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Facciamo il punto della situazione!

Ultimo Aggiornamento: 06/03/2005 17:54
27/02/2005 09:34
 
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Registrato il: 26/07/2004
Utente Junior
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Scrivo per rendere omaggio alla costanza e alla caparbietà di quegli ex Testimoni che – in questa sede come in altre - non si stancano di confrontarsi e di cercare dentro e fuori di sé le ragioni più profonde della propria esistenza. In questo luogo virtuale il manipolo originario si è ampliato e aperto all’accoglienza anche di chi ancora aderisce (formalmente o meno) al geovismo, tuttavia, non sembra abbandonata l’idea più arricchente: quella di essere una comunità. Quest’idea è la forza, la speranza, l’utopia di tanti; utopia non nel senso di evasione dalla realtà quotidiana, ma di coscienza del limite e realizzazione attenta. Ha nutrito una nuova visione di impegno civile e un rinnovato modo di essere nel mondo; si è trattato, per certi versi, di un tentativo senza modello, di un’idea-progetto. Ma il possibile fa parte del reale e, come sosteneva Eraclito di Efeso, “senza speranza l’insperabile non si troverà”.
Ritengo utile che uno come me, osservatore alquanto distaccato anche se privilegiato, ripercorra le tappe di come e quando sia nata quest’idea. Le premesse sono maturate nel contesto di quella straordinaria temperie spirituale e culturale determinata dalla contestazione del geovismo compiuta da un sempre crescente numero di Testimoni di Geova in Italia e nel mondo: nella coscienza di costoro, la tensione antistituzionale (la messa in discussione della legittimità dell’autorità del Corpo Direttivo) si è andata saldando con il desiderio di poter parlare liberamente della propria fede e di esprimerla nel rapporto diretto e costante con la Bibbia e nell’impegno concreto al servizio dei “fratelli”, ove possibile. Prevedibile risultato di questa rinnovata esigenza di apertura è stato, per un buon numero di persone, l’espulsione dal Movimento con le accuse più fantasiose!
In contrasto con il verticismo e la burocrazia della struttura organizzativa geovista di provenienza, si è costituito un gruppo in cui i singoli si sentono legati gli uni agli altri da una comune esigenza, da una comune idea e da una comune speranza ed animati da un’autentica tensione al confronto e alla ricerca. Il tutto caratterizzato da spontaneità, comunione e ordinata autogestione. Gradualmente, il cammino di liberazione dal totalitarismo geovista si è rivelato profondamente intrecciato a quello di altri con i quali il manipolo originario è venuto in contatto anche di persona, il che ha rafforzato l’intensità di rapporti interpersonali e la comunicazione fra i vari componenti del gruppo che, pur provenendo da zone e ambienti diversi e lontani, si sono sentiti vicini e legati da un comune progetto e da una comune speranza: liberare le persone aiutandole a prendere coscienza di quei condizionamenti che sono talmente connaturati a una precisa esperienza settaria da sfuggire a un’analisi individuale. Ho sempre avuto la netta sensazione che i membri del gruppo originario, almeno quelli a me noti, avessero capito, a caro prezzo, che nessuna religione fosse depositaria esclusiva della verità: se le diverse culture e le varie religioni sono i luoghi in cui gli uomini hanno realizzato, nel corso della storia, la ricerca della verità, nessuna cultura e nessuna religione possiede, però, tale verità in modo assoluto ed esclusivo.
Una proiezione dell’esperienza di fede deve necessariamente andare nel senso del rispetto, del confronto, del dialogo e della valorizzazione delle differenze. Il “villaggio globale”, di cui tanto si parla, va costruito a partire da ciascuno di noi lavorando alla ricerca della “verità” che è sminuzzata in tutte le esperienze, di fede e non. Questo “villaggio globale” che sollecita nuovi atteggiamenti culturali, nuove comunicazioni, nuovi contatti, ha in sé i rischi della virtualità: in cui manca un contatto reale, cui attribuiamo una funzione vitale. Con il passar del tempo nel gruppo allargato si è rivelato chi ha reso difficile una comunicazione di tipo dialettico e non ha favorito la pacifica circolazione delle idee. Dalla spontanea omogeneità culturale ed affettiva della fase originaria, si è passati ad una situazione complessa, dove coesione e stabilità sono frutto di equilibri mutevoli e di tensioni dinamiche. Col tempo nuove prospettive, nuove tensioni si sono sviluppate nel gruppo, in concomitanza con il suo ampliamento, in modo implicito e naturale perché in esso più che certezze si vanno esplicitando tensioni e filoni di ricerca. I continui dibattiti e le riflessioni in comune conducono al confronto con diversi modi di intendere la fede; e ho avuto modo di constatare che un certo numero di foristi condivide la convinzione che la fede non è uno “stato permanente”, ma una continua ricerca di senso, con cadute, incertezze e dubbi.
Un gruppo così articolato non può, anzi non deve, esimersi dal compiere un serio sforzo culturale in modo da dedicare la dovuta attenzione a ogni fede diversa dalla propria. La tensione verso un rapporto “ecumenico” con altre realtà di fede può essere solo salutare! Bisogna, comunque, evitare di ridurre il dialogo a un problema di conoscenza “teorica”, facendolo diventare un confronto che cerchi tutti i punti di incontro e dove l’essere “cristiano” non diventi una categoria divisiva, ma un segmento di esperienza arricchente. In questa apertura - e a questo punto mi rivolgo particolarmente agli ex Testimoni - occorre essere disposti a compiere anche un profondo cambiamento di atteggiamento nei confronti della lettura biblica. Alla fase di riappropriazione dei testi, si dovrebbe sostituire un atteggiamento meno sacrale verso il Libro. Infatti, ogni fede nasce nell’uomo da un messaggio annunciato da altri, da una parola letta, da un’esperienza mistica o di vita; viene accettata, interiorizzata e vissuta. La fede riconosce Dio che pone in primo luogo la libertà di coscienza di ogni persona. Invece, la religione si impossessa di Dio e diventa caparbiamente gelosa del proprio Dio, tanto che costruisce templi e tabernacoli per non farlo scappare; prepara sacerdoti o ministri per fargli da guardia; emana una serie interminabile di norme per definirlo, temerlo, pregarlo, ma soprattutto - e questo è l’aspetto più deleterio - la religione vuole mediare il rapporto fra Dio e l’uomo e lo fa spesso assoggettando ciò che la persona ha di più prezioso: la propria libertà di coscienza. In una prospettiva storicamente fondata, un ecumenismo, che attraversi trasversalmente ogni istituzione, deve essere un cammino da fare insieme, dove tutti riconoscono di non possedere la verità per intero e sono alla ricerca di altri pezzi di verità. Ciò non richiede l’abbandono del proprio universo culturale, ma implica la sua messa in gioco globale e la messa in discussione di tutte le acquisizioni e i concetti tesi alla cristallizzazione e alla creazione di categorici presupposti per integrismi e “poteri forti”.
Quindi, appare doveroso richiamare l’attenzione agli ideali della reciprocità e della gratuità, che ispirano le relazioni interpersonali tese a recuperare e valorizzare la dimensione “comunitaria” dell’uomo a partire dalla compiuta realizzazione della sua dimensione individuale. Ciò è possibile solo riscoprendo l’essenza autentica della reciprocità, che non è quella meccanica del “do ut des”, ma quella liberante della gratuità e del disinteresse; e probabilmente proprio nel terreno della gratuità e del disinteresse si può ancora trovare la linfa per continuare a vivere, sognare e stare insieme.
L’elemento fondante di una “comunità” è da individuare nella ricerca di una fede non alienante, rispettosa della dignità umana, liberata da tutte le incrostazioni della storia. Una fede adulta, gioiosa e conviviale non data una volta e per sempre, che mette in conto cadute, incertezze e inquietudini; che acquista senso quando è liberazione dell’uomo da ogni forma di schiavitù.

Cordialmente
geovologo

Non è vero che chi non parla non ha nulla da dire: il silenzio è ricco di significati che spesso perdiamo perché prigionieri di una specie di ebbrezza della parola.
Cordialmente
geovologo

Non è vero che chi non parla non ha nulla da dire: il silenzio è ricco di significati che spesso perdiamo perché prigionieri di una specie di ebbrezza della parola.
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