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QUEL TERRORISTA VENUTO DAL NULLA

Ultimo Aggiornamento: 05/08/2005 11:15
04/08/2005 20:32
 
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QUEL TERRORISTA VENUTO DAL NULLA

di Maurizio Blondet


Il 17 maggio 1973 Gianfranco Bertoli lanciò una granata a mano sulla piccola folla che, davanti alla Questura di Milano, assisteva allo scoprimento di un busto del commissario Calabresi.
Quattro i morti, 45 i feriti.
Bertoli dichiarò di aver voluto attentare alla vita del ministro dell’Interno Mariano Rumor; e di aver agito da solo, per compiere – da anarchico individualista quale si definì – un atto di rivolta contro la società.
Il processo che lo condannò per strage non fu lungo: era stato arrestato in flagranza di reato.



Ma alcuni atti furono stralciati per proseguire le indagini: dietro quell’uomo “venuto dal nulla” per commettere un delitto poco motivato, il giudice Antonio Lombardo intravide muoversi ombre oscure.
L’inchiesta, proseguita con paziente ostinazione per vent’anni, ha portato nel ’93 alla condanna di tutta una galleria di personaggi (da Maggi a Delfo Zorzi, da Amos Spiazzi a Remo Orlandini) riconducibili alla cellula veneta di destra e alla “Rosa dei Venti”. Ma questa non è la “semplice” verità.
Di fatto, l’indagine ha rivelato contatti di Bertoli con “ambienti più disparati”, intrecci di destra e sinistra, servizi stranieri, da far esclamare al giudice: “la realtà supera la fantasia”.



Bertoli si staglia in modo sempre più certo come un finto anarchico, un infiltrato nei circoli anarchici, ma personalmente di destra: risulta essere stato un informatore del SIFAR (i servizi militari) dal ’54 al ’60; il suo nome risulta negli elenchi di Gladio (benché si sia tentato di far passare il caso come un’omonimia). Insomma, un “nero”.
Ma il passaporto che gli trovano in tasca, e con il quale ha viaggiato in Israele (dove ha abitato per due anni in un kibbutz) è quello di un “rosso”.
E’ il documento di Massimo Magri, “noto esponente del Partito Marxista-Leninista d’Italia”: interrogato dopo la strage di Bertoli, Magri dirà di avere denunciato il furto di quel passaporto nel 1969.
In realtà la sua denuncia, deposta il 10 giugno ’69, non parla di furto, ma di “smarrimento”.



Il passaporto “è grossolanamente falsificato nell’altezza”, e non rispondente per l’età (Bertoli appariva certo più vecchio dei 30 anni dichiarati nel documento); il giudice si sorprende come “le autorità consolari israeliane, abitualmente molto attente nell’assumere informazioni sui loro ospiti, abbiano concesso il visto” a Bertoli “in pochi minuti”.
Ancor più si meraviglia di come le autorità israeliane, pur trattenendo a lungo e ripetutamente il passaporto per il rinnovo del visto (ogni tre mesi), “non abbiano mai dato segno di accorgersi delle grossolane falsità”.
Com’è arrivato il documento in mano di Bertoli?
Qui, sarà bene introdurre la deposizione di Rolando Bevilacqua, ex partigiano, che nel 1970-71 faceva il medico a Trevisio (Sondrio).



Un giorno lo contatta certo Del Grande, “anarchico del Ponte della Ghisolfa di Milano” e gli chiede di aiutare “un operaio di Marghera” che doveva nascondersi, tale Massimo.
Massimo (era in realtà Bertoli, che doveva cambiare aria per una rapina a Padova) arriva accompagnato a casa del medico Bevilacqua.
A tenere i rapporti con l’ospite era Aldo Bonomi, figlio del sindaco democristiano di Trevisio; andò a trovare “Massimo” molto spesso a casa del medico, fino a quando quest’ultimo, nervoso, non ne volle più sapere di quello strano rifugiato in casa propria.
Allora il Bonomi fece espatriare “Massimo” in Svizzera: all’atto di prendere alloggio in una pensione di Saint-Moritz, Bertoli si qualificò Massimo Magri e presentò il passaporto “smarrito” del vero Massimo Magri.



“Per la cronaca”, nota il giudice, “il Bonomi”, l’anarchico, figlio del sindaco DC del paese, “è stato inquisito e poi arrestato per appartenenza alle Brigate Rosse”.
Il capo-brigatista Franceschini ha detto di aver sospettato il Bonomi di essere un informatore dei servizi segreti.
Ma anche il Bevilacqua, partigiano, medico e anarchico, non manca di strani agganci.
Ha ammesso di fornire “attività informativa” per il Mossad dal maggio del ’48 e, insieme ma più tardi (1969), anche per il SID. Ad entrambe queste entità ha riferito della figura e dei movimenti di “Massimo”, alias Bertoli.
Da ultimo, Bevilacqua temeva per la sua incolumità.
Aveva avuto i tubi dei freni tagliati, aveva subito un pestaggio, con lungo ricovero in ospedale, da parte di ignoti.



E chissà a quale causa fu dovuta la morte di Moshè Katz, studente israeliano a Milano, trovato esanime cinque giorno dopo l’attentato di Bertoli, il 22 maggio 1973.
Fatto è che il nome di Katz viene segnalato da una donna, “Adriana”, con ripetute telefonate al giornale La Notte.
“Adriana” era convinta che Katz fosse stato assassinato; il giorno prima della sua morte, le aveva detto che voleva andare in Questura a “rendere importanti dichiarazioni” sul caso Bertoli. Ufficialmente, il giovane era morto per avvelenamento da ossido di carbonio: il suo scaldabagno funzionava male, e la finestra del bagno (a maggio!) era ermeticamente chiusa.
Il giudice si meraviglia della “celerità impressionante” con cui la salma di Katz viene trasferita in Israele (“il giorno dopo” la sua morte), e del silenzio delle autorità israeliane di fronte alla richieste di autopsia del giudice italiano.



Solo nel ’91 il nome di Katz rispunta fuori, quando il magistrato ottiene un “accesso” (limitato) agli archivi del SISMI.
Trova la traccia di tre schede (che rimandano a fascicoli “non rinvenuti”) a nome di Moshe Katz, il morto, e di Larry Smilovich e Goldberg Mony: ossia i due “personaggi che abitavano col Katz al momento della sua morte e subito dopo sono svaniti nel nulla”.
Anche Bertoli ha qualche viaggio-lampo nel suo passato.
Il magistrato scopre che arrivò in Israele via mare, senza che risulti il visto d’ingresso nel porto di Haifa; la procedura della sua ammissione al kibbutz che lo ospiterà per quasi tre anni (ma con varie uscite all’estero, come è stato appurato) avviene in modo assolutamente anomale, senza visita medica, senza schedatura.



Da lì riemergerà nel ’73 per lanciare la sua bomba.
Maldestro stragista: esiste agli atti una registrazione fra Amos Spiazzi, Eugenio Rizzato, Giancarlo De Marchi e Attilio Lercari (personaggi riconducibili alla “Rosa dei Venti” e alla Gladio) in cui uno di loro dice, deluso: “aspettavamo l’attentato a Rumor e non c’è stato alcun attentato a Rumor”.
Potremmo aggiungere molti altri dettagli.
Ma bastino questi.
Nell’insieme, da questa incredibile inchiesta, si ricava la sensazione che Bertoli, informatore dei nostri servizi, sia stato accolto in Israele nel quadro di una collaborazione tra servizi, o tra organizzazioni “stay-behind” riconducibili, forse, alla NATO.



Ma molto tempo è passato.
Perché ne parliamo adesso?
In questi giorni e mesi in cui si parla dei “terroristi islamici”, che colpiscono e poi scompaiono nelle inafferrabili “reti di Al Qaeda”, la quale essa stessa viene definita “una rete”, e addirittura “un franchising”, come se questo spiegasse tutto, forse è opportuno ricordare quel “terrorista solitario” e la complessa, intrecciata logistica che lo assisteva.
Quel finto anarchico in realtà nero, con passaporto di un leninista e protetto da un brigatista (anche lui forse falso).
Oggi si parla del terrorismo musulmano come se l’essenziale fosse chiaro: di qui il bene, di là il male occulto e misterioso, che viene “dal nulla” e colpisce, a New York, a Madrid, a Londra.
Forse non è senza significato ricordare quante cose c’erano dietro quel vecchio anarchico “venuto dal nulla” a tirare la sua bomba, nella Milano 1973.



di Maurizio Blondet



Modificato da PNF.Marco 05/08/2005 11.36

Nel tempo dell'inganno universale dire la verità costituisce un atto rivoluzionario

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