto sono diversi questi esametri dalla scansione costante dal miscuglio disordinato di accenti del parlare comune! La funzione del metro in poesia è quella di guidare l’attività elettrica del cervello e quasi certamente di allentare le normali inibizioni emozionali sia del cantore sia dell’ascoltatore. Una cosa simile si verifica quando le voci di schizofrenici parlano in frasi nitmate o in rima. Tranne che per le aggiunte posteriori, quindi, il poema epico stesso non fu composto né ricordato coscientemente, ma fu modificato in momenti successivi e in modo creativo con non più consapevolezza di quella che un pianista ha della sua improvvisazione.
Chi erano dunque questi dèi che muovevano gli uomini come se fossero automi e che cantavano poesia epica attraverso le loro labbra? Erano voci, le cui parole e le cui istruzioni potevano essere udite dagli eroi dell’Iliade così distintamente come le voci udite da certi pazienti epilettici e schizofrenici o come le voci udite da Giovanna d’Arco. Gli dèi erano organizzazioni del sistema nervoso centrale e li si può considerare come personae, nel senso di forti presenze costanti nel tempo, amalgami di immagini parentali o ammonitonie. Il dio è parte dell’uomo, e del tutto coerente con questa concezione è il fatto che gli dèi non escono mai dall’ambito delle leggi naturali. Gli dèi greci, diversamente dal dio ebraico del Genesi, non possono creare qualcosa dal nulla. Nei rapporti fra il dio e l’eroe ci sono le stesse cortesie, emozioni, la stessa opera di convincimento che si riscontrano nei rapporti fra persone. Il dio greco non appare tra scoppi di tuono, non suscita mai soggezione o timone nell’eroe ed è lontanissimo dal dio esageratamente pomposo di Giobbe. Egli semplicemente guida, consiglia e ordina. Né il dio infonde un senso di umiltà o addirittura di amore, e ben poca gratitudine. Anzi, io sostengo che il rapporto fra il dio e l’eroe era simile —essendone di fatto l’antecedente — al referente del rapporto fra Io e Super-io in Freud o del rapporto del sé con l’altro generalizzato di Mead. L’emozione più forte che l’eroe sente nei confronti di un dio è lo sbigottimento o la meraviglia, il genere di emozione che noi sentiamo quando emerge improvvisamente nella nostra mente la soluzione di un problema particolarmente difficile, o che risuona nell’eureka! di Archimede nella vasca da bagno.
Gli dèi sono quelle che noi oggi chiamiamo allucinazioni. Di solito essi sono visti e uditi solo dai particolari eroi cui si rivolgono. A volte si presentano avvolti da una nebbia o emergono dalla spuma del mare o da un fiume, o scendono dal cielo, il che suggerisce che sono preceduti da un’aura visuale. Altre volte, penò, compaiono semplicemente. Di solito si presentano direttamente con la loro identità, spesso come semplici voci, ma a volte assumono l’aspetto di persone molto vicine all’eroe.
Particolarmente interessante sotto questo aspetto è il rapporto di Apollo con Ettore. Nel canto xvi Apollo si presenta a Ettore sotto le sembianze dello zio materno; nel canto xvii come uno dei capi alleati; più avanti nello stesso canto egli assume l’aspetto del suo più caro amico straniero. L’episodio conclusivo del poema si apre con Atena che, dopo aver detto ad Achille di uccidere Ettore, si presenta a quest’ultimo sotto le sembianze del suo amato fratello Deifobo. Prendendolo fiduciosamente per padrino, Ettore sfida Achille, chiede a Deifobo un’altra lancia, si volge e non vede nulla. Noi diremmo che ha avuto un’allucinazione. Lo stesso vale per Achille. La guerra di Troia fu diretta da allucinazioni. E i guerrieri che venivano comandati in tal modo non erano affatto simili a noi. Erano nobili automi che non sapevano quel che facevano.
Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale”, Adelphi pag. 101
L’Iliade è un poema che parla di azione ed è pieno di azione: un’azione costante. Esso concerne in effetti gli atti di Achille e le loro conseguenze, non la sua mente. E quanto agli dèi, tanto gli autori dell’Iliade quanto i suoi personaggi sono tutti d’accordo nell’accettare questo mondo governato divinamente. Dire che gli dèi sono un artificio poetico sarebbe come dire che Giovanna d’Arco parlò all’Inquisizione delle sue voci solo per dare un’immagine più efficace della situazione a coloro che si accingevano a condannarla.
Non è che prima compaiano le vaghe idee generali della causalità psicologica e poi il poeta dia loro una forma visiva concreta inventando gli dèi. È invece, come vedremo più avanti in questo libro, l’esatto contrario. E quando viene suggerito che i sentimenti interioni di forza o gli ammonimenti interiori o le perdite di giudizio sono i germi da cui si sviluppò il meccanismo degli dèi, io replico che la verità è esattamente opposta, ossia che la presenza di voci a cui si doveva obbedire fu l’assoluta condizione preliminare alla fase cosciente della mente in cui il responsabile è il sé, che può discutere con se stesso, che può ordinare e dirigere, e la cui creazione è il prodotto della cultura. In un certo senso, noi siamo diventati i nostri stessi dèi.
Obiezione: Se fosse esistita una tale mente bicamerale, ci si potrebbe attendere un caos estremo, in cui ciascuno seguiva le proprie allucinazioni private. L’unico modo in cui potrebbe esistere una civiltà bicamerale sarebbe quello di una gerarchia rigida, con un numero ridotto di uomini che hanno esperienze allucinatorie di voci di autorità superiori, autorità soggette a loro volta alle voci allucinatorie di altre ancora maggiori, sino ad arrivare ai re e ai loro pari, che ascoltano direttamente nelle loro allucinazioni le voci degli dèi. Ma l’Iliade non presenta alcun quadro del genere, e si concentra direttamente sull’individuo eroico.
Risposta: Questa è un’obiezione molto efficace che mi mise in imbarazzo per lungo tempo, specialmente quando studiai la storia di altre civiltà bicamerali nelle quali non c’era quella libertà di azione individuale che esisteva invece nel mondo sociale dell’Iliade.
Le tessere mancanti nel puzzle risultano essere le ben note tavolette nella Lineare B rinvenute a Cnosso, Micene e Pilo. Esse furono scritte direttamente in quello che io chiamo il periodo bicamerale. Note da molto tempo, hanno resistito tenacemente agli sforzi più vigorosi dei cnittografi. Recentemente si è potuto però decifrarle, ed è stato dimostrato che contengono una scrittura sillabica, la forma più antica di greco scritto, usata solo a scopi amministrativi, per la registrazione di documenti. Questi testi ci forniscono un quadro sommario della società micenea che si accorda molto di più con l’ipotesi di una mente bicamerale: gerarchie di funzionari, soldati o lavoratori, inventari di derrate, elenchi di merci dovute al sovrano e particolarmente agli dèi. Il mondo della guerra di Troia, quindi, era nella realtà storica molto più vicino alla rigida teocrazia predetta dalla teoria che non al libero individualismo descritto dal poema.
La struttura stessa dello Stato miceneo è inoltre profoiìdamente diversa dall’insieme di guerrieri più o meno autonomi descritto nell’Iliade ed è assai vicina all’organizzazione dei contemporanei regni teocratici della Mesopotamia (si veda soprattutto alle pp. 218 sgg.).
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