Link
Indipendèntzia Repùbrica de Sardigna | Forum ufficiale i.R.S. | Teleindipendèntzia | Radio Indipendèntzia | Forum L'unione sarda | Visti dall'isola | Dizionario sardo | Contusu Antigusu | Cagliari | Cuore Rosso Blu
| Luogocomune | LiberaMente
Mary Shopping Center

Nuova Discussione
Rispondi
 
Stampa | Notifica email    
Autore

Vignette satiriche su Maometto,l'Islam insorge

Ultimo Aggiornamento: 31/08/2007 11:36
02/02/2006 22:04
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.096
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Reporters sans frontieres esprime 'preoccupazione' per la reazione dei paesi arabi dopo la pubblicazione di caricature di Maometto in Danimarca. Questa reazione, dice il direttore di RSF Robert Menard, 'testimonia il disconoscimento di quella che e' la liberta' di stampa'. Un concetto ribadito anche dal giornale 'France Soir',che pubblica oggi le caricature incriminate. Anche la Giordania ha annunciato che boicottera' i prodotti danesi e norvegesi, e l'Iran ha convocato gli ambasciatori dei 2 Paesi.

04/02/2006 22:12
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.118
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Non deriderai la religione altrui



Continua la "crisi delle vignette" con aggiornamenti costanti che provengono da ogni parte remota del globo. Il mondo occidentale si interroga su quale sia il giusto bilanciamento fra libertà di informazione e rispetto per le credenze religiose altrui, mentre nel mondo islamico si condannano le provocazioni, segno di unacrescente islamofobia.

Oramai si è di fronte ad un muro contro muro, ad una questione di principio che si va radicalizzando. Basti pensare che le vignette furono pubblicate a settembre, e che soltanto un’improvvisa riproposizione della questione sovraccaricata di significati legati alla libertà di stampa e all’illiberalità dell’islam ha creato il domino di dichiarazioni, provocazioni e manifestazioni a cui stiamo assistendo oggi su scala globale.

Fermenti e proteste si registrano nel mondo islamico, con la condanna ufficiale ai disegni provocatori del parlamento pakistano, ...

... minacce di boicottaggi e manifestazioni di protesta particolarmente feroci a Jakarta e a Gaza City. Se nella capitale dell'Indonesia è stata presa di mira l'ambasciata danese, chiusa per precauzione, che è stata bersaglio di uova e davanti alla quale è stata anche data alle fiamme da circa 300 militanti la bandiera danese prima che i dimostranti ottenessero un colloquio con l’ambasciatore, in Palestina un cittadino tedesco è stata sequestrato durante un’irruzione in un ufficio dell’Unione Europea e subito rilasciato da uomini armati che chiedevano le scuse ufficiale ed una bomba è stata gettata in un centro culturale francese. Ieri Mentre il ministro degli esteri indonesiano ha affermato che questo evento non fa che evidenziare una crescente islamofobia, la comunità cristiana iraqena ha espresso preoccupazione in quanto teme di trovarsi pur senza colpa al centro di rappresaglie, mentre molti diplomatici e operatori umanitari europei sono fuggiti dal Medio Oriente e dalla striscia di Gaza. In Norvegia, un editore che aveva pubblicato le vignette ha ricevuto diverse minacce di morte, mentre in Giordania il direttore di un giornale che pure aveva pubblicato le vignette soltanto per mostrare la consistenza degli insulti all'islam contenuti in esse chiedendo ai musulmani di essere “ragionevoli”, si è sentito in dovere di chiedere scusa pubblicamente in una lettera aperta. Grandi manifestazioni di protesta sono previste anche in Iran; la forte comunità musulmana sudafricana ha condannato le vignette e lo stesso hanno fatto gli sciiti iraqeni, per oggi è prevista anche una manifestazione della comunità islamica britannica.

In Italia le reazioni ufficiali sono state comunque ferme ma, almeno per ora, la comunità islamica ha preferito abbassare i toni. “Crediamo che la libertà d’espressione sia sacrosanta. Ma non può essere separata da un criterio di responsabilità. I simboli religiosi, di qualunque fede, esigono il rispetto di tutti. Cosa accadrebbe se si infangasse la figura di Cristo? O se si facesse satira sull’Olocausto?"- ha commentato l’imam tunisino Samir Khaldi, della moschea Al-huda a Roma. "Bisogna fermare quest’onda, molto pericolosa anche all’interno della stessa Europa, dove ormai vivono oltre 20 milioni di musulmani. I politici e gli opinion leader dovrebbero spingere in questa direzione. Anche un pronunciamento del Papa potrebbe aiutare. Non si tratta di tirare in ballo la Chiesa come corresponsabile, ma di richiedere l’intervento di un’autorità morale di valore mondiale come il Papa." ha dichiarato l'imam durante un'intervista pubblicata su Il Mattino e, nel web, su Lettera22.it.

Di scuse ufficiali se ne sono invece viste poche, anzi praticamente nessuna. Soltanto il quotidiano da cui tutto cià è partito, e cioè il danese "Jyllands-Posten", che si era difeso a suo tempo dichiarando di voler dimostrare che, nonostante la crescente comunità musulmana, in Danimarca vigeva la massima libertà di stampa, si è scusato ufficialmente. Nel frattempo, però, la caccia un pò irresponsabile alla vendita di qualche copia in più, il desiderio di ribadire il sacrosanto ideale di libertà di stampa e, forse, anche la natura provocatrice e sensazionalistica di parte della stampa mondiale, ha diffuso le vignette incriminate pubblicate oggi sulle prime pagine della Padania e di Libero. Il direttore-provocatore di quest'ultimo, Vittorio Feltri, ha corredato le vignette con un editoriale nel quale ha affermato che è "Il proprietario di France Soire ha cacciato il presidente e direttore della prestigiosa testata per un motivo idiota: aver pubblicato con evidenza le cosiddette vignette sataniche, cosucce umoristiche su Maometto, l'Islam e quei bigottoni e beoti che cascano in ginocchio ogni qualvolta si pronunci il nome di Allah. L'editore ha un nome che è tutto un programma: Raymond Lakah, chiara origine egiziana. Come ha costatato che il giornale aveva osato profanare, si fa per dire, la religione musulmana ha perso la testa come tutti quelli che non ce l'hanno e ha inviato al responsabile redazionale una lettera, sollevandolo dall'incarico." ha scritto il giornalista italiano in un articolo intitolato "Qui comanda Maometto".

In un'intervista al quotidiano francese "Le Monde", il direttore di Al Jazeera, Waadam Khanfar, ha precisato che la sua televisione "rispetta profondamente la libertà di espressione, che rappresenta un bisogno importante nel mondo arabo, ma le immagini delle caricature non danno alcuna informazione o opinione. Sono puramente offensive".

Liberation, in Francia, ha pubblicato parte delle immagini a margine di un editoriale intitolato "Liberation difende la libertà di espressione". In una delle due vignette un imam dice a alcuni aspiranti attentatori suicidi di desistere perchè in paradiso non sono rimaste più vergini per premiarli. Poco distante, in Belgio, De Standaard ha pubblicato le immagini dopo aver ricevuto diverse richieste dai lettori. El Pais (Spagna), the Sun (Inghilterra), il neozelandese Dominion Post e altri ne hanno pubblicate alcune parti con differenti livelli di censura. Buona parte della stampa francese ha espresso il suo sostegno al direttore di France Soir, lincenziato dall'editore dopo avere pubblicato una vignetta incriminata. “La redazione – ha detto al Foglio il caporedattore centrale di France Soir Arnauld Levy – è ancora convinta della sua battaglia di libertà. Stiamo con il direttore. Quella di pubblicare le vignette è stata una decisione che abbiamo preso collettivamente, in riunione. E finora non abbiamo ricevuto nessuna minaccia, i lettori sono solidali". La vendita del giornale, nel frattempo, è stata vietata in Algeria e Marocco.

I giornali tedeschi, a partire dall'autorevole Frankfurter Allgemeine Zeitung, si sono uniti anch'essi al coro dei paladini della libertà di stampa. Il quotidiano di Francoforte ha definito gravi e sbagliate sia la decisione di Jyllands-Posten, il giornale che ha pubblicato le vignette incriminate, di scusarsi con i musulmani, sia la decisione di licenziare il direttore di France Soir, il cui editore è un ricco franco-egiziano, per aver riprodotto le caricature ritenute oltraggiose. "Entrambe le decisioni sono il segno di un cedimento preoccupante davanti alle minacce degli integralisti". "la libertà di stampa - scrive il giornale - è uno dei valori fondamentali dell'Occidente e comporta inevitabilmente il diritto alla critica e alla satira. Il tentativo degli integralisti di limitare questa libertà non può essere accettato e deve essere respinto con fermezza. La risposta giusta non è di accucciarsi come cagnolini ma di solidarizzare con chi viene minacciato. In questa vicenda noi europei dobbiamo essere uniti, dobbiamo essere compatti nella difesa degli ovvii diritti della libertà di opinione perché solo così riusciremo a neutralizzare chi ricatta giornali e paesi che alla lunga da soli non potranno resistere."

La preoccupazione è che, visti i tempi che corrono, si stia giocando un pò troppo con il fuoco. A forza di soffiare, e di tirare acqua al mulino delle frange cosiddette integraliste, c'è il rischio serio che i terroristi, i provocatori e i delinquenti che da una parte come dall'altra spingono per il conflitto di civiltà possano accrescere i loro consensi. La libertà di stampa e di espressione è una grande conquista assoluta della nostra civiltà; questa mancanza di comprensione delle ragioni altrui, che nella specifica vicenda delle vignette non ci cotringerebbe a rinunciare a nulla di fondamentale, e che magari è soltanto il paravento dietro al quale si nasconde una xenofobia antica come il mondo o semplicemente l'aspirazione di vendere una dozzina di copie in più o di giocare (col fuoco) a fare il martire (speriamo, umanamente, non fino in fondo), è però il primo segno di un pericoloso imbarbarimento, di una mancanza di "sapienza e moderazione" e di un’aggressività che ci deve anch'esso far meditare.

04/02/2006 22:20
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.120
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Manifestanti che protestavano contro la pubblicazione delle caricature di Maometto hanno oggi appiccato il fuoco alla sede dell'ambasciata della Danimarca a Damasco.

IRAN, RITORSIONI CONTRO PAESI OCCIDENTALI
Il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha oggi ordinato la revisione e l'annullamento dei contratti economici" con la Danimarca e i paesi in cui sono state pubblicate le vignette su Maometto. Stando all'agenzia studentesca Isna (semi-ufficiale), il presidente ha denunciato "l'insulto di certi media occidentali nei confronti del Profeta, che dimostra l'odio verso l'Islam e i mussulmani provato dai sionisti che governano questo paese". Il presidente iraniano, secondo l'agenzia, ha inoltre stigmatizzato "la mancanza di qualsiasi iniziativa seria da parte delle autorità di questi paesi". "Bisogna rivedere e annullare i contratti economici con il paese che ha dato inizio a questo detestabile atto (la Danimarca) e quelli che lo hanno seguito", ha affermato Ahmadinejad secondo l'agenzia. ROMA - Per solidarieta' con i giornalisti danesi che hanno pubblicato le vignette ritenute blasfeme dagli islamici, 'Il foglio' ha scelto una strada singolare. Oggi e' in edicola con una bandiera della Danimarca (tutta rossa con una croce bianca), ovvero una doppia pagina che fa da prima e ultima del giornale stesso. Inoltre all'interno (ovvero seconda pagina e penultima) sono pubblicate una fitta serie di immagini del famoso burro salato danese. Sulla bandiera infine, sotto la testata del Foglio, l'invito: ''compriamo danese''.

NAVARRO, CONVIVENZA ESIGE RISPETTO
''La convivenza umana esige poi un clima di mutuo rispetto, per favorire la pace fra gli uomini e le nazioni''. Lo ha detto il portavoce del Vaticano, Joaquin Navarro Valls commentando il caso delle vignette blasfeme su Maometto. ''Il diritto alla liberta' di pensiero'' non puo' implicare ''il diritto di offendere il sentimento religioso dei credenti''. ''Azioni violente di protesta'' da parte del mondo islamico contro le vignette blasfeme ''sono deplorabili''. Il portavoce Joaquin Navarro Valls, nella dichiarazione, precisa la posizione della Santa Sede di fronte alle recenti rappresentazioni offensive dei sentimenti religiosi dell'Islam.

Se da una parte precisa che il diritto alla liberta' di pensiero ''non puo' implicare il diritto di offendere il sentimento religioso dei credenti'', dall'altra parte si richiama al ''clima di mutuo rispetto'', quale condizione necessaria per ''la convivenza umana''. Pertanto, prosegue il portavoce vaticano, ''talune forme di protesta di critica esasperata o di derisione degli altri denotano una mancanza di sensibilita' umana e possono costituire una inammissibile provocazione''. Tuttavia Navarro Valls non esista a ''deplorare'' le violente azioni di protesta da parte del mondo islamico per reagire all'offesa. ''L'intolleranza verbale o reale, da qualsiasi parte venga, come azione o come reazione, costituisce poi sempre una seria minaccia alla pace''.

ARRESTATO DIRETTORE SETTIMANALE GIORDANO
Il direttore del settimale giordano che aveva pubblicato alcune delle vignette raffiguranti il profeta Maometto ritenute blasfeme dal mondo islamico è stato arrestato oggi per ordine della procura generale. Jihad Momani, direttore di Shihane aveva deciso di pubblicare tre delle 12 caricature ritenute dissacrati ed offensive dai musulmani a corredo di un editoriale che richiamava gli arabi alla ragione e chiedendo provocativamente se danneggiassero maggiormente l'Islam tali caricature o le immagini di ostaggi sgozzati davanti alle telecamere. Immediate e dure le reazioni: ritiro del settimanale dal mercato, licenziamento in tronco del direttore, obbligo di scuse pubbliche. Il governo, attraverso il suo portavoce Nasser Judeh, aveva inoltre preannunciato l'avvio di "provvedimenti appropriati". Ancora stamattina i giornalisti di Shiane hanno diffuso un comunicato in cui prendono le distanze dalle scelte editoriali dell'ex-direttore, "che ha insultato la vera missione del giornalismo", e riconfermano il ruolo del periodico come strumento mediatico "per difendere i valori della nazione araba, dell'Islam e del suo Profeta". Intanto, anche un altro settimanale locale è finito nel mirino giudiziario: la procura generale ha aperto un'inchiesta a carico Al-Mehwar, anche esso reo di aver pubblicato le dodioci vignette, sebbene in un piccolo riquadro.

FRATTINI, C'E' BISOGNO DI EUROPA
''La vicenda delle vignette danesi rivela, in negativo, come il radicalismo musulmano abbia individuato nell'Europa la responsabile delle offese al sentimento religioso''. Lo afferma il vicepresidente della Commissione Europea Franco Frattini, in un messaggio inviato in occasione del convegno su ''Il ruolo dell'Italia nelle istituzioni europee'' in corso oggi a Venezia. Per Frattini, ''c'e' bisogno di Europa, un'Europa piu' protagonista, un'Europa che dovra' potere e sapere parlare con una voce sola mentre ancora non si accorge di essere percepita come una nazione sola''.

TENSIONE E POLEMICHE PER LE VIGNETTE SATIRICHE SULL'ISLAM
''Posso assicurarvi che il governo danese e' molto preoccupato per quanto successo, abbiamo avuto sempre una tradizione di collaborazione pacifica e un rapporto aperto col mondo islamico e vorremmo che continuasse cosi''. Sono alcune delle frasi pronunciate dal premier danese Anders Fogh Rasmussen, comparso ieri sera sugli schermi della Tv satellitare al Arabiya nel tentativo di attenuare la collera dei musulmani per la pubblicazione delle caricature di Maometto da parte di un quotidiano del suo paese. Il suo appello non sembra pero' aver avuto effetto sulle proteste, che sono proseguite.

INDONESIA - A Giakarta centinaia di militanti islamici hanno fatto irruzione nell'atrio di un edificio che ospita l'ambasciata di Danimarca. Gridando ''Dio e' il piu' grande'', i manifestanti, hanno frantumato lampade, buttato all'aria sedie e gettato pomodori e uova contro la targa dell' ambasciata danese, che si trova al 25/o piano dell'edificio e che i manifestanti non sono riusciti a raggiungere.

IRAN - A Teheran, l'ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani, parlando come guida della preghiera del venerdi', ha avvertito che ''non c'e' nessuno fra gli 1,6 miliardi di musulmani nel mondo che non sia arrabbiato''. Dopo la preghiera che si svolge il venerdi' all'Universita' della capitale, una manifestazione di protesta si e' svolta nella vicina Piazza Enghelab.

GIORDANIA - La decisione del tabloid 'Shihane' di riprodurre tre delle 12 vignette si e' attirata la condanna del governo, il ritiro delle copie dal mercato, il licenziamento in tronco del direttore. Sulla vicenda e' intervenuto anche re Abbdallah, secondo cui la scelta del tabloid e' stata ''un crimine non giustificabile con la liberta' di espressione''.

LIBANO - Il leader spirituale della comunita' sunnita libanese, sheikh Mohammad Rashid Kabbani, ha esortato i musulmani del mondo a boicottare i prodotti danesi e norvegesi: ''Gli ulema - ha detto - hanno deciso di denunciare cio' che e' stato pubblicato dal Jyllands-Posten e da Magazinet perche' e' una degradante raffigurazione del Profeta Maometto''.

IRAQ - Nella citta' sunnita di Falluja, centinaia di iracheni hanno manifestato e hanno dato alle fiamme prodotti danesi, al grido di 'Allah u Akbar'. Poco prima, lo sheikh Hamid al-Joumayli aveva condannato nella sua preghiera la pubblicazione delle caricature definendole ''un atto criminale commesso dalla Danimarca''.

GAZA - Nei territori palestinesi, le manifestazioni sono iniziate al termine delle preghiere del venerdi' nelle moschee e vi hanno preso parte decine di migliaia di persone. Nei cortei sono stati scanditi slogan contro l'Europa e in alcune localita' sono state date alle fiamme bandiere danesi.

EGITTO - Al Cairo, circa tremila egiziani hanno manifestato nella moschea di al Azhar e hanno scandito slogan contro la Danimarca e distribuito volantini con la lista di prodotti danesi da boicottare.

ARABIA SAUDITA - Mentre pronunciava la sua predica alla Grande Moschea della Mecca, l'imam Saleh ben Hamed e' scoppiato a piangere. ''I musulmani dovrebbero essere fieri del loro formidabile difensore, nostro Signore il beneamato Maometto'' ha detto Hamed, secondo cui ''e' chiaro a tutte le persone ragionevoli che insultare o ridicolizzare le religioni non ha niente a che vedere con la liberta' di stampa''.

SENEGAL - Il presidente Abdoulaye Wade ha ''condannato fermamente...la blasfemia sul Profeta Maometto (...) sotto il pretesto di una certa liberta' di stampa''.

MAROCCO - Il presidente del Consiglio Consultivo sui diritti umani del Marocco Dris Benzekri ha invitato l'Europa a aprire un dibattito sui limiti della liberta' di espressione e ha proposto che altrettanto faccia il Tribunale Europeo sui Diritti Umani di Strasburgo.

SOMALIA - Tutti sermoni delle preghiere del venerdi' svoltesi oggi a Mogadiscio sono stati molto duri nel commentare la vicenda. Dopo le preghiere molte centinaia di persone si sono riversate sulla Lenin road, al centro della citta', per manifestare contro la pubblicazione delle vignette.

MALDIVE - Il governo di Male' ha chiesto ai responsabili della pubblicazione di presentare immediatamente le loro scuse a tutti i musulmani. ''Le Maldive - ha dichiarato un portavoce - condannano vigorosamente la diffusione delle caricature del Profeta da parte di giornali danesi, norvegesi e francesi.

RUSSIA - Anche nel Caucaso russo le caricature di hanno suscitato indignazione. Il viceprimo ministro ceceno Ramsan Kadirov le ha definite ''un insulto rivolto a oltre un miliardo di credenti''. Nel vicino Daghestan il mufti' di Makhackala' durante la preghiera del venerdi' ha invitato i suoi connazionali a boicottare i prodotti di quei Paesi europei che ''bistrattano il nome e l'immagine del Profeta''.
05/02/2006 22:18
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.133
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Protesta per le vignette sull'Islam, scene di guerriglia a Beitut


Data alle fiamme, dopo quella di Damasco sabato in Siria, anche l'ambasciata danese a Beirut. Si calcola che quindicimila libanesi hanno partecipato all'assalto e messo a ferro e fuoco l'intero quartiere cristiano di Ashrafieh scontrandosi con le forze di polizia in assetto antisommossa. Decine sono stati i feriti e anche un morto, un uomo precipitato dal tezo piano del palazzo dell'ambasciata danese data alle fiamme. I manifestanti hanno eretto barricate, lanciato i sanni contro negozi e contro le vetrate di una chiesa cristiana maronita al grido «Allah u' Akbar», Allah è il grande, prima di essere respinti e dispersi.

In serata le emittenti radio hanno diffuso il bilancio della giornata: almeno una trentina di feriti, di cui 21 tra le forze dell'ordine, e 174 persone arrestate, diverse delle quali «non libanesi», secondo quanto ha affermato il leader dell' opposizione Saad Hariri. L'emittente radio Voce del Libano ha precisato che tra di essi ci sono 76 siriani, 35 palestinesi e 36 libanesi.

La protesta contro la pubblicazione di vignette satiriche su Maometto sul quotidiano Jyllands-Posten e poi riprese dalla stampa europea si sta trasformando in una ventata di ira anti-occidentale cavalcata dai gruppi più radicali.

Per altro anche il governo iracheno - dopo quello di Teheran - dice di voler interrompere i contratti di fornitura con Danimarca e Norvegia per la ricostruzione, attraverso il ministero dei Trasporti, come forma di protesta per il caso della satira sull'Islam.

Ovunque, da Nablus in Cisgiordania all'Afghanistan, dove una manifestazione domenica mattina è stata però senza violenze, la bandiera biancorossa della Danimarca è stata bruciata e sostituita da uno striscione con la scritta «Nessun Dio al di fuori di Allah, Maometto è il suo profeta». A Nablus, seconda città per importanza della Cisgiordania, i manifestanti musulmani hanno anche imbrattato di scritte e simbolicamente "chiuso" con una grande X a spray il centro culturale francese (alcuni giornali francesi, il primo dei quali France Soir erano stati i primi a ripubblicare le vignette incriminate) e reclamano le scuse del governo di Parigi.

L'Alto rappresentante Ue per la politica estera, Javier Solana, esprime una «condanna nei termini più forti possibili della violenza e le minacce contro i cittadini e gli interessi europei in Siria, Libano e altri paesi della regione». E dice, questi attacchi non fanno altro che danneggiare «l'immagine di un Islam pacifico». Solana invita tutte le autorità locali dei paesi arabi a prevenirli.

Anche il segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Scheffer, pur dicendo di comprendere i sentimenti offesi dei musulmani, condanna le violenze contro le ambasciate europee. «Non c'è assolutamente alcuna giustificazione per questa violenza - sostiene -, e la libertà di stampa nei nostri paesi non può essere messa in discussione».

La Siria condanna gli attacchi alle ambasciate danese e norvegese. Ma nel frattempo i governi di questi paesi invitano tutti i connazionali a lasciare la Siria.

05/02/2006 22:20
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.134
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Turchia, sacerdote italiano ucciso in chiesa da un giovane fanatico


Don Antonio Santoro stava pregando nella sua chiesa a Trabzon, città dell’Anatolia in italiano chiamata Trebisonda, sul Mar Nero. Il sacerdote, romano, aveva appena detto messa quando un ragazzo turco gli ha scaricato contro il caricatore della pistola che teneva in mano. Questa è la ricostruzione fatta dalla polizia turca alla Cnn. Secondo Sky il ragazzo sarebbe stato già identificato, si tratterebbe di un sedicenne che è stato visto fuggire dal luogo dell'omicidio ma di cui non viene fornito il nome. La tv ha mostrato anche una piccola folla vicino alla chiesa di Santa Maria dove il prete è stato ucciso.

Non è chiaro al momento quale possa essere il motivo che ha spinto ad uccidere il sacerdote romano, ma si potrebbe trattare anche di un eccesso di fanatismo anti occidentale nel contesto dell’ira del mondo islamico per le vignette pubblicate in Europa su Maometto.

La Turchia è un paese a cavallo tra i due continenti e le due culture e i leader turchi hanno espresso in questi giorni condanna per le caricature, ma hanno anche fatto appello alla calma e ad una maggiore comprensione tra diverse culture e fedi religiose. Ma anche in Turchia in questi giorni ci sono state manifestazioni di massa in cui sono state bruciate e calpestate le bandiere danesi e norvegesi. (nella foto sabato scorso a Istanbul )

Don Andrea era lì da qualche anno come curatore del progetto interculturale «Finestra per il Medio Oriente» che si propone tra l'altro di favorire «un dialogo rispettoso tra il patrimonio cristiano e il patrimonio musulmano». Faceva ancora parte della diocesi di Roma ma aveva deciso di prestare là il suo servizio con lo stesso spirito con cui negli anni '90 era stato cappellano della Parrocchia Gesù di Nazareth di Pietralata, alla periferia sud di Roma.

«Don Andrea è stato per sei anni parroco di questa chiesa. Si era impegnato in quella missione in Turchia per portare la voce della Chiesa di Roma in Medioriente. Accoglieva i pellegrini e organizzava pellegrinaggi d'accordo con il vescovo del posto. Don Andrea- lo ricorda don Marco Vianello parroco della parrocchia romana di Ss. Fabiano e Venanzio che lo conosceva bene- aveva allestito una chiesa aperta anche a non cristiani».

«Il Medio Oriente ha la sue oscurità, i suoi problemi spesso tragici e i suoi vuoti. Ha bisogno quindi che quel Vangelo che di lì è partito vi sia di nuovo riseminato e quella presenza che Cristo vi realizzò vi sia di nuovo riproposta». Spiegava in una lunga lettera aperta di padre Andrea Santoro pubblicata l'11 febbraio dell'anno scorso sul sito internet «www.vicariatusurbis.org». La lettera, che oggi si può leggere in molti vedono come un testamento spirituale.

Condoglianze e condanna per il barbaro gesto che ha portato alla sua morte vengono espressi da autorità civili ed ecclesiastiche italiane. A comunciare dal presidente della Cei Camillo Ruini e dal sindaco di Roma Walter Veltroni fino al presidente della Camera Pierferdinando Casini.

I funerali del sacerdote, ha comunicato domenica sera il Vicariato, saranno a Roma nella basilica di San Giovanni non appena la salma sarà rimpatriata dalla Turchia.

07/02/2006 21:53
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.143
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Disumanizzare il nemico
«Vignette e Islam, esplode la violenza», strilla il Corriere.
«Islam: les caricatures de la discordie», dice Le Monde.
«Fury over cartoons», grida il Financial Times.
«Cartoon unify angry Muslims», urla l’Herald Tribune.
Stessi titoli, stessa posizione in prima pagina, stesso rilievo e allarme.
Come ha già indovinato più di un lettore, si tratta di una manovra concertata sul piano internazionale.
Fra qualche mese si saprà forse se dietro questa campagna c’è la mano di Hill & Knowlton o del Rendon Group, le due imprese di pubbliche relazioni di cui ci serve il Pentagono (la prima inventò la storia dei malvagi iracheni che, in Kuwait, avevano aperto le incubatrici negli ospedali per fare morire i bambini); oggi è urgente immaginare il perché di tutto questo.
E la risposta è allarmante.



«Il regime iraniano è oggi lo Stato principale che sostiene il terrorismo», ha appena sancito Donald Rumsfeld, «il mondo non vuole e deve collaborare per scongiurare un Iran nucleare».
Ha anche avvertito che la guerra contro il terrorismo globale sarà lunga, almeno come la guerra fredda.
E’ dunque nel quadro della preparazione alla guerra in Iran che probabilmente bisogna inserire la ridicola e ripugnante campagna delle vignette.
Data la densità dell’armamento anti-aereo di cui l’Iran si è recentemente dotato, le installazioni industriali nucleari iraniane sono ormai fuori dalla portata di un attacco convenzionale con missili da crociera e bombardieri; dunque l’attacco dovrà probabilmente essere di tipo nucleare.
Ma un attacco atomico preventivo e non provocato contro un Paese che non è in guerra con gli Stati Uniti, che non dispone se non di armi convenzionali, e che farà centinaia di migliaia di vittime tra la popolazione, è un evento sconvolgente, un’atrocità che deve essere «preparata» nella psicologia di massa.
La preparazione consiste nella disumanizzazione preventiva dell’avversario; contro un avversario adeguatamente disumanizzato, l’opinione pubblica occidentale - si spera - giustificherà le bombe atomiche.



L’accorgimento riuscì alla perfezione contro il Giappone, dove le bombe atomiche furono precedute da una campagna di odio e di disprezzo senza precedenti contro i detestati «japs».
Riesce perfettamente anche in Israele, maestra del nostro tempo nella disumanizzazione del nemico, per poterne distruggere le case e gli uliveti, ammazzarne i bambini, compiere contro di esso atrocità di ogni genere.
La campagna è in un certo senso meno rivolta agli islamici che alla manipolazione dell’opinione pubblica europea, che - nonostante le parole di Rumsfeld - pare poco disposta a «collaborare per scongiurare un Iran nucleare».
Bisogna spingerla ad odiare, a nutrire quel misto di rabbia e di paura che funziona così bene in Israele.
Come sappiamo, Orwell aveva previsto tutto questo.
L’Islam deve oggi prendere il posto del misterioso Goldstein, l’odiato nemico del regime socialista immaginato da Orwell, oggetto dei rituali «minuti dell’odio».
«La semplice vista e addirittura il solo pensiero di Goldstein producevano automaticamente un misto immancabile di paura e di rabbia» delle folle immaginarie di «1984»: precisamente questo automatismo viene oggi creato nelle nostre anime a danno dell’Islam.



Lo scopo è essenzialmente il controllo dei propri cittadini.
Anche nel romanzo di Orwell l’immaginario Stato di Eurasia era mantenuto dalla nomenklatura in uno stato di guerra perenne contro un nemico mal definito, quasi invisibile.
«E la coscienza di essere in guerra, e dunque in pericolo, fa sembrare la cessione di tutto il potere a una piccola casta la condizione naturale, inevitabile, della sopravvivenza. Non importa se la guerra sia effettivamente in corso, e dato che nessuna vittoria è possibile, non importa se la guerra va male. Basta che lo stato di guerra ci sia».
E’ precisamente questo che ci fanno, fin nei particolari.
L’intero alone della cosiddetta informazione (propaganda di guerra psicologica) mira a tenerci in questo stato di paura perpetua.
A farci credere che «l’Islam ci attacca» (due Paesi musulmani sono oggi sotto occupazione americana e un terzo è minacciato di bombardamento; ma a noi «sembra» che gli aggrediti siamo noi).
Ci basta vedere un segno, un simbolo islamico, o anche un passante con fattezze arabe, e ciò ci produce «automaticamente un misto di paura e di rabbia».



La macchinazione ha successo.
Un segno fra i più tragicomici di questo successo è come se ne lascino assoggettare anche le società che amano dipingersi come «liberali» e «tolleranti», magari progressiste e di sinistra, come appunto la Danimarca.
Ma anche da noi si sentono già progressisti che non si vergognano di dichiarare la loro paura-rabbia contro i musulmani; si intreccia in questo sentimento ambiguo il dispetto di una società «laicista» che ritiene di difendere «la libertà di espressione» contro l’oscurantismo fondamentalista.
I posteri, se ne avremo, sapranno come giudicare una generazione pronta al conflitto di civiltà per difendere il gusto di sghignazzare su una religione, il diritto di mettere in caricatura Dio; ma per intanto ci sembra di condurre, liberi, una battaglia di libertà.
Proprio nel momento in cui la libertà ci viene tolta.
Il bello, il ridicolo, è che ci cascano tutti coloro che hanno appena celebrato la «giornata della memoria».
Tutto il processo di disumanizzazione degli ebrei, che viene attribuito al Terzo Reich, viene applicato ora davanti agli occhi ciechi di chi «ricorda».



Tutta gente che è pronta e vigile a battere Hitler se si ripresenta (specie ora che non c’è pericolo che riappaia); purchè si presenti esattamente come allora, baffetti e saluto a braccio teso.
Perché se il Quarto Reich si presenta come «democrazia», e la sua aggressione come «espansione della democrazia», già non sappiamo più riconoscerlo.
Anzi, già ci arruoliamo volontari per distruggere un nemico sub-umano, tanto più pauroso perché - al contrario di noi - credente.
E il bello è che oggi non c’è un Goebbels, non c’è una Gestapo; non c’è un KGB che controlla il pensiero con mezzi polizieschi.
Il potere oggi si è perfezionato, non ha bisogno di strumenti repressivi.
Tanto, facciamo tutto da soli, obbediamo senza ordini, odiamo chi ci viene detto di odiare.
La natura umana ha un gran bisogno di odiare; da troppo tempo il «politicamente corretto», l’«antirazzismo» ideologico aveva compresso la vecchia molla abissale; non si potevano più odiare «i negri» e nemmeno «i padroni» e gli sfruttatori.
Inconfessabilmente, il buonismo ci aveva stufato.
Appena abbiamo l’occasione di odiare senza vergogna di noi stessi, senza temere il giudizio sociale, lo facciamo perdutamente, fanaticamente, liberamente, insaziabilmente.

07/02/2006 21:56
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.144
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Chi è Daniel Pipes, l’ispiratore delle vignette


Aveva detto giusto il professor Mikael Rothstein, docente all'università di Copenhagen.
Intervistato dalla BBC sulle famigerate vignette anti-islamiche, Rothstein (un galantuomo, evidentemente) aveva parlato di un'operazione condotta a freddo da «agenti di una certa ideologia».
Come primo «agente» locale, varrà la pena di citare Flemming Rose.
E' il direttore delle pagine culturali del Jylland-Posten (JP), il principale giornale della piccola Danimarca: l'uomo che ha commissionato e pubblicato, a settembre, le dodici vignette che offendevano Maometto e l'Islam.
Persino l'Herald Tribune ha notato che la libertà d'espressione di questo Rose incontra precisi limiti, tutti a favore d'Israele.
Il direttore culturale danese ha infatti dichiarato al giornale americano: «io non pubblicherei una vignetta che mostrasse Ariel Sharon mentre strangola un bambino palestinese, perché è razzista».
Intervistato dall'amico e coraggioso giornalista Chris Bollyn il Rose continua a difendere la sua posizione.
«Sono convinto di aver fatto la cosa giusta a pubblicare le vignette», dice.
Ma si rendeva contro, gli ha chiesto Bollyn, di quali reazioni avrebbero suscitato?
Risposta: «pormi una tale domanda è come chiedere alla vittima di una violenza carnale se si pente di avere indossato una minigonna per andare in discoteca».



Bollyn ha scoperto che Rose ha intimi legami con precisi ambienti neoconservatori USA.
Nell'ottobre 2004 il giornalista «culturale» danese è stato ospite a Philadelphia di Daniel Pipes, uno dei più rabbiosi propagandisti anti-musulmani in America.
Americo-israeliano, Daniel Pipes è membro di vari think tank neocon, come il Washington Institute for Near East Policy e il Project for a New American Century (PNAC), nonché di gruppi di facciata creati dai neocon, come l'US Committee for a free Lebanon.
Scrive regolarmente per il Jerusalem Post.
Nel 2000, Daniel Pipes, con il cappello del Committee for a free Lebanon, ha scritto un documento dal titolo «Finirla con l'occupazione della Siria in Libano: il ruolo USA».
In esso, Pipes criticava il governo americano perché secondo lui negoziava, anziché abbatterlo, col regime di Damasco.
L'uso della forza è il solo argomento che gli islamici capiscono, insisteva Pipes (un concetto che ha imparato in Israele), tanto più, assicurava, che la Siria dispone ormai di armi di distruzione di massa: «gli USA sono entrati in una nuova era di indiscussa supremazia militare, con una vistosa diminuzione delle perdite umane sul campo di battaglia [in Iraq]…questo apre la porta a decisioni simili per il Libano, le cui libertà e pluralismo sono in pericolo. Questa opportunità non durerà a lungo, in quanto, espandendosi la disponibilità di armi di distruzione di massa, i rischi dell'azione militare cresceranno rapidamente».



A firmare l'appello di Pipes sono stati praticamente tutti i neocon ebrei più noti: Richard Perle, Douglas Feith (l'ex viceministro al Pentagono), David Wurmser, Michael Leeden, Frank Gaffney, Jeane Kirkpatrick, Elliott Abrams, e la sottosegretario di Stato per gli Affari Globali Paula Dobriansky: tutta gente dell'American Enterprise e del PNAC.
Come si sa, questo appello ha avuto un evidente effetto: il misterioso attentato al libanese Hariri, i disordini «spontanei» scoppiati in Libano che hanno portato al ritiro della Siria, la quale nonostante ciò resta nel mirino della Casa Bianca come candidata per un'aggressione.
In USA, Daniel Pipes si è distinto per uscite ferocemente anti-islamiche con offese dirette di tale violenza, da essere condannato in giudizio per «hate crime» contro un professore universitario secondo lui troppo amico degli arabi.
Lo ha difeso Karl Krauthammer, un altro energumeno ebreo che scrive per il Washington Post, con questi argomenti: «gli attacchi a Pipes non sono altro che un sintomo ulteriore dell'assurda correttezza politica che circonda il radicalismo islamico…Perché dobbiamo fare finta di dedicare i nostri sospetti di intenzioni terroristiche a tutti indistintamente?».
E faceva il caso dei passeggeri di un aereo: «perché dobbiamo perquisire allo stesso modo una suora di 70 anni, un seminarista ebreo di 50 (sic) e un trentenne saudita? Poniamo che sull'aereo salga vostra figlia. A chi vorreste che le guardie di sicurezza prestassero più attenzione?».



Ovviamente Daniel Pipes è anche l'ispiratore del «Jerusalem Summit», il gruppo di pressione secondo cui «due pericoli minacciano l'Occidente: il fondamentalismo islamico, la nuova forma del totalitarismo, e il relativismo morale».
Ne abbiamo parlato su questi sito («Jerusalem Summit centrale neocon», 13/11/2005).
La tesi centrale di Pipes è che l'Islam va «provocato» per suscitare al suo interno la «Riforma», analoga a quella che Lutero fece scoppiare nella Chiesa cattolica e che l'ha resa «ragionevole».
Un'altra sua tesi, come abbiamo visto, è la battaglia per fare il «profilino» degli arabi, sull'esempio israeliano: tutti gli arabi-americani sono sospetti di terrorismo e perciò passibili di sorveglianza speciale.
A questo scopo, Pipes ha fondato due «istituzioni culturali» specifiche: una l'ha battezzata Center for Islamic Pluralism e l'altra, più brutalmente, Anti-Islamic Institute.
Per questa sua posizione, nel 2003 il presidente Bush lo ha messo a capo di un organismo governativo che si chiama US Institute for Peace: nome orwelliano per un ente che si dedica ad aizzare lo scontro di civiltà.



Sono evidenti i punti di contatto fra le vignette danesi e l'ideologia di Daniel Pipes.
Quando il giornalista danese Flemming Rose è andato a trovare l'individuo nel 2004 a Philadelphia, è stato evidentemente per organizzare insieme la provocazione internazionale; che doveva, per ovvi motivi, partire dall'Europa.
Al ritorno, Rose ha infatti scritto un articolo in lode di Pipes e della sua tesi, secondo cui l'Islam è la forma estrema del fascismo.
A questo proposito, vale poco la tesi ventilata dai giornali italiani servi dei neocon, secondo cui i musulmani hanno fatto finta di nulla quando le vignette sono state pubblicate a settembre, per scatenarsi a freddo mesi più tardi.
In realtà, nessuno si sarebbe accorto delle vignette blasfeme se non le avesse ripubblicate il New York Times quattro mesi dopo: il giornale della famiglia Meyer in cui Daniel Pipes ha voce in capitolo.
Subito dopo, almeno una decina di giornali in tutta Europa hanno ripreso le vignette: simultaneamente in Francia e Italia, Germania, Olanda, Spagna e Svizzera, tutti il primo febbraio.



Tutti con la stessa giustificazione: «difesa della libertà d'opinione».
La simultaneità rivela una mano unica nella vicenda.
E l'identità dei giornalisti che hanno sfidato l'Islam a comando aggiunge qualche sospetto.
In Francia, il direttore del disastrato France Soir che ha pubblicato per primo le immagini si chiama Arnaud Levy.
Ma non è stato lui che l'editore del giornale, il magnate franco-egiziano (ma cristiano, non islamico) Raymond Lakah ha licenziato: ad essere licenziato è stato Jacques Lefranc, direttore esecutivo, di fatto il redattore-capo.
Levy, intoccabile, resta al suo posto.
L'ha difeso anche Reporters sans Frontières, per opera del suo segretario Robert Ménard: «tutta l'Europa deve appoggiare i danesi in difesa del principio che un giornale può scrivere quel che vuole, anche se offende della gente».
Un principio innovativo, che legalizza ogni diffamazione e vilipendio.
«Posso capire che la faccenda sconvolga i musulmani», aggiunge Ménard, «ma essere sconvolti è il prezzo che si paga per essere informati».
Sic dixit.



La Danimarca (che ha 500 soldati in Iraq al seguito degli americani) sta pagando cara la sua libertà di insulto.
Il boicottaggio delle meri danesi nei paesi musulmani sta mettendo in ginocchio una delle più grosse aziende del Paese, la danese-svedese Arla Foods, che vende latte burro e formaggi al Medio Oriente: un giro d'affari di 480 milioni di dollari.
«Ci abbiamo messo 40 anni a costruire il nostro business in Medio Oriente, ed ora tutto è crollato completamente in cinque giorni», ha detto alla BBC la portavoce dell'azienda, Astrid Gate.
Ma rischi peggiori sono ipotizzabili, come nota Chris Bollyn.
Tra i giornali che hanno irresponsabilmente ripubblicato le immagini blasfeme c'è La Stampa di Torino che le ha pubblicate il primo febbraio (due giorni dopo il Corriere della Sera di Mieli).
La Stampa, il giornale della città che sta per ospitare le Olimpiadi invernali.
Tutto il clima è pronto per un «attentato islamico» in coincidenza con la manifestazione sportiva, che porterà folle e celebrità a Torino.
Un attentato, magari, false flag.
Insomma la prima impressione è confermata: si è trattato di un'operazione neocon-israeliana dal principio alla fine.
E la fine ancora non è arrivata.

07/02/2006 22:09
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.148
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Cui Prodest?
A chi giova in questo momento fomentare lo "scontro di civiltà"?
Il 20 marzo 2006 in Iran si aprirà la Borsa Petrolifera indipendente in euro al posto dei dollari.
Casualmente l'Iran viene deferito al Consiglio di Sicurezza dell'ONU...
Israele ha già ammonito che se non interverrà l'ONU (entro marzo, sic!) ci penserà la loro aviazione alle centrali nucleari.
Vignette anti-islamiche vengono veicolate da media molto vicini ai gruppi di potere neocon americani...
Cosa manca a questo punto? Un nuovo attentato da addebitare magari......alle forze islamiche iraniane?



Come mettere in scena lo “scontro di civiltà”


A seguito dell’incendio dell’ambasciata danese di Damasco e del consolato danese di Beirut il ministro degli Esteri danese Per Stig Moeller ha dichiarato: “Ci sono forze che vogliono lo scontro di civiltà”.
Le iniziative violente sarebbero state provocate da una vignetta del profeta Maometto pubblicata quasi tre mesi prima dal quotidiano conservatore danese Jyllands Posten e recentemente ripresa da diversi quotidiani in Francia, Italia, Olanda, Islanda, Germania e Spagna.

Dovrebbe essere fin troppo ovvio che la decisione di ripubblicare quella vignetta, su molti giornali, proprio nei giorni che hanno preceduto la decisione dell’IAEA contro l’Iran dello scorso 3 febbraio, mira a creare il clima da “scontro di civiltà”.
Se il ministro danese volesse davvero individuare le forze che istigano lo scontro di civiltà, a cui si riferisce, allora non dovrebbe faticare molto. Il giornale in questione, Jylland Posten, che da tempo segue una linea editoriale islamofobica, ha avuto un ruolo fondamentale nel creare e finanziare un nuovo centro studi danese, il CEPOS (centro danese di studi politici). Fondato il 10 marzo 2005, il CEPOS si rifà alle fondazioni di Washington che fiancheggiano il movimento neo-conservatore, l’American Enterprise Institute (AEI) e la Heritage Foundation , e a due centri di Londra, l’Adam Smith Institute e l’Institute of Economic Affairs.

Nel Comitato dei Consiglieri di CEPOS spicca nientepopodimenoché George P. Shultz in persona, che è anche membro onorario della direzione. Shultz è l’eminenza grigia che controlla l’amministrazione Bush-Cheney (vedi gli articoli sul sito movisol.org. Si consiglia l’uso del motore di ricerca interna al sito).
Insieme all’ex capo della CIA James Woolsey, Shultz presiede il “Committee on the present Danger”, un centro studi particolarmente impegnato ad istigare la guerra contro l’Iran. I consiglieri di CEPOS provengono dall’AEI, dall’Università di Chicago e da altri centri neocon inglesi ed americani. CEPOS è presieduto da Bernt Johan Collet, ex ministro della Difesa salito alla carica di ciambellano e maestro di caccia alla corte di sua maestà.

07/02/2006 22:18
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.150
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Vignette su Maometto: Kabul e Herat, sassaiole sul comando italiano


Le proteste contro le vignette su Maometto conivolgono anche l'Italia. In una manifestazione a Kabul, in Afghanistan, «ha coinvolto l'ambasciata italiana e il comando della forza internazionale della Nato (Isaf)», ha detto il portavoce del comando Isaf, Riccardo Cristoni. «Una della garitte del nostro comando è stata oggetto di una sassaiola, ma all'inizio si era parlato anche di colpi d'arma da fuoco. Un colpo ne avrebbe raggiunta una - ha precisato Cristoni - nessun militare è rimasto ferito. I nostri militari non hanno risposto al fuoco.

Il tenente colonnello Cristoni ha reso noto che anche ad Herat, il Prt (team di ricostruzione provinciale) italiano è stato oggetto di una dimostrazione. «Sono stati lanciati sassi contro il nostro Prt - ha riferito il portavoce del comando Isaf - che hanno causato danni solo materiali ma nessun danno al personale italiano a Herat».

Per quanto riguarda la capitale afghana - ha aggiunto - in questo momento ci sono difficoltà nei movimenti e alcune strade sono bloccate. Cristoni ha confermato anche che uno dei Prt a guida norvegese nella città di Maimana (nel nord) è stato attaccato ed è oggetto di fuoco da parte dei dimostranti. Tutto questo, ha sottolineato Cristoni, «è riconducibile alla vicenda delle vignette anti-islamiche. Anche lunedì ci sono state manifestazioni, è stata coinvolta l'ambasciata danese a Kabul - che è stata evacuata - e anche quella norvegese».

L'attentato a Kandahar
Sempre in Afghanistan, ma nella provincia meridionale di Kandahar, almeno tredici persone sono morte e undici ferite in un attentato dinamitardo avvenuto. La regione era una roccaforte del passato regime ultra-fondamentalista dei Talebani. Stando a testimoni oculari, una bomba ad alto potenziale è stata fatta esplodere all'esterno del quartier generale della polizia, nel cuore della città.

«Ci sono 13 morti e 11 feriti, sia poliziotti che civili», ha detto il portavoce del ministro dell'Interno Yousuf Stanizai, Un medico a Kandahar ha detto che la maggior parte delle vittime sono agenti di polizia. L'attentato è stato rivendicato dalla milizia del deposto regime dei Taleban. Qari Yussif Ahmadi, portavoce del gruppo, ha affermato che l'attentatore era nativo di Kandahar.

Molti dei feriti sono gravi e si teme che il bilancio dei morti possa aumentare. Il ministero degli Interni a Kabul ha confermato l'attentato presso il quartier generale di polizia, ma non ha diffuso altri dettagli. Alcuni testimoni riferiscono che l'attacco è stato perpetrato da un kamikaze su una motocicletta.

07/02/2006 22:20
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.151
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE

Pisanu: da noi le cellule degli estremisti islamici sono silenti


La protesta che sta divampando nei paesi arabi per le vignette sul profeta Maometto è stata «montata a freddo a fini essenzialmente politici» e dunque può arrivare in Italia «se le centrali che l'hanno promossa hanno messo in conto anche il nostro paese». Così il ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu ha risposto nell'intervista a Radio Vaticana alla domanda se l'Italia potesse diventare bersaglio della protesta degli islamici.

Pisanu non è però molto preoccupato di questo, perché dice di temere «Più che il terrorismo di matrice islamica io per le Olimpiadi, la crescente aggressività dell'antagonismo no-global, dei centri sociali, degli anarchici insurrezionalisti e tutta l'eversione interna che sta cercando le luci della ribalta olimpionica». «Purtroppo – aggiunge - costoro hanno già recato gravissimi danni di immagine al nostro Paese». Evidentemente riferendosi alle protese no-Tav che proprio domenica hanno costretto a un cambio di percorso per i tedofori. Ma si tratta, comunque, anche nelle sue parole, solo di un danno d’immagine, perché in effetti violenze non ce ne sono state in Val di Susa. Ma Pisanu parla anche delle violenze negli stadi o comunque legate o coperte dalle tifoserie delle squadre di calcio. Aggiungendo che comunque non si tratta di terrorismo quanto di strumentalizzazioni di fazioni estremiste di destra e di sinistra

Quanto alle cellule del terrorismo islamico operanti in Italia, secondo le informazioni del titolare del Viminale, ci sono ma «svolgono fino ad ora compiti più marcatamente di sostegno logistico a gruppi che sono operativi altrove. Sono infatti dedite soprattutto alla raccolta di fondi, alla falsificazione di documenti, al reclutamento di mujiaiddin da mandare nelle zone di conflitto etnico-religioso. Nulla però esclude che queste cellule possano d'improvviso e per decisione autonoma entrare direttamente in azione sul territorio nazionale. Debbo dire però che fino ad oggi non abbiamo colto né in Italia, né all'estero, segnali certi in questo senso».

Pisanu dice per altro plaude allo sforzo dell'Ucoii e di tutto l'Islam moderato che partecipa al Consiglio delle comunità musulmane in Italia per diffondere una reale cultura di dialogo interreligioso e di convivenza.

07/02/2006 22:30
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.153
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Una lucida regia dietro le proteste per le vignette



Mentre a Beirut va in scena un copione gia’ visto a Damasco, ad opera di una folla inferocita che solo in apparenza sfoga spontaneamente la propria rabbia, e’ impossibile non intravedere un inquietante filo rosso, una lucida regia, dietro questi atti di vandalismo anti-occidentale. Non puo’ essere solo un caso che, a distanza di molti mesi dalla pubblicazione delle caricature del profeta Maometto su alcuni giornali scandinavi, solo negli ultimi giorni sia scoppiata la furia, apparentemente incontrollata, di quel che qualcuno vorrebbe far passare come la giusta, sacrosanta reazione, corale e compatta, dell’intero mondo islamico.

Anche nel mondo arabo, c’e’ chi vi scorge un minaccioso avvertimento che cela uno scopo occulto. Altrimenti, perche’ attaccare a Damasco le ambasciate di Danimarca e Norvegia, sapendo che il sabato sono chiuse per il week-end islamico? E poi perche’, il giorno dopo, prendersela invece con il consolato danese a Beirut, sapendo che la domenica in Libano e’ un giorno festivo? Ma non e’ tutto. A Damasco, nelle ore che hanno preceduto la distruzione delle ambasciate scandinave, la mobilitazione per la manifestazione di protesta era giunta, via SMS, a migliaia di persone. E fra di esse, si difende la polizia siriana (che evidentemente sapeva della manifestazione, e non ha fatto nulla per impedire che degenerasse) si sarebbero infiltrati gruppi di provocatori. In Libano e’ accaduto lo stesso. Manifestazione di protesta convocata da Jama’a Islamiya, un gruppo islamico sunnita. Diecine di autobus, provenienti da Sidone e da Tiro, di buon ora affluiscono a Beirut, davanti all’edificio che ospita il consolato di Danimarca.

La protesta degenera rapidamente. Va a fuoco non solo la rappresentanza diplomatica danese; la folla da’ alle fiamme anche molti negozi vicini e poi se la prende con case e auto nel quartiere cristiano di Ashrafieh. Gli organizzatori della manifestazione di protesta si dissociano immediatamente, i leaders religiosi tentano di bloccare i facinorosi e denunciano l’infiltrazione di provocatori. La calma ritorna dopo molte ore. Intanto, pero’, il danno e’ fatto.

Alla luce di tutto cio’, non e’ un caso che la reazione dei governi di Danimarca e Norvegia, ma anche quella della Casa Bianca, sia stata una durissima, vigorosa protesta nei confronti del presidente siriano Bashar el-Assad. Non e’ un segreto per nessuno che non c’e’ manifestazione, tanto piu’ se violenta, che si svolga a Damasco, e ancora oggi anche a Beirut, senza che il regime siriano ne sia al corrente o che l’abbia addirittura benedetta. C’e’ quindi chi sospetta che l’incendio alle sedi diplomatiche scandinave sia il frutto di una perversa convergenza di interessi, brutale ma efficace, fra il regime di Damasco, o parte di esso, con frange estremiste sunnite. Un modo, decisamente inquietante, per provare ad uscire dall’ isolamento internazionale in cui la Siria si e’ avvitata dalla strage di San Valentino, il 14 febbraio 2005, quando l’ex-Premier libanese Rafiq Hariri fu dilaniato, con la sua scorta, dall’esplosione di un potentissima carica di tritolo, sul lungomare di Beirut.
Alcuni giorni fa, gia’ molto preoccupato, il presidente egiziano, Hosni Mubarak, aveva condannato, come del resto tutti i leaders arabi, la pubblicazione delle vignette incriminate. Ma aveva anche messo in guardia contro il gioco pericoloso di chi avrebbe sfruttato quelle caricature come pretesto per tentare la conquista, strumentale, del cuore e delle menti del mondo arabo e islamico.

Ma proprio dal mondo islamico giunge, inappellabile, la condanna. A partire dagli ulema di Al-Azhar, il cuore dell’Islam sunnita. “Protestare e’giusto, ma bruciare le ambasciate vuol dire compromettere l’immagine stessa dell’Islam”. Netta la condanna persino da Mohamed Mahdi Akef, la guida suprema dei Fratelli Musulmani: “Condanniamo con forza l’incendio delle ambasciate. Atti inutili e senza impatto. Si influisce di piu’ con un articolo, una conferenza o persino con il boicottaggio”.
07/02/2006 23:13
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.155
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Quì trovate la puntata di MATRIX del 6 Febbraio sull'argomento...

www.politicaonline.net/forum/showthread.php?t=225592
08/02/2006 21:48
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.161
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Don Santoro, l'assassino non era solo. Spunta la pista dei Lupi grigi


Quello che si sa ufficialmente è che il presunto killer di don Santoro (il sacerdote italiano assassinato domenica mentre stava pregando nella chiesa di Santa Maria a Trebisonda) ha confessato. Ohuzhan Akdil, di appena 16 anni, è stato infatti arrestato martedì dalla polizia turca mentre aveva ancora con sé la calibro 9 che poi si è rivelata essere l'arma del delitto.

Immediatamente dopo l’arresto del ragazzo sono però iniziate a circolare, sui media turchi, ipotesi diverse e a volte anche contraddittorie sul movente dell’assassinio. In molti hanno sottolineato il legame tra l’omicidio e la protesta che è esplosa negli ultimi giorni nel mondo islamico per le vignette sul profeta Maometto. Altri invece hanno ipotizzato un legame con il racket della prostituzione (don Santoro si occupava del recupero di giovani provenienti dall’est Europa).

Il giorno successivo all’arresto del 16enne la versione che circola sui maggiori quotidiani turchi è invece che dietro al ragazzino ci sia un mandante, un ispiratore. Innanzitutto, secondo la ricostruzione del quotidiano Vatan, quando Ouzhan Akdil ha ucciso don Santoro non era solo, era accompagnato da uno studente universitario (oltre che dal fratellino di 9 anni). Secondo la ricostruzione lo studente, Husein S., aveva conosciuto Akdil in un Internet Cafè e lo aveva introdotto in un gruppo di ultranazionalisti religiosi.

Proprio all’interno di questo gruppo, guidato da un maturo «Hoja» («maestro»), sarebbe maturata l’idea del delitto di don santoro. «Don Santoro è un missionario», avrebbe detto proprio il maestro-predicatore, sempre secondo il Vatan, deprecando le presunte attività di proselitismo del prete italiano. «Io, lo posso uccidere», avrebbe quindi risposto il giovane Akdil, pensando proprio alla pistola 'Sig Sauer' calibro 9 (un arma costosissima e da professionisti) del fratello maggiore, con cui poi ha in effetti commesso il delitto.

Il quotidiano turco non chiarisce quale sia il gruppo nazionalista religioso dietro l’omicidio ma definisce il ragazzino «un piccolo Agca». La definizione non è casuale ma è legata al fatto che, come riportano altri giornali turchi, Trabzon (Trebisonda) è una città dove vi sono molti «lupi grigi». E ai «lupi grigi» turchi, noti per combinare insieme fondamentalismo religioso e nazionalismo etnico turchista e neo-ottomanista, apparteneva Ali Agca che, nel 1981, attentò alla vita di Giovanni Paolo II. E molti fanno notare che Agca aveva solo 20 anni quando commise in Turchia il suo primo delitto.


08/02/2006 21:50
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.162
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE

Hacker islamici attaccano 900 siti danesi


La protesta contro le vignette sul profeta Maometto si trasferisce online. Secondo la radiotelevisione britannica Bbc, più di 900 siti web danesi e oltre 1.600 di altri Paesi occidentali sono stati colpiti da hacker islamici che hanno sostituito le home page con messaggi inneggianti all'Islam.

La maggior parte dei siti colpiti appartengono a piccole imprese o ad associazioni che non avevano investito in programmi di sicurezza efficienti. Al contrario, quelli del governo danese o quello dello Jyllands-Posten, il quotidiano che per primo aveva pubblicato le vignette, hanno resistito agli attacchi.

Nonostante questo assalto su larga scala, la maggior parte dei siti coinvolti hanno già risolto i loro problemi.

«Non ho mai visto così tanti attacchi a sfondo politico in così poco tempo», ha commentato Roberto Preatoni, fondatore e amministratore di Zone-H, un gruppo che registra gli attacchi degli hacker. Secondo Preatoni, diversi personaggi presenti in vari Paesi islamici si sono coalizzati per rendere ancora più efficace la loro azione.

Gli attacchi degli pirati informatici per ora non ha sortito gli effetti desiderati se non riuscire a mantenere vive le polemiche sulla vicenda delle vignette contro Maometto.

11/02/2006 18:52
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.168
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Islam e democrazia: due realtà estranee



Siccome passo per filo-islamico, in questi giorni vedo tanti sorrisetti.
Mi chiedono: che ne dici del povero prete ammazzato in Turchia dai tuoi amici?
Delle masse fanatiche che incendiano le ambasciate?
Una risposta per volta.
Il povero prete: come cattolico, taccio commosso di fronte a uno, ed è solo l’ultimo, dei martiri cristiani del nostro tempo.
Il comunismo ha fatto migliaia di martiri cristiani.
Ora li fa l’Islam.
C’è una differenza tra i nostri martiri e quelli islamici, e si vede: «vi mando come pecore tra i lupi», disse Gesù.
Inerme, padre Santoro era così e lo sapeva.
Nella dottrina cattolica c’è la convinzione che il martirio - quello vero - arrivi a chi lo chiede: è l’estremo dono dell’uomo a Cristo, e di Dio al suo fedele migliore.
Bisogna che il candidato dica, in fondo al suo cuore: «sia fatta la Tua volontà».
Solo allora riceve la Croce, che è il segno misterioso e atroce della predilezione di Gesù.
Bisognerà ricordarlo oggi che tanti si dicono cristiani come riflesso identitario.

La morte di padre Santoro addolora, ma rallegra il credente: finché ci sono combattenti che versano il loro sangue, Cristo vive e vince.
Che l’assassino sia un agente del KGB, un cannibale della Papua, un fanatico pakistano o un sedicenne turco, non fa differenza.
Ci dice qualcosa, per esempio, sulla Turchia.
Sulla sua violenza storica.
Popolazione mongola e non araba, ferocissimi conquistatori, i turchi hanno dato poco contributo intellettuale anche all’Islam.
Ma ne hanno dato uno indimenticabile alle atrocità: l’arte di impalare il nemico è una loro invenzione.
Quando conquistarono Costantinopoli e misero fine nel sangue all’impero cristiano bizantino, fu un’orgia di massacri e d’impalamenti (il celebre conte Dracula, rumeno, imparò da loro).
Vogliamo ricordare le truppe speciali, la guardia del corpo scelta del sultano e della «sublime porta»?
I giannizzeri: schiavi cristiani convertiti all’Islam in tenera età, erano addestrati in un modo da far impallidire le SS.
La dura violenza è un carattere storico turco.
Quando Kemal Ataturk (che era un massone) decise di portare il Paese nella modernità occidentale, lo fece alla turca.
Ossia a calci.
Obbligò tutti i turchi a scrivere in caratteri latini anziché arabi, vietò il velo alle donne, proibì l’uso del fez agli uomini.
Se volevano coprirsi il capo, usassero una lobbia come a Parigi.

Per dire come sono i turchi: molti resistettero.
Centinaia di rispettabili signori a Istanbul e Ankara continuarono a portare il fez, pur sapendo perfettamente cosa significasse disobbedire al padre della Patria: Ataturk ne fece decapitare parecchi.
E il genocidio degli Armeni?
E la persecuzione dei Curdi?
La lotta politica in Turchia è stata per lo più un fatto di violenza: estremisti «neri» e «rossi», laicissimi magari, dicono le loro ragioni con il revolver.
Ali Agca, non dimentichiamolo, viene di lì.
La polizia turca controlla questa violenza con la violenza: ha notoriamente la mano pesante.
Non critico i turchi.
La mano pesante dà loro una qualità militare invidiabile.
Un contingente turco partecipò, su richiesta degli americani, alla guerra di Corea.
Fin dai primi giorni si mise male per gli USA.
Venne un momento, proprio all’inizio, in cui si sparse la voce che una marea di carri armati cinesi (alleati dei nord-coreani) dilagava inarrestabile e stava puntando su Seul.
Subito gli americani, nel panico, cominciarono a caricare le navi di uomini e materiali, una scena di fuga da ultimi giorni del Vietnam.
Ma passano le ore, e i carri armati cinesi non si vedono: un solo battaglione turco aveva arrestato l’avanzata del nemico.
Di fronte alle forze preponderanti cinesi, il colonnello turco aveva detto ai suoi soldati turchi: «eredi di Gengis Khan, mica vorrete arrendervi davanti a questi coltivatori di cavoli».
I cinesi, contadini, sono disprezzati dai mongoli, nomadi e pastori.
Poi ordinò ai suoi soldati di innestare le baionette.



Era successo anche nella prima guerra mondiale, a Gallipoli.
I turchi erano alleati, allora, del Kaiser, avevano istruttori e colonnelli tedeschi.
Dopo mesi di resistenza contro forze schiaccianti britanniche, gurka e Sikh compresi, i colonnelli tedeschi decisero di arrendersi.
E i turchi ammazzarono i colonnelli tedeschi.
Poi innestarono le baionette e continuarono a resistere.
Gli inglesi ebbero perdite spaventose.
Insomma i turchi mi sono anche simpatici.
Sono gente fidata.
Non sono dei levantini, anzi il contrario.
Nella NATO hanno difeso dai sovietici il nostro fianco sud per mezzo secolo.
Solo, non li vorrei in Europa: il sangue mongolo non è acqua.
L’illusione eurocratica che, per diventare europei, basti accettare l’euro e le normative sul calibro delle mele e la curvatura dei cetrioli, fa offesa alla storia, e anche al vecchio sangue mongolo, sangue delle steppe e di Gengis Khan.
Impalatori fidati, di parola, ma asiatici.
In Europa li possiamo associare, dare loro tutti i benefici economici che vogliono.
Ma è l’Asia il loro posto.
Farne degli europei è un’idea idiota, da illuministi di serie C.

Non meno idiota è il progetto di Bush di «portare la democrazia nel mondo islamico».
Il risultato si è visto: a vincere le libere elezioni sono i fondamentalisti.
L’Islam è profondamente estraneo alla democrazia perché la stessa religione musulmana vede in Allah non il Padre e il Legislatore della tradizione greco-romano-cristiana, bensì il despota divino.
Il Dio giudaico-cristiano ha creato il mondo e poi si è «riposato» affidandolo all’uomo.
Allah sostiene il mondo istante per istante, con un atto continuamente ripetuto della sua volontà dispotica.
I musulmani non hanno fatto scienza perché i loro mullah e teologi hanno detto: «Allah ha fatto il fuoco caldo, ma potrebbe farlo freddo».
Nobile visione religiosa, ma la conseguenza è ovvia: è inutile indagare sulla natura e sulle cause dei fenomeni perché questi sono atti di volontà arbitraria di Dio, per essenza inspiegabili.
Inutile studiare e sperimentare: tutto è già nel Corano.
E Allah non deve dare ragione di ciò che fa.
Ecco perché i regimi politici nell’Islam sono tutti dispotismi: i laici Nasser e Saddam o il fanatico religioso Khomeini concepiscono il potere modellandolo sul Despota divino, Allah.
Se va bene, possono essere despoti illuminati.
Ma sempre, il potere è arbitrario e senza controllo, senza contrappesi.

Tutto ciò spiega anche le manifestazioni contro i cartoons danesi.
L’Islam è «anti-intellettuale»: non serve pensare, è vietato indagare, basta avere fede.
Non sono filo-islamico ad occhi chiusi: so che l’Islam è il nemico storico e fatale della civiltà cristiana.
Non vorrei che anche noi cadessimo nella trappola delle manipolazioni e provocazioni in cui cadono loro così facilmente.
Quando si tratta di dominare popoli culturalmente estranei e potenzialmente ostili bisogna anzitutto «capirli».
Non per bontà, ma per non provocarne le furie senza necessità.
Nei giorni in cui l’America pretende di esercitare la sua egemonia mondiale (e lo fa nella visione dello «scontro di civiltà») conviene porsi la domanda: che cosa avrebbero fatto i Romani?
Perché i romani hanno esercitato l’egemonia in modo insuperabile.
E senza eccessive spese militari: Augusto aveva disposizione 120 mila uomini - quelli che non bastano a Bush per pacificare l’Irak - con cui dominava tutta l’Europa fino alla Romania, il Nordafrica, Siria e Turchia.
Insomma, dominava pacificamente.
Inzitutto evitavando le provocazioni.
Soprattutto in materia di religione.
Gli dèi dei nemici vinti, li onoravano e li adottavano nel loro Pantheon.
Lasciavano la massima autonomia agli sconfitti.
Magari, costruivano qualche acquedotto per migliorare l’igiene dei barbari, strade e mercati per incentivarne l’economia.
E i barbari si romanizzavano da sé perché l’ordine sociale romano era preferibile alle loro vecchie tradizioni.
Imparavano il latino per accedere ai tribunali: i giudici romani erano giusti.



Gli inglesi hanno seguito l’esempio romano.
Per gestire il loro impero coloniale mondiale, hanno inventato l’etnologia, lo studio delle tradizioni dei popoli soggetti.
Per imparare a non provocarli.
Commisero un errore nel 1850 quando distribuirono alle truppe coloniali, Sikh e musulmani, proiettili unti di grasso di maiale, obbrobrio disgustoso per gli uni e gli altri (la caruccia doveva essere strappata coi denti).
Risultato: la rivolta dei Sepoy.
E gli inglesi decisero di non sbagliare più.
Così, rispettando le tradizioni (salvo quelle atroci: in India vietarono e repressero l’abbruciamento delle vedove e sgominarono i terribili Thugs seguaci della dea Kalì) gli inglesi «tennero» l’India intera con soli 30 mila uomini.
Così si deve fare anche coi musulmani: capire il loro punto di vista serve a non farci manipolare come loro.
Perché fra noi si diffonde la paura che «l’Islam ci attacca», e molte nostre reazioni obbediscono a questa paura.
Proviamo a vedere le cose dal punto di vista musulmano.
Due paesi, Iraq e Afghanistan, sono sotto occupazione militare Usa; altri due, Siria e Iran, sono minacciati quotidianamente di attacco da parte della superpotenza militare mondiale; i palestinesi sono trattati come bestie dai loro occupanti.
Noi gridiamo: «l’Islam ci attacca».

15/02/2006 17:26
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.189
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Hai capito l'islam?


Dopo dieci giorni di contestazioni e di violenze, adesso la vicenda della caricature contro il Profeta Maometto comincia a mostrare il suo volto peggiore. Che riesce perfino a oltrepassare i confini e le competenze territoriali. Ieri la Procura generale dell'Iran ha fatto sapere che, se non provvederanno le magistrature dei Paesi dove sono state pubblicate, si assumerà il compito di «perseguire e punire» i responsabili delle vignette contro il Profeta. Il che vuol dire incorrere nel reato di blasfemia e rischiare la morte. Il comunicato è stato pubblicato sul quotidiano Aftab. «Tenuto conto dei regolamenti della magistratura della Repubblica islamica - si legge nella nota - l'Iran si ritiene competente a perseguire questo crimine».
Non manca, da parte della Procura di Teheran, una raccomandazione ai «colleghi» europei: se saranno loro a giudicare gli autori del crimine, sono pregati di infliggere la pena più severa. Ma nella Repubblica islamica dell'Iran, a questa curiosa concezione di giurisdizione se ne accompagna una, poco lodevole, di «par condicio». Ieri su un sito locale è stata pubblicata la prima caricatura sull'Olocausto. E alcuni media del mondo islamico, fra cui Al Jazeera e Al Arabya, hanno riportato la notizia che verrà addirittura organizzato un concorso a premi per chi realizzerà la vignetta migliore sul tema. L'iniziativa è sostenuta dalla Casa della caricatura dell'Islam e dal quotidiano Hamshahrì, che è uno dei più venduti nel Paese ed è edito dal comune di Teheran (il cui ex sindaco è un certo Mahmoud Ahmadinejad ndr).


----------------------------------------------------------------


Teheran: «Perseguiremo ovunque gli autori delle vignette blasfeme»


La vignetta pubblicata ieri è suddivisa in due parti. La prima si intitola: «Auschwitz 1942». In essa si vede un ebreo, con la stella di David sulla schiena, che entra nel campo di concentramento portando un fagotto. Sopra il cancello è scritto: «Il lavoro porta la libertà». Nella seconda, intitolata «Israele 2002», si vede lo stesso ebreo che, con un fucile a tracolla, si avvia verso un campo simile a quello di Auschwitz, dove apparentemente, oltre il reticolato, è in corso una guerra. Questa volta sopra il cancello è scritto «La guerra porta la pace».
Intanto, in Pakistan, il presidente Perwez Musharraf se la prende con chi invoca la libertà di stampa. «Non capisco - ha detto - come una persona civilizzata possa usare la scusa della libertà di stampa e ferire i sentimenti di oltre un miliardo di musulmani. Questo significa portare la libertà di stampa all'estremo. I responsabili non hanno pensato alle conseguenze per la pace e l'armonia mondiali». E, all'interno del Paese, ieri la situazione non era certo tranquilla. A Peshawar, nel nord, 6.000 studenti hanno manifestato in modo violento all'ormai solito grido «Allah Akbar», lanciando pietre contro negozi e uffici. La polizia ha dovuto fare largo uso di lacrimogeni per bloccarli. Sempre nel nord del Pakistan, ad Attock, alcuni dimostranti hanno dato fuoco a un negozio che vende prodotti della Telenor, la maggior compagnia telefonica norvegese. La motivazione è sempre la stessa: la pubblicazione delle vignette del Profeta su un giornale di Oslo.


15/02/2006 17:36
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.191
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Vignette: nuovi particolari segreti



Flemming Rose, direttore culturale del giornale danese, il mandante delle vignette anti-islamiche, è dunque stato messo «in congedo illimitato».
Ma non per «quelle» vignette, bensì per altre, che non ha pubblicato.
Il suo licenziamento, vale la pena di ricordarlo, segue a una sua intervista alla CNN: in cui Rose, per dimostrare il suo attaccamento alla libertà d’espressione costi quel che costi, ha lasciato intendere: sì, lui sarebbe disposto a pubblicare sul suo giornale, il Jyllands-Posten, anche le vignette contro gli ebrei che si stanno preparando in Iran, grazie a un concorso indetto da Teheran.
«E’ un errore di giudizio», s’è precipitato a dichiarare il direttore di Rose, Carsten Juste: ed ha messo in congedo illimitato il suo confuso sottoposto.
Rose, l’eroe della libertà, ha persino ringraziato, ammettendo che aveva bisogno di un «lungo periodo di riposo».
Non sentiremo più parlare di lui.
Come dice un lettore: di colpo ci è passata la «freedom of speech».



Ma non è tutto.
L’amico Webster Tarpley (l’autore dell’inchiesta più completa sull’11 settembre: «9/11: Synthetic Terror, Made in Usa», Progressive Press) richiama l’attenzione su alcuni fatti che possono essere stati i preliminari della provocazione-complotto danese. Webster addita, ad esempio, la riunione del gruppo Bilderberg tenutasi in Baviera, al Sofitel di Rottach-Egern presso il lago Tegernsee tra il 5 e l’8 maggio 2005.
A porte chiuse, come al solito.
Ma la lista degli ammessi alla riunione segreta è alquanto istruttiva.
Oltre a varie teste coronate di Olanda, Belgio e Spagna (del resto il Bilderberg fu creato come consesso «atlantista» dal principe Bernardo d’Olanda, e ne è alto patrono Filippo d’Inghilterra), oltre ai soliti banchieri dei Rockefeller e dei Rotschild e ai soliti eurocrati cooptati, oltre a Kissinger, vi hanno partecipato altre persone significative.
Il segretario generale della NATO, Jaap Hoop de Scheffer; e il petroliere danese Anders Eldrep, presidente della Danish Oil and Natural Gas (DONG).
Questo miliardario è il marito di Merete Eldrep, che comanda la casa editrice JP/Politiken Hus: insomma l’azienda che pubblica il Jylland Posten, il giornale delle vignette contro Maometto: controllato evidentemente dagli interessi petroliferi danesi.



Direte: è poco, come indizio.
Il fatto è che gli iniziati del Bilderberg pendevano dalle labbra di tre personaggi notori, anch’essi ammessi alla riunione esclusiva: Richard Perle, Michael Leeden e William Luti.
I tre più attivi dei neocon che, per amore d’Israele, hanno portato gli USA all’invasione dell’Iraq a forza di false informazioni (la parte di Leeden nella falsa storia dell’uranio del Niger, che Saddam avrebbe comprato, è stata più volte raccontata, e ancora più insabbiata).
Ora, i tre falchi di Giuda erano certamente lì a raccomandare la prossima fase: l’aggressione dell’Iran.
E come prepararla psicologicamente.
Quanto alla libertà di stampa della Danimarca: Webster, che ci ha abitato per anni per farvi lavoro di organizzazione politica, può testimoniare di persona «la sorveglianza pervasiva sulle pubblicazioni, i raduni politici e i pubblici discorsi» che vi esercita il Servizio di Intelligence danese, Politiets Efterretningstjeneste (PET): un’organizzazione fra le meno aperte e controllabili del mondo, piena di membri fedelissimi alla monarchia danese, i cui poteri sono stati ulteriormente ampliati dalla nuova legislazione danese sul terrorismo, varata ovviamente dopo l’11 settembre. Oggi al governo della Danimarca c’è una coalizione neocon che ha mandato truppe in Iraq.



Quanto all’eroe (ed ora desaparecido scandinavo) Flemming Rose, già abbiamo parlato della sua relazione speciale con Daniel Pipes, l’ebreo-americano che ora dirige l’US Institute for Peace: l’organo del Dipartimento di Stato dal nome sinistramente orwelliano, dato che tutte le energie di Pipes sono dedicate ad attizzare la guerra di civiltà contro gli arabi e l’Islam in generale.
Pipes è stato persino trascinato in giudizio per «hatred and bigotry», per odio razziale, dall’associazione degli arabo-americani.
Flemming Rose andò a trovare Pipes a Washington nell’autunno del 2004, e sull’incontro scrisse un articolo entusiasta: dove ammise che avevano discusso di come mobilitare l’Europa contro il pericolo islamico. «Pipes», scrisse Rose, «è sorpreso che in Europa non viga un allarme maggiore sul pericolo che l’Islam rappresenta [per gli stessi europei], a causa del tasso di fertilità calante [europeo] e dell’indebolirsi del senso della propria storia e cultura [europea]» (Jylland-Posten, 29 ottobre 2006).
Bisognava provvedere a «allarmare» gli europei più di quanto non siano: e Rose ha provveduto.



Come nota Webster, l’affare dei cartoon ha dato voce e forza alle forze xenofobe europee, allo spirito-Fallaci prima tenuto ai margini: ora l’opinione pubblica maggioritaria vede lo scontro di civiltà come inevitabile.
E stranamente, le manifestazioni musulmane (quanto infiltrate da Mossad e MI-6 non sapremo mai) sono state dirette contro ambasciate europee, anche di quei Paesi che non hanno affatto sottoscritto la politica neocon di Bush, come Francia e Germania.
Ovviamente, tutto ciò serve a far accettare agli europei l’attacco all’Iran.
Ormai anche i giornali ufficiosi ammettono che l’attacco avverrà.
Probabilmente a marzo.
Prima di essere fulminato dal coccolone, Sharon aveva ordinato alle sue armate di prepararsi a colpire l’Iran a marzo.
Vladimir Zhirinovsky, il russo di destra, assicura che la data precisa sarà il 28 marzo, giorno delle elezioni in Israele.



Ad essere più preciso - e agghiacciante - è stato Scott Ritter, l’ex ispettore ONU (ex Marine) demonizzato e diffamato per aver sostenuto che Saddam non aveva armi di distruzioni di massa (le aveva, si sa; e Ritter era stato pagato da Saddam, lo hanno scritto i giornali).
La Casa Bianca non aspetterà che il Consiglio di Sicurezza ONU si pronunci sul programma nucleare di Teheran.
Jonh Bolton, l’ambasciatore degli USA all’ONU (necon, ebreo) ha già scritto il discorso che pronuncerà.
«Dirà che l’America non può permettere che l’Iran minacci gli USA [sic], e che l’America perciò deve agire unilaterlamente». Come lo sa Ritter?
«Ho parlato con chi scrive i discorsi di Bolton», ha risposto.
Ritter ha illustrato le fasi della strategia americana.
Prima, le forze USA bombarderanno alcune installazioni-chiave del programma nucleare iraniano; con la speranza che il colpo basti a provocare la rivolta popolare che detronizzerà gli ayatollah.
Se non accade, è probabile che il regime di Teheran risponda con un attacco a Israele: in tal caso, gli americani lanceranno sull’Iran la bomba atomica.
E’ a questo che bisognava preparare gli europei.


21/02/2006 22:43
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.216
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
La perfida cometa di Bengasi



Mentre in Italia ci s’arrabatta per scegliere – alle prossime elezioni – fra una banda di mascalzoni ed un’altra di fessacchiotti, il mondo sta precipitando. E nessuno mostra d’accorgersene.
Assassini di cristiani in Africa, assalti alle piattaforme petrolifere, incendi d’ambasciate e sedi consolari, disordini, sommosse in tutto il mondo musulmano.
La politica estera viene oramai presentata come uno scontro fra bande, una riedizione de “I ragazzi della via Pal” nella quale i contendenti portano da un lato la croce e dall’altra il velo: nell’ignoranza totale, i media – infarciti d’accoliti di regime – scialacquano parole a vanvera confondendo anche ciò che non dovrebbe, non potrebbe essere confuso da chi fa di mestiere il giornalista.
Non mi piace commentare le altrui disgrazie ma, quando un TG nazionale (il TG3) presenta l’Imam dell’istituto di Al-Azhar del Cairo come “il principale esponente della Fratellanza Musulmana”, dimostra di non sapere nemmeno da dove inizia il mondo musulmano, figuriamoci il resto. Commette, inoltre, un gravissimo errore, giacché nell’attuale panorama mediatico si sa che “due mezze bugie fanno una mezza verità”.

L’incontro presentato (il 18/2/2006, ore 19) era fra l’Imam di Al-Azhar ed un vescovo danese: l’ennesimo tentativo di trovare una soluzione all’annoso problema delle vignette, come se il responsabile di un incendio fosse il cerino, e non le pessime condizioni di sicurezza del fabbricato.
L’incontro è stato, in realtà, un dialogo fra sordi: non perché mancasse la volontà d’intendersi, quanto perché – nonostante gli attenti e bravissimi traduttori – si parlavano due diverse lingue. La richiesta araba era quella di scuse ufficiali da parte del governo danese, la risposta danese è stata quella di non poter chiedere al proprio governo di scusarsi per un atto che non aveva commesso.
Quisquilie e sofismi a parte, in questo apparente dialogo fra sordi c’è la radice di tutta l’incomprensione, la difficoltà che s’incontra nel dialogo con i musulmani, giacché per prima cosa bisognerebbe conoscere le fondamenta del mondo islamico. Questo dovrebbero meditare con attenzione coloro che desiderano gettare ponti di reciproca comprensione fra i due mondi, altrimenti rimangono solo velleitari proclami e mucchi di macerie.

La richiesta dell’Imam era – per il diritto islamico – perfettamente logica, giacché i musulmani non distinguono fra religione, potere politico e popolazione. Sono, in altre parole, tutte parti di un unico, la comunità, la Umma. Chi dunque si dovrebbe scusare? Il capo della Umma danese, che sarà il presidente: questa è la logica dell’Imam.
Da parte sua, il vescovo chiariva che il presidente danese non poteva scusarsi per un atto avvenuto all’esterno dell’apparato dello Stato, perché in questo caso è chi ha commesso l’atto a doversi, eventualmente, scusare: la separazione dei poteri (e la responsabilità penale personale) – in qualche modo – ecco che saltano fuori.
Si potrebbe affermare che lo Stato danese – in quanto nazione che ospita il giornale incriminato – dovrebbe scusarsi lo stesso, ma lo stesso Berlusconi ha chiarito che le dimissioni di Calderoli sono dovute per la sua qualità di ministro, mentre se fosse stato un privato cittadino non era tenuto a farlo.
Il problema delle scuse, in Occidente – se siano dovute o no dallo Stato per gli atti di un cittadino – è complesso, ma non si può sorvolare sul fatto che, nel nome della libertà d’espressione, ciascuno di noi è convinto di dover rispettare solo i vincoli dell’ordinamento vigente. Ciò può essere valido in linea di principio, ma l’abilità del politico sta proprio nel discernimento fra ciò che deve essere applicato e ciò che deve, invece, essere abilmente sotteso: ogni stagione ha le sue musiche, ed ogni cielo i suoi colori.

Ciò che nella vicenda colpisce è stato lo stupore e la visibile irritazione dell’Imam per le scuse non ricevute: per noi Occidentali è veramente difficile capire perché un istruito credente egiziano, una delle massime autorità religiose islamiche, non riesca a comprendere le nostre ragioni.
Immaginiamo di tornare indietro di tre secoli e di riflettere sulla struttura dello Stato: a quel tempo, il re regnava “per grazia di Dio e per volontà della nazione”, ma la prima parte del principio ha avuto per secoli il sopravvento.
I tribunali ecclesiastici (Inquisizione, oggi Sant’Uffizio) processavano e condannavano per eresia e per stregoneria, ma consegnavano i malcapitati – per l’emanazione della sentenza e l’esecuzione della stessa – ai tribunali civili.
Vi sono innumerevoli esempi di questo “doppio canale” del diritto medievale, e furono rarissimi i casi nei quali il tribunale civile contrastò quello ecclesiastico: quasi sempre i tribunali civili “andavano giù” ancor più pesantemente di quelli religiosi1.

Il re emanava leggi ed editti, tramite i giudici che egli stesso nominava amministrava la giustizia, decideva della guerra e della pace: giustamente, il Re Sole poteva affermare “L’état suis moi!”
Questa era la nostra situazione tre secoli or sono, prima degli Enciclopedisti, prima di Voltaire e di Rousseau, prima della Rivoluzione Francese, dei moti del 1848, delle monarchie, infine, costituzionali. La precisa codificazione dei diritti e dei doveri del sovrano fu il primo passo: il secondo fu la separazione del potere legislativo ed il terzo l’autonomia di quello giudiziario.
Ebbene, nonostante l’aria condizionata, le Rolls Royce e le antenne satellitari, niente del genere è avvenuto nel mondo islamico, che vive tuttora con un impianto giuridico traballante, sempre in bilico fra l’applicazione alla lettera della Sharia – il diritto islamico – e dei pallidi tentativi d’interpretazione delle norme.
Contemporaneamente, la diffusione dell’informazione è enormemente aumentata anche in Oriente: non solo telefonini e TV in lingua araba, ma soprattutto Internet, la comunicazione planetaria immediata a portata di mouse.
Il risultato è una miscela esplosiva, generata da un enorme flusso d’informazioni a fronte di una scarsa capacità d’elaborazione: il fenomeno avviene anche in Occidente, ma in presenza di un profondo squilibrio fra l’incedere degli eventi e strumenti giuridici vecchi di molti secoli, la contraddizione straripa senza confini.

Se avessimo mostrato agli europei del 1.700 ogni giorno delle immagini nelle quali il Cristo era vilipeso, oppure dei cristiani erano messi a morte od imprigionati, ci saremmo potuti aspettare come minimo una nuova crociata o qualcosa di simile.
Possiamo tuttora osservare i frutti di questa discrepanza fra il diritto islamico e la modernità: nell’Afghanistan dei Taliban si sgozzavano gli assassini sulla pubblica piazza e ad affondare il coltello nella gola del condannato era in genere un parente della vittima, mentre una telecamera digitale d’ultima generazione riprendeva il tutto. In Arabia Saudita si tagliano teste e mani con la spada, mentre in Africa le adultere vengono lapidate come avveniva (oggi, per fortuna, un po’ di meno) nell’Iran di Khomeini, ed a volte questi tristi spettacoli sono mostrati dai media locali.
In altre nazioni, almeno apparentemente, sembrano vigere regole più simili a quelle dell’Occidente, ma – grattata la vernice – si scopre che così non è. Il potere dei vari re e rais arabi rimane un potere assoluto: recentemente, il re Abdhallah di Giordania ha sospeso – in un momento di gravi tensioni interne – tutte le (pallide) garanzie costituzionali.
Nell’Egitto di Mubarak le carceri sono zeppe d’oppositori politici, e così avviene anche (in misura minore) in Siria ed in Libia. Perché questa differenza?

Per capirlo dobbiamo scrutare il mondo arabo così come uscì dalla Seconda Guerra Mondiale (o poco dopo): da un lato le nazioni che mantennero rigidamente le tradizioni – Marocco, Arabia Saudita, Kuwait e gli altri stati del Golfo Persico – e dall’altra i paesi che abbracciarono il cosiddetto “socialismo pan-arabo”, ossia Algeria, Libia, Egitto, Siria ed Iraq, che gravitarono – chi più e chi meno – nell’orbita sovietica.
Altri stati ebbero situazioni diverse: la Giordania fu assegnata alla dinastia hascemita come pegno (e garanzia) per l’aiuto offerto dal bisnonno dell’attuale re alle truppe inglesi (quelle di Lawrence d’Arabia) nel cacciare i turchi durante la Prima Guerra Mondiale, mentre l’Iran riuscì a mantenere l’indipendenza grazie alla sagacia dello Scià Mohammad Reza Phalavi I, mentre il figlio Reza II non fu abile come il padre e cadde nella trappola tesagli da Khomeini. Il Libano ottenne un’indipendenza di facciata, che poteva e che può tuttora esistere soltanto se c’è equilibrio fra i suoi potenti vicini.
Potremmo quindi dividere il campo in due diverse situazioni: coloro che accettarono una sorta di modernizzazione (sociale e giuridica) che era proposta dall’URSS – nazione che non aveva un passato coloniale – mentre altri rimasero in qualche modo fedeli alle tradizioni.
Anche le tradizioni, però, non erano uniformi, giacché si trattava di un compendio di norme, comportamenti, abitudini – in definitiva dell’impianto sociale – stabilito da Maometto nel VII secolo d. C. e via via un poco trasformato dai grandi califfi, soprattutto da quelli abbassidi2.

La stagione aurea della cultura islamica durò troppo poco per evolversi verso impianti sociali più liberali, anche se vi furono pensatori islamici che – prima dell’anno 1.000 d. C. – ritenevano che “solo la logica (kalam) può riconciliare in pieno ragione e fede”3.
Dopo l’anno 1.000 d. C. la stagione aurea del pensiero islamico iniziò un lungo ed inarrestabile declino, la cui fine coincise con le dominazioni coloniali.
Le nazioni che scelsero la via “socialista” copiarono – spesso peggiorando ancora il modello – dall’URSS: è stupefacente notare come un impianto sociale autoritario come quello sovietico ben si sposò con la naturale vocazione dispotica di califfi ed emiri.
In fin dei conti, Nasser, Sadat, Afez al Assad, Saddam Hussein e tanti altri non furono niente di più che dei sovrani assoluti che attingevano alla pratica stalinista – dei califfi con la stella rossa – con apparati di polizia copiati di sana pianta dalla Stasi tedesca o dal KGB sovietico. Fu, per molti aspetti, un nuovo Limbo, un’ulteriore sospensione nel tempo, di quel tempo che scorreva immutabile e statico dai tempi di Maometto.

Oggi alcuni di quegli statisti sopravvivono: il caso più eclatante è Muhammar al Gheddafi, sovrano incontrastato della Libia da decenni.
I recenti disordini scoppiati a Bengasi sono una meteora, un fulmine a ciel sereno per l’inossidabile colonnello di Tripoli: scaltro come una volpe, Gheddafi ha saputo destreggiarsi per decenni fra embarghi e sanzioni, oscillando ora verso la Lega Araba ora verso quella Africana, un po’ con l’Occidente ed un po’ con l’URSS e la nuova Russia.
Un mirabile esempio d’equilibrismo politico, e bisogna riconoscere che Gheddafi possiede una lungimiranza politica che pochi leader mondiali possono oggi vantare, anche se governano nazioni enormemente più potenti. Eppure, Bengasi è una ferita grave.
Qualche giornalista italiano si è lasciato andare a commenti del tipo “manifestazioni sorrette dal regime…”, ma, se avesse riflettuto qualche attimo prima d’aprir bocca, sarebbe rimasto senz’altro in silenzio.
Probabilmente alcune manifestazioni erano tollerate dal regime – proprio per mostrare alla popolazione che il governo era sensibile all’offesa ricevuta – ma non si doveva andar oltre: la prova? I morti, che nelle manifestazioni “pilotate” non ci sono mai, così come non avviene che un ministro dell’Interno – il giorno seguente – perda il posto.

Cosa è sfuggito? E’ sfuggito ciò che in realtà era entrato. Bengasi è situata quasi al confine egiziano, mentre Tripoli è vicina alla più tranquilla Tunisia. Chi può essere entrato dall’Egitto?
Che si sia trattato di persone o di parole, di scritti o di sermoni, il “marchio” dei disordini di Bengasi è quello della Fratellanza Musulmana, che non è – come credono alcuni giornalisti italiani – capeggiata dall’Imam di Al-Azhar. Forse, sono stati tratti in inganno dalla coincidenza che il nonno del “numero due” di Al-Qaeda, Ayman al Zawahiri – Al-Zawahiri di Rabia – fu anch’egli Imam della moschea di Al-Azhar, ma è una semplice casualità che non c’entra nulla con la Fratellanza Musulmana.
La Fratellanza Musulmana nacque nel 1926 ad Ismailya, in Egitto, fondata da Hassan al-Banna, un oscuro insegnante che si proponeva di risolvere l’eterno dilemma: conciliare l’Islam con la modernità. Dopo aver appoggiato Nasser, la Fratellanza Musulmana ne subì la repressione giacché non considerava “l’appiattimento” sull’alleato sovietico come un buon viatico per l’Islam.
La repressione egiziana colpì parecchi adepti alla Fratellanza – fra i quali Ayman Al-Zawahiri – e da questo filone si dipanano le strade che conducono (pur con significativi apporti provenienti da altri stati e da altre organizzazioni) ad Al-Qaeda, ad Hamas, alla Jiad Islamica.

I regimi del socialismo pan-arabo hanno sempre represso le organizzazioni islamiche: sostenere che Saddam Hussein potesse aiutare le organizzazioni terroristiche del fondamentalismo islamico è come credere che l’ENI s’adoperi per far entrare in Italia società straniere del settore energetico.
Difatti – cosa assai poco conosciuta in Occidente – man mano che procede “l’islamizzazione” dell’Iraq da parte delle milizie sciite, vengono perseguitati tutti gli aderenti alla sinistra irachena, bruciate le sedi, uccisi gli antagonisti, in un faida che poco appare dato l’enorme caos che regna nel paese.
Il segnale che giunge da Bengasi è quindi un sintomo di debolezza del regime, forse appena un’incrinatura, ma sappiamo quanto sia spesso rapido il processo che conduce una minuscola incisione a diventare crepa, poi frattura ed infine travolgente rottura.
Un’eventuale “capitolazione” della Libia verso foschi futuri legati al fondamentalismo avrebbe un effetto devastante sui già precari equilibri mediterranei – con Hamas al potere in Palestina, un’irrisolta questione algerina, un Libano sempre sull’orlo della guerra civile – e per questa ragione il gesto dell’ex ministro Calderoli può essere codificato con un solo aggettivo: folle.
Bisognerebbe imparare a separare le basse pulsioni – giacché qui non si può nemmeno parlare di un gesto politico – dalle proprie responsabilità di governo e nell’informazione: le ultime cose delle quali abbiamo bisogno – nell’attesa di trovare validi canali di comunicazione con il mondo islamico – sono proprio le invettive di Oriana Fallaci ed i gesti sconsiderati dei parvenu della politica.

28/02/2006 20:49
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.263
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Inadeguati imperialisti

L’attentato alla moschea di Samarra rischia veramente di diventare un punto di non ritorno nella complicata situazione irachena: sciiti e sunniti si confrontano (spesso in armi) in quelle aree da più di un millennio. Riflettiamo sulla stranezza di un culto (quello sciita) che ha il proprio centro del pensiero a Qom, in Iran, ed i principali luoghi di culto in Iraq, a Najaf e Kerbala: sarebbe come se l’Università Lateranense avesse sede a Roma e San Pietro fosse a Wittenberg, dove Lutero pubblicò le sue famose tesi.
Per gli aspetti interni all’Islam, l’Iraq è proprio terra di confine, come la Germania è divisa fra una Baviera prevalentemente cattolica ed un Nord in maggioranza luterano. In Iraq, una modesta frazione della popolazione è cattolica di rito copto e ciò richiama alla mente i Balcani, con i cattolici al Nord, gli ortodossi al Sud ed un po’ d’Islam sparso a macchia di leopardo.
Per fortuna, a compensare una sorta di “balcanizzazione” religiosa interviene un forte sentimento nazionale, nato in anni lontani – sotto il protettorato inglese – e mai sopito; anche sul piano politico, però, c’è un neo: la sempre aperta questione curda, che coinvolge non solo l’Iraq, ma anche l’Iran e soprattutto la Turchia.

In definitiva, se c’è un luogo dove scorrono le “faglie” interne dell’Islam e quelle planetarie della geopolitica – sempre sull’orlo di generare terremoti – questa terra è proprio l’Iraq, la Mesopotamia , l’Alfa della civiltà che rischia di diventare la miccia dell’Omega.
Chi ha cercato di gestire questa esplosiva situazione? Un’alleanza fra Stati Uniti e Gran Bretagna, dove gli americani sono la frazione egemone grazie alla potenza delle loro forze armate.
Una domanda che nasce spontanea è: gli USA – dopo la capitolazione di Saddam Hussein – come hanno gestito la situazione? Sulla base di quale patrimonio storico hanno plasmato la loro strategia? I think-tank statunitensi cos’hanno prodotto per affrontare la situazione?
Sarebbe sin troppo facile liquidare la faccenda accusando gli USA d’imperialismo, perché nascerebbe immediatamente un ulteriore quesito: esistono degli attributi – imprescindibili – dell’imperialismo?

Sappiamo che New American Century – il think-tank più vicino ai neocon americani – si scagliò contro Clinton accusandolo di non aver saputo cogliere l’improvviso ed enorme vantaggio strategico conseguente al collasso dell’URSS. In altre parole, Huntington & soci accusarono la Casa Bianca d’immobilismo, di “resa” ai desideri degli imbelli europei, di troppa accondiscendenza con gli “appassionati” della vodka che abitavano al Cremlino.
Il multilateralismo di Clinton nasceva dalla constatazione che alla potenza militare americana non corrispondeva un parallelo prestigio economico, che iniziava ad essere minato dall’avanzata della Cina e dell’India. Se vogliamo, la visione di Clinton era più pragmatica, tesa ad “accompagnare” il declino dell’economia americana senza scossoni, così come la Gran Bretagna era uscita di scena mezzo secolo prima cercando di salvare il salvabile e passando dall’Impero Britannico al Commonwealth.
Tutto sommato, la visione più concreta e meno ideologica di Clinton avrebbe consentito agli USA più solide alleanze con l’UE e con alcuni paesi arabi: una “base” più larga e stabile per gestire un pianeta divenuto improvvisamente troppo piccolo per armonizzare le mille tensioni che, già prima della globalizzazione dei mercati, esso conteneva.

Invece, con la vittoria di Bush il pensiero neocon ebbe il sopravvento: se il nostro principale avversario, l’URSS – affermavano – non esiste più, perché non espanderci nell’intero pianeta e plasmarlo secondo le esigenze dell’unica superpotenza rimasta?
Dominare con le armi anche quando i numeri dell’economia non sembrano più a tuo favore, sostituire la potenza del dollaro con quella dei missili: una fase imperiale gestita mediante la forza, questa era la convinzione dei think-tank di Harvard.
Ciò che sfugge in questo (apparentemente) semplice sillogismo, è che per attuare quel programma era necessario cambiare radicalmente almeno due importanti fattori: la struttura militare e l’impostazione della politica estera.
La revisione della struttura militare statunitense iniziò già negli anni ’90, quando ci si rese conto che non era più necessario competere sul terreno dell’innovazione tecnologica, quanto su quello dell’organizzazione strategica.

Importanti programmi militari furono rallentati al punto di mantenerli vivi oramai solo nominalmente (si pensi al caccia stealth F-22), ed anche l’Europa diluì il programma EFA (un altro caccia) su più quinquenni. Parallelamente, le forze armate USA furono affidate all’oggi ottuagenario Andrew Marshall – una delle voci più ascoltate al Pentagono – per una “robusta” cura di snellimento.
Furono chiuse numerose basi all’estero ed in altre furono ridotti sensibilmente gli organici, per creare la nuova organizzazione che poggiava su dieci EAF (Expeditionary Aerospace Force) ciascuna delle quali conteneva reparti di terra, mare e cielo: dieci grandi task force completamente autonome, che potevano essere spostate rapidamente, partendo dal territorio metropolitano, in ogni angolo del pianeta.
In questo modo, al Pentagono si ritenne di risparmiare sui costi che derivavano dal mantenere forze armate all’estero, mentre il rapido dispiegamento delle task force – tutte fornite di mezzi ad alta tecnologia e sorrette dall’intelligence satellitare – sarebbe bastato per mantenere il controllo d’oceani e continenti.

Pur con qualche rilevante distinguo, la struttura ricalcava quella dell’Impero Britannico: la Gran Bretagna – fino alla Seconda Guerra Mondiale – spostò contingenti sudafricani in Libia, neozelandesi in Malesia, indiani in Medio Oriente, ecc.
La struttura imperiale britannica, a sua volta, ricalcava quella di Roma: come dimenticare che l’ultima battaglia per la difesa dell’Impero fu condotta sotto le mura di Orléans, dove un generale bulgaro – Flavio Ezio – condusse le legioni romane, costituite in maggioranza da Galli e Germani ed alleate con i Visigoti, contro gli Unni?
La differenza è rappresentata dalla diversa struttura politica dei due imperi (volendo attribuire la qualifica “imperiale” agli USA): mentre la Gran Bretagna spostava contingenti da un capo all’altro dell’enorme impero – che rappresentava il 23% delle terre emerse a fronte di meno dell’1% del territorio nazionale – gli USA crearono una struttura prevalentemente metropolitana in grado di spostarsi rapidamente ovunque.

Due modelli a confronto: Romani e Britannici mantennero il solo potere politico all’interno del territorio metropolitano, mentre coinvolsero le popolazioni vinte nella difesa dell’impero e, di conseguenza, l’organizzazione militare ebbe una struttura policentrica. Gli USA hanno invece optato per un modello nel quale potere politico e militare sono accentrati sul territorio metropolitano, ed eventuali “acquisizioni” non entrano a far parte della struttura imperiale.
Mentre Roma si poteva permettere d’avere generali bulgari od ispanici, nel modello americano si partecipa solo come entità subalterne (e quindi non profondamente coinvolte): un simile modello, però, comporta analisi attentissime e massima sincronia fra gli aspetti politici e militari, giacché – in ultima istanza – si può fare affidamento solo sulle proprie forze, ed è ciò che sta avvenendo in Iraq.
Quando l’amministrazione USA denuncia la “straordinarietà” della situazione irachena, la sua imprevedibilità, intende affermare che essa esula dalle analisi effettuate prima del 2003: colpire in modo rapido ed efficace, ed altrettanto rapidamente rientrare in patria dopo aver creato governi fedeli a Washington.

L’attenzione, quindi, si sposta dagli aspetti militari a quelli strategici – che richiamano alle loro responsabilità i politici – i quali non hanno compreso che la situazione sul campo era enormemente più complessa: i militari, in definitiva, hanno svolto bene i compiti loro affidati, sconfiggendo Saddam in tempi rapidissimi.
Quella che è invece mancata è stata la valutazione di una possibile alternativa – una sorta di “piano B” – qualora gli avvenimenti avessero assunto altre tinte: quando Bush dichiarò la fine delle ostilità – il 1° Maggio del 2003 – ci credeva, credeva veramente che, sconfitto Saddam, la guerra fosse finita. Qualcun altro, invece, aveva preparato una sorta di “piano B”, mentre gli USA si cullavano nell’illusione che tutto fosse terminato.
Nelle “pieghe” delle notizie si trovano a volte dei veri e propri “fari” che illuminano gli eventi: il vertice del partito Baath – Saddam compreso – fuggì verso Nord quando gli americani entrarono a Baghdad. Nella confusione di quelle ore, le agenzie riportarono una notizia che non fu valutata nella sua importanza: le casse della banca centrale irachena erano state svuotate, c’era un ammanco valutato in alcuni miliardi di dollari (forse 2 o 3).

Che Saddam si fosse appropriato dei soldi di quella che riteneva la sua banca centrale non stupisce: quel che non fu attentamente valutato fu l’impatto che quel mare di soldi avrebbe potuto avere in un paese dove si campa con meno di un dollaro il giorno e dove un Kalashnikov costa 20 dollari.
Quel campanello d’allarme non fu avvertito, anche perché nei giorni seguenti alla caduta di Baghdad il paese era praticamente tranquillo: sulla via che porta a Tikrit non fu combattuta nessuna battaglia, giacché i tank della Guardia Repubblicana furono abbandonati intatti – a centinaia – ai bordi delle strade. Insomma, una fuga generale, una sorta di “otto settembre” iracheno.
L’atmosfera di festa per la caduta del despota, unita alla resa totale di ciò che rimaneva dell’esercito di Saddam, condussero gli americani dritti dritti al loro primo, colossale errore: armarono le milizie sciite del Sud pensando che – avendo gli sciiti subito le repressioni del regime – esse sarebbero state loro fedeli. Comprendiamo che suonerà strano alle orecchie dei più, ma “l’esercito del Mahdi” di Moqtada ad Sadr fu riarmato, in quei giorni, dagli americani con gli arsenali di Saddam caduti intatti nelle loro mani. Perché?

Per capire l’azzardo bisogna prima comprendere la natura della strategia USA, che deriva dall’impostazione della politica estera, che a sua volta non può prescindere dalla storia di una nazione. Curiosamente, proprio gli inglesi misero sul “chi va là” gli americani dal compiere quel gesto – e gli inglesi d’imperi se n’intendevano certo di più – ma non furono ascoltati.
Forti della loro esperienza in campo coloniale, gli inglesi sapevano che la fase di “normalizzazione” di un paese appena vinto non dura pochi giorni, tanto meno che ci si può fidare a riarmare truppe appena sconfitte: l’organizzazione coloniale ha le sue regole, e solo rispettandole si crea l’equilibrio fra le truppe d’occupazione ed i coolies, quelle coloniali. Gli americani, viceversa, non conoscevano le regole dell’occupazione coloniale, e si cullarono nell’illusione della “liberazione” dell’Iraq dal despota, che avrebbe condotto naturalmente gli iracheni a fidarsi di loro.
Per anni inglesi ed italiani si sono mossi sul territorio forti delle rispettive esperienze coloniali: ci rendiamo conto che parlare apertamente di “colonie” può risultare offensivo, ma è l’unica strada che conduce a ricostruire un quadro della situazione che ha forti elementi di coerenza al suo interno.

Nelle aree sottoposte al controllo inglese ed italiano le violenze sono state minori: pur mantenendo il controllo militare, il comando inglese di Bassora ha sempre cercato di coinvolgere politicamente gli iracheni nella gestione del territorio. Se fosse dipeso da loro, gli inglesi non avrebbero consegnato un solo fucile agli iracheni, ma sappiamo che a fare la “frittata” furono i comandi americani.

Perché questo strano atteggiamento da parte americana?
La prima ragione è senz’altro da ricercare nell’organizzazione strategica dell’invasione: secondo Washington, bisognava colpire duro e poi ritirarsi in fretta, lasciano ad un rinnovato governo iracheno, a loro fedele, il compito di “riavviare” una sorta di normalità nel paese. Consegnare le armi era dunque – nella loro impostazione – il primo passo verso la gestione del territorio affidata ad elementi locali.
Anche in questo, però, si dimostrarono inadeguati, come per l’incredibile atteggiamento assunto nei confronti dei tesserati del partito Baath di Saddam, che furono estromessi immediatamente da qualsiasi incarico.
Come faceva ad ignorare Paul Bremer – il governatore “coloniale” americano – che tutti i medici in Iraq erano forzatamente iscritti al partito Baath ? Le camere operatorie si svuotarono immediatamente.

Dopo qualche giorno si resero conto dell’errore e reintegrano i medici ai loro posti, dando però l’impressione di non avere chiarezza sulla strategia da seguire. Dopo l’uccisione di tre americani a Falluja – i cadaveri dei quali furono straziati dalla folla – ebbero la bella pensata d’inviare alla testa di un riarmato contingente iracheno un generale di Saddam. Il risultato fu che le truppe non solo non spararono un solo colpo contro i ribelli di Falluja, bensì che parecchi militari disertarono ed andarono ad ingrossare le fila della guerriglia: proprio a causa di quegli errori, nel novembre del 2004 gli USA attuarono a Falluja il classico metodo della distruzione totale, lo stesso sistema di bombardamenti a tappeto sulle popolazioni utilizzato a Dresda, Hanoi e Belgrado. Perché tanto pressappochismo?
Poiché – nonostante gli USA siano accusati d’imperialismo – non hanno una mentalità imperiale, tanto meno hanno esperienza in campo coloniale. E, attenzione: queste sono cose che non s’inventano in quattro e quattr’otto.

A differenza degli inglesi, degli italiani e dei francesi, gli USA non hanno mai dovuto confrontarsi con la gestione di una colonia: anzi, l’unica esperienza che hanno in tal senso è una lunga guerra per liberarsi dal dominio coloniale.
Spesso, in Europa, si considera la Rivoluzione Americana con un evento interno allo stesso popolo – e così in parte fu – ma non dimentichiamo che la liberazione dal governo coloniale inglese è una delle pagine della loro storia alla quale gli americani tengono di più. La lotta contro le truppe di Lord Cornwallis, fino alla caduta di Yorktown ad opera di George Washington, è una pietra miliare della storia americana – studiata accuratamente nelle scuole e spesso ricordata – e si tratta di una vicenda che narra della liberazione dal giogo coloniale.
I fondamenti della storia americana nascono quindi da una lotta di liberazione: successivamente ci furono le cosiddette “Guerre Indiane”, ovvero lo sterminio dei Nativi americani, nelle quali incontriamo un comportamento ancora diverso.

Le Guerre Indiane narrano tout court una vicenda di sterminio: sappiamo che Oglala e Cheyenne furono relegati nelle riserve, ma quelli che finirono a Pine Ridge non furono i popoli Oglala e Cheyenne, furono i loro miseri resti. La controproducente sottovalutazione delle sevizie operate ad Abu-Ghraib porta dritti dritti alle cannonate di Wounded Knee: un’assurda schizofrenia nella gestione degli eventi – dal riarmo di Al-Sadr alle sevizie sui prigionieri – che indica proprio la mancanza di una strategia dovuta all’inesperienza.
In definitiva, le Guerre Indiane non impegnarono gli USA in una successiva occupazione coloniale: semplicemente, gli abitanti autoctoni di quelle terre furono sterminati o deportati, ed a loro si sostituirono popolazioni d’origine europea.
Anche nella guerra contro il Messico il copione non fu molto diverso: conquistato il Texas, le popolazioni che lo popolarono furono prevalentemente d’origine nord europea. Le guerre che gli USA condussero fuori del Nord America non ebbero nessun connotato coloniale: così fu per la guerra contro la Spagna (nelle Filippine non ci fu emigrazione dagli USA) e per le due Guerre Mondiali, fino alla Corea.

Giungiamo così al Vietnam, dove per la prima volta i nodi giunsero al pettine.
La guerra in Vietnam mostrò per la prima volta l’inadeguatezza degli USA nel gestire una situazione nella quale bisognava – in qualche modo – sostenere un governo-fantoccio, assumere un atteggiamento coloniale o neo-coloniale.
Converrà riflettere che, dall’altra parte della barricata, Ho-Chi-Minh considerava tout court gli americani come degli occupanti coloniali (memore della precedente dominazione coloniale francese), solo che gli americani non si resero mai conto d’esserlo, e tanto meno adottarono delle tecniche di controllo coloniale.
Si limitarono dapprima a fornire i cosiddetti “consiglieri militari” al governo del Sud, e giunsero infine ad avere un contingente che superava le 500.000 unità senza però mai intervenire direttamente nel governo del paese.

Ovviamente il governo di Saigon era completamente succube di quello statunitense, e non si muoveva foglia senza che Washington approvasse, ma l’apparente indipendenza dei sud-vietnamiti condusse talvolta a delle frizioni ed a delle incomprensioni nella condotta delle operazioni militari, mentre era facile per il Vietnam del Nord additare gli americani come occupanti coloniali ed il governo di Saigon come traditore della comune patria vietnamita. In definitiva, gli USA finirono per apparire – al Sud come al Nord – degli occupanti perché non avevano nessun contatto con la popolazione, nemmeno con la borghesia locale.
Potremmo ancora ricordare Panama o l’attuale appoggio al regime colombiano ma questa rimane, in sintesi, l’esperienza internazionale americana in campo coloniale: con questo bagaglio d’esperienze – nessuna delle quali ha a che fare con una vera e propria occupazione coloniale – gli USA hanno invaso l’Afghanistan e l’Iraq, paesi estremamente complessi sotto l’aspetto sociologico, economico e religioso. Insomma, con la sola esperienza di un infermiere da campo pretendono d’intervenire in un’operazione chirurgica a cuore aperto.

Come troveranno una soluzione?
L’unica soluzione sarà un ritiro, camuffato con chissà quali artifizi mediatici: quando, nel 1943, i giapponesi fuggirono dalla Nuova Guinea, lo Yomiuri Shimbun di Tokyo titolò che il Giappone aveva ultimato “un’avanzata di ritorno”.
Come s’inquadra la distruzione della Moschea di Samarra nell’attuale situazione? Chi può cercare di trarre vantaggio da un simile evento?
Da più parti si è gridato “al lupo”: gli sciiti hanno sulle prime accusato i sunniti, gli USA non meglio definiti “nemici del processo di democratizzazione”, l’Iran ha accusato americani e sionisti, altri ancora Al-Qaeda e qualcuno ha tirato in ballo il fantomatico Al-Zarqawi.

L’Iraq è un paese dove vivono circa 12 milioni di sciiti e solo 5 milioni di sunniti: secondo quale logica i sunniti – una minoranza – avrebbero interesse a scatenare contro di loro la maggioranza sciita che, oltretutto, arma per la maggior parte le milizie statali? Appare in una luce sinistra anche il fallito tentativo d’attaccare la Moschea dell’Imam Alì a Kerbala – costato la vita alla povera gente di un mercato – e stupisce notare che l’attentatore non era un kamikaze, bensì un uomo che ha abbandonato l’auto nel mercato dopo essersi reso conto di non poter raggiungere l’obiettivo stabilito. Stabilito: e da chi? Perché – dopo centinaia d’attentati suicidi – colui che doveva colpire il massimo simbolo religioso sciita non si è sacrificato ed ha lasciato esplodere la sua auto imbottita d’esplosivo in un anonimo mercato?
Chi ha distrutto la Moschea di Samarra non c’entra evidentemente nulla con la democrazia, ma questo non significa che della democrazia irachena importi qualcosa a Washington.

Affermare che in questo modo s’arresta il processo di democratizzazione dell’Iraq potrebbe essere vero, sempre che esista qualcosa che possa essere definito “democrazia irachena”, un’entità in grado di sopravvivere all’esterno della “zona verde” di Baghdad e dei media. In realtà, esistono solo un mare di chiacchiere con le quali cercare di sorreggere ciò che non sta in piedi nemmeno con le stampelle: prima di parlare di democrazia, bisognerebbe arrestare il quotidiano martellamento d’attentati e di morti.
Tirare in ballo il sionismo, Al-Qaeda od Al-Zarqawi è come incolpare Cappuccetto Rosso o lo zio Paperone: quali prove – od anche semplici ma coerenti ipotesi – si hanno per sostenere simili tesi?

In Iraq agisce il meglio dei servizi segreti di molti paesi: nell’estate del 2003, furono uccisi sulla via di Baquba – proprio mentre la Germania tuonava contro l’intervento USA – due agenti tedeschi: cosa stavano facendo in Iraq? Chi li uccise? Sempre Al-Qaeda od Al-Zarqawi. Perché la fanteria USA sparò sul convoglio dell’ambasciatore russo che stava raggiungendo la frontiera giordana?
Lo scoppio della guerra interreligiosa fra sunniti e sciiti potrebbe essere utilizzata dagli USA per ritirarsi nelle 14 basi aeree che occupano e che – hanno chiarito – non abbandoneranno nemmeno dopo una loro partenza dall’Iraq. L’infuriare della battaglia fra sciiti e sunniti sarebbe pur sempre un alibi, ed un mezzo per deviare contro altri gli attacchi effettuati contro le truppe americane.
D’altro canto, è proprio ciò che fece nel 1941 il comandante britannico per fronteggiare la rivolta irachena: si trincerò in un campo fortificato a sud di Baghdad ed attese rinforzi dall’India, con i quali marciò – corsi e ricorsi storici – su Falluja.

E’ la stessa scelta operata dagli italiani dopo la famigerata ed occultata “battaglia dei ponti” a Nassirya: appurato che non era più possibile controllare la città senza scontrarsi con le milizie, optarono per il ritiro nella sicura base di Camp Mittica, dove tuttora vivono trincerati da quasi due anni. Peccato che quel “trinceramento” costi al contribuente italiano circa un miliardo di euro l’anno.
Qualcuno potrà obiettare che in questo modo gli USA perderebbero il controllo del petrolio iracheno ma, per come sono andate le cose, salvare le basi aeree (che consentono in ogni caso una proiezione di potenza verso i paesi limitrofi e l’Asia centrale) è già un risultato accettabile: di più, degli inadeguati colonialisti non possono proprio pretendere.

05/03/2006 15:30
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota
Post: 1.317
Registrato il: 03/05/2005
Utente Veteran
OFFLINE
Ayman al Zawahri accusa gli USA per le vignette



In un video diffuso la notte scorsa dalla tv satellitare Al Jazira, il numero due di Al Qaida, Ayman al Zawahri, ha attaccato l'Occidente per i suoi insulti a Maometto, lamentando che il Profeta e Gesù "non sono più sacri", e ha anche invitato il movimento palestinese Hamas a "continuare la lotta armata" e a non accettare né gli accordi di Oslo né la politica di "capitolazione" della road map.

Secondo il sito islamico www.islammemo.cc che ha diffuso il testo di quello che ha definito il discorso del numero due della rete di Osama bin Laden, al Zawahri ha anche "messo l'accento sul comportamento del ministro italiano che ha indossato una camicia che portava i disegni incriminati", in riferimento all'ex ministro Roberto Calderoli e alla tee-shirt con le vignette anti islamiche. Il riferimento a Calderoli non compare tuttavia nei brani che al Jazira ha diffuso.

Il medico egiziano, ripreso mentre parla con in testa un turbante nero e seduto di fronte a una finestra con tende, ha anche detto che le vignette satiriche sul profeta Maometto fanno parte di una campagna organizzata dagli Stati Uniti, ed ha lanciato un appello ai musulmani perché boicottino Danimarca, Norvegia, Francia e Germania e colpiscano l'occidente con attacchi simili a quelli che negli ultimi anni hanno avuto luogo a New York, Washington, Madrid e Londra. Secondo al Zawahri, "gli insulti contro il Profeta Maometto non sono il risultato di libertà di opinioni ma perché ciò che è sacro è cambiato in quella cultura" (occidentale, ndr).

"Il Profeta Maometto ... e Gesù Cristo ... non sono più sacri, mentre i Semiti e l'Olocausto e l'omosessualità sono diventati sacri".
Nel video trasmesso da al Jazira il numero due di Bin Laden dice anche, rivolto a Hamas, che "Aver raggiunto il potere non é di per sé un traguardo... e nessun palestinese ha il diritto di cedere un solo granello di terra" e che "i laici dell'Autorità palestinese hanno venduto la Palestina in cambio di qualche briciola". Il numero due di Al Qaida ha ammonito il movimento islamico trionfatore alle elezioni che avallare gli accordi di Oslo del 1993 fra l'Anp e Israele "dando ad essi legittimità, è contro l'islam". "La vostra unica alternativa - ha sottolineato Zawahri sempre rivolto ad Hamas - è di proseguire la lotta armata fino alla completa liberazione della Palestina".

Quanto alle vignette anti islam pubblicate da vari giornali europei, Zawahri invita il mondo islamico a boicottare economicamente e a colpire l'occidente. I musulmani, afferma la voce a lui attribuita, "devono infliggere danni ai crociati occidentali, specialmente alle loro infrastrutture economiche, con colpi che li facciano sanguinare per anni. I colpi inferti a New York, Washington, Madrid e Londra sono i migliori esempi".
"Dobbiamo impedire ai crociati occidentali di rapinare i musulmani", prosegue, aggiungendo che è necessario "un massiccio boicottaggio contro Danimarca, Norvegia, Francia e Germania e di tutti gli altri paesi che hanno preso parte all'attacco contro l'islam".

Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 2 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi
Cerca nel forum

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 21:24. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com