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CORRITORE, EX CONSIGLIERE DI D'ALEMA E CANDIDATO ALLE PRIMARIE DI MILANO: IL PERICOLO DEL GIGANTISMO

Ultimo Aggiornamento: 11/01/2006 19:21
11/01/2006 19:21
 
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CORRIERE DELLA SERA
11 gennaio 2006
Corritore: per quell’operazione voltai le spalle a Palazzo Chigi

Banchiere, ex Deutsche Bank e bocconiano di formazione. Ex liceale del Berchet e giovane comunista Fgci. Davide Corritore, 47 anni, ora corre da indipendente per le primarie dell’Unione a Milano. Ma è stato anche consigliere economico del governo di Massimo D’Alema. Che giusto due giorni fa ha definito «azzardata» la scalata a Bnl. È così? Ha ragione il suo ex datore di lavoro?
«Direi di sì, ma non per le stesse ragioni. Sull’operazione ho avuto dubbi sin dall’inizio, per la concentrazione eccessiva di risorse da parte di Unipol. E non mi ha convinto la logica industriale, perché a Unipol sarebbe convenuto un accordo di distribuzione di prodotti con più istituzioni finanziarie. Invece l’idea di comprare una banca è ispirata da una logica di possesso».
Un’operazione di potere?
«Ho l’impressione che abbia prevalso una valutazione tipica della politica, cioè che conti la dimensione. Mi spiego: in politica vale il consenso e allora si ritiene che in economia debbano contare dimensione e controllo. E questo è uno dei problemi di rapporto con l’economia che la sinistra deve risolvere».
Ma la ricerca della grande dimensione è sempre un errore?
«In Italia molti di quelli che hanno puntato solo alla dimensione sono finiti male, e penso a Bipop, Cirio e Parmalat».
Ma lì c’è stato anche il malaffare, non crede?
«Certo, ma quello della truffa è stato un discorso parallelo ad esperienze caratterizzate dalla ricerca del gigantismo, del potere che diventa onnipotenza. I criteri che devono regolare i rapporti politica-economia dovrebbero essere invece l’interesse dei consumatori, degli azionisti, o in alcuni casi quello nazionale».
È per questo che nel ’99 se ne andò? Perché il governo avrebbe dovuto bocciare l’Opa su Telecom?
«Era un’operazione che aveva una piega troppo finanziaria, su un’azienda che aveva ampie possibilità di crescita di valore. Chi investiva, e anzi in gran parte si indebitava, aveva l’obiettivo di ricavare rapidamente grandi plusvalenze. Cosa in effetti avvenuta».
E allora qual era il dovere del governo?
«Non doveva intervenire su una questione che aveva a che fare con i mercati, considerando che c’era la golden share».
Invece ci sono state frasi celebri, come quella sui capitani coraggiosi...
«Ci sono stati giudizi che tutti possono rileggersi, e l’operazione non si sarebbe fatta senza consenso politico. E anche questo è uno dei problemi del rapporto politica-economia».
Così, con Marcello Messori, si dimise da consigliere di D’Alema. Arrivò a novembre ’98 e ad aprile ’99 aveva già lasciato...
«Per formazione, esperienza e cultura pensavo che un’istituzione dovesse stare fuori dal gioco, non condividevo che si prendesse posizione. Questo fu uno dei motivi. Messori se ne andò un po’ prima, ma non fu una cosa concordata. E poi tutta la vicenda è stata sintomatica di altri problemi che affliggono la sinistra...»
Che sembra averne già tanti. Ad esempio?
«L’idea della ricerca di una nuova classe di imprenditori, di investitori che da Telecom in poi si sono però dimostrati in buona parte dei raider».
Anche Colaninno, che ha comprato la Piaggio?
«Lui è stato forse l’unico vero imprenditore, in possesso di una visione che l’ha fatto andare anche in Cina. E al di là di Telecom, Alessandro Profumo e Corrado Passera sono banchieri con una strategia chiara e di lungo periodo».
Consorte, anche nella lettera di dimissioni, ricorda il suo ruolo in Telecom. Lo vide mai?
«No, non lo vidi mai».
Ora come lo giudica?
«È stato un grande manager, ha fatto crescere Unipol, ma poi anche lui è stato contaminato dal gigantismo, e dal richiamo di far parte della grande finanza. E arriviamo così a un altro nodo cruciale per la sinistra...».
Il rapporto con i «poteri forti»?
«Sì, un atteggiamento misto tra disprezzo e desiderio di farne parte, a volte contrassegnato anche da un po’ di sudditanza. Come quando, ad esempio, D’Alema incontrò Cuccia».
Che cosa accadde con Cuccia?
«A Palazzo Chigi si diceva: Cuccia ha chiamato D’Alema, Cuccia vuole vedere D’Alema. Insomma, eravamo la presidenza del Consiglio ma non c’era la percezione di una relazione quantomeno di perfetta parità. C’era un po’ di stupore, un rapporto contraddittorio, anche se ovviamente con grande cortesia personale».
E ora a sinistra che cosa è cambiato?
«Nell’ultimo periodo non molto, ma sarà un terreno di sfida, e di opportunità di consenso per gli anni a venire».

Stefano Agnoli
INES TABUSSO
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