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GRANDI ANIME

Ultimo Aggiornamento: 03/09/2006 19:41
16/08/2006 21:50
 
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C'è poi un aspetto sociale assai rilevante: il 94% di beneficiari dei prestiti Grameen sono donne e ciò perché in gran parte dei paesi sottosviluppati "le donne sono più attente, si preoccupano di costruire un futuro migliore per i figli, dimostrano maggior costanza nel lavoro; il denaro affidato a una donna per la gestione familiare rende più di quanto passa per le mani di un uomo […] Emarginate sul piano lavorativo, svantaggiate sul piano lavorativo, svantaggiate sul piano economico e sociale, le donne costituiscono la maggioranza dei poveri e, per il loro legame con i figli, rappresentano concretamente il futuro del paese".
La filosofia della Grameen è concentrata sul concetto che, per debellare la povertà, sono necessari tre strumenti: una nuova forma di credito, un nuovo concetto delle persone e un diverso quadro istituzionale. Il microcredito ha costituito quella forma di credito di cui i poveri avevano bisogno: prestiti non vincolati al possesso di garanzie.

Finanziare i poveri vuol dire ritenere solvibili soggetti che il sistema bancario mondiale non ha mai ritenuto tali. In questo senso si colloca il nuovo concetto della persona, cioè i poveri come beneficiari di credito, e il diverso quadro istituzionale, il canale bancario che allarga la propria clientela presso le fasce più povere della popolazione. Yunus ha creato il progetto Grameen con l'intento di modificare gli esistenti metodi di gestione del credito, per superarne limiti e contraddizioni. Lo stesso autore motiva tale aspetto dall'esigenza di trasformare la situazione esistente: "La necessità estrema ha spinto Grameen a mettere in discussione quel caposaldo del sistema bancario che è la garanzia […] In realtà la garanzia non serve affatto a tutelare gli interessi della banca; serve a tenere lontana la povera gente […] All'inizio della pratica, la banca commerciale si accerta se il prestito è coperto da una garanzia. Poi si dimentica completamente del cliente. Tornerà a ricordarsene qualora il debito non venga rimborsato". Invece, "mediante visite domiciliari e mensili, Grameen verifica continuamente lo stato di salute finanziaria dei clienti, accertandosi che siano in grado di pagare e che tutta la famiglia benefici dei vantaggi del credito".

Si tratta di un'innovazione di processo di grande rilevanza e quindi anche con grande rischio. "Quando ho cominciato non sapevo se ero nel giusto, non sapevo neanche che cosa andavo a toccare. Mi muovevo alla cieca, accumulando esperienza momento per momento. Nell'arco del tempo, l'obiettivo per il quale ci siamo battuti strenuamente è diventato quello di dimostrare che gli "intoccabili del credito" si possono toccare; anzi, che in realtà vale la pena di tenerseli stretti".
L'ipotesi di fondo che ha reso possibile il realizzarsi di tale progetto è stata quella che, per risolvere il problema della povertà, sarebbe stato necessario concedere opportunità alle persone, facendo leva sulle loro capacità già esistenti; quindi nessun programma preliminare obbligatorio di formazione - come sovente si fa in progetti di aiuti ai paesi sottosviluppati - anche se il prof. Yunus ritiene la formazione assai importante. Questa va data se è un'esigenza del povero e non imposta dall'alto.

Così per dare solide fondamenta all'opera di finanziamenti la Gremeen Bank ha creato un'istituzione denominata SIDE (Studies-Innovation-Development-Experimen- tation) avente lo scopo di trasferire alle povere economie rurali, oltre che capitali, anche conoscenze tecnologiche nonché assistenza per la commercializzazione dei prodotti.

In conclusione, la capacità della Grameen è stata quella di far evolvere un progetto iniziale di successo e di integralo efficacemente. Una strategia che, da una parte, ha creato risultati apprezzabili dal punto di vista prettamente imprenditoriale e, dall'altra, ha introdotto a livello mondiale una via da seguire nella lotta alla povertà.
Prestiti di pochi dollari dati a milioni di donne poverissime e senza alcuna possibilità di dare garanzie, e conti economici delle banche prestatrici con ottima salute in assenza di contributi pubblici: è una bella scommessa e uno stupefacente risultato, specie se si ha presente che riguarda la lotta contro la fame e la povertà e che il microcredito non è soltanto un modo per offrire agli individui maggiori possibilità sul piano economico, bensì un'azione che mobilita il senso di responsabilità delle persone, partendo dai principi che tutti gli esseri umani hanno diritto alla fiducia e che gli esser umani esistono in quanto inseriti in rapporti d'interconnessione e d'interdipendenza.

16/08/2006 22:04
 
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Vandana Shiva



Fisica quantistica ed economista, dirige il Centro per la Scienza, Tecnologia e Politica delle Risorse Naturali di Dehra Dun in India. È considerata la teorica più nota di una nuova scienza: l'ecologia sociale.
Vandana Shiva è nata nel 1952 a Dehra Dun, nell'India del nord, da una famiglia progressista. Ha studiato nelle università inglesi e americane laureandosi in fisica. Tornata a casa dopo aver terminato gli studi, rimase traumatizzata rivedendo l'Himalaya: aveva lasciato una montagna verde e ricca d'acqua con gente felice, poi era arrivato il cosiddetto "aiuto" della Banca Mondiale con il progetto della costruzione di una grande diga e quella parte dell'Himalaya era diventato un groviglio di strade e di slum, di miseria, di polvere e smog, con gente impoverita non solo materialmente. Decise così di abbandonare la fisica nucleare e di dedicarsi all'ecologia.

Nel 1982 ha fondato nella sua città natale il Centro per la Scienza, Tecnologia e Politica delle Risorse Naturali, un istituto indipendente di ricerca che affronta i più significativi problemi dell'ecologia sociale dei nostri tempi, in stretta collaborazione con le comunità locali e i movimenti sociali. Vandana Shiva fa parte dell'esteso movimento di donne che in Asia, Africa e America Latina critica le politiche di aiuto allo sviluppo attuate dagli organismi internazionali e indica nuove vie alla crescita economica rispettose della cultura delle comunità locali, che rivendicano il valore di modelli di vita diversi dall'economia di mercato. L'incontro con le donne del movimento "Cipko", che abbracciano i tronchi che i tagliatori stanno per abbattere nelle foreste dell'Himalaya, ha permesso a Vandana Shiva di ampliare la comprensione di nessi tra ecologia e femminismo.




16/08/2006 22:06
 
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Nel suo libro Staying Alive: Women, Ecology and Survival, pubblicato in Italia nel 1990 col titolo Sopravvivere allo sviluppo, la scienziata denuncia le conseguenze disastrose che il cosiddetto "sviluppo" ha portato nel Terzo Mondo. Lo sviluppo, o piuttosto il "malsviluppo", come lo definisce la scienziata, anziché rispondere a bisogni essenziali minaccia la stessa sopravvivenza del pianeta e di chi vi abita. Le conseguenze dello "sviluppo" sono la massiccia distruzione ambientale, un enorme indebitamento che spinge i paesi a fare programmi di aggiustamento strutturale basati sulla scelta di spendere meno in salute pubblica, scolarizzazione e sussistenza rendendo la gente più povera.

Si verifica così la distruzione di culture e di altri modi di vivere per far posto a culture competitive il cui grado di civiltà è dato solo dal mercato. Il danno maggiore prodotto dalla civiltà industriale, secondo Vandana, è stata l'equazione donna-natura e la definizione di entrambe come passive, inerti, materia prima da manipolare. A suo avviso invece "le donne sono le depositarie di un sapere originario, derivato da secoli di familiarità con la terra, un sapere che la scienza moderna baconiana e maschilista ha condannato a morte". Per il patriarcato occidentale la cultura è altro dalla natura, dalla donna e così gli uomini hanno creato uno sviluppo "privo del principio femminile, conservativo, ecologico" e fondato "sullo sfruttamento delle donne e della natura".




16/08/2006 22:08
 
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Nel 1991 Vandana Shiva ha fondato Navdanya, un movimento per proteggere la diversità e l'integrità delle risorse viventi, specialmente dei semi autoctoni (native seeds) in via di estinzione a causa della diffusione delle coltivazioni industriali. Nella visione di Vandana Shiva, la riproduzione femminile e la riproduzione agricola sono due processi vitali che hanno la stessa capacità di sottrarsi e di resistere alla mercificazione. La possibilità delle donne di concepire e la possibilità dei semi di autogenerarsi sono entrambi processi naturali gratuiti, dove la legge del mercato è stata costretta a fermarsi. Ma come le donne sono state lentamente espropriate, attraverso la scienza maschile occidentale del loro corpo e del sapere sul loro corpo, così i contadini vengono espropriati del sapere sui loro semi.
Nel mondo sviluppato, il primo passo nella direzione della espropiazione è stato proprio quello di introdurre piante sterili costruite attraverso la biotecnologia in laboratorio, per aumentare la produttività e, in teoria, per limitare l'uso dei pesticidi. In realtà questa perdita di diversità biologica fa sì che le coltivazioni siano invece molto più vulnerabili agli attacchi dei parassiti e soprattutto costringe i coltivatori a ricomprare i semi per ogni semina. Come se non bastasse, le multinazionali agro-chimiche si impossessano dei semi selezionati dal lavoro millenario dei contadini del Terzo mondo, per analizzarli e registrarli con un vero e proprio brevetto, per rifarli in laboratorio e rivenderli a caro prezzo o obbligare i contadini di quegli stessi paesi a pagare il "diritto d'autore" dei semi, al momento della semina. Anche per aver denunciato tutto questo Vandana Shiva è stata premiata nel 1993 con il "Right livehood award", ritenuto il Premio Nobel alternativo.













16/08/2006 22:09
 
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Nello stesso anno ha scritto Monocultures of the Perspectives on Biodiversity and Biotechnology, pubblicato in Italia col titolo Monoculture della mente. Biodiversità, biotecnologia e agricoltura scientifica, una raccolta di cinque saggi che riflette sulle cause della scomparsa della diversità e sulle sfide da vincere per contrastarla. In questo lavoro la scienziata sostiene che la diversità vivente della natura è un'alternativa alla monocultura, all'omogeneità e all'uniformità e corrisponde alla diversità vitale delle culture come fonte di ricchezza.
Nei saggi sulla biodiversità e sulla biotecnologia scritti come documenti di lavoro per la Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, Vandana Shiva denuncia gli interessi che stanno dietro le biotecnologie, contesta che queste possano migliorare le specie naturali e sottolinea i problemi etici e ambientali che pongono.

Nel 1995 ha scritto insieme all'economista tedesca Maria Meis il libro Ecofeminism, dimostrando ancora una volta che donne di culture diverse possono capirsi e lavorare insieme. Nel 1999 ha pubblicato Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi locali. E' del 2001 il testo Vacche sacre e Mucche pazze. Il furto delle riserve alimentari globali.
Vandana Shiva è attualmente considerata la teorica più significativa dell'ecologia sociale ed è una dei leader dell'International Forum on Globalization.




16/08/2006 22:25
 
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Iqbal Masih


Era nato nel 1983 Iqbal Masih e aveva quattro anni quando suo padre decise di venderlo come schiavo a un fabbricante di tappeti. Per 12 dollari.
E' l'inizio di una schiavitù senza fine: gli interessi del "prestito" ottenuto in cambio del lavoro del bambino non faranno che accrescere il debito.
Picchiato, sgridato e incatenato al suo telaio, Iqbal inizia a lavorare per più di dodici ore al giorno. E' uno dei tanti bambini che tessono tappeti in Pakistan; le loro piccole mani sono abili e veloci, i loro salari ridicoli, e poi i bambini non protestano e possono essere puniti più facilmente.
Un giorno del 1992 Iqbal e altri bambini escono di nascosto dalla fabbrica di tappeti per assistere alla celebrazione della giornata della libertà organizzata dal Fronte di Liberazione dal Lavoro Schiavizzato (BLLF). Forse per la prima volta Iqbal sente parlare di diritti e dei bambini che vivono in condizione di schiavitù. Proprio come lui. Spontaneamente decide di raccontare la sua storia: il suo improvvisato discorso fa scalpore e nei giorni successivi viene pubblicato dai giornali locali. Iqbal decide anche che non vuole tornare a lavorare in fabbrica e un avvocato del BLLF lo aiuta a preparare una lettera di "dimissioni" da presentare al suo ex padrone.


[Modificato da sissy66 03/09/2006 19.30]

16/08/2006 22:26
 
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Durante la manifestazione Iqbal conosce Eshan Ullah Khan, leader del BLLF, il sindacalista che rappresenterà la sua guida verso una nuova vita in difesa dei diritti dei bambini. Così Iqbal comincia a raccontare la sua storia sui teleschermi di tutto il mondo, diventa simbolo e portavoce del dramma dei bambini lavoratori nei convegni, prima nei paesi asiatici, poi a Stoccolma e a Boston: «Da grande voglio diventare avvocato e lottare perché i bambini non lavorino troppo». Iqbal ricomincia a studiare senza interrompere il suo impegno di piccolo sindacalista.
Ma la storia della sua libertà è breve. Il 16 aprile 1995 gli sparano a bruciapelo mentre corre in bicicletta nella sua città natale Muridke, con i suoi cugini Liaqat e Faryad. «Un complotto della mafia dei tappeti» dirà Ullah Khan subito dopo il suo assassinio. Qualcuno si era sentito minacciato dall'attivismo di Iqbal, la polizia fu accusata di collusione con gli assassini. Di fatto molti dettagli di quella tragica domenica sono rimasti poco chiari
Con i 15 mila dollari del Premio Reebok per la Gioventù in Azione ricevuti nel dicembre '94 a Boston, Iqbal voleva costruire una scuola perché i bambini schiavi potessero ricominciare a studiare...


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Ali per volare (dedicato a Iqbal Masih) di Rino Martinez


Sui marciapiedi, bambini di strada, camminano lenti senza speranza
le mani tremanti e il volto scavato di chi non ha niente
chiedono amore a chi lo sa dare,
un pezzo di pane, magari un sorriso, sincero
due mani tese alla vita, prima di rassegnarsi a restare da soli.
Piccoli schiavi venduti al mercato,sono milioni di facce, di occhi innocenti, nessuno li sente?!
alcuni soldati, altri spacciano droga,
storie di fame, violenze e ingiustizie, d'inganni
nei loro sguardi c'è orrore, c'è tanta tristezza, non entra mai il sole
un'infanzia è negata senza ali per volare
troppe le vite spezzate, sfruttate i bambini hanno diritto di sognare.

Iqbal Masih, il tuo sorriso arriverà, in ogni parte del mondo
dove i bambini di strada, sognano un angelo accanto.
Quanti non hanno la forza di urlare, subiscono e piangono dentro,
per loro dobbiamo lottare
costruiamo le ali, per chi cerca un pò di sereno,
mai più spine, solo ali per volare.
Iqbal sognava una vita diversa, fatta di uomini giusti e amore sincero
ma un giorno, qualcuno, ha deciso di spegnere la sua breve vita.
Iqbal è una luce che illumina il cielo,
per milioni di bimbi che aspettano un dono importante
mai più ferite che lasciano il segno, mai più fame o sete
mai più guerre,violenze, colla……. mai più!
Iqbal Masih, il tuo sorriso arriverà, in ogni parte del mondo
dove i bambini di strada, sognano un angelo accanto.
Quanti non hanno la forza di urlare, subiscono e piangono dentro,
per loro dobbiamo lottare
costruiamo le ali, per chi cerca un po di sereno,
mai più spine, solo ali per volare.
Quanti, non hanno la forza di urlare, subiscono e piangono dentro
per loro dobbiamo lottare
costruiamo le ali, per chi cerca un pò di sereno
mai più spine, solo ali per volare… Sui marciapiedi bambini di strada



[Modificato da sissy66 03/09/2006 19.32]

18/08/2006 19:45
 
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Alexander Langer



Alexander Langer nacque il 22 febbraio 1946 a Vipiteno, figlio di un ebreo non praticante di origine viennese e di un'italiana. Allora le differenze etniche causavano attentati autonomisti e i suoi genitori, per tutelare il suo futuro, lo iscrissero all'asilo italiano, affinché imparasse bene la nostra lingua. In lui confluivano dunque radici italiane, tedesche ed ebraiche. Per spiegare le sensazioni provate scrisse: "E' sempre complicato spiegare da dove vengo. 'Ma allora sei italiano o tedesco?' Nessuna delle bandiere che svettano davanti a ostelli o campeggi è la mia. Non ne sento la mancanza. In compenso riesco, con il tedesco e l'italiano, a parlare e a capire nell'arco che va dalla Danimarca alla Sicilia." Frequentò il liceo dei francescani a Bolzano e qui fondò il suo primo periodico bilingue, intitolato "Offenes Wort - Parola aperta", sul quale pubblicò un'intervista al locale segretario del Partito Comunista Italiano nonostante l'impronta religiosa della scuola. Dal 1964 al 1967 studiò giurisprudenza a Firenze e qui conobbe Valeria, che sposò nel 1985. Divenne amico del sindaco Giorgio La Pira, che era suo professore, e di padre Ernesto Balducci. Conobbe don Lorenzo Milani e la sua scuola di Barbiana e nel 1970 tradusse in tedesco il suo libro Lettera a una professoressa. Imparò diverse lingue e vari dialetti e sviluppò la sua naturale predisposizione al dialogo e all'incontro con gli altri. Gli anni dell'università segnarono il suo avvicinamento agli ideali religiosi e militò per breve tempo nella Federazione Unitaria Cattolica Italiana, attratto dalla vasta eco che aveva il Concilio Vaticano II, ma se ne allontanò man mano che conobbe gli elementi del dissenso cattolico fiorentino. Egli concepiva una Chiesa capace di adempiere alla funzione di servizio dell'umanità e secondo quest'ottica avrebbe voluto operare per una democratizzazione delle sue strutture.


18/08/2006 19:46
 
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Svolse supplenze in licei classici di lingua tedesca a Bolzano e a Merano e poi una borsa di studio di un anno a Bonn gli diede la possibilità di far conoscere in diversi Paesi dell'Europa centrale il fermento che contraddistingueva la lotta politica italiana in quegli anni. In una raccolta di appunti annotò: "Sul mio ponte si transita in entrambe le direzioni e sono contento di poter contribuire a far circolare idee e persone". Verso la fine degli anni Sessanta si dedicò totalmente al suo Sud Tirolo - Alto Adige, impegnandosi per far comprendere ai suoi conterranei che l'unica alternativa al conflitto degli attentati poteva provenire sperimentando la convivenza tra diverse etnie, nel rispetto reciproco. Nel 1967 diede vita a Bolzano al gruppo "Die Brucke / Il ponte", frequentato tra gli altri dall'assessore provinciale alla sanità Lidia Menapace. Scrisse un articolo che propugnava l'eliminazione dell'esercito italiano, cosa che gli costò una denuncia per vilipendio alle istituzioni costituzionali e alle Forze armate, dal quale fu assolto per insufficienza di prove nel 1972, poco prima di iniziare il servizio militare nel corpo degli artiglieri di montagna di stanza a Saluzzo.
Verso la fine del 1970 aveva aderito a Lotta Continua (L.C.), formazione extraparlamentare capeggiata da Adriano Sofri, Mauro Rostagno e Luigi Bobbio, che contestava da sinistra il Partito Comunista Italiano e i sindacati. Non aveva più di tremila iscritti, ma le sue manifestazioni avevano una forte eco nel panorama politico italiano. L'organizzazione propagandava la rivoluzione del sistema, ma non predicava l'insurrezione distinguendosi in ciò da gruppi similari, come Potere Operaio. Langer vi aderì per legarsi a una realtà che oltrepassasse i confini del Sud Tirolo e che fosse liberatoria e rivoluzionaria. Per conto di L.C. Langer organizzò la formazione dei Proletari in divisa, organizzazione di soldati di leva che lottavano per democratizzare l'esercito, senza peraltro metterne in discussione l'esistenza.
Dal 1973 al 1975 Langer visse in Germania come membro della Commissione immigrazione e in questi due anni creò legami con studiosi, sindacalisti e militanti della sinistra. Organizzò anche uno dei primi incontri fra rappresentanti della sinistra israeliana e componenti del Fronte per la liberazione della Palestina. Poi si trasferì a Roma dove si occupò del giornale "Lotta continua", che nel frattempo era diventato quotidiano. Per le diverse denunce che il giornale riceveva il ruolo di direttore era svolto a rotazione fra i redattori e anche lui lo assunse durante il 1975. Si emancipò dal punto di vista economico da "Lotta continua" insegnando storia e filosofia in un liceo della periferia romana.



18/08/2006 19:48
 
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Nel 1977 aderì ai referendum radicali, che nella sua visione potevano rappresentare un modo per concludere in maniera non traumatica l'esperienza di L.C., nella quale egli si poneva come elemento di congiunzione fra l'ala estremista, che stava convogliando nella lotta armata, e l'ala moderata che avrebbe voluto trasformare il movimento in partito, rientrando nella logica parlamentare.
Alle elezioni amministrative del 1978 il Partito Radicale appoggiò Langer che faceva parte della lista "Neue Linke / Nuova sinistra". Fu consigliere provinciale a Bolzano dal 1978 al 1981. In quest'anno l'allora Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, pensò di risolvere l'annosa questione altoatesina con una dichiarazione di appartenenza etnica da riportare all'anagrafe. Langer rifiutò questa imposizione e ciò gli costò l'esclusione dall'insegnamento, prima che una sentenza del Consiglio di Stato gli desse ragione. Nel 1983 fu eletto in Regione con la Lista alternativa per l'altro Sudtirolo da lui fondata.
Tra il 1984 e il 1985 Langer divenne un punto di riferimento per il nascente partito Verde, a cui portava l'esperienza dei corrispondenti Grunen tedeschi che ben conosceva. Provò, senza successo, a fondere insieme i Verdi con il Partito Radicale. Cercò anche di ricomporre, senza riuscirci, lo strappo fra i Verdi sole che ride e i Verdi arcobaleno.
Nel 1989 fu eletto al Parlamento europeo nelle liste Verdi. Nel 1991 fece parte degli osservatori internazionali nelle prime elezioni libere in Albania e fece passare a Strasburgo una risoluzione contro la brevettabilità delle manipolazioni genetiche di materia vivente.
Nel 1992 partecipò all'organizzazione della conferenza mondiale sull'ambiente a Rio de Janeiro e alla parallela conferenza Global Forum. In tale occasione propose una riduzione del debito dei Paesi in via di sviluppo.


18/08/2006 19:50
 
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Nel 1994 fu rieletto al Parlamento europeo e divenne presidente del gruppo Verde; inoltre fu membro della commissione politica estera. Partecipò a seminari e incontri; fu membro del Movimento Nonviolento, finanziatore della Casa per la nonviolenza di Verona e obiettore alle spese militari.
Dopo le prime avvisaglie di guerra in Jugoslavia, si interessò della questione dei Balcani. Si oppose alle precipitose dichiarazioni di indipendenza, che avrebbero poi fomentato gli odi etnici e la guerra. Cercò invece di far entrare la Bosnia Erzegovina nell'Unione Europea, per preservarla dalla guerrra, e cercò di sostenere i profughi e gli obiettori di coscienza. Presentò una risoluzione per la creazione di un Corpo civile europeo di pace, formato da professionisti non armati sotto l'egida dell'O.N.U. Parallelamente alle iniziative istituzionali ne seguì molte altre a livello movimentista, nelle quali si prodigò per sostenere le iniziative di pace, spesso finanziandole con il suo stipendio di parlamentare. Compì diversi viaggi in Jugoslavia e si interessò soprattutto della situazione di Tuzla, città bosniaca dove si era mantenuta una cordialità fra le diverse etnie, facendogli sembrare qui possibile ciò che non era riuscito nel suo Sud Tirolo. Ma l'attentato del 25 maggio 1995 nel quale persero la vita settantun ragazzi fra i diciotto e i vent'anni incrinò la sua speranza. Arrivò a sostenere un intervento armato di polizia internazionale. Scrisse: "Di fronte agli ultimi eventi in Bosnia, non è più possibile tentennare: bisogna che l'O.N.U. invii un cospicuo contingente supplementare (chiedendo, se del caso, l'aiuto della N.A.T.O. e della U.E.O.) e assegni un nuovo e chiaro mandato ai caschi blu. Quello di ristabilire - con l'uso dei mezzi necessari - quel minimo di rispetto dell'ordine internazionale che consenta di cercare una soluzione politica al dramma della distruzione della convivenza e della democrazia."
Si tolse la vita al Pian dei Giullari presso Firenze nell'anniversario della morte del padre, il 3 luglio 1995, all'età di quarantanove anni. Probabilmente le ragioni del suo gesto sono da ricercare nelle parole che lui stesso aveva usato per scrivere il necrologio della sua amica attivista verde Petra Kelly, anche lei morta suicida: "Forse è troppo arduo essere portatori di speranze collettive: troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande il carico di amore per l'umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere."
Adriano Sofri nella sua commemorazione disse: "Se avessi di fronte a me un uditorio di ragazze e ragazzi, non esiterei a mostrar loro com'è stata bella, com'è stata invidiabilmente ricca di viaggi, di incontri, di conoscenze, di imprese, di lingue parlate e ascoltate, di amore la vita di Alexander. Che stampino pure il suo viso serio e gentile sulle loro magliette. Che vadano incontro agli altri con il suo passo leggero e voglia il cielo che non perdano la speranza."


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DON GIUSEPPE PUGLISI



Giuseppe Puglisi era nato a Palermo il 15 settembre 1937, da una famiglia umile, ma piena d'amore e ricca di valori. Il padre è calzolaio, la madre sarta. Viene ordinato sacerdote il 2 luglio del '60. Già a partire dai primi incarichi, la sua opera si svolge su due fronti: attività con i giovani e battaglie sociali in difesa della legalità e dei diritti negati ai più deboli: educazione, salute, abitazioni decorose. Insegnò matematica e poi religione in diversi istituti fino alla morte. Alcuni dei suoi alunni ricordano che, all'inizio di un anno scolastico, entrò in classe con uno scatolone vuoto sotto il braccio. Dopo averlo posato a terra, ci saltò sopra. "Avete capito chi sono io?", chiese nello stupore generale. "Un rompiscatole", concluse con il sorriso sulle labbra. Far sì che i giovani pensassero con la propria testa, interrogandosi su quello che facevano o meno, che rifiutavano o accettavano, fu uno dei suoi costanti obiettivi. Visse sempre poveramente, mangiava scatolette pur di risparmiare il tempo che dedicava interamente agli altri, la sua modestissima casa era piena solo di libri di teologia, filosofia, psicologia e pedagogia. Era un intellettuale raffinato, ma non lo faceva capire, mettendo la sua cultura a servizio di un'innata capacità di entrare profondamente in contatto con gli altri, a prescindere dall'estrazione sociale o dal titolo di studio della persona che si trovava davanti. Seppe dialogare e collaborare con chiunque cercasse giustizia e solidarietà, anche se non credente e su posizioni ideologiche diverse dalle sue. Gli proposero gli incarichi più gravosi, scartati da tutti, e lui li accettò, fino a tornare nel quartiere dove era vissuto da bambino.


18/08/2006 19:57
 
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Nel 1990 diventa infatti parroco della comunità di San Gaetano, nel quartiere Brancaccio di Palermo, uno dei più disagiati e ad alta densità mafiosa. È una terra di nessuno, dove il lavoro nero, il contrabbando, lo spaccio di droga, i furti, la povertà sono all'ordine del giorno. I bambini vivono in strada e moltissimi di loro evadono la scuola, anche perchè Brancaccio è l'unico quartiere di Palermo in cui non esiste una scuola media. C'è la scuola elementare, ma molte persone non hanno conseguito neppure quella licenza. Manca anche un asilo nido. C'è inoltre povertà anche dal punto di vista morale e diversi adulti, ma anche ragazzi, sono stati o sono tuttora ospiti del carcere, altre persone vivono agli arresti domiciliari.
Di fronte a questa situazione, don Puglisi non si scoraggia. Sostenuto da alcuni collaboratori affidabili, organizza un corso di alfabetizzazione e lezioni di teologia di base. Anche a livello liturgico, opera perché torni a risaltare la spiritualità dei riti, che depura di molte tradizioni folkloristiche. Rifiuta l'appoggio dei politici locali, che non esita a criticare in pubblico per aver permesso il degrado di Brancaccio. Ma non basta. È necessario seguire soprattutto gli adolescenti e gli anziani ed egli, con l'aiuto di moltissimi, riesce a comprare una palazzina in vendita proprio di fronte alla chiesa di San Gaetano. Il 29 gennaio del 1993 viene inaugurato il Centro Padre Nostro. Don Puglisi è convinto che a Brancaccio i primi obiettivi sono i bambini e gli adolescenti perché con loro si è ancora in tempo, anche se già a quell'età non è semplice, perché tanti sono costretti a lavorare o a rubare e tante bambine a fare di peggio, visto che esistono nel quartiere anche casi di prostituzione minorile.
Il bambino avrebbe potuto cogliere al Centro un modello di comportamento diverso, anche solo guardando due adulti che si trattano con gentilezza e rispetto e verificando che ci sono regole da seguire. Per i giovani è molto importante poter contare sul consenso del gruppo, della società. È quello che la mafia chiama "onorabilità". Per questo era necessario far sentire i ragazzi partecipi di un "gruppo" alternativo a quello familiare, dove spesso il codice mafioso affonda le sue radici, esaltando chi bara e chi è più furbo. Fondamentale è il lavoro contro la mafia da portare avanti nelle scuole in modo capillare e premere sulle autorità amministrative perché compiano il loro dovere, tentando di coinvolgere il maggior numero di persone in una protesta per i diritti civili.


18/08/2006 19:59
 
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Gli ultimi mesi di don Pino a Brancaccio sono segnati da una "escalation" di minacce e avvertimenti contro di lui e i suoi collaboratori. Per il 25 luglio 1993, don Pino organizza una manifestazione per ricordare il giudice Paolo Borsellino. Di mattina, durante la Messa, pronuncia un'omelia durissima: "Gli assassini, coloro che vivono e si nutrono di violenza, hanno perso la dignità umana. Sono meno che uomini, si degradano da soli, per le loro scelte, al rango di animali. Mi rivolgo anche ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato. Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono ad ostacolare chi tenta di educare i vostri figli alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile". La manifestazione del pomeriggio si risolve in una grande festa. Ma alcuni volontari e don Pino stesso vengono minacciati.
A chi lo invitava alla prudenza diceva: "Non ho paura di morire se quello che dico è la verità".

"Me l'aspettavo": furono queste le ultime parole di don Pino, rivolte ai suoi killer con un sorriso. Un sorriso che sconvolse la vita del suo assassino, Salvatore Grigoli, che, all'epoca del delitto, aveva 28 anni ed era sposato con tre bambini. Fu arrestato il 19 giugno del '97 dopo un lungo periodo di latitanza, aveva compiuto altre decine di delitti e attentati. Dopo l'omicidio Puglisi, è diventato un collaboratore di giustizia.

Don Pino, semplicemente, non riconobbe il potere della mafia, invitando la gente a riappropriarsi, allo stesso modo, della libertà. È un altro pentito, Giovanni Drago, a ricordare le cause che scatenarono la rabbia dei boss: "Il prete era una spina nel fianco. Predicava, predicava, prendeva ragazzini e li toglieva dalla strada. Faceva manifestazioni, diceva che si doveva distruggere la mafia. Insomma ogni giorno martellava, martellava e rompeva le scatole".

E' in corso il suo processo di beatificazione come martire: già conclusa la fase diocesana, la documentazione è ora all'esame della Congregazione per le cause dei Santi in Vaticano.


18/08/2006 20:14
 
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MONS. DANIELE COMBONI


Daniele Comboni nasce a Limone sul Garda (Brescia - Italia) il 15 marzo 1831, in una famiglia di contadini al servizio di un ricco signore della zona. Papà Luigi e mamma Domenica sono legatissimi a Daniele, il quarto di otto figli, morti quasi tutti in tenera età. Essi formano una famiglia unita, ricca di fede e valori umani, ma povera di mezzi economici. Ed è appunto la povertà della famiglia Comboni che spinge Daniele a lasciare il paese per andare a frequentare la scuola a Verona, presso l'Istituto fondato dal Sacerdote don Nicola Mazza.

In questi anni passati a Verona, Daniele scopre la sua vocazione al sacerdozio, completa gli studi di filosofia e teologia e soprattutto si apre alla missione dell'Africa Centrale, attratto dalle testimonianze dei primi missionari mazziani reduci dal continente africano. Nel 1854 Daniele Comboni viene ordinato sacerdote e tre anni dopo parte per l'Africa assieme ad altri 5 missionari mazziani, con la benedizione di mamma Domenica che arriva a dire: «Va', Daniele, e che il Signore ti benedica».




18/08/2006 20:15
 
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Nel cuore dell'Africa - con l'Africa nel cuore


Dopo 4 mesi di viaggio, la spedizione missionaria di cui il Comboni fa parte arriva a Khartoum, la capitale del Sudan. L'impatto con la realtà africana è enorme. Daniele si rende subito conto delle difficoltà che la sua nuova missione comporta. Fatiche, clima insopportabile, malattie, morte di numerosi e giovani compagni missionari, povertà e abbandono della gente, lo spingono sempre più ad andare avanti e a non desistere da ciò che ha iniziato con tanto entusiasmo. Dalla missione di Santa Croce scrive ai suoi genitori: «Dovremo faticare, sudare, morire, ma il pensiero che si suda e si muore per amore di Gesù Cristo e della salute delle anime più abbandonate del mondo è troppo dolce per farci desistere dalla grande impresa».

Assistendo alla morte in Africa di un suo giovane compagno missionario, Comboni invece di scoraggiarsi si sente interiormente confermato nella decisione di continuare la sua missione: «O Nigrizia o morte», o l'Africa o la morte.

Ed è sempre l'Africa e la sua gente ciò che spinge il Comboni, una volta ritornato in Italia, a mettere a punto una nuova strategia missionaria. Nel 1864, raccolto in preghiera sulla tomba di San Pietro a Roma, Daniele ha una folgorante illuminazione che lo porta ad elaborare il suo famoso Piano per la rigenerazione dell'Africa, un progetto missionario sintetizzabile nella frase «Salvare l'Africa con l'Africa», frutto della sua illimitata fiducia nelle capacità umane e religiose dei popoli Africani.


18/08/2006 20:16
 
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Un originale Vescovo missionario


In mezzo a non poche difficoltà e incomprensioni, Daniele Comboni intuisce che la società europea e la Chiesa cattolica sono chiamate a prendere in maggior considerazione la missione dell'Africa Centrale. A tale scopo, si dedica ad una instancabile animazione missionaria in ogni angolo d'Europa, chiedendo aiuti spirituali e materiali per le missioni africane tanto a Re, Vescovi e signori, quanto a gente povera e semplice. E come strumento di animazione missionaria crea una rivista missionaria, la prima in Italia.

La sua fede incrollabile nel Signore e nell'Africa lo porta a far nascere, rispettivamente nel 1867 e nel 1872, l'Istituto maschile e l'Istituto femminile dei suoi missionari, più tardi meglio conosciuti come Missionari Comboniani e Suore Missionarie Comboniane.

Come teologo del Vescovo di Verona, partecipa al Concilio Vaticano I facendo sottoscrivere a 70 Vescovi una petizione a favore dell'evangelizzazione dell'Africa Centrale (Postulatum pro Nigris Africæ Centralis).

Il 2 luglio 1877 Comboni viene nominato Vicario Apostolico dell'Africa Centrale e consacrato Vescovo un mese dopo: è la conferma che le sue idee e le sue azioni, da molti considerate troppo coraggiose se non addirittura pazze, sono quanto mai efficaci per l'annuncio del Vangelo e la liberazione del continente africano.

Negli anni 1877-78, insieme ai suoi missionari e missionarie, soffre nel corpo e nello spirito la tragedia di una siccità e carestia senza precedenti, che dimezza la popolazione locale e sfinisce il personale e l'attività missionaria.


18/08/2006 20:17
 
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La croce per amica e sposa


Nel 1880, con la grinta di sempre, il Vescovo Comboni ritorna, per l'ottava e ultima volta, in Africa, a fianco dei suoi missionari e missionarie, deciso a continuare la lotta contro la piaga dello schiavismo e a consolidare l'attività missionaria con gli stessi africani. Un anno dopo, provato dalla fatica, dalle frequenti e recenti morti dei suoi collaboratori e dall'amarezza di accuse e calunnie, il grande missionario si ammala. Il 10 ottobre 1881, a soli cinquant'anni, segnato dalla croce che mai lo ha abbandonato come fedele e amata sposa, muore a Khartoum, tra la sua gente, cosciente che la sua opera missionaria non morirà. «Io muoio, dice, ma la mia opera non morirà».

Daniele Comboni ha visto giusto. La sua opera non è morta; anzi, come tutte le grandi cose che «nascono ai piedi della croce», continua a vivere grazie al dono che della propria vita fanno tanti uomini e donne che hanno scelto di seguire il Comboni sulla via dell'ardua ed entusiasmante missione tra i popoli più bisognosi di fede e di solidarietà umana.




19/08/2006 22:22
 
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Jean Vanier



Jean Vanier nasce nel 1928. Figlio del governatore del Canada, da giovane è ufficiale di marina. Ad un certo punto, la scelta di dare una svolta alla sua esistenza. "Decisi di abbandonare la vita militare, con il desiderio di conoscere il Vangelo e la pace. Così andai a studiare filosofia a Toronto". Dopo alcuni anni, Vanier è insegnante. "Cercai di scoprire - racconta - cos'è il vero e cos'è il falso, cos'è un essere umano. Nel 1963 conobbi la condizione di persone con grave disabilità. Un sacerdote mi fece mettere a contatto diretto con ragazzi che non erano studenti assetati di "studio", ma si chiedevano 'chi sono, perchè sono così, perchè nessuno mi crede, perchè i miei genitori non sono felici che io esisto?'. Persone desiderose di sapere chi le vuole veramente bene".


19/08/2006 22:24
 
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Fondatore della comunita' dell'Arca



Da quel momento, Vanier dà inizio all'esperienza Arca: accoglie con sè due persone adulte con disabilità mentale in una casa a Trosly. Nascono numerose comunità dell'Arca in diversi Paesi, anche in Italia. Poi, nel 1968 alcuni genitori ed educatori, tra cui Jean Vanier e Marie Hélène Mathieu, organizzano un pellegrinaggio a Lourdes per persone ferite nell'intelligenza, i loro genitori e amici. Il giorno di Pasqua del 1971, vi si ritrovano dodicimila persone di quindici diverse nazionalità. Tra queste, quattromila hanno un handicap mentale.

E' un incontro festoso di scambio tra individui che agli occhi del mondo sono "sani" ed "efficienti" e coloro che invece sono più "fragili". Da quell'occasione nascono le prime comunità "Fede e Luce", che oggi sono centinaia e centinaia in tutti i continenti. Gli incontri si ripetono periodicamente fino ad oggi.



19/08/2006 22:25
 
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Jean Vanier: «Io, guarito dai rifiutati»



"Lasciarsi conquistare dalla semplicità di chi ha una disabilità mentale. Di più: farsi mettere in discussione, sperimentando la propria aggressività e incapacità di accogliere l'altro quando ci si sente sfibrati dalle sue urla, dai suoi gesti incomprensibili, dal suo dolore insondabile. Percorrere questo cammino scoprendo il mistero dell'amore in coloro che portano scritto nel loro corpo e nella loro testa un handicap. Sperimentando che dal contatto con loro scaturisce a livello spirituale una profonda trasformazione e guarigione interiore, perché coloro che rifiutiamo ci insegnano chi siamo». È da oltre quarant'anni l'esperienza di Jean Vanier, classe 1928, fondatore in Francia delle comunità dell'Arca, che in tutto il mondo accolgono chi vive un disagio mentale. Ad oggi sono 130 luoghi divenuti una casa «per molti santi: uomini e donne molto vicini a Dio. Mi colpisce sempre - spiega - il loro modo di parlare di Gesù, percependolo come una persona, un amico».


19/08/2006 22:27
 
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Vanier gira tutto il mondo raccontando la sua esperienza fatta di mille piccoli gesti feriali, ma soprattutto di incontri che hanno cambiato gradualmente la sua esistenza. Nei giorni scorsi, parlando agli studenti della Pontificia università Gregoriana, ha sottolineato: «Il nostro popolo è molto semplice, ma ha l'intelligenza della semplicità». Nella sua casa André, un ragazzo imponente ma un po' difficile che doveva essere operato alle gambe, si sottopose a una visita cardiologica prima dell'intervento. Jean gli chiese cosa avesse visto il dottore nel suo cuore, per accertarsi delle sue condizioni; la risposta del giovane fu comica e sorprendente allo stesso tempo: «Ha visto Gesù, è evidente!».
«A volte vivere con loro è faticoso. La nostra esistenza in comunità viene condivisa con persone che non vogliono starci», ha confidato Vanier, raccontando la storia di Janine, morta serenamente qualche mese fa a 74 anni, piena di tenerezza. «Nel novembre 2005, durante un pellegrinaggio a Lourdes, disse a un volontario che pregava di morire nel sonno; la mattina del giorno di santa Bernadette, a febbraio, siamo andati a svegliarla e lei lo aveva già fatto in Cielo. Appena arrivata all'Arca urlava, gridava, rompeva tutto. Non poteva picchiare gli altri perché era instabile, a motivo della sua gamba inferma; se lo avesse fatto, sarebbe caduta». Quando qualcuno degli ospiti esprime tali pulsioni violente, «ci obbliga a chiederci da dove viene l'aggressività. Con gli psichiatri abbiamo cercato di capire la sofferenza di questa donna - ha riferito il fondatore della comunità - . La sua storia è simile a quella di altre persone: la sua collera derivava dal fatto di non avere figli, dalla gelosia nei confronti delle sorelle che ne avevano tanti; la mamma era appena morta e le sorelle non la volevano con loro; l'avevano portata all'Arca contro la sua volontà». I membri della comunità hanno cercato di capire cosa stesse succedendo a Janine: «Aveva un'immagine rotta di se stessa.


19/08/2006 22:28
 
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Quando era nata, era stata considerata una delusione dai suoi genitori. Difficile per un bambino essere diverso da quello che mamma e papà si aspettano. Cosa succede nel neonato che non si sente amato, accolto? La madre gli dice: "Non volevo che fossi così, sei la fonte delle mie lacrime". Così il suo cuore è ferito: si sente non amato per quello che è» - ha osservato Vanier.
A questo riguardo, il fondatore dell'Arca ha parlato anche con un giovane a cui era stato detto che la madre avrebbe voluto abortire se avesse saputo che suo figlio aveva la Sindrome di Down. «Per fortuna sono nato vent'anni fa - ha detto il ragazzo - , altrimenti oggi non sarei qui». Pazienza, tempo, tenacia: bisogna attendere perché «le persone compiano il passaggio da un'immagine negativa a un'immagine positiva di sé», secondo Vanier: piccoli passi segnati dalla gradualità in cui si scoprono i propri doni e «si ritrova la gioia perché ci si sente scelti e amati da Gesù». Un itinerario durante il quale la fede assume un ruolo fondamentale, anche nei più piccoli: tra i numerosi episodi, il fondatore dell'Arca ha raccontato il suo incontro con un ragazzo parigino di 11 anni, con problemi mentali. Il giorno della sua Prima Comunione, dopo la liturgia curata e la festa in famiglia, uno zio (che era anche padrino del ragazzo) disse alla madre: «L'unica cosa triste è che lui non abbia capito nulla». Il bambino sentì la frase e con le lacrime agli occhi rispose alla mamma: "Non ti preoccupare: Gesù mi ama come sono". «Lo direste voi: Gesù mi ama così come sono, con le mie difficoltà e i miei handicap? - è la provocazione di Vanier - . È una visione del Vangelo, della Chiesa. Queste persone sono chiamate ad avere un posto speciale».


19/08/2006 22:36
 
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Mons. Oscar Romero



Oscar Romero nasce a Ciudad Barrios di El Salvador il 15 marzo 1917da una famiglia modesta. Avviato all’età di 12 anni come apprendista presso un falegname, a 13 entrerà nel seminario minore di S. Miguel e poi, nel 1937, nel seminario maggiore di San Salvador retto dai Gesuiti. All’età di 20 anni fa il suo ingresso all’Università Gregoriana a Roma dove si licenzierà in teologia nel 1943, un anno dopo essere stato ordinato Sacerdote. Rientrato in patria si dedicherà con passione all’attività pastorale come parroco. Diviene presto direttore della rivista ecclesiale “Chaparrastique” e, subito dopo, direttore del seminario interdiocesano di San Salvador.In seguito avrà incarichi importanti come segretario della Conferenza Episcopale dell’America Centrale e di Panama. Il 24 maggio 1967 è nominato Vescovo di Tombee e solo tre anni dopo Vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di San Salvador. Nel febbraio del ’77 è Vescovo dell’arcidiocesi, proprio quando nel paese infierisce la repressione sociale e politica.




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