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Dalla stampa quotidiana (a cura di Nhmem)

Ultimo Aggiornamento: 11/12/2005 22:25
17/03/2005 00:08
 
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Alla vigilia del sessantesimo anniversario della fine della Guerra tornano le polemiche sul memoriale ai caduti dell’Armata Rossa di Treptow
Berlino, gli storici correggono le parole di Stalin

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO - Sotto la tempesta di neve, il memoriale di Treptow appare ancora più eroico e celebrativo. Le ricorderebbero di sicuro molto bene, queste condizioni atmosferiche, gli oltre settemila soldati dell’Armata Rossa, caduti nella battaglia di Berlino e seppelliti sotto la sterminata distesa di granito svedese, tutto proveniente dalla ex-cancelleria del Reich, che Albert Speer aveva realizzato per Hitler. Fu costruito dai vincitori nel 1949. Cimitero e monumento insieme, dieci ettari di parco della memoria, nei quali onorare i caduti e celebrare la vittoria sulla Germania nazista. Con uno storico d’eccezione a ricostruire, pro domo sua naturalmente, le vicende che avevano preceduto quel pur sacrosanto trionfo: Josef Stalin.
Venire a Treptow è come attraversare un’invisibile porta del tempo. La Storia si è fermata, in quest’angolo di Berlino Est. L’Unione Sovietica dello stalinismo vive all’ombra dell’immensa statua di bronzo, alta più di trenta metri: un soldato russo, col piede sopra una svastica, che impugna la spada con la destra e stringe al petto un bambino tedesco col braccio sinistro. Di fronte a quello, ordinati in doppia fila a delimitare il vialone con i quattro grandi ossari, otto coppie giustapposte di blocchi in travertino bianco. Su ogni coppia, due bassorilievi identici e una citazione a caratteri d’oro, scritta da una parte in russo e ripetuta dall’altra in tedesco.
Le frasi vengono dal celebre Discorso sulla Grande guerra patriottica , inno del dittatore alla causa, al partito e dunque a se stesso. Sono quindici anni, da quando la caduta del Muro segnò la fine della Ddr e del culto di Stato a Treptow, che le associazioni delle vittime dello stalinismo e gli ex dissidenti chiedono che le tracce di Stalin vengano cancellate dal monumento. Pretesa oggetto di infinite discussioni, sull’eterno rovello se la memoria, anche la più terribile, e i suoi simboli possano essere rimossi o meno.
Richiesta comunque impossibile da soddisfare, perché l’intoccabilità di Treptow fa parte di un accordo internazionale, quello che, nel 1990, sancì la riunificazione tedesca. Concesse quasi tutto, un Michail Gorbaciov ormai indebolito, in quel negoziato con l’Occidente e con Helmut Kohl, compresa la permanenza della nuova Germania nella Nato. Ma salvò Treptow, impegnando nero su bianco la Repubblica Federale a mantenerlo e curarlo, assicurando i fondi necessari. Alla vigilia del sessantesimo anniversario della fine della Guerra e del crollo del nazismo, la polemica è divampata nuovamente. E di fronte alle pressioni di quanti preferirebbero veder cancellate le tracce staliniane, il Comune di Berlino ha fatto una scelta piuttosto originale. Così, invece di essere cancellate o cambiate, le frasi di Stalin verranno commentate. L’incarico di affiancare ai blocchi di travertino di Treptow delle tavole «chiarificatrici» è stato affidato agli esperti del Museo russo-tedesco di Karlshorst, ospitato nello stesso edificio di Berlino-Est dove il feldmaresciallo Keitel firmò la resa nelle mani del generale Zukhov.
«Non si tratta - spiega Peter Jahn, direttore del museo - di correggere le citazioni di Stalin, ma di contestualizzare, nel suo tempo e nel nostro tempo, l’intero memoriale. Quindi, non solo le frasi, ma anche la genesi del monumento; l’architettura, che rispecchia canoni ideologici e autoreferenziali; il suo significato per un Paese, che in quella guerra ebbe più di 25 milioni di morti, soprattutto civili. E poi non dimentichiamo che Treptow è anche un cimitero, dove sono sepolti 7200 soldati. Quei blocchi sono dei sarcofaghi, non si possono correggere le scritte su una pietra tombale, anche se capisco perfettamente lo stato d’animo di chi è stato vittima dello stalinismo».
Furono 20 mila i morti russi nella battaglia di Berlino, un numero uguale a quelli tedeschi. Altri duemila vennero seppelliti poco lontano dalla Porta di Brandeburgo. La maggior parte riposa al cimitero di Schoenholz, nel quartiere berlinese di Pankow.
«Per due decenni, l’Armata Rossa aveva difeso il pacifico e orgoglioso lavoro di costruzione del popolo sovietico. Ma, nel giugno del 1941, la Germania hitleriana, rompendo la parola data, invase il nostro Paese, violando in modo proditorio e brutale il patto di non aggressione. Così l’Armata Rossa si vide costretta a scendere in campo, per difendere il suolo patrio». Così recita il testo staliniano, scolpito sulla prima coppia di blocchi. Tutto vero, naturalmente. Ma senza alcun cenno al fatto, che il cosiddetto Patto di non aggressione, quello firmato da Molotov e von Ribbentrop nel 1939, fu anche un accordo scellerato di spartizione, in base al quale il Terzo Reich e l’URSS fecero un boccone della Polonia, mentre Mosca si assicurò anche mano libera nel Baltico.
Le nuove tavole, che saranno realizzate in cristallo con la tecnica della serigrafia, dovranno spiegare anche questo. «Ma il punto - tiene a precisare Jahn - non è quello di offrire un’interpretazione alternativa e più corretta della Storia, non è questo il nostro lavoro. Il nostro scopo, è di spiegare in breve alle persone, specie ai giovani, che vedono questo oggetto esotico nel cuore della città, perché fu costruito, cosa fu la battaglia di Berlino, quali avvenimenti storici la precedettero».

«L’ideologia dell’uguaglianza fra tutte le razze ancorata nel nostro Paese, l’ideologia dell’amicizia fra i popoli ha conseguito la vittoria totale contro l’ideologia fascista hitleriana del nazionalismo bestiale e dell’odio razziale». «Una grande missione di liberazione vi è stata trasmessa. Possano in questa guerra darvi coraggio e farvi da modello i nostri eroici predecessori, Alexander Nevski e Michael Kutuzow. Possa darvi forza la bandiera vittoriosa del grande Lenin».
«I banditi di Hitler si sono posti come scopo di schiavizzare o annientare i popoli dell’Ucraina, della Bielorussia, del Baltico, della Moldavia, della Crimea e del Caucaso. Il nostro obiettivo è chiaro e nobile: vogliamo liberare il nostro suolo sovietico».

Paolo Valentino

()http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=CULTURA&doc=APRE

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