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Lars von Trier su "Dogville"

Ultimo Aggiornamento: 19/11/2005 23:17
19/11/2005 23:17
 
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Lars Von Trier, di cui sono ben note la riservatezza e la paura di viaggiare, preferisce una videoconferenza allestita nei suoi studi danesi a 25 chilometri da Copenhagen, per raccontare i segreti di “Dogville”, primo capitolo di una nuova trilogia che lo ha impegnato per un anno alla lavorazione ed un altro al montaggio. Ricordiamo le precedenti: la trilogia d’Europa, con “L’elemento del crimine”, “Epidemic” ed “Europa”; la trilogia dell’amore e del sacrificio, con “Le onde del destino”, “Idioti” e “Dancer in the dark”.

Nel suo film si trovano tracce di “Piccola città”, celebre prosa di Thornton Wilder. Non crede che la scelta di una regia teatrale possa tradire il gusto di chi è legato ad un cinema di tradizione?
In realtà non conoscevo il libro: ne ho avuta una copia solo dopo aver ultimato la scrittura del film. Le mie fonti d’ispirazione sono state altre, in primo luogo perché l’idea nasce da una canzone di Bertolt Brecht sul tema della vendetta. Ho scritto e riscritto questa sceneggiatura molte volte e, aggiungendovi ogni volta nuovi e diversi dettagli, d’improvviso mi sono accorto che si stava sviluppando un altro concetto: quello dell’accettazione. Circa la probabilità di deludere il pubblico, penso al fatto che nessuno dei film che amo mi è piaciuto dopo averlo visto la prima volta, e la ragione è che mi stavano offrendo qualcosa di diverso da quel che mi attendevo. A volte, credo sia utile venir delusi.

Che idea ha dell’accettazione?
Immagino faccia parte della nostra natura. Principi come accettazione e volontà hanno portato la razza umana a raggiungere i suoi grandi traguardi. Nonostante ciò, il rispetto di questi valori segue una strada ancora difficile da percorrere.

Possiamo giudicare “Dogville” come un film sull’abuso di potere e sulle relazioni tra il bene ed il male?
Non credo che il bene ed il male c’entrino in qualche modo e sono certo che nell’animo di ogni uomo sopravvivano e maturino entrambi: è giusto sia così perché sono parte di una società. Detto questo, vorrei chiarire che nessuno dei miei personaggi è cattivo, ma reagisce alle tentazioni come ogni altro essere umano.

Crede sia obbligo di un drammaturgo cambiare il mondo?
Realizzando il proprio lavoro, un cineasta vuole soprattutto invitare lo spettatore alla riflessione. Se questo aiuta a cambiare il mondo, ne sono felice.

È comunque un film dal finale poco riconciliante, seppur diverso da quelli a cui ha abituato il suo pubblico…Non intendevo rassicurare nessuno, ma piuttosto risvegliare l’attenzione sull’obbligo, anche istituzionale, di educare la collettività alla pietà ed al rispetto di ogni individuo. Credo che la società abbia il dovere, proprio perché ideale collettivo, di agire con maggior coscienza del singolo. Questo è un film che nasce dal cuore, ma mi aspetto che lo apprezzino in pochi.

Nonostante Lei si sia sempre opposto all’uso della tecnologia digitale nel cinema, in questo film vi fa ricorso per molte scene. Ha cambiato opinione?
Da nessuna parte è scritto che non si possa far uso degli effetti speciali. Non mi piace che prendano il sopravvento – come accade di frequente nel nuovo cinema americano – ma oggi il computer rende il lavoro più versatile rispetto al passato, quando le grandi dimensioni dei mezzi obbligavano a sforzi maggiori. Diversamente, c’è una scena, quella del camion, che sembra frutto di un FX quando invece è un semplice trucco di doppia esposizione, che non necessita di alcun computer per essere messo in atto.

La storia di Grace sarà il filo rosso per un’altra trilogia. Come mai continua a preferire questa forma narrativa?
Sono cresciuto guardando Bergman, che ha realizzato ben due importanti trilogie (Von Trier si riferisce alla trilogia religiosa” di cui fan parte “Come in uno specchio”, “Luci d’inverno” ed “Il silenzio”, e a quella successiva, composta da “Sussurri e grida”, “Scene da un matrimonio” e “L’immagine allo specchio”, nda). Delle trilogie amo in primo luogo la simmetria monumentale,ma non so per quale specifica ragione le prediliga. D’altronde, se sapessi spiegare me stesso con le parole non avrei bisogno di fare film.

Può rivelarci i titoli dei capitoli che seguiranno?
Il secondo si chiamerà “Manderlay”, mentre l’ultimo sarà “Wasington”.

Fonte: Tempi Moderni n°48, novembre 2003
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