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Su Roland Barthes

Ultimo Aggiornamento: 22/06/2006 11:38
22/06/2006 11:38
 
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Ezio Raimondi
Un dialogo che continua



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Sommario
I.
II.
III.
IV. Ricordi personali
L'intertestualità
Il significato della retorica
Il Barthes autobiografico



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I. Ricordi personali


In Barthes par Roland Barthes,1 c'è una foto la cui didascalia dice: «Roland Barthes si annoia» ad un convegno. Quella fotografia si riferisce ad un evento bolognese ed è stata scattata nel ridotto del Teatro Comunale. Alberto Arbasino aveva allestito una Carmen, che venne definita strutturalista, perché c'era una serie di operazioni, forse meno straordinarie di quanto in quel momento non sembrasse, e degli effetti di ammodernamento (alcuni personaggi dei fumetti, ad esempio, erano diventati le vesti e le maschere di alcuni dei protagonisti del grande testo di Bizet). Alla fine di quello spettacolo, che suscitò allora qualche interesse e qualche polemica, ci fu una tavola rotonda, una serata di dialogo. Fra gli invitati, insieme a me, c'era sicuramente Anceschi e c'era Roland Barthes; la fotografia di Barthes che si annoia a un convegno era relativa a quell'evento bolognese. Il mio ricordo di Barthes è legato a questo e ad altri incontri, avvenuti a Bologna, in occasione di convegni o conferenze. Le degré zéro de l'écriture uscì nel 1953 da Seuil;2 quando nel '55 si aprì la facoltà di Magistero ed ebbi l'incarico di Letteratura italiana, facendo delle lezioni introduttive sulla stilistica, incontrai questo libro. Allora pochi sapevano chi fosse Roland Barthes e mi sembrò che quello fosse un testo in cui certe analisi, che io chiamavo tradizionalmente strutturalistiche e potevano andare grossomodo da Spitzer a Curtius, trovavano una nuova dimensione, tanto c'era un dato sociologico nuovo che in quegli anni attraeva e sembrava uno dei problemi necessari, attraverso i quali muovere la critica letteraria e darle una dignità storica. In secondo luogo, la dimensione - diciamo così - di tradizione critica più specifica veniva inserita in una dimensione anche di letteratura militante, da Sartre a Camus, e comparivano, per me forse per la prima volta, tanto Camus quanto soprattutto Céline, elementi che, insieme, ricreavano un interesse tutto particolare. È probabile che io leggessi quel Roland Barthes in una chiave che non era la più propria; tuttavia era un modo per farlo entrare in una cultura di altra dimensione e di altra formazione, come un fermento, come una ragione nuova. Forse già allora istintivamente sentivo - anche se mi mancavano certi strumenti percettivi più adeguati - che in Roland Barthes non c'era solo un critico ma un critico scrittore, come poi si è riconosciuto in tempi successivi, salvo dare a questa formula una dimensione più positiva o più negativa: critico scrittore, cioè critico con qualche cosa in più; o scrittore critico, perché soprattutto scrittore più ancora che critico.
In anni successivi, all'Istituto di Glottologia di Heilmann, che era in quel momento in Italia uno dei primi ad aprirsi ad una linguistica strutturale di tipo boemo - la cosa è molto importante perché fu lui in seguito a portare anche Martinet e la traduzione di Martinet in italiano -, Barthes venne a fare una lezione. Eravamo negli anni '50, quando una certa idea e un certo nucleo della sinistra conoscevano una notevole espansione, con caratteri che oggi forse sono da mettere in discussione in sede critica. Mi colpì allora profondamente il fatto che, proprio in quegli anni, Barthes usasse Greimas, ad esempio, per mostrare come il marxismo fosse una grande costruzione mitica e per sciogliere il marxismo in una dimensione di invenzione del male, abbinata a quelle che erano le categorie per noi oramai canoniche della dialettica, dell'idealismo di sinistra, facendo così un certo effetto. Successivamente Barthes venne invitato alla facoltà di Magistero, quando uscì quel famoso numero di «Communications» sui récits,3 in cui si citava James Bond, con varie analisi sulle parti superflue e le parti essenziali di un testo. Lo invitammo e venne a fare una serie di lezioni proprio su quel testo, con nuove analisi; rimase a Bologna per alcuni giorni e quindi fu possibile conversare con lui abbastanza a lungo; in quella circostanza, ricordo anche un fatto bibliografico: un giorno, passando davanti ad una libreria, vicino all'università, Barthes vide che c'era un libro che i francesi non avevano ancora tradotto, il libro di Propp, non quello sull'analisi della fiaba che aveva avuto una straordinaria risonanza in Francia,4 ma Le radici storiche dei racconti di fate,5 anch'esso pubblicato da Einaudi, e si affrettò ad acquistarlo, perché lo incontrava per la prima volta. Ho il ricordo di queste conversazioni e soprattutto dello straordinario stile, dello straordinario garbo, della straordinaria misura con cui Barthes conversava e discorreva di cose di cultura e di cose quotidiane. C'era una sorta di ironia fatta di riserbo, con certi sorrisi che avevano sempre una lievissima piega di tristezza, con una sorta di lucidità amabile, che non voleva imporsi, anzi che si teneva un passo indietro e proprio in questo modo veniva avanti ancora di più. E quindi c'era uno stile nel suo comportamento diretto, in questa sorta di moralità, in cui la luce aveva sempre una singolare velatura, dimostrava come intelligenza e sensibilità diventassero alla fine quasi uno stile di vita. E rispetto alla scrittura c'era forse anche un'amabilità maggiore, una disponibilità, un'attenzione fatta sempre di misura, con questa cadenza lievemente ironica, che però aveva un segno quasi di responsabilità e di sentimento dell'altro, che non faceva mai nulla per la sola volontà di imporsi. Ricordo come per la prima volta, in queste giornate di studi a Bologna, Barthes ci parlò di Lacan, che era l'astro allora nascente; ce ne parlava però con una sorta di rispetto, che era fatto anche di timore, ed anche questo segnava la differenza del temperamento, del carattere da una parte; la persona invece riservata, ma tutta umana dall'altra, con un'intelligenza che si scioglieva tutta nella sensibilità, in cui la discussione di un'idea diventava attenzione per le cose, capacità di comprendere e piacere di dare ordine e, qualche volta, anche di fare della letteratura uno straordinario, intelligentissimo ma sempre umano gioco. Questi sono gli elementi che ho.
Mi riesce difficile adesso parlare della pagina di Barthes senza vederlo, senza rievocare un poco la sua voce; è difficile ricordare ora l'impressione, perché è una voce che vedo tutta attraverso il suo volto, attraverso quella singolare malinconia che non aveva niente della recita; era un sorriso che racchiudeva l'ironia di Barthes, della sua avventura intellettuale. Ho la sensazione che in Le degré zéro ci fossero già molte delle radici successive; c'era sempre una certa distanza rispetto al problema, c'era sempre un distacco di Barthes, che non restava mai vittima della formula che inventava, ma la muoveva in una specie di gioco intellettuale straordinario, già pronta alla fase successiva, in questa curiosità senza fine, nella quale il rapporto con la scientificità era anche probabilmente un'ironia sulla scientificità, come a poco a poco diventò chiaro: la Leçon6 basta da sola a mostrare certe possibilità e certi sviluppi. E alla fine c'era, per usare delle categorie tradizionali, il grande letterato, l'uomo che apparteneva al genere Valéry, che stava dentro alla letteratura ma nello stesso tempo si poneva il problema della responsabilità della letteratura, e nel momento in cui parlava dell'impossibilità della letteratura moderna, cercava invece di definire certi caratteri, certi ragionamenti militanti, certe capacità conoscitive.





II. L'intertestualità


Quanto al problema dell'intertestualità, è probabile che sia uno dei problemi che Barthes ha sentito fin dall'inizio, e sul quale bisognerebbe oggi certo ritornare, rileggendolo, per uscire dai miti di allora o dai contro-miti di adesso. Allora, invece, con occhio diretto avevo letto le pagine, uscite nel '69-'70, de La retorica antica.7 In quel libro si parlava già di intertestualità e dunque era dal vecchio discorso letterario che Barthes traeva questa nuova ragione, con possibilità diverse che se da una parte, potevano portare a una crisi del soggetto ed a sentire la letteratura in una grande dimensione impersonale, dall'altra portavano anche a sentire le parole nella loro individualità, attraverso un'operazione complessa che avrebbe distrutto la pluralità delle forme. Probabilmente bisognerebbe vedere meglio anche quali furono i rapporti e i debiti di Roland Barthes con le analisi storiche di Fernand Braudel, con la nuova dimensione della «lunga durata», delle strutture che diventavano insieme temporalità e storia, perché nel momento stesso in cui a tratti pareva che il discorso storico si attenuasse, per un altro verso invece in Roland Barthes restava fortissimo il senso della temporalità. Dunque - di là dalle categorie per così dire storicistiche - c'era in lui una preoccupazione precisa che forse, rileggendo anche Le degré zéro, si vedrebbe meglio come un certo problema della storicità, dell'etica che entra nel gioco della scelta della parola. E questo disponeva poi anche ad un discorso di analisi storica, non certamente di tipo positivistico per così dire postnietzschiano, che dava però alla definizione dell'intertestualità un peso e una dimensione straordinariamente viva e forse nuova, nel suo seminario sulla retorica antica. C'era un'attenzione particolare al grande libro di Curtius Letteratura europea e Medio Evo latino,8 quindi un discorso sulla letteratura come grande istituzione; ma il discorso dell'individualità mirava al problema del soggetto, vi trovava certe definizioni e certe ragioni nuove.
A questo punto sarebbe interessante vedere come dentro Barthes, in questa specie di grande costellazione dove tante cose si modificano e nello stesso tempo ritornano su se stesse, si sviluppasse poi la categoria dell'intertestualità, come si muovesse al di là di quelle ragioni polemiche venute in tempi più recenti. È il caso di S/Z,9 ad esempio, per lasciare stare il problema di Sur Racine10 e della polemica Picard-Barthes che ne seguì. D'altra parte, già nel discorso di Critique et vérité,11 nella polemica con Picard, Barthes insisteva sul fatto che la storia della letteratura, di là dal problema della soggettività che non fa storia o che esce dalla dimensione istituzionale, si poteva concepire come una storia dell'idea di letteratura, idea che andava ben al di là di ciò che nel linguaggio della critica italiana si proponeva come problema della poetica. E la stessa formula ritornava anche nelle pagine sulla retorica antica, dove nelle ultime battute, si diceva proprio che c'era un'esigenza della storia della retorica - come ricerca, come insegnamento - arricchita dalle nuove idee (la semiologia, la linguistica, il marxismo, la psicanalisi). Dunque c'era la preoccupazione di stabilire delle relazioni, di vedere degli insiemi che per un verso sembravano portare a una grande sincronia, ma che all'interno comportavano invece un movimento diacronico, che sempre è stato presente. E quando poi nella Leçon veniva giocando su «sapore» e «sapienza», era come se la vecchia grande straordinaria tradizione letteraria ritornasse su se stessa, rinnovata e resa ancora più moderna. Dopotutto Barthes cercava di mostrare come nel vecchio discorso letterario, una volta adeguatamente rinnovato, vi fossero strumenti di conoscenza - come avrebbe detto Calvino - che appartenevano soltanto alla letteratura, visto che il tassonomico, il piacere di certe formule, la volontà di costruire delle apparenze di sistema -, era probabilmente per Barthes un modo di tentare di assimilare una prospettiva scientifica in un altro tipo di scientificità, introducendo come specifico della letteratura anche il problema dell'ironia, della capacità di non sottostare all'iniziativa di altre categorie, ma di trasformarle e di farle diventare proprie. Per un momento sarebbe il caso di ricordare Svevo, quando utilizzava la psicanalisi per porsi oltre la psicanalisi, quasi ad indicare che nel momento stesso in cui il suo racconto accettava le categorie proprie dell'analisi, la letteratura imponeva una nuova iniziativa, che si muoveva al di là delle stesse categorie con le quali dialogava e alle quali sembrava di ridursi. Anche in Barthes c'era una volontà continua di usare certe categorie, certe formule, senza mai restarne vittima, con uno spazio, un margine di manovra, una libertà che era appunto quella che nella vecchia tradizione romantica si sarebbe chiamata ironia. Non so se Barthes citasse mai Federico Schlegel, ma era quella grande tradizione romantica che, attraverso le nuove dimensioni letterarie francesi - da Gide a Valéry e oltre -, riprendeva di nuovo una dimensione. Credo che lo stesso Todorov nella Critica della critica12 avendo in mente proprio tutte le sue analisi del simbolismo della tradizione romantica, parlasse di Barthes come di un romantico, romantico certamente se pensiamo che la poetologia romantica degli Schlegel, o più ancora di Novalis, conta forse per una dimensione della modernità e quindi una prospettiva, un orizzonte critico dentro il quale è molto probabile che, al di là di una serie di metamorfosi, continuiamo ancora a muoverci. È quella la logica dentro la quale deve forse essere collocato. La parola intertestualità, presente nelle pagine de La retorica antica, va vista al di là di altre parole d'ordine, dentro questa dimensione di lunga durata, dentro quello che è il destino stesso della storia della modernità.




III. Il significato della retorica


Barthes è stato tra coloro che hanno percepito di più, nel tempo, la presenza e il significato della retorica e della retorica antica anche all'interno della modernità. È uno dei tanti paradossi della straordinaria tradizione romantica da Schlegel a Novalis, perché con quella tradizione per un verso si andava di là dalla retorica, ma per un altro verso si approfondivano le ragioni di quella che poteva essere una nuova retorica; ed è una sorta di paradosso che appartiene proprio alle ragioni importanti della cosiddetta poetologia e della riflessione sulla parola letteraria e poetica del Romanticismo. Qualche cosa di simile accadeva anche in Barthes.
Dentro questa dimensione di grande paradosso - ma sono molti i paradossi nei quali si muoveva Barthes, quasi che la letteratura sia uno dei luoghi del paradosso -, Barthes sentiva che la retorica - la retorica antica in particolare -, rinasceva nel mondo contemporaneo al di là della letteratura, dei miti e delle mitologie attuali: il problema della propaganda, della comunicazione e della pressione psicologica sul pubblico e sull'uditore, erano tutti problemi di tipo chiaramente retorico e nella retorica antica più volte Barthes indicava proprio questa relazione. Diceva infatti che nel mondo contemporaneo c'era come la vendetta della vecchia retorica aristotelica che dopo essere stata cancellata, rinasceva nella comunicazione di massa, rendendosi benissimo conto che il problema non era più soltanto di ordine letterario, ma anche socio-etico-civile; in questo modo si legavano insieme certe ispirazioni lontane, quelle che facevano già sentire una sorta di voce originale dentro Le degré zéro, quando si parlava di rivoluzione, di trasformazione, di utopia. Perché in questa maniera l'analisi intellettuale diventava anche un'analisi etico-conoscitiva del mondo contemporaneo e soprattutto la retorica implicava un altro dei temi che Barthes ha sempre avuto presente, il rapporto tra la parola e le pouvoir, il potere. Non c'è dubbio che per chi, come me, muovendo da altre tradizioni, si è incontrato con il tema dominante della retorica, parole come quelle di Barthes, che avevano anche il soffio della modernità, il senso della novità, il piacere dell'estro, la capacità non ripetitiva ma inventiva di una straordinaria, intellettuale variazione, diventavano una specie di impulso, di invito, di conferma di cui non si poteva fare a meno. Qualche volta poi entrava in gioco una lieve ingratitudine, perché più Barthes era presente, più si fingeva di non citarlo; e del resto, come si faceva a citare Barthes ed a gareggiare con la sua capacità verbale, con quella che, per usare la categoria di Calvino, si potrebbe definire la sua inimitabile «complicatezza leggera»? E allora, in quei casi piuttosto che irrigidirlo, imprigionarlo in una semplice citazione erudita, lo si citava di nascosto, lo si faceva quasi rimbalzare e riflettere dentro la propria parola, ma era il riferimento più profondo ed era la conferma più ambìta.
La differenza era che, per me, era diventato dominante un aspetto che notoriamente nella cultura francese aveva minore peso, ed era la grande retorica barocca. Non aveva certamente, nel mondo francese, un personaggio corrispondente al nostro Tesauro col suo Cannocchiale aristotelico; aveva viceversa tutta una serie di riferimenti che, dentro la moralistica francese, si era fatto dei grandi testi spagnoli. Al di là di questi, che erano momenti differenziati, il discorso diventava un discorso comune, perché non c'è dubbio che anche Barthes capiva che la retorica, ad un certo punto, diventava un'etica, com'era del resto già accaduto con Aristotele, e a questo punto, si rendeva conto dell'importanza di quelle che in Aristotele è la doxa, cioè le opinioni comuni, le verità che non sono verità scientifiche ma verità della conoscenza comune civile; ed era su questo sistema, su queste probabilità, che si costruiva la saggezza retorica. Sarebbe quasi da pensare per un momento, ma è solo un'ipotesi, che un testo come la Leçon fosse come la conclusione della retorica di Barthes e delle sue verità, verità probabili, incerte, non assolute che erano state il suo attraversamento della letteratura, dello strutturalismo, della semiologia, di molte altre cose. Ed era quindi la sua voce più diretta, la sua sapienza, il suo «sapore», per ricordare i suoi giochi di parole, dentro cui rifluiva la grande saggezza della retorica antica, rinnovata attraverso i secoli.
Certo però quella voce, che io colgo soprattutto come un'impressione di sorriso, continua ad essere la verità profonda dei testi di Barthes, continua ad essere - per usare una formula di Brodskij - il punto non ordinario, che è sempre la costruzione della letteratura e, in questo caso, è Roland Barthes, di là dalla sua camera chiara, di là dalle sue pagine di riflessione. Barthes alla fine aveva in mente anche una sorta di romanzo-romanzo - qualche cosa che era già in Barthes par Roland Barthes, oppure anche ne La Chambre claire;13 ma probabilmente Barthes il suo romanzesco, come aveva detto più volte, lo aveva già affidato ad altri testi, a quello che era forse il gioco diretto, più vivo, di quanto non lo sarebbe stato forse se si fosse trasferito anche nella pagina narrativa vera e propria. Era una specie di tensione di secondo grado, che però si alimentava di un'altra invenzione che costituiva una nuova formula; probabilmente in Barthes l'intertestualità è costitutiva anche della sua pagina, in questo dialogo nascosto, e le stesse categorie scientifiche (Hjelmslev e così via) erano un modo poi per usare l'altro, facendolo diventare l'altro da sé, e in questo caso accettando il rischio di interpretarlo in un altro modo, come avrebbe detto Bloomfield, «fraintenderlo», essendo però il fraintendimento quella che noi chiameremmo una sorta di interpretazione forte.
Una cosa che mi ha colpito, su cui bisognerebbe probabilmente ritornare, è l'uso della parola «responsabilità». La sua responsabilità non è di tipo positivo, positivistico, legata alla presenza dei fatti, ma è una necessità, un dovere di dare conto; non arriverei a pensare che in Barthes ci fosse una posizione che si avvicinava a quella di Bachtin che per altro canto veniva riproposto, seppure con un'interpretazione molto particolare da Todorov, e diceva che in fondo l'interprete, il lettore, risponde al testo e stabiliva un rapporto tra risposta e responsabilità, con la necessità del lettore di essere tanto più responsabile, quanto più creativo.
Sull'abilità stilistica di muovere tra lessici, avventure intellettuali, avendo sempre un margine proprio, si vede ora quanto pesasse la parola responsabilità, e come si versassero in tempi che mutavano, le ragioni del primo Barthes, il Barthes di Brecht, il Barthes di un teatro di nuova natura, il Barthes che partiva da Sartre, che sentiva il problema dell'impegno, che erano appunto i problemi degli anni '50, destinati a modificarsi con nuove idee, con nuovi fatti, con nuove polemiche, qualche volta con nuovi miti. Ma l'analista delle cose contemporanee aveva alla fine - nel momento stesso in cui conservava alla letteratura il suo potere conoscitivo - l'esigenza anche di un intervento, l'esigenza di un atteggiamento. Non so se, a questo punto, in modo retrospettivo, possa valere per lui quello che in tempi recenti avrebbe detto un grande scrittore come David Grossman: la letteratura non può modificare il reale ma può modificare il nostro atteggiamento dinanzi al reale. È probabile che queste ragioni restassero al fondo di Barthes, ma facevano parte della sua ironia, che era il paradosso della serietà dentro la letteratura, dentro un possibile gioco.
Naturalmente si restava colpiti da certe azioni di virtuosismo analitico, ma aveva una capacità straordinaria di costruire un grande edificio che andava al di là dal testo a cui si riferiva, e a poco a poco era come un'altra invenzione, che poteva ricondurre all'invenzione del testo, ma che, a un certo punto, viveva per proprio conto. E anche in questo caso se ne possono ricavare diverse conseguenze. Una conseguenza possibile è che il paradosso, il virtuosismo tassonomico, il piacere delle formule, la reinvenzione delle categorie erano per il lettore una sorta di invito a cambiare le proprie ragioni, a uscire dalla propria riflessione intellettuale irrigidita, a riaprire i processi, a rimettere in discussione tutto. Non si trattava in questo caso di difenderlo, ma di continuare su quella strada, magari poi di ritornare anche al testo iniziale, di là dell'operazione progressivamente realizzata dallo stesso Barthes. Quindi anche in questo caso vale il principio che uno scrittore, uno scrittore critico come Barthes, con questa specie di lungo itinerario, con questa sorta di paesaggio fatto di cose simili e differenti, va per un verso inteso e interpretato in rapporto alle ragioni temporali in cui era calato, ma va visto anche qualche volta nei contesti successivi ed i contesti successivi non portano soltanto a metterlo da parte, ma a ripensarlo in un altro modo ed a sentirlo di nuovo, non come un contemporaneo di ieri, ma come un contemporaneo di oggi, con una sorta di nostalgia, di malinconia. Forse, alla fine, è il Barthes che conoscevamo, ma è anche qualche cosa d'altro. Il testo, in questo caso, non è mai un testo chiuso, ma un testo che continua a riaprirsi, a creare nuove relazioni, a preparare qualche cosa, a esprimere un potenziale di cui non ci eravamo forse neanche accorti.




IV. Il Barthes autobiografico


Mi viene sempre in mente ciò che osservava Todorov in certe sue pagine di amicizia e di una segreta commozione, quando diceva che il Barthes autobiografico vero è quello di prima dell'autobiografia; o, per meglio dire, le pagine venute dopo, in cui Barthes rinunzia a quell'ironia del gioco diretto, servono a leggere meglio le pagine precedenti; e forse, a questo punto, più che una rivelazione sono un chiarimento, sono una specie di paesaggio dentro il quale si deve iscrivere tutto il paesaggio precedente, e quindi è una sorta di diverso uso dell'ironia. C'è ironia nel momento in cui Barthes diventa autobiografico, ma c'era un'altra ironia precedente, che bisogna a questo punto, per così dire, mettere in chiaro e recepire meglio; quindi il secondo volto di Barthes è già iscritto nel primo, e nel primo ha qualche volta una complessità, qualche volta anche un'ingenuità che è l'elemento più caratterizzante della sua ironia intellettuale. D'altro canto, per tornare alla grande ironia romantica, a Federico Schlegel, la critica e l'io erano intimamente congiunti già in quella fase. Barthes rivive tutto questo alla sua maniera, con la sua capacità inventiva e il dopo illustra ancora meglio il prima. Prendendo le pagine di Barthes par Roland Barthes, e rileggendo Le degré zéro, probabilmente alcune cose diventano più limpide ed il discorso che Roland Barthes faceva con l'altro - ma faceva soprattutto con se stesso - diventa più esplicito, e l'io nascosto emerge meglio; allora forse anche questo è un elemento di cui dobbiamo tenere conto, se vogliamo leggere Roland Barthes finalmente nella sua integrità, nella sua pienezza, nella sua dimensione di paradosso, con quella volontà intima di dare ancora alla letteratura una lezione di conoscenza, una lezione di ontologia frammentaria e temporale, che rappresenta alla fine un essere, che dà le sue ragioni e illustra il suo paesaggio, le sue ansie, i suoi desideri e qualche volta anche i suoi fallimenti. È in questo modo che emerge, parziale e fragile, la saggezza di Barthes in un tempo, così clamoroso e lontano dal suo gusto. Credo che possano ancora valere per Barthes le parole di Hoffmansthal, quando diceva: «il buon gusto è una battaglia continua contro l'enfasi». Qualche cosa di simile c'era sicuramente anche in Barthes: la sua era una parola delicata, che aveva il senso dell'ironia, anche nella sua segreta voce selvaggia; e come mi è già capitato di ricordare per scrittori che mi sono cari, anche per Barthes si può ripetere quello che diceva Wittengstein: «ogni scrittore si porta dietro un essere selvaggio addomesticato». Il paradosso di Barthes era poi che l'intelligenza conosceva le sue origini oscure, conosceva le sue zone d'ombra, e quest'insieme, con la temporalità a cui siamo condannati, poteva dare quello che Barthes nella Leçon chiamava la «saggezza», quella saggezza che nasce attraverso il senso, la grana della parola, la grana della voce, la voce su cui Barthes ha insistito tante volte e che veniva dalla vecchia educazione musicale, e sentiva la fine; come avrebbero detto i poeti, rimaneva poi il problema di una immaginazione uditiva.

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