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Il Paziente del letto 35

Ultimo Aggiornamento: 11/09/2008 06:58
11/09/2008 06:58
 
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Tratto da una storia vera.
Il paziente del letto 35

I mesi in ospedale visti da un giovane paziente. Le sue paure, le sue speranze. Per fortuna, alle volte, si guarisce e tutto rimane un ricordo dal sapore indecifrabile.
Uno, due, tre, una bolla d’aria e poi ancora uno, due tre. Sono due giorni che le gocce nel deflussore seguono questo ritmo incessante. Uno, due tre, ogni tanto vengono a controllare. Controllano le altre flebo e mi controllano il polso, poi vanno via.
C’è sempre papà qui accanto a me, sembra immobile, non si è mai allontanato. La mamma viene solo al mattino, ma ha sempre quegli occhi pieni di lacrime e il naso rosso come un peperone che non me la sento di guardarla e neppure di parlale.
Il tempo scorre lento al ritmo della goccia che scende giù, è il quarto giorno che sono qui e mi hanno già operato due volte. Riesco a stare sveglio per poco tempo, poi ricado in un sonno profondo. Quando mi sveglio noto qualcosa di diverso. Insieme alle solite flebo adesso c’è una grossa sacca bianca, che somiglia al color delle pappe dei neonati, forse è per questo che non mi danno da mangiare?
Poi c’è una macchinetta con il display che segna sempre il numero 12. Ogni tanto lampeggia. C’è un segnalatore acustico che suona. Allora quando succede si precipita qualcuno del personale di corsa, per vedere cosa c’è che non và. Alle volte è solo una bolla d’aria, alle volte la flebo che è attaccata a questa macchinetta che chiamano pompa d’infusione finisce e devono sostituirla.
Su questa flebo c’è una grande scritta rossa con tre lettere MRF. Non ci vuole tanto a capire che è morfina.
La notte è terribile, soffro di dolori lancinanti e lo dico a papà che chiama il personale. Arriva l’infermiera biondina ed aumenta la pompa e sul display adesso c’è il numero 18. I dolori si sono placati, ma c’è L’Uomo Ragno che volteggia su e giù per le pareti. Lo dico a papà che chiama ancora il personale e il display torna a segnare 12 ed io mi assopisco.
Al mattino papà non viene fatto uscire insieme agli altri parenti della camera. Le infermiere tutte piccoline e senza il sollevatore hanno bisogno di lui che sollevi i miei 90 kili di peso. Quando papà mi solleva loro possono lavarmi, medicarmi e cambiare la biancheria del letto. Così ogni mattina ho sempre lenzuola fresche e pulite. Alle volte rimane lo zio Censo e pure a lui è riservato lo stesso trattamento di favore di papà.
Mi scoprono, mi lavano e mi fanno restare lunghi minuti nudo. I primi giorni m’imbarazzavo terribilmente, cristo sono tutte donne! Adesso invece ho paura di eccitarmi e sarebbe imbarazzante più di prima.
Dopo tre settimane che sono qui mi fanno parlare con lo psicologo. Si, perché a parte lamentarmi per il dolore non dico altro.
Come è successo l’incidente? Mi chiede questo medico. Non lo sanno come è successo? Non c’è scritto forse sulla perizia della polizia stradale? Io mi ricordo solo che stavo tornando a casa con la mia macchina da nolo e mi sono ritrovato contro un muro. Avevi bevuto? Non me lo ricordo se avevo bevuto!Si vedrà dalle analisi se avevo bevuto no? Me li fate quasi tutti i giorni questi prelievi. Ma le sue domande restano senza risposte perché le mie risposte restano nella mia testa. Il paziente è ancora sotto shoc dice a mio padre.
Allora dopo la sua visita ecco che mi portano a fare una TAC ed una Risonanza Magnetica. Altri giri con il mio letto per i corridoi, unitamente a quelli che già mi fanno fare quasi tutti i giorni per le radiografie.
Sento che il personale del reparto mi ha preso a cuore. Infatti, prima ero il paziente del letto 35, quello del 35 dicevano in verità. Poi sono passati a chi amarmi per cognome: Chiaviglio. Ed infine, affettuosamente:Gigi.
Qualcuna delle infermiere mi crede suo figlio, infondo a 24 anni posso esserlo benissimo. Le più giovani mi guardano come se fossi un loro amico. Poi ce n’è una, l’infermiera bionda che mi guarda con occhi dolci ed affettuosi. Marika si chiama, ma so che non è il suo nome.
L’infermiere omosessuale Gino, ha dato il soprannome a tutte le sue colleghe. C’è Ottovolante, l’infermiera grassa che sembra una mamy di colore. C’è Corridore e Cavallo, c’è Milva l’infermiera con la lunga coda di cavallo rossa. C’è Buffa, ma perché la chiamano così se è sempre di malumore? C’è Sbruffis l’infermiera che sbuffa sempre. C’è Nico la neo-laureata che ha la mia età e conosce i miei amici. C’è Divina l’infermiera con le labbra sempre rosso fuoco. E infine lei, la mia preferita Marika.
Per i medici sono solo un caso, una diagnosi che un giorno un tirocinante lesse al primario e alla sua coorte di medici ed assistenti. Politrauma con fratture costali varie, frattura del femore sinistro, frattura tibia e perone sinistro, già ridotte con intervento chirurgico. Frattura trimalleolare esposta della tibia destra, per la quale è stato applicato un fissatore esterno la notte stessa dell’incidente il 2 ottobre. Poi ancora frattura dell’omero e del capitello radiale destro, con conseguente lesione del nervo radiale. Per il quale ho anche un’imbracatura elastica per recuperare la lesione del nervo. Perché non dici anche questo al primario, dato che la lesione al nervo me l’avete procurata in sala operatoria? Ma stai calmo Gigi, se ti mettono sul naso non ti guariscono più.
Mi mettono tutti i giorni su una poltrona a rotelle, visto che non riesco a spostarmi su una normale carrozzina, uno perché hanno le ruote sempre sgonfie e due perché con una sola mano rischio di girare intorno come una trottola.
Dopo quattro mesi d’ospedale di progressi ne ho fatti. Oggi infatti è il grande giorno. Il fisioterapista proverà a mettermi in piedi. E’ sfiduciato quest’uomo perché i precedenti due tentativi sono svenuto generando un piccolo stato di allerta tra le infermiere.
Oggi speriamo vada meglio. Non posso utilizzare le stampelle perché il braccio destro non mi regge e non ha ancora ne forza ne sensibilità. Quindi il fisioterapista decide di provare con il girello ascellare. Mi manca solo il pannolino e il ciuccio e poi sembrerò veramente un poppante.
Qualcuna si è affacciata dall’infermeria, qualcuna da una camera di degenza, stanno facendo il tifo per me, che per la prima volta dopo mesi mi metto in piedi. Sudo freddo e mi gira la testa, guarda in alto e respira profondamente mi dicono, ci provo, ma stringo i denti solo per loro, per le infermiere.
E’ fatta qualche passo sono riuscito a darlo. La gamba sinistra risponde molto bene e le fratture al femore, alla tibia e perone sono state ridotte alla perfezione. La gamba sinistra è invece di marmo, con questo fissatore esterno che pesa come un macigno. Quanto lo dovrò tenere? Mai che nessuno mi dica una data certa. Tutti che invece continuano a dire che ci vuole tempo.
Ma quanto tempo? L’ho chiesto a Marika che mi ha risposto che nessuno mi dirà la data precisa. Per non deludere le aspettative del paziente; è questa la sua risposta.
Ci siamo scambiati i numeri di cellulare e nelle notti lunghe d’inverno, quando lei è di turno ci messaggiamo. Lei dall’ infermeria, io dalla mia camera di degenza.
Una notte le chiedo se possiamo mangiare una pizza nella cucina del reparto, siamo tre carrozzati tutti famelici affamati e lei acconsente.
Alle 3 del mattino i miei compagni di stanza già dormono. Io e Marika ci appartiamo nello studio dei medici. Le chiedo perché mi guarda sempre con quegli occhi affettuosi. Mi dice che assomiglio molto ad una persona che lei ha amato. Ci baciamo. Lei non potrebbe assolutamente, rischia di essere trasferita dal reparto o licenziata. Mi dice che è la prima volta che fa una cosa simile ed io le credo. E’ sincera.
Dopo otto mesi dall’incidente mi muovo bene con le stampelle e sono prossimo alla dimissione, malgrado continuo a portare il fissatore esterno alla gamba destra. Ho recuperato la funzionalità del braccio destro che sembra non aver avuto mai nulla.
Marika mi chiede se una volta dimesso, potremmo mangiare una pizza insieme. Io le rispondo “vedremo”. Mi sento a disagio con queste stampelle e con la pelle, a contatto con il fissatore, che mi purga ancora liquido giallastro.
Lei è venuta all’appuntamento tutta in ghingheri. Che bella ragazza, tutti si giravano a guardarla. Ma io le ho detto: T’inviterò quando sarò guarito. E lei: Magari quando sarai guarito io non ci sarò più.

A Luigi C. Il paziente del letto 35

Mary
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