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GIOVANNI SALVI: CIO' CHE NON DOBBIAMO IMPARARE DALL'AMERICA

Ultimo Aggiornamento: 18/02/2007 00:00
18/02/2007 00:00
 
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Il Riformista
16 febbraio 2007
Requiem per il diritto internazionale
Dalle rendition ai processi segreti
di Giovanni Salvi

Pubblichiamo qui un estratto del saggio di Giovanni Salvi, “Ciò che non dobbiamo imparare dall’America. Note in margine al caso Abu Omar. Una lezione italiana”. Il saggio, che sarà pubblicato in versione integrale dalla rivista Limes, dedicato alla crisi del modello americano, da domani in edicola, tratta dello «stravolgimento della legge conseguente alla scelta della war on terror», stravolgimento definito «pericoloso, oltre che inefficace». Tra le altre cose, Salvi esplora il ruolo del paradigma militare sul diritto internazionale, e gli effetti del cosiddetto «baratto tra libertà e sicurezza». Alla luce del voto del Parlamento di Bruxelles sul dossier dei voli Cia, proponiamo qui il capitolo “Le linee di rottura del quadro legale,” dedicato ai processi segreti e ai numerosi casi di extraordinary renditions nei paesi europei.


Certamente costituisce una seria rottura del quadro legale il ricorso con modalità illecite a strumenti che sono invece legittimamente adottabili, ma con limiti e attraverso iter volti da un lato a valutarne i presupposti e dall’altro ad assicurarne la conoscibilità futura. Un caso clamoroso è costituito dalle intercettazioni di comunicazioni, effettuato anche negli Stati Uniti e su cittadini, in totale violazione delle norme che le avrebbero consentite. Un gigantesco e misterioso «orecchio di Dionisio». Anche in Italia è stato possibile accertare che il Sismi ha fatto ampio ricorso a intercettazioni illegali, e ciò pur dopo che la legge del 2001 aveva reso possibile il ricorso a questo strumento informativo anche da parte dei servizi. Ciò dovrebbe davvero far riflettere circa i possibili guasti del segreto, non bilanciato da adeguati controlli.
Non diverse valutazioni devono farsi per ciò che concerne le extraordinary renditions e in genere le detenzioni senza processo. Non è forse del tutto chiara la profondità dello strappo ad elementari princìpi, comunemente riconosciuti nelle democrazie e ormai patrimonio condiviso a livello internazionale: la detenzione senza processo di un numero ancora imprecisato di persone, in luoghi in parte occulti, e per lunghi periodi senza che fosse consentito alcun contatto con un legale e nemmeno con i propri familiari (in alcuni casi i familiari non hanno nemmeno avuto notizia della detenzione del congiunto, che è quindi stato per un periodo di tempo apprezzabile un vero desaparecido). Ancora una volta, non si tratta di negare la possibilità del ricorso alla detenzione a fini di prevenzione e sicurezza di soggetti sospettati di attività pericolose. Queste misure sono assai gravi ma, se adottate sulla base di procedure garantite, con accesso immediato alla giurisdizione e in casi legalmente determinati, rientrano pienamente - a mio avviso - tra le misure adottabili in situazioni di grave emergenza. Inaccettabile è invece il ricorso alla detenzione senza processo e senza garanzie. Per di più, nel paradigma della war on terror, la detenzione a fini di sicurezza, così delineata, è anche potenzialmente senza fine, perché infinita è la “guerra” contro singoli e organizzazioni.
Anche in questo caso il controllo del Congresso è stato pressoché inesistente. Da ultimo è stato approvato il Military Commission Act (Mca), reso esecutivo il 16 ottobre 2006 dalla firma del presidente Bush. Con il Mca sono state eliminate le maggiori violazioni ai princìpi fondamentali in materia di due process of law e di diritti della persona, ma molti altri aspetti profondamente negativi permangono.
L’Mca è stato votato da ben 253 deputati (contrari 16[SM=g27989] e addirittura da 65 senatori contro 34. Il 28 settembre la Camera ha approvato con 232 voti contro 191 il provvedimento a sostegno del programma della Casa Bianca di intercettazioni senza autorizzazioni giudiziarie, anche a sanatoria delle migliaia di intercettazioni illegali già effettuate.
Si capisce come in questo contesto l’autorizzazione all’uso della tortura costituisca solo una conseguenza di una catena di violazioni dei diritti fondamentali dell’individuo. L’Mca vieta radicalmente l’uso della tortura e anche dei trattamenti crudeli, inumani o degradanti e pone anche un divieto all’uso delle dichiarazioni rese sotto tortura. Eppure, a dimostrazione che di questo strumento di violenza si è fatto effettivo uso, una serie di eccezioni vengono poste all’utilizzo delle “prove” così raccolte, prima dell’entrata in vigore del Detainee Treatment Act (30 dicembre 2005), inteso a liberare gli interroganti dalla responsabilità per l’uso di mezzi di coercizione vietati dalle convenzioni internazionali.
La legittimazione dell’uso della tortura è diretta conseguenza dell’impostazione della war on terror e della supposta preminenza della raccolta ad ogni costo e con ogni mezzo delle informazioni, da utilizzarsi non nel processo penale (inutile e anzi dannoso, perché pubblico e perché solo repressivo) ma per incapacitare i terroristi e così realizzare la prevenzione totale.
Una componente fondamentale della fenomenologia della war on terror è quindi costituita dall’uso spregiudicato delle informazioni segrete. Non credo che sia necessario darne un resoconto, neppure sommario. Basti rilevare che esso ha condizionato tutti i meccanismi di bilanciamento e controllo, a partire dall’esercizio dei poteri attribuiti al Congresso e fino al condizionamento delle procedure giurisdizionali.
La rottura del carattere pubblico del processo (anche laddove non siano necessari singoli spazi di tutela del segreto) è devastante. Per le ragioni che si sono prima indicate, la pubblicità è infatti insieme garanzia dell’individuo e della verità tendenziale dell’accertamento dei fatti. Nel processo penale è solo questa tendenziale corrispondenza della statuizione alla verità di fatto che legittima l’applicazione di una pena, ma anche una misura di prevenzione o di detenzione amministrativa. Si è già visto, poi, come l’utilizzo del segreto alteri radicalmente i meccanismi di funzionamento delle istituzioni, facendo prevalere - nel gioco di bilanciamento - quelle che sono in grado di gestire (e di manipolare) l’informazione. Insomma, quello del rapporto col segreto sembra essere l’ultima vera barriera della teorizzazione della war on terror.





INES TABUSSO
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