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La gentilezza sembra poca cosa, anche perché spesso la si confonde con le buone maniere e, in ultima analisi, con il formalismo e l'ipocrisia.
Ma la gentilezza può essere quasi tutto quando diventa il predicato di un cuore. Quando un cuore diventa gentile, ha detto infatti magnificamente Henri Bergson, esso infatti si fa interamente carico della sensibilità dell'altro. Sente il dolore dell'altro prima ancora che esso trovi espressione e lo lenisce anticipatamente. Intuisce un desiderio inespresso e forse ancora informulato e lo soddisfa prima ancora che diventi una consapevole richiesta.
La gentilezza non sarebbe infatti più tale nel caso fosse dovuta.
Questo farsi carico della sensibilità altrui è allora un prendersi cura di natura particolare. È intriso di pudore e di nobiltà. È fatto di pudore perché la vera gentilezza deve essere pressoché invisibile. Il suo passaggio sulle nostre teste è simile allo sfioramento delle ali di un angelo. Un cuore gentile non vuole essere visto. La sua utopia è operare nel segreto e, in ultima analisi, nella misconoscenza. È nobile perché il senso ultimo della nobilità d'animo consiste in uno svuotamento, in una rinuncia all'affermazione del proprio desiderio per il desiderio dell'altro. Essere gentili è, dopotutto, fare spazio all'altro, togliersi di mezzo, come rivela quel piccolissimo ma non insignificante gesto di quotidiana cortesia, che consiste nel lasciare il passo al momento di varcare una soglia. Una comunità "gentile" è infatti una comunità fondata non sul principio plebeo del contratto e dello scambio ma su quello aristocratico del dono e della gratuità.
Qualcuno nel passato ha tradotto “JU” come “Gentile” anziché “Flessibile”, forse aveva questa idea di gentilezza.
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24/08/2007 20:59 |
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