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Sine Dominico non possumus

Ultimo Aggiornamento: 30/04/2007 01:27
06/10/2006 20:00
 
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Da Zenit.org

Predicatore del Papa: è possibile far sì che la crisi non consumi il matrimonio, ma lo migliori

Commento di padre Raniero Cantalamessa, ofmcap., alla liturgia di domenica prossima


ROMA, venerdì, 6 ottobre 2006 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il commento di padre Raniero Cantalamessa, ofmcap. – predicatore della Casa Pontificia – alla liturgia di domenica prossima, XXVII del tempo ordinario.


* * *




I due saranno una carne sola




XXVII Domenica del tempo ordinario (B)
Genesi 2, 18-24; Ebrei 2, 9-11; Marco 10, 2-16





Il tema della Domenica XXVII è il matrimonio. La prima lettura comincia con le ben note parole: “Il Signore Dio disse: Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che sia simile a lui”. Ai nostri giorni il male del matrimonio è la separazione e il divorzio, al tempo di Gesù era il ripudio. In certo senso, questo era un male peggiore, perché implicava anche una ingiustizia nei confronti della donna che è ancora in atto, purtroppo, in certe culture. L’uomo infatti aveva il diritto di ripudiare la propria moglie, ma la moglie non aveva il diritto di ripudiare il proprio marito.

Due opinioni si scontravano, a riguardo del ripudio, nel giudaismo. Secondo una, era lecito ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo, ad arbitrio dunque del marito; secondo l’altra, invece occorreva un motivo grave, contemplato dalla Legge. Un giorno sottoposero questa questione a Gesù, aspettandosi che egli prendesse posizione in favore o dell’una o dell’altra tesi. Ma ricevettero una risposta che non si aspettavano: “Per la durezza del vostro cuore egli (Mosè) scrisse per voi questa norma. Ma all’inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina: per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due, ma una sola carne. L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto”.

La legge di Mosè circa il ripudio è vista da Cristo come una disposizione non voluta, ma tollerata da Dio (al pari della poligamia e di altri disordini), a causa della durezza di cuore e dell’immaturità umana. Gesú non critica Mosè per la concessione fatta; riconosce che in questa materia il legislatore umano non può fare a meno di tener conto della realtà di fatto. Ripropone però a tutti l’ideale originario dell’unione indissolubile tra l’uomo e la donna (“una sola carne”) che, almeno per i suoi discepoli, dovrà essere ormai l’unica forma possibile di matrimonio.

Gesú però non si limita a riaffermare la legge; aggiunge ad essa la grazia. Questo vuol dire che gli sposi cristiani non hanno solo il dovere di mantenersi fedeli fino alla morte; hanno anche gli aiuti necessari per farlo. Dalla morte redentrice di Cristo viene una forza –lo Spirito Santo – che permea ogni aspetto della vita del credente, compreso il matrimonio. Questo viene addirittura elevato alla dignità di sacramento e di immagine viva della sua unione sponsale con la Chiesa sulla croce (cf. Ef 5, 31-32).

Dire che il matrimonio è un sacramento non significa soltanto (come spesso si crede) che in esso è permessa, lecita e buona quella unione dei sessi che fuori di esso sarebbe disordine e peccato; significa, di più, dire che il matrimonio diventa un modo di unirsi a Cristo attraverso l’amore dell’altro, una vera via di santificazione.

Questa visione positiva è quella che ha messo così felicemente in luce papa Benedetto XVI nella sua enciclica “Deus caritas est”, su amore e carità. Il papa non contrappone in essa l’unione indissolubile nel matrimonio a ogni altra forma di amore erotico; la presenta però come la forma più matura e perfetta dal punto di vista non solo cristiano, ma anche umano.

“Fa parte – dice – degli sviluppi dell'amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell'esclusività – ‘solo quest'unica persona’ – e nel senso del ‘per sempre’. L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l'amore mira all'eternità”

Questo ideale di fedeltà coniugale non è stato mai facile (adulterio è una parola che risuona sinistramente anche nella Bibbia!); oggi però la cultura permissiva ed edonistica in cui viviamo lo ha reso immensamente più difficile. La crisi allarmante che attraversa l’istituto del matrimonio nella nostra società è sotto gli occhi di tutti. Legislazioni civili, come quella del governo spagnolo, che permettono (e indirettamente, in tal modo, incoraggiano!) a iniziare le pratiche di divorzio dopo appena pochi mesi di vita insieme. Parole come: “sono stufo di questa vita”, “me ne vado”, “se è così, ognuno per conto suo!”, ormai vengono pronunciate tra i coniugi alla prima difficoltà. (Detto per inciso: io credo che un coniuge cristiano dovrebbe accusarsi in confessione del semplice fatto di aver pronunciato una di queste parole, perché il solo dirle è un’offesa all’unità e costituisce un pericoloso precedente psicologico).

Il matrimonio risente in ciò della mentalità corrente dell’“usa e getta”. Se un apparecchio o uno strumento subisce qualche danno o una piccola ammaccatura, non si pensa a ripararlo (sono scomparsi ormai quelli che facevano questi mestieri), si pensa solo a sostituirlo. Applicata al matrimonio, questa mentalità risulta micidiale.

Cosa si può fare per arginare questa deriva, causa di tanto male per la società e di tanta tristezza per i figli? Io un suggerimento ce l’avrei: riscoprire l’arte del rammendo! Alla mentalità dell’“usa e getta” sostituire quella dell’“usa e rammenda”. Ormai quasi nessuno pratica più il rammendo. Ma se non si pratica più sui vestiti, bisogna praticare quest’arte del rammendo sul matrimonio. Rammendare gli strappi. E rammendarli subito.

San Paolo dava ottimi consigli a questo riguardo: “Non tramonti il sole sopra la vostra ira e non date occasioni al diavolo”, “sopportatevi a vicenda, perdonandovi se qualcuno abbia di che lamentarsi dell’altro”, “ portate i pesi gli uni degli altri” (cfr. Ef 4, 26-27; Col 3, 13; Gal 6, 2).

La cosa importante da capire è che in questo processo di strappi e di ricuciture, di crisi e di superamenti, il matrimonio, non si sciupa, ma si affina e migliora. Io vedo una analogia tra il processo che porta a un matrimonio riuscito e quello che porta alla santità. Nel loro cammino verso la perfezione, i santi attraversano spesso la cosiddetta “notte oscura dei sensi”, in cui non provano più alcun sentimento, nessuno slancio; sono aridi, vuoti, fanno tutto a forza di volontà e con fatica. Dopo questa, viene la “notte oscura dello spirito”, in cui non entra in crisi solo il sentimento, ma anche l’intelligenza e la volontà. Si arriva a dubitare se si è sulla strada giusta, se per caso non si è sbagliato tutto; buio completo, tentazioni a non finire. Si va avanti solo per fede.

Tutto finito, dunque? Al contrario! Tutto questo non era che purificazione. Dopo che hanno attraversato queste crisi, i santi si rendono conto di quanto più profondo e più disinteressato è ora il loro amore per Dio, rispetto a quello degli inizi.

Molte coppie non faranno fatica a riconoscere in ciò la propria esperienza. Anch’essi attraversano spesso, nel loro matrimonio, la notte dei sensi in cui viene a mancare ogni trasporto e l’estasi dei sensi, se mai c’è stata, è solo un ricordo del passato. Alcuni conoscono anche la notte oscura dello spirito, lo stato in cui entra in crisi perfino la scelta di fondo e sembra di non avere più nulla in comune.

Se con la buona volontà e l’aiuto di qualcuno, si riesce a superare queste crisi, ci si rende conto di quanto lo slancio, l’entusiasmo dei primi giorni fosse poca cosa, rispetto all’amore stabile e la comunione maturati negli anni. Se prima moglie e marito si amavano per la soddisfazione che ciò procurava loro, oggi forse si amano un po’ di più di un amore di tenerezza, libero da egoismo e capace di compassione; si amano per le cose che hanno realizzato e sofferto insieme.
08/10/2006 13:50
 
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Prima lettura


Dal libro della Genesi
Il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse:
“Questa volta essa
è carne dalla mia carne
e osso dalle mie ossa.
La si chiamerà donna
perché dall’uomo è stata tolta”.
Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne.



Seconda lettura


Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo ora coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli sperimentasse la morte a vantaggio di tutti.
Ed era ben giusto che colui, per il quale e dal quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che guida alla salvezza.
Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da uno solo; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli.

Parola di Dio




Vangelo



+ Dal Vangelo secondo Marco


In quel tempo, avvicinatisi dei farisei, per metterlo alla prova, domandarono a Gesù: “È lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?”. Ma egli rispose loro: “Che cosa vi ha ordinato Mosè?”. Dissero: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla”. Gesù disse loro: “Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma all’inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola. Sicché non sono più due, ma una sola carne. L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto”.
Rientrati a casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento. Ed egli disse: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio”].
Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso”. E prendendoli fra le braccia e imponendo loro le mani li benediceva.


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Una Buona Notizia per i piccoli

Don Marco Pratesi

Bella questa scena di Gesù coi bambini, e importante l'insegnamento. Per coglierlo occorre però sgombrare il campo da almeno due equivoci che, in tema di bambini, rischiano di fuorviarci.
Il primo è pensare al bambino come l'esemplare dell'innocenza. Gesù direbbe, allora, che per entrare nel Regno occorre essere innocenti, senza colpa; cosa che contraddice una serie di affermazioni evangeliche. No, Gesù non ci propone il bambino come modello di innocenza. Tra l'altro questo sarebbe tutto da dimostrare, perché che il bambino ha in sé il germe del male, che già si manifesta in lui, sia pure in modo proporzionato all'età.
Il secondo scoglio da evitare è partire dalla considerazione di cui oggi il bambino gode nella percezione comune. Generalmente egli è in pratica il re della famiglia, e tutto è al suo servizio.
Nella società antica il bambino era al contrario una persona insignificante e senza peso, e proprio qui sta il punto: Gesù lo prende come esemplare del povero, di colui che non conta, non ha potere, ricchezza, considerazione, di colui che è debole e indifeso. Ecco perché il bambino diventa qui l'emblema del discepolo, chiamato ad essere povero in ispirito. Egli è cosciente della propria indigenza e dipendenza da Dio a tutti i livelli; supera la tentazione dell'autosufficienza e si lascia amare, si lascia servire da Dio, accogliendo in tal modo il suo amore. Il suo sguardo non è rivolto a sé, ma a Dio, ed è capace - come la Vergine - di ammirarne le opere, che trova meravigliose, e di esaltarsi per la gratuità e la bellezza del suo amore.
Ecco, per godere - ora e dopo questa vita - del Regno di Dio, dobbiamo accoglierlo così: nella povertà, nell'umiltà, nella lode, nella fiducia.
Quale contrasto con i farisei, che invece cercano di mettere alla prova Gesù! È l'atteggiamento opposto, di chi, forte e ricco delle proprie risorse, chiama Dio al proprio tribunale, per verificarne la consonanza con le proprie visuali e certezze - già inappellabilmente costituite -.
Questo vale anche a proposito del matrimonio. Il discorso di Gesù sulla definitività della comunità personale che si viene a costituire col matrimonio ("una sola carne") non si può accogliere finché non si rinunzia alle proprie visuali, influenzate dalla durezza del nostro cuore, e si accoglie - come bambini - un progetto infinitamente bello, che però ci supera da ogni parte: quello dell'amore che non finisce. È il Vangelo dell'amore coniugale, la buona notizia per gli sposi: l'amore può vincere tutto, è questo il progetto del Creatore.
Il Signore ci dia la fede e la speranza dei piccoli per accogliere nella vita il suo progetto su di noi e sull'amore.




Amarsi non è un gioco
Mons. Antonio Riboldi

Sembra impossibile, ma troppe volte si verifica.
Incontravo un giorno un fotografo con una grande cartella zeppa di foto molto belle. Erano le foto del matrimonio di due stupendi giovani, che si avvicinavano all'altare per dirsi quel "sì", che è la parola di Maria, la sposa di Giuseppe, detta all'Angelo. Un sì che solo l'amore può conoscere nella bellezza e a volte nella durezza. Un "sì" che nel matrimonio davvero può essere il racconto della felicità che non conosce tempi e misure. Ma un "sì" fragile che ha bisogno di nascere ogni giorno per conoscere sempre la bellezza della aurora, che si lascia alle spalle possibili notti, e va incontro allo splendore del giorno.
Quel fotografo mi fece vedere le foto, poi mi disse sconsolato: "Le stavo portando agli sposi, ma questi, dopo pochi giorni, si sono lasciati. E adesso a chi consegno questo ricordo svanito nel nulla?".
Se c'è una meraviglia, che sembra proprio il "tocco del Padre" in noi, è quella di amarsi, fino a fare di due una cosa sola per sempre.
Così lo racconta oggi la Sacra Scrittura: "Il Signore disse: "Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio dare un aiuto che gli sia simile"... Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola che aveva tolto all'uomo una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: "Questa volta essa è carne della mia carne e ossa delle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall'uomo è stata tolta". Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una cosa sola. L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto" (Gen 2,18-24).
Il primo requisito, che si chiede sempre in questo "essere una cosa sola", è l'amore. L'amore è la base del matrimonio: una base che dovrebbe conoscere la solidità della pietra, "come è la Chiesa". Un amore destinato a conoscere continuità nei secoli con il dono dei figli.
Ma, ripeto, due si sposano perché si amano. Noi cristiani inoltre affermiamo che Dio sostiene quest'amore, che non è certamente una "strada larga", ma la famosa "via stretta" di cui parla Gesù, con il farsi vicino fino a essere aiuto e grazia nel matrimonio elevato a Sacramento.
Ed aggiungo: tutti noi, chiamati alla vita da Dio, siamo poi chiamati - vocazione - a percorrere la via della santità comune vocazione.
Il matrimonio è una vocazione. Nella fedeltà all'amore reciproco, si scala il Paradiso.
Chi di noi non si è come esaltato al solo pensiero dell'amore? E chi di noi non sa che una vita senza amore è davvero "una maledetta solitudine", più simile all'inferno che al paradiso?
Anche la vita consacrata, la vita del sacerdozio sono una vera, incredibile professione di amore. Meraviglioso amore. Chi è chiamato alla vita consacrata e fa voto di verginità, questo voto non lo fa per dire "no" al diritto di esprimere la propria sessualità, ma per dire "sì" a Dio, che diventa lo Sposo della sua vita.
Sono tanti i sacrifici che tale "sì" chiede: forse, come o meno di quelli di un matrimonio tra uomo e donna; ma quando ci si lascia riempire il cuore dell'amore, che Dio dona a chi gli si dona e Lui chiama, proprio come in un matrimonio, la vita è un meraviglioso racconto di gioia: una gioia che "genera", per i pastori di anime, tanti "figli", nel senso di Cristo. Un "matrimonio" che ha i suoi momenti belli e quelli difficili, ma quando è vissuto come totale donazione, diventa a sua volta dono per chi non ha dono. Quanti figli ha generato Madre Teresa, nella sua verginità, alla vita ed alla dignità! Quanti ne hanno generato, e generano ancora oggi, quelli o quelle che si sono unite a Dio per sempre! Non ho nessuna difficoltà nell'affermare che senza l'amore, preferirei non esistere. La bellezza della vita sta solo nel voler bene a tutti, senza risparmiarsi.
Tornando dal viaggio che i bambini del Belice fecero a Roma, presso le massime autorità, per sollecitare la ricostruzione dei loro paesi distrutti dal terremoto, la domenica, durante la Messa mi sembrò giusto dare ragione alla mia gente di quanto avevamo fatto. Ricordo che iniziai il discorso dicendo: "Vi domanderete perché ho fatto tutto questo. Nessun interesse personale. Solo per il grande amore che vi porto e volevo donare speranza". Non ne so la ragione, ma scoppiai in un pianto dirotto davanti alla gente, un pianto irrefrenabile, che sembrava la diga del cuore che si era infranta e faceva uscire il grande fiume di amore.
E questa stessa gioia la vedo oggi in tanti matrimoni in cui, celebrando l'anniversario delle loro nozze di argento o d'oro, a volte si piange di commozione per essersi amati per tanto tempo e con la voglia di continuare per l'eternità.
Che poi l'amore conosca le sue difficoltà è nella povertà della nostra natura umana facile a creare nebbie, a volte non altrettanto facile a scioglierle.
"Per questo, avvicinatisi dei farisei per metterlo alla prova, domandarono a Gesù: "E' lecito ad un marito ripudiare la propria moglie?" Ma egli rispose loro: "Che cosa vi ha ordinato Mosè?" Dissero: "Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di rimandarla". Gesù disse loro: "Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma all'inizio della creazione Dio li creò maschio e femmina: per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una sola carne. L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha unito" (Mc10,2-16).
E sappiamo che gli apostoli rimasero come scandalizzati da questa affermazione di Gesù, che parlava di fedeltà nell'amore, fino a dire: "A questo punto è meglio non sposarsi!" Che non è una soluzione accettabile. Credo che oggi, davanti alla risposta di Gesù, forse alcuni o tanti darebbero la risposta degli Apostoli.
Ma perché oggi sembra che noi uomini ci divertiamo a smantellare il bello del volersi bene in una vita nel matrimonio? Credo che siamo, inconsciamente forse, vittime di una perdita della vera natura e bellezza dell' amore, che è dono totale, come avvertiamo se ci interroghiamo nel fondo della nostra coscienza, Ma abbiamo perso la vera natura dell' amore dando via libera al piacere e così l'uomo e la donna rischiano di diventare merce di piacere, che nulla ha a che fare con l'amore. Ma non si può giocare con il cuore, Mai! Quando ci si incontra, e dall'incontro spunta il desiderio di essere una cosa sola per il meraviglioso cammino del matrimonio, in quel momento possiamo diventare "altare dell'amore" destinato a crescere, o forse inconsciamente "tomba della felicità". E Dio solo sa quanto dolore genera quello strappo della "costola", che aveva fatto dei due una cosa sola. Quanto dolore vi è nelle separazioni, nei divorzi, non solo negli sposi, ma nei loro cari, senza contare come i figli poi non sanno più a quale famiglia appartengano e chi chiamare papà o mamma. Ce ne rendiamo conto dell'immane dolore?
La prossima settimana la Chiesa italiana si riunirà, come sapete certamente, in quell' evento pentecostale che è il Convegno di Verona. Nelle tracce di preparazione, oggetto di discussione e proposte nelle parrocchie, si accenna all'affetto in genere e quindi al matrimonio e alla famiglia. "Un primo ambito della testimonianza è quello della vita affettiva. Ciascuno trova qui la dimensione più elementare e permanente della sua personalità e la sua dimora interiore. A livello affettivo, infatti, l'uomo fa l'esperienza primaria della relazione buona (o cattiva), vive l'esperienza di un mondo accogliente ed esprime con la maggiore spontaneità il suo desiderio di felicità.
Ma proprio il mondo degli affetti subisce oggi un potente condizionamento in direzione di un superficiale emozionalismo, che ha spesso devastanti effetti nella verità delle relazioni. L'identità e la complementarietà sessuale, l'educazione dei sentimenti, la maternità-paternità, la famiglia e, più in generale, la dimensione affettiva delle relazioni sociali, come pure la rappresentazione pubblica degli affetti, hanno bisogno di aprirsi alla speranza e quindi alla ricchezza delle relazioni, alla costruttività delle generazioni e del legame tra generazioni".
Sarà pur vero che ci sono tante crisi matrimoniali, o tante fughe in forme di unione che sottovalutano la fedeltà e totalità dell'amore, ma questo deve, caso mai, indurci tutti ad andare alle vere radici di quel "paradiso di Dio che è il dono dell'amore" per farlo fiorire, come del resto. avviene in tantissime famiglie che non fanno cronaca, ma sono il vero futuro e la bellezza della società.
A queste meravigliose famiglie, un grazie di cuore, perché sono preziose "testimoni del Cristo Risorto, testimoni della bellezza senza tempo, dell'amore, il plauso della Chiesa .. e di tutti.
Ai matrimoni in difficoltà dono tutto il mio aiuto a superare il momento difficile, facendosi davvero eroi del difficile. Ricordiamoci sempre che fedeltà, amore ed eternità è il bello di Dio che ci ha dato. Non perdiamolo mai: è lo sprazzo di Paradiso, che ci fa vivere serenamente qui.
15/10/2006 16:59
 
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Prima lettura

Dal libro della Sapienza

Pregai e mi fu elargita la prudenza;
implorai e venne in me lo spirito della sapienza.
La preferii a scettri e a troni,
stimai un nulla la ricchezza al suo confronto;
non la paragonai neppure a una gemma inestimabile,
perché tutto l’oro al suo confronto è un po’ di sabbia
e come fango sarà valutato di fronte ad essa l’argento.
L’amai più della salute e della bellezza,
preferii il suo possesso alla stessa luce,
perché non tramonta lo splendore che ne promana.
Insieme con essa mi sono venuti tutti i beni;
nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.


Parola di Dio



Seconda lettura



Dalla lettera agli Ebrei

Fratelli, la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto.


Vangelo

+ Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, mentre Gesù usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.
Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre”.
Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: “Una cosa solo ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!”. I discepoli rimasero stupefatti a queste sue parole; ma Gesù riprese: “Figlioli, com’è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. Essi, ancora più sbigottiti, dicevano tra loro: “E chi mai si può salvare?”. Ma Gesù, guardandoli, disse: “Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio”.
Pietro allora gli disse: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”. Gesù gli rispose: “In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già nel presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna”.


Parola del Signore





Liberi di seguire Cristo

Don Marco Pratesi

L'uomo di cui oggi ci parla il vangelo osserva i comandamenti, però è ancora in ricerca di qualcosa; è insoddisfatto, e perciò si rivolge a Gesù chiedendo cosa fare.
Il maestro gli manifesta con chiarezza la sua vocazione: egli è chiamato a lasciare tutto e a seguirlo.
Qui c'è già un insegnamento importante: la volontà di Dio "standard", quella comune, non è tutto, non basta. Posso osservare i comandamenti e mancare di qualcosa di essenziale. Bisogna fare un passo in più: devo cogliere la volontà di Dio su di me. Soltanto lì comincia davvero la sequela, che è qualcosa di più di una morale da seguire: è incontrare una persona e seguirla. "Gesù, guardandolo dentro, lo amò". Soltanto in questo incontro con Gesù, che col suo sguardo lo raggiunge e lo legge in profondità, l'anonimo interlocutore scopre la sua chiamata.
Egli però non riesce a dire il suo "sì": è impedito da un attaccamento. Ci resta male lui stesso, credeva di essere davvero disponibile, ma di fatto si scopre bloccato, paralizzato. È attaccato alle sue ricchezze, e non può fare a meno di tutto ciò che esse significano: benessere, sicurezza, potere.
Riconoscere e seguire la propria vocazione presuppone la libertà interiore nei confronti di qualsiasi persona o cosa. Al primo posto sta il Cristo, tutto deve essere lasciato se egli lo chiede; e se anche non deve essere lasciato, tutto deve comunque essere sottoposto al primato di Dio e da esso regolato. Se non lo è, inevitabilmente si crea un condizionamento che impedisce - del tutto o in parte - di abbracciare il progetto di Dio.
Soltanto chi è povero può essere libero, perché ripone la sua speranza in Dio, e impara che "la vita non dipende dai beni". Questa è vera sapienza, e al di fuori di essa non c'è che la paura.
Apriamoci alla Parola di Dio e lasciamoci giudicare da essa. Lasciamo che vengano alla luce tutti gli impedimenti e le resistenze di fronte alle proposte di Dio.
"O Dio, penetra nei nostri cuori con la spada della tua parola, perché alla luce della tua sapienza possiamo valutare le cose terrene ed eterne, e diventare liberi e poveri per il tuo regno."



Gesù mette in guardia contro il pericolo dell’avarizia

Padre Raniero Cantalamessa

Un'osservazione preliminare è necessaria per sgomberare il campo da possibili equivoci nel leggere ciò che il vangelo di questa domenica dice della ricchezza. Mai Gesù condanna la ricchezza e i beni terreni per se stessi. Tra i suoi amici, vi è anche Giuseppe d'Arimatea "uomo ricco"; Zaccheo è dichiarato "salvo", anche se trattiene per sé metà dei suoi beni, che, visto il mestiere di esattore delle tasse che esercitava, dovevano essere considerevoli. Ciò che egli condanna è l'attaccamento esagerato al denaro e ai beni, il far "dipendere da essi la propria vita" e "l'accumulare tesori solo per sé" (cfr. Lc 12, 13-21).

La parola di Dio chiama l'attaccamento eccessivo al denaro "idolatria" (Col 3, 5; Ef 5, 5). Mammona, il denaro, non è uno dei tanti idoli; è l'idolo per antonomasia. Letteralmente, "l'idolo di metallo fuso" (cfr. Es 34, 17). Mammona è l'anti-dio perché crea una specie di mondo alternativo, cambia oggetto alle virtù teologali. Fede, speranza e carità non vengono più riposte in Dio, ma nel denaro. Si attua una sinistra inversione di tutti i valori. "Niente è impossibile a Dio", dice la Scrittura, e anche: "Tutto è possibile a chi crede". Ma il mondo dice: "Tutto è possibile a chi ha il denaro".

L'avarizia, oltre che idolatria, è anche fonte di infelicità. L'avaro è un uomo infelice. Sospettoso di tutti, si isola. Non ha affetti, neppure tra quelli della sua stessa carne, che vede sempre come sfruttatori e i quali, a loro volta, utrono spesso nei suoi confronti un solo vero desiderio: che muoia presto e così ereditare le sue ricchezze. Teso allo spasimo a risparmiare, si nega tutto nella vita e così non gode né di questo mondo, né di Dio, non essendo le sue rinunce fatte per lui. Anziché ottenerne sicurezza e tranquillità, è un eterno ostaggio del suo denaro.

Ma Gesù non lascia nessuno senza speranza di salvezza, neppure il ricco. Quando i discepoli, in seguito al detto sul cammello e la cruna dell'ago, sgomenti, chiesero a Gesù: "Allora chi potrà salvarsi?", egli rispose: "Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio". Dio può salvare anche il ricco. Il punto non è "se il ricco si salva" (questo non è stato mai in discussione nella tradizione cristiana), ma è "quale ricco si salva".

Ai ricchi Gesù addita una via d'uscita dalla loro pericolosa situazione: "Accumulatevi tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano" (Mt 6, 20); "Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché quando essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne" (Lc 16, 9).

Si direbbe che Gesù consiglia ai ricchi di trasferire i loro capitali all'estero! Ma non in Svizzera, in cielo! Molti – dice Agostino – si affannano a seppellire il proprio denaro sotto terra, privandosi anche del piacere di vederlo, a volte per tutta la vita, pur di saperlo al sicuro. Perché non seppellirlo addirittura in cielo, dove sarebbe ben più al sicuro e dove lo si ritroverebbe, un giorno, per sempre? Come fare questo? È semplice, continua S. Agostino: Dio ti offre, nei poveri, dei facchini. Essi si recano là dove tu speri un giorno di andare. Dio ha bisogno qui, nel povero, e ti restituirà quando sarai di là.

Ma è chiaro che l'elemosina spicciola e la beneficenza non è più oggi l'unico modo per far servire la ricchezza al bene comune, e neppure forse il più raccomandabile. C'è anche quello di pagare onestamente le tasse, di creare nuovi posti di lavoro, di dare un salario più generoso agli operai quando la situazione lo permette, di avviare imprese locali nei paesi in via di sviluppo. Insomma, far servire il denaro, farlo scorrere. Essere dei canali che fanno passare l'acqua, non laghi artificiali che la trattengono solo per sé.
22/10/2006 14:44
 
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Omelia domenicale domenica 22 ottobre
Prima lettura

Dal libro del profeta Isaia
Il Servo del Signore
è cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire.
Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in espiazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà la loro iniquità.


Seconda lettura

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, poiché abbiamo un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede.
Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno.




Vangelo

+ Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: “Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo”. Egli disse loro: “Cosa volete che io faccia per voi?”. Gli risposero: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Gesù disse loro: “Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. Gli risposero: “Lo possiamo”. E Gesù disse: “Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”.
All’udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.


--------------------------------------------------------------------------
Gloria falsa, gloria vera
Don Marco Pratesi

Nel vangelo di Marco per tre volte Gesù preannunzia la propria passione, e ogni volta fa l'amara esperienza dell'incomprensione.
Al primo annunzio segue la reazione negativa di Pietro.
Al secondo la disputa tra i discepoli su chi sia il più grande.
Al terzo la richiesta di Giacomo e Giovanni, ed è l'episodio che abbiamo appena ascoltato.
Tre su tre, gli apostoli non hanno fallito un colpo. Si tratta di tutto il gruppo, e in particolare di quelli che, in esso, sono più in vista: Pietro, Giacomo e Giovanni, coloro che erano stati testimoni privilegiati della risurrezione della figlia di Giairo (5,37) e della trasfigurazione (9,2).
Nella richiesta dei "figli del tuono" la gloria di Cristo è occasione, pretesto e copertura per la propria gloria ("Concedici di sedere uno alla tua destra e l'altro alla tua sinistra nella tua gloria", v. 37). "Cerco la gloria di Dio", certo. Magari ne sono anche sinceramente convinto, ma poi in realtà cerco la mia gloria, l'autoaffermazione (anche come Chiesa?).
No, occorre servire Dio senza perseguire un proprio utile, senza determinare da noi le modalità della ricompensa, rimettendosi totalmente alla volontà di Dio ("è per quelli per i quali è stato preparato", v. 40). È un pericolo per la vita spirituale avere come motivo dell'impegno un determinato risultato, anche spirituale.
Occorre sapere che esiste un'unica porta per entrare nella gloria vera, una gloria che non sia quella apparente e vana dei potenti di questo mondo ("quelli che sembrano avere il potere", v. 42): servire. Gesù ci serve bevendo per noi e con noi il nostro calice, il calice amaro della morte che è la nostra, quella in cui siamo sprofondati. Di questo evento è richiamo e memoriale il calice eucaristico. Gesù ci serve lasciandosi immergere ("battezzare") nelle acque della nostra morte e del nostro male. Di questa immersione è memoriale l'acqua del battesimo. Gesù ci serve offrendo la sua vita per noi, e questo è l'evento che ci fa rinascere e che ci nutre lungo il cammino della vita.
La sola porta di accesso alla gloria è un amore nel quale colui che è in alto non "esercita il potere" (v. 42) e si fa servire, ma discende, si china su chi sta in basso e condivide in tutto la sua situazione per portarlo in alto con sé, come vediamo nelle icone bizantine della risurrezione.
Il Signore ci conceda di accogliere in pienezza il suo servizio d'amore, facendone continua memoria, e di trovarvi la spinta per divenire, a nostra volta, come e con lui, servitori.

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La tentazione del potere.
Mons. Vincenzo Paglia

Così potremmo riassumere il tema del brano evangelico di questa ventinovesima domenica. Marco riferisce un dialogo tra Gesù e i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni. Siamo ancora sulla strada verso Gerusalemme e, per la terza volta, Gesù confida ai discepoli il destino di morte che lo aspetta al termine del cammino.
I due discepoli, per nulla toccati dalle tragiche parole del maestro si fanno avanti per chiedergli i primi posti accanto a lui quando instaurerà il regno. Dopo la confessione di Pietro a Cesarea e la discussione su chi tra loro fosse il primo, probabilmente è cresciuto un clima di rivalità tra i discepoli; e questo forse spiega l'ambizione dei due fratelli nel rivendicare i primi posti.
I due chiedono a Gesù: "Maestro, vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo".
La verità è che sono davvero distanti dal pensiero e dalle preoccupazioni di Gesù, e non riescono a sintonizzarsi con lui. Gesù, rivolto ai due, chiede: "Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?". E cerca di spiegarglielo usando due simboli il calice e il battesimo, ben noti a chi come loro frequentavano le Sante Scritture. Ambedue i simboli sono interpretati da Gesù in rapporto alla sua morte.
Il calice è il segno dell'ira di Dio, come scrive Isaia: "Levati su, Gerusalemme che dalla mano del Signore tracannasti il calice della sua ira, la coppa che ti ha stordita" (Is 51,17); e Geremia dice: "Prendi dalla mia mano questa coppa colma del vino dell'ira, e fanne bere a tutti i popoli ai quali io ti mando" (Ger 25, 15). Per Gesù è una metafora con la quale indica che egli prende su di sé il giudizio di Dio per il male compiuto nel mondo, anche a costo della morte.
La stessa cosa vale per il simbolo del battesimo: "Tutte le tue onde e i tuoi marosi si frangono sopra di me" (Sl 42, 8). Le due immagini mostrano che il cammino di Gesù non è una folgorante e oleata carriera verso il potere.
Semmai è il cammino dell'assunzione su di sé del male degli uomini, come disse il Battista: "Ecco l'agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo". I due discepoli probabilmente neppure ascoltano le parole del maestro e tanto meno ne comprendono il senso.
Ai due apostoli, come spesso anche a noi, non importa comprendere la Parola evangelica; quel che interessa è l'assicurazione del posto.
E con sciocca semplificazione, i due rispondono: "Lo possiamo!".
E' la stessa superficiale faciloneria con cui risponderanno a Gesù al termine dell'ultima cena, mentre si avviano con lui verso l'orto degli Ulivi (Mt 26, 35).
Basta solo qualche ora, ed eccoli, assieme agli altri, abbandonare di corsa il Maestro per paura e lasciarlo nelle mani dei servi dei sommi sacerdoti.
La richiesta dei due figli di Zebedeo era ovvio che scatenasse l'invidia e la gelosia degli altri discepoli ("si sdegnarono con Giacomo e Giovanni", nota l'evangelista). Gesù allora li chiamò ancora una volta tutti attorno a sé per una nuova lezione evangelica.
Ogni volta che i discepoli non ascoltano le parole di Gesù e si lasciano guidare dai loro ragionamenti, si discostano dalla via evangelica e provocano liti e dissidi al loro stesso interno.
E' istintiva nei discepoli come del resto in ogni persona, la tendenza a fare da maestri a se stessi, a divenire "adulti", ossia indipendenti e autosufficienti, sino al punto da fare a meno di tutti, persino di Gesù.
E' lo stile di questo mondo, che tutti conosciamo molto bene poiché lo pratichiamo con frequenza. Per il Vangelo è vero l'esatto contrario: il discepolo resta sempre alla scuola del maestro, rimane sempre uno che ascolta le parole evangeliche.
Il discepolo di Gesù, anche se dovesse occupare posti di responsabilità, sia nella Chiesa che nella vita civile, resta sempre figlio del Signore, ossia discepolo che sta ai piedi di Gesù.
Ecco perché Gesù raduna nuovamente i Dodici attorno a sé e li ammaestra: "Sapete che coloro che sono ritenuti i capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così". L'istinto del potere - sembra dire Gesù - è ben radicato nel cuore degli uomini, anche in quello di chi spergiura di non esserne sfiorato. Nessuno, neppure all'interno della comunità cristiana, è immune da tale tentazione.
Non importa che si tratti del "grande" o del "piccolo" potere tutti ne subiamo il fascino. E' normale fare considerazioni severe su coloro che hanno il potere politico, economico culturale; e talora è anche necessario farlo. Forse però è più facile fare l'esame di coscienza agli altri che a se stessi, in genere uomini e donne dal "piccolo potere".
Non dovremmo tutti chiederci quanto spesso usiamo in modo egoistico e arrogante quella piccola fetta di potere che ci siamo ritagliati in famiglia, o a scuola o in ufficio, o dietro uno sportello, o per la strada o nelle istituzioni ecclesiali, o comunque altrove?
La scarsa riflessione in questo campo è spesso fonte di amarezze, di lotte, di invidie, di opposizioni, di crudeltà.
Ai suoi discepoli Gesù continua a dire: "Tra voi non è così" (forse sarebbe più corretto dire: "Non sia così").
Non si tratta di una crociata contro il potere, per favorire un facile umilismo che può anche essere solo indifferenza.
Gesù ha avuto potere ("insegnava come uno che ha autorità", scrive Matteo 7, 29), e lo ha concesso anche ai discepoli ("Diede loro potere sugli spiriti immondi" si legge in Marco 6, 7).
Il problema è di quale potere si parla, e comunque di come lo si esercita. E' il potere dell'amore.
Gesù lo spiega non solo con le parole quando afferma: "Chi vuole essere grande tra voi si farà vostro servitore", ma con la sua stessa vita. Dice di se stesso: "Non sono venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti". Così deve essere per ogni suo discepolo. La tentazione del potere. Così potremmo riassumere il tema del brano evangelico di questa ventinovesima domenica. Marco riferisce un dialogo tra Gesù e i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni. Siamo ancora sulla strada verso Gerusalemme e, per la terza volta, Gesù confida ai discepoli il destino di morte che lo aspetta al termine del cammino.
I due discepoli, per nulla toccati dalle tragiche parole del maestro si fanno avanti per chiedergli i primi posti accanto a lui quando instaurerà il regno. Dopo la confessione di Pietro a Cesarea e la discussione su chi tra loro fosse il primo, probabilmente è cresciuto un clima di rivalità tra i discepoli; e questo forse spiega l'ambizione dei due fratelli nel rivendicare i primi posti.
I due chiedono a Gesù: "Maestro, vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo".
La verità è che sono davvero distanti dal pensiero e dalle preoccupazioni di Gesù, e non riescono a sintonizzarsi con lui. Gesù, rivolto ai due, chiede: "Potete bere il calice che io bevo o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?". E cerca di spiegarglielo usando due simboli il calice e il battesimo, ben noti a chi come loro frequentavano le Sante Scritture. Ambedue i simboli sono interpretati da Gesù in rapporto alla sua morte.
Il calice è il segno dell'ira di Dio, come scrive Isaia: "Levati su, Gerusalemme che dalla mano del Signore tracannasti il calice della sua ira, la coppa che ti ha stordita" (Is 51,17); e Geremia dice: "Prendi dalla mia mano questa coppa colma del vino dell'ira, e fanne bere a tutti i popoli ai quali io ti mando" (Ger 25, 15). Per Gesù è una metafora con la quale indica che egli prende su di sé il giudizio di Dio per il male compiuto nel mondo, anche a costo della morte.
La stessa cosa vale per il simbolo del battesimo: "Tutte le tue onde e i tuoi marosi si frangono sopra di me" (Sl 42, 8). Le due immagini mostrano che il cammino di Gesù non è una folgorante e oleata carriera verso il potere.
Semmai è il cammino dell'assunzione su di sé del male degli uomini, come disse il Battista: "Ecco l'agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo". I due discepoli probabilmente neppure ascoltano le parole del maestro e tanto meno ne comprendono il senso.
Ai due apostoli, come spesso anche a noi, non importa comprendere la Parola evangelica; quel che interessa è l'assicurazione del posto.
E con sciocca semplificazione, i due rispondono: "Lo possiamo!".
E' la stessa superficiale faciloneria con cui risponderanno a Gesù al termine dell'ultima cena, mentre si avviano con lui verso l'orto degli Ulivi (Mt 26, 35).
Basta solo qualche ora, ed eccoli, assieme agli altri, abbandonare di corsa il Maestro per paura e lasciarlo nelle mani dei servi dei sommi sacerdoti.
La richiesta dei due figli di Zebedeo era ovvio che scatenasse l'invidia e la gelosia degli altri discepoli ("si sdegnarono con Giacomo e Giovanni", nota l'evangelista). Gesù allora li chiamò ancora una volta tutti attorno a sé per una nuova lezione evangelica.
Ogni volta che i discepoli non ascoltano le parole di Gesù e si lasciano guidare dai loro ragionamenti, si discostano dalla via evangelica e provocano liti e dissidi al loro stesso interno.
E' istintiva nei discepoli come del resto in ogni persona, la tendenza a fare da maestri a se stessi, a divenire "adulti", ossia indipendenti e autosufficienti, sino al punto da fare a meno di tutti, persino di Gesù.
E' lo stile di questo mondo, che tutti conosciamo molto bene poiché lo pratichiamo con frequenza. Per il Vangelo è vero l'esatto contrario: il discepolo resta sempre alla scuola del maestro, rimane sempre uno che ascolta le parole evangeliche.
Il discepolo di Gesù, anche se dovesse occupare posti di responsabilità, sia nella Chiesa che nella vita civile, resta sempre figlio del Signore, ossia discepolo che sta ai piedi di Gesù.
Ecco perché Gesù raduna nuovamente i Dodici attorno a sé e li ammaestra: "Sapete che coloro che sono ritenuti i capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così". L'istinto del potere - sembra dire Gesù - è ben radicato nel cuore degli uomini, anche in quello di chi spergiura di non esserne sfiorato. Nessuno, neppure all'interno della comunità cristiana, è immune da tale tentazione.
Non importa che si tratti del "grande" o del "piccolo" potere tutti ne subiamo il fascino. E' normale fare considerazioni severe su coloro che hanno il potere politico, economico culturale; e talora è anche necessario farlo. Forse però è più facile fare l'esame di coscienza agli altri che a se stessi, in genere uomini e donne dal "piccolo potere".
Non dovremmo tutti chiederci quanto spesso usiamo in modo egoistico e arrogante quella piccola fetta di potere che ci siamo ritagliati in famiglia, o a scuola o in ufficio, o dietro uno sportello, o per la strada o nelle istituzioni ecclesiali, o comunque altrove?
La scarsa riflessione in questo campo è spesso fonte di amarezze, di lotte, di invidie, di opposizioni, di crudeltà.
Ai suoi discepoli Gesù continua a dire: "Tra voi non è così" (forse sarebbe più corretto dire: "Non sia così").
Non si tratta di una crociata contro il potere, per favorire un facile umilismo che può anche essere solo indifferenza.
Gesù ha avuto potere ("insegnava come uno che ha autorità", scrive Matteo 7, 29), e lo ha concesso anche ai discepoli ("Diede loro potere sugli spiriti immondi" si legge in Marco 6, 7).
Il problema è di quale potere si parla, e comunque di come lo si esercita. E' il potere dell'amore.
Gesù lo spiega non solo con le parole quando afferma: "Chi vuole essere grande tra voi si farà vostro servitore", ma con la sua stessa vita. Dice di se stesso: "Non sono venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti". Così deve essere per ogni suo discepolo.

[Modificato da Ratzigirl 22/10/2006 14.45]

[Modificato da Ratzigirl 22/10/2006 14.45]

30/10/2006 01:03
 
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Omelia 29 ottobre 2006

Prima lettura


Dal libro del profeta Geremia
Così dice il Signore:
“Innalzate canti di gioia per Giacobbe,
esultate per la prima delle nazioni,
fate udire la vostra lode e dite:
Il Signore ha salvato il suo popolo,
un resto di Israele”.
Ecco li riconduco dal paese del settentrione
e li raduno dall’estremità della terra;
fra di essi sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente;
ritorneranno qui in gran folla.
Essi erano partiti nel pianto,
io li riporterò tra le consolazioni;
li condurrò a fiumi d’acqua
per una strada diritta in cui non inciamperanno;
perché io sono un padre per Israele,
Efraim è il mio primogenito.


Seconda lettura



Dalla lettera agli Ebrei

Ogni sommo sacerdote, scelto fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza, a motivo della quale deve offrire anche per se stesso sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo.
Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse;
“Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato”.
Come in un altro passo dice:
“Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchisedek”.



Vangelo


+ Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Costui, al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”.
Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Allora Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. E chiamarono il cieco dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!”. Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: “Che vuoi che io ti faccia?”. E il cieco a lui: “Rabbunì, che io riabbia la vista!”. E Gesù gli disse: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.


----------------------------------------------------------------------

Che cosa vuoi da me?

Don Marco Pratesi

"Che cosa vuoi che io faccia per te?" chiede Gesù a Bartimeo. Nel brano evangelico di domenica scorsa lo aveva chiesto anche a Giacomo e Giovanni. I due apostoli avevano chiesto i primi posti. Bartimeo chiede la vista. La prima richiesta è in contrasto con il progetto di Dio, la seconda gli è conforme: il Vangelo ci insegna che cosa dobbiamo desiderare e quindi chiedere.
Il Vangelo vuole portare il lettore a identificarsi con questo cieco, per fare a Gesù la stessa preghiera. Se abbiamo compreso, anche noi come Bartimeo grideremo forte: "Kyrie eleison, Gesù abbi pietà di me!".
Può sembrare paradossale che Gesù chieda a un cieco: "Che cosa vuoi da me?". Intanto il Signore conosce tutto; e poi non ci vuol molto a capire cosa può desiderare un cieco!
Dietro c'è un insegnamento importante: dobbiamo prendere coscienza di quello che vogliamo veramente. Se Gesù si presentasse a noi e ci chiedesse: "Che cosa vuoi veramente da me?"... sapremmo cosa rispondere? E la nostra risposta sarebbe come quella dei figli di Zebedeo o come quella di Bartimeo, sarebbe stolta o sapiente?
Noi ci vediamo, almeno con gli occhi del corpo. La differenza fra noi e Bartimeo è che noi siamo molto meno consapevoli della nostra cecità, e questo ci impedisce di sapere che cosa chiedere e di gridare al Signore. Questa incoscienza ci impedisce di dire con lui: "Abbi misericordia di me". Pochi pensano di aver bisogno di essere illuminato da Cristo, anzi, più si è ciechi e più si pensa di vederci. Molti pensano di sapere tutto, hanno una risposta e una soluzione per tutto: più si è ciechi e più siamo forti di noi stessi. Solo l'ascolto della Parola di Dio ci fa prendere coscienza della nostra cecità. Allora ci accorgiamo che ci manca la luce di Dio, quella luce nella quale Dio vede tutte le cose.
Questa fondamentale cecità si manifesta in tanti modi.
Siamo ciechi quando abbiamo occhi solo per il male e il negativo.
Siamo ciechi quando, magari in nome dei princìpi, perdiamo di vista la persona e la condanniamo.
Siamo ciechi quando l'abitudine stende un velo di grigio sulle bellezze di cui il Signore ci ha fatto dono e le rende scontate.
Siamo ciechi quando si ha paura di affrontare un problema e di prendere coscienza della verità.
Siamo ciechi quando i nostri attaccamenti negativi ci condizionano al punto che seguire Gesù ci sembra una perdita.
Siamo ciechi quando viviamo affogati nel presente, incapaci sollevare il capo e guardare all'orizzonte eterno del mondo.
Il Signore ci conceda di saltare in piedi e venire a lui, di invocare con forza il suo Nome e, illuminati dalla sua luce, seguirlo per tutte le sue strade.




La luce della fede

Don Fulvio Bertellini


"Va', la tua fede ti ha salvato". Gesù non dice "Io ti salvo", e neppure "Il Padre ti salva", ma "la tua fede". E' sottinteso che si tratta della fede in Gesù, come di colui che manifesta l'amore del Padre. Ma nello stesso tempo è la fede che appartiene a Bartimeo, che fa parte della sua persona - o meglio: per fede tutta la persona di Bartimeo si appoggia a Gesù, si affida a lui; e può così essere trasfigurata da questo incontro. Diciamo trasfigurata, e non solo risanata: Bartimeo diventa una persona nuova non solo perché ci vede, ma anche perché comincia a seguire Gesù, diventa suo discepolo.

Il punto di arrivo

La guarigione del cieco è posta dall'evangelista al termine del cammino di Gesù verso Gerusalemme: Gerico dista una giornata circa di cammino dalla città santa, e secondo il racconto di Marco viene rapidamente attraversata da Gesù. Solo mentre Gesù sta partendo avviene l'incontro con Bartimeo. Marco intende concludere con quest'ultimo miracolo quella fase del Vangelo che si era aperta a partire dal capitolo 8, dopo il riconoscimento da parte di Pietro. Una sezione ritmata dai vari annunci della Passione. Il risultato appare piuttosto sconfortante: nessuno ha capito in profondità il mistero di Gesù che deve manifestarsi a Gerusalemme. I discepoli non lo comprendono, men che meno le folle. I discepoli e la folla che accompagnano Gesù, nei riguardi del suo mistero, sono come ciechi. Non ci sarà nessuno che saprà "vedere"?

Come aprire gli occhi: povertà


Si tratta dunque di un racconto chiave, che getta una luce di speranza e induce il lettore a ripercorrere con più avvedutezza il cammino dei discepoli: Marco vuol mostrare che cosa è decisivo per credere. E la prima notazione è che si tratta di un povero, di un mendicante. Privo di denaro e privo anche dell'appoggio familiare. Viene citato il padre, ma non compare nella narrazione: a quanto pare, non dà nessun aiuto al figlio sfortunato. Bartimeo addirittura, se vogliamo essere precisi, non ha neppure un nome (in aramaico Bar-timeo significa "figlio di Timeo"). E' totalmente ai margini della società. Si contrappone dunque al tale ricco che vuol conoscere il segreto della vita eterna, ma anche ai figli di Zebedeo, assidui promotori della propria identità; Bartimeo è una figura di contrasto rispetto a tutti coloro che si muovono attorno a Gesù nei capitoli precedenti.

L'ascolto e il grido

Bartimeo sente dire che passa il "nazareno". Ma grida "figlio di Davide". Sente parlare di Gesù, per interposta persona. Ma non gli basta: si appella direttamente a lui. Riceve informazioni riduttive ("nazareno" non era certamente una qualifica onorifica, e conteneva una punta di disprezzo nei confronti dei galilei, considerati ebrei di serie B), ma reinterpreta il tutto in senso più ampio: "figlio di Davide" è chiaramente un titolo messianico. Il cieco vede e decodifica là dove la folla si accontenta di una chiacchiera superficiale. E ha il coraggio di gridare la sua invocazione. Capisce che Gesù è qualcosa di più che il "nazareno". Ma non si limita a capire: lo grida, lo invoca, anche contro coloro che vorrebero farlo tacere.

Anche da testimoni spuntati

Qui vediamo tra l'altro che la scintilla della fede può germogliare anche a partire da un annuncio sbagliato, insufficiente, svogliato. Anzi, potremmo dire che l'annuncio è sempre in qualche modo insufficiente, sproporzionato (negativamente) rispetto al suo oggetto. E' proprio della fede autentica passare oltre anche rispetto a quest'ostacolo. Anche se grossa è la responsabilità di chi diventa inciampo alla fede dei piccoli. Bartimeo viene "sgridato" (la parola in greco è la stessa) allo stesso modo con cui erano stati sgridati coloro che portavano i loro bambini a Gesù. Forse tra i "molti" che sgridano il mendicante, c'erano anche alcuni dei disceoli che avevano sgridato i bambini...
Solo dopo molti tentativi
Gesù non risponde subito al grido del cieco. E stranamente non gli va incontro. Neppure si rivolge a lui direttamente: lo fa' chiamare (dagli stessi che lo avevano intimato di tacere?). Sembra scortesia, invece è già l'inizio della guarigione. Il cieco getta via il mantello, e con esso la propria insicurezza. Con le sue gambe raggiunge Gesù. Non è un atto di autosufficienza, è un atto di fede (provate a camminare al buio ad occhi chiusi o bendati...). Gesù continua a provocare la fede del cieco, fino alla richiesta decisiva: in cui peraltro sembra quasi non intervenire, ma si limita a constatare l'avvenuta guarigione "la tua fede ti ha salvato". Il cieco ha ascoltato, ha riconosciuto, ha gridato, ha avuto ragione di chi pretendeva di farlo tacere, si è liberato di ogni suo possesso e al buio ha raggiunto Gesù. E dopo esser guarito, riconosce in quell'umile maestro di Nazaret il figlio di Davide, signore del mondo. E noi? In che cosa consiste la nostra fede? Si limita a ripetere vuote chiacchiere su Gesù? Sa oltrepassare gli ostacoli? Sa invocare fino al grido? Sa spogliarsi del superfluo? Sa arrivare fino all'incontro con il Salvatore?



Flash sulla I lettura

"Innalzate canti di gioia per Giacobbe": la prima parte del libro di Geremia è tutta imperniata sulla denuncia del peccato del popolo e sull'annuncio del destino tragico di Gerusalemme. Al capitolo 30 comincia una nuova sezione, caratterizzata dalla speranza e dalla gioia del ritorno. Sono i due aspetti fondamentali della vocazione profetica: smascherare il male quando tutto sembra andare bene; annunciare la speranza dove tutto sembra andare a rotoli. Nel convegno di Verona la Chiesa italiana ha riscoperto la necessità di vivere la dimensione profetica della propria vocazione battesimale. Tutti sono chiamati ad essere testimoni, tutti sono chiamati, a loro modo, a rendere una testimonianza profetica. Che nelle nostre condizioni attuali comporta SIMULTANEAMENTE messaggio di denuncia e messaggio di speranza. Se siamo attenti ai messaggi che ci provengono dal "mondo", vedremo che il messaggio di denuncia generalmente è recepito (e provoca reazioni). Non altrettanto la speranza... La lettura delle antiche profezie ci provoca a trovare i modi più adatti per dire parole buone e di pace, che non suonino false.


Flash sulla II lettura


"Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne": il sommo sacerdozio era la massima istituzione religiosa (e dopo l'esilio anche con valenze politiche) in Israele. Chi scrive la lettera agli Ebrei ha in mente le feroci lotte per l'attribuzione del sommo sacerdozio che erano avvenute nei secoli precedenti. La frase ha dunque anche una certa carica polemica, e prepara la novità teologica sorprendente che viene qui enunciata: anche Cristo, pur non essendo discendente di Aronne, è sommo sacerdote.
"Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melkisedek": nei capitoli precedenti è stato mostrato come la morte e resurrezione di Gesù lo abilitano a compiere un ministero di tipo sacerdotale. La citazione del salmo 109 completa l'argomentazione: esiste un sacerdozio diverso, non secondo Aronne, ma secondo Melkisedek, più antico del sacerdozio levitico.



Impariamo a pregare con il salmo

"Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion": il salmo si presenta come una riflessione e un bilancio dell'esperienza del popolo dopo il primo ritorno degli esuli da Babilonia. Un evento che poteva sembrare irrilevante nel quadro geopolitico del tempo diviene un grande avvenimento visto con gli occhi della fede.
"Ci sembrava di sognare. La nostra bocca si aprì al sorriso...": in realtà si trattava di un fatto abbastanza sorprendente, che poteva avere i contorni dell'incredibile. Nel mondo antico le deportazioni avevano lo scopo di estinguere completamente la memoria e l'identità di un popolo. L'annientamento militare poteva comportare l'annientamento culturale. Soprattutto per un popolo piccolo e limitato come quello degli Israeliti, che non poteva vantare un territorio della vastità dell'Egitto e una storia millenaria di predominio e potenza militare.
"Il Signore ha fatto grandi cose per loro / grandi cose ha fatto il Signore per noi": come in un canto a più voci, la parola viene data alle genti (che diventano anch'esse partecipi della lode a Dio) e poi ritorna a Israele, che non smette di esaltare le grandi opere di Dio. Abbiamo qui a che fare con un componimento fortemente "emozionato". L'emozione fa da padrona, dall'inizio alla fine. La stessa emozione di cui oggi noi vediamo l'abuso mediatico: emozioni a buon mercato imperversano nei talk-show, nei reality, perfino nei telegiornali, e anche il partecipante al più stupido giochino regalasoldi proclama "E' stata una grande emozione aver partecipato". Forse un po' gelosi di questo, alcuni preti e operatori pastorali fanno fatica ad accoglierla nelle liturgie, negli incontri, nelle catechesi. Altri invece abusano di emozioni, ritenendo riuscita l'evangelizzazione perché ha suscitato un buon coinvolgimento emotivo. La via giusta non è la via di mezzo, ma è una via differente, che si stacca dalla fredda razionalità, e mette alla prova l'emozionalismo facile.
"Chi semina nelle lacrime, mieterà con giubilo": coloro che possono raccogliere il frutto della gioia sono coloro che hanno accettato la sofferenza dell'esilio, che hanno resistito nei momenti di buio. Coloro che si sono fidati di Dio anche quando, sia razionalmente, sia emotivamente, sembrava impossibile sperare.
12/11/2006 23:56
 
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Liturgia 12 Novembre 2006


Prima lettura

Dal primo libro dei Re
In quei giorni, Elia si alzò e andò a Zarepta. Entrato nella porta della città, ecco una vedova raccoglieva legna. La chiamò e le disse: “Prendimi un po’ d’acqua in un vaso perché io possa bere”.
Mentre quella andava a prenderla, le gridò: “Prendimi anche un pezzo di pane”. Quella rispose: “Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ di olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo”.
Elia le disse: “Non temere; su, fa’ come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché dice il Signore: La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà finché il Signore non farà piovere sulla terra”. Quella andò e fece come aveva detto Elia. Mangiarono Elia, la vedova e il figlio di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunziata per mezzo di Elia.

Seconda lettura

Dalla lettera agli Ebrei
Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora al cospetto di Dio in nostro favore, e non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui. In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo.
E invece una volta sola ora, nella pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.

Vangelo

+ Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù diceva alla folla mentre insegnava: “Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave”.
E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino.
Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.





Ha dato tutto quello che aveva
Don Roberto Rossi

La liturgia di oggi ci presenta due testimonianze meravigliose di fede e di
amore, che la Parola di Dio ci indica come esempio.
E' la storia di due vedove. E' importante la loro testimonianza perché
l'Altissimo, il Dio dell'universo, è il difensore degli orfani e delle
vedove...
La prima è la vedova di Zarepta alla quale non è rimasto più nulla, se non un pugno di farina e un po' di olio, per l'ultimo sostentamento per sé e per il figlio, prima di morire. Il profeta Elia le chiede di preparargli questo in dono di ospitalità e di confidare nel Signore. La donna offre tutto quello che ha e il Signore la benedice per sempre. E' stupendo quanto avviene: "La farina non venne meno e l'olio non diminuì". Di fronte alla donna di Zarepta alla quale si rivolge il profeta, Dio vuole un atto di fede. E' nella fame, ma è obbediente alla parola di Dio e guadagna molto di più.
L'altra è la vedova del vangelo, che nella sua povertà, dà tutto quello che
ha, "tutto quello che le è rimasto per vivere". Forse ha anche paura di
essere vista e giudicata perché mette pochi spiccioli in quel tesoro del
tempio dove altri, mettendosi in mostra, gettano monete grandi. La vedova del vangelo getta nel tesoro due centesimi: gli altri danno il superfluo, lei dà tutto. Ma Gesù la vede, la osserva, la presenta agli apostoli come il vero esempio di fede, di amore, di sacrificio e tesse l'elogio più bello proprio per lei, che vive lo spirito di Gesù, lo spirito del vangelo e delle beatitudini. "Beati i poveri, perché di essi è il regno dei cieli". Difatti della vedova del vangelo non sappiamo più nulla, mentre della vedova di Zarepta sappiamo come fu sostenuta dalla provvidenza di Dio nella sua vita terrena. Quella vedova passa, dà i suoi ultimi spiccioli e se ne va. Nessuno la richiama per restituirgli il centuplo; non c'è nessun miracolo; il suo gesto si consuma nell'oscurità della fede tra lei e il suo Dio. Ma quello che conta è che senz'altro quei due, Gesù e la vedova, si sono incontrati di nuovo nel regno del Padre e lì la vedova ha ricevuto il miracolo più grande, il premio della vita eterna: "Venite benedetti dal Padre mio - dice Gesù – ricevete il regno preparato per voi".
Il racconto di Gesù è toccante, invita a riflettere. La vedova che getta i
soldini nel tesoro del tempio è l'immagine di una schiera di vedove, di
poveri, di umili che non hanno ricchezze, non hanno istruzione, non hanno potere, non fanno carriera; ma sono persone generose, piene di amore per Dio e per il prossimo, capaci di soffrire in silenzio. Nella società non contano nulla, ma sono loro che sostengono il mondo. Sono i poveri di spirito di cui ha parlato Gesù e che ha dichiarato beati. Lo sguardo penetrante del Signore cambia il volto delle cose: la mentalità mondana ci porta a ritenere importanti le persone potenti, ricche, quelle che hanno successo, che fanno carriera, i politici o gli economisti. Noi studiamo la storia fatta da loro, ma molte volte è una storia di guerre e di male. La storia dei piccoli, dei poveri, degli umili non la notiamo: invece davanti a Dio è quella che conta ed è quella che costruisce il bene. Basta pensare a S. Francesco o a S. Teresina del Bambin Gesù e a tutti coloro che hanno dato tutto e che "ricchi della loro povertà" hanno dato un volto nuovo e luminoso alla storia del mondo.
C'è sempre davanti a noi il rischio. Noi diamo il superfluo oppure veramente quello che costa? Ho veramente condiviso, ho dato anche con il rischio di rimanere senza niente, in situazione di povertà?
Per noi c'è questo attaccamento ai beni, perché ci danno sicurezza, ma si può perdere ciò che è più importante: l'amore. Noi in genere guardiamo le apparenze, Dio guarda il cuore, le intenzioni, i comportamenti coerenti. Gesù dice: Quando fai l'elemosina non suonare la tromba davanti a te; quando preghi, chiuditi nel tua camera, e il Padre tuo che vede nel segreto, darà la sua ricompensa. E Gesù denuncia ogni forma di fariseismo di quanti ci tengono a farsi vedere per essere stimati dalla gente (e oggi, potremmo dire, dai mass-media) e invece sono operatori di male, di iniquità, di sfruttamento, di ingiustizia, "divorano le case delle vedove" (in un mondo come il nostro dove i ricchi diventano sempre più ricchi, schiacciando e costringendo alla fame e alla morte i poveri).
Davvero sempre il Signore sarà dalla parte dei poveri e degli oppressi e sarà il loro salvatore, già su questa terra e in pienezza nell'eternità, dove le cose, come dice la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro
saranno capovolte, dove splenderà per sempre la luce della bontà del cuore delle persone più umili e buone.
Siamo di fronte al comportamento di quelli che vogliono essere guardati, riconosciuti. Gesù dice: Non sappia la mano destra ciò che fa la sinistra. Non ci mettiamo nella logica della pubblicità, della sponsorizzazione. Il problema non è che sei ricco; il problema è se sei ricco solo per te. Di Gesù si dice: "Da ricco che era, si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà"
Oggi tante volte si può cadere anche nelle forme più banali del consumismo, con la vanità... Pensiamo alla ricerca delle cose firmate... e questo è un vero affronto ai poveri.
Noi davanti a Dio, siamo capaci di Dare tutto? Non tanto materialmente, ma nel cuore, nell'amore, nel sacrificio. Ci fidiamo di Dio o abbiamo paura del futuro? Crediamo alla Provvidenza di Dio che sempre prende cura dei suoi figli?

Ricordiamo la leggenda di Tagore, riportata nell'esperienza di Benedetta
Bianchi Porro.
IL MENDICANTE. Ero andato mendicando di uscio in uscio, lungo il sentiero del villaggio, quando apparve in lontananza un cocchio d'oro. Era il cocchio
del figlio del re. Pensai: E' l'occasione della mia vita. Sedetti spalancando la bisaccia e aspettando che l'elemosina mi venisse data, senza che neppure dovessi chiedere, anzi che le ricchezze piovessero in terra attorno a me. Ma quale non fu la mia sorpresa quando, giunto vicino, il cocchio si fermò, il figlio del re discese e, stendendo la mano destra, mi disse: Cos'hai da donarmi?. Quale gesto regale fu mai quello di stendere la mano a un mendicante! Confuso ed esitante, presi dalla bisaccia un chicco di riso, uno solo, il più piccolo, e glielo porsi. Ma che tristezza a sera, quando, frugando nella mia bisaccia, trovai un piccolo chicco d'oro, uno solo. Piansi amaramente di non aver avuto il coraggio di avergli donato tutto!

Tutto ciò che noi riusciamo a dare a Dio, Dio lo trasforma in "oro", già su questa terra e poi nella pienezza dell'eternità.
Noi davanti a Dio siamo soliti chiedere, invece è Dio che molte volte si
accosta e chiede a noi, non perché abbia bisogno, ma per trasformare in
"oro" quello che gli diamo.

------------------------------------------------------------------
Ticket
Don Ricciotti Saurino

La nostra generosità nei confronti dei fratelli è spesso proporzionata ai nostri averi, nel senso che stiamo attenti a non sforare nelle elargizioni e a conservare integro il capitale. Infatti, se qualcuno ci chiede qualcosa, badiamo bene a non esaurire le nostre scorte e ci limitiamo ad un intervento che non intacchi la nostra sicurezza, ci accontentiamo di un 'ticket' che garantisca la nostra partecipazione... proprio come quel contributo minimo che versiamo alla Sanità!
Tanto basta per quietare la coscienza e dire che abbiamo fatto qualcosa...
Sì, conosciamo bene la perfidia umana, l'imprecisione nella restituzione, e soprattutto sappiamo quanto sia difficile salvaguardare i nostri interessi... perciò usiamo sagge misure di sicurezza e di prudenza nei confronti dei nostri simili!
Con Dio è un'altra cosa... o, forse, peggio! Più ottimismo o meno affidamento? Non saprei... ma col borsellino scherziamo poco anche con Lui!
Prima di tutto siamo convinti che Egli si accontenti sempre, un po' perché sa quanto siamo tirchi, un po' perché trova comunque il modo per arrivare ai suoi fini, conoscendo illimitati canali, e poi... il Suo giudizio non è che ci solleciti quanto il giudizio scrutatore della gente!
Apre più il portafogli una gara di solidarietà con tanto di nome che l'anonimato, unge di più un riconoscimento ufficiale che un 'grazie' in sordina, riempie di zeri più una busta intestata che il cestino delle offerte.
Eppure, se scoprissi la persona che mi fa trovare periodicamente un biglietto sotto la porta della sacrestia... forse anch'io la riempirei di salamelecchi, facendole perdere il merito di quel gesto discreto, e insozzerei, goffamente, quel cartoncino sul quale delicatamente scrive: "per le esigenze della mia comunità!"
Forse arrossirei conoscendo le sue necessità, rimarrei sbalordito sapendo quanto stenta ad arrivare a fine mese, tenterei di rispedire al mittente la somma con la scusa che non ci sono bisogni immediati, ma mi emozionerei di fronte alla sua fede che riempie sistematicamente il vuoto economico provocato da quell'offerta...
Eppure, sono questi i miracoli sconosciuti agli occhi curiosi della gente, che sospetterebbe subito di traffici illeciti o più benevolmente di tesori nascosti, sono questi i miracoli che inumidiscono di commozione gli occhi di Dio e Lo sollecitano a una gara di generosità che non ha pari.
Poiché, se noi già siamo prudenti, dispensiamo Lui dall'essere la nostra Previdenza... Se già sappiamo fare bene i nostri calcoli e i nostri giochi in borsa, Lo esoneriamo ufficialmente dalla vigilanza... Se già conteggiamo e proteggiamo gli interessi, Lo svincoliamo da supplementi di benevolenza gratuita...
E' il rischio dell'abbandono fiducioso che non vogliamo correre, convinti di giocare il certo per l'incerto, il tangibile per l'insicuro, il contante custodito per il 'contabile' inesperto...
Quando tra noi e Dio s'inserisce lo schermo dei nostri interessi, allora non c'è etica che convinca e generosità che si giustifichi.
Quando è la borsa che custodisce il nostro cuore ed è il cassetto il depositario della nostra fiducia... Dio e i fratelli diventano gli scippatori e i ladri dai quali difenderci o addirittura sui quali fare le nostre ritorsioni.
Ma se, invece, Dio è la nostra sicurezza, la difesa di chi è in balia della propria situazione di disagio o dello sfruttamento dei potenti, il Padre che ritiene preziosa la vita di ogni figlio, noi, per amore, saremo capaci di spogliarci per Lui, come quella povera vedova che depone nel cuore di Dio tutto ciò che le serve per vivere.
Con due spiccioli non vivrebbe a lungo, ma senza la fiducia in Dio morirebbe già prima di chiudere gli occhi.
20/11/2006 00:14
 
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Omelia 19 Novembre 2006


Prima lettura



Dal libro del profeta Daniele

In quel tempo sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.
Vi sarà un tempo di angoscia, come non c’era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro.
Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.
I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.


Seconda lettura


Dalla lettera agli Ebrei
Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e ad offrire molte volte gli stessi sacrifici, perché essi non possono mai eliminare i peccati. Cristo al contrario, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati una volta per sempre, si è assiso alla destra di Dio, aspettando ormai soltanto che i suoi nemici vengano posti sotto i suoi piedi. Poiché con un’unica oblazione egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati. Ora, dove c’è il perdono dei peccati, non c’è più bisogno di offerta per essi.


+ Dal Vangelo secondo Marco

Disse Gesù ai suoi discepoli: “In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, e la luna non darà più il suo splendore, e gli astri si metteranno a cadere dal cielo, e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
Dal fico imparate questa parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina; così anche voi, quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, alle porte. In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre”.



-----------------------------------------------------------------


Il Signore è vicino

Don Marco Pratesi

Il brano evangelico di oggi rappresenta la parte centrale e conclusiva del "discorso escatologico" di Gesù nel Vangelo di Marco (c. 13). In esso vengono associati e in qualche modo collegati avvenimenti diversi: la morte e risurrezione di Gesù, la distruzione di Gerusalemme e del tempio nel 70 d. C., vari disastri della storia umana, la persecuzione della Chiesa e il ritorno finale di Cristo. Se tutte queste cose siano collegate nel testo - al punto che talvolta non si riesce bene a distinguere cosa si riferisca a cosa - il motivo c'è.
Vi sono esperienze - nella grande e nella piccola storia - nelle quali si ha l'impressione forte che il male sia vittorioso e, come in un nuovo diluvio universale, straripi nel mondo in modo inarrestabile; che, per usare una espressione dei Salmi, "vacillano le fondamenta della terra" (Sal 82,5). Fatto emblematico ne è la distruzione del tempio di Gerusalemme, che per gli ebrei rappresentò veramente una "fine del mondo".
Questo è quanto accade anche nella passione e morte del Signore. Quando Gesù è sopraffatto dalle forze del male, che sembrano averlo definitivamente annientato, questa è davvero - o almeno sembra molto - la fine di ogni speranza.
È invece l'inizio di una speranza ancora più forte e solidamente fondata. Quel Gesù che sembrava definitivamente estromesso dalla storia, con la risurrezione diviene cuore vivente e capo della storia umana.
Quanto è successo nella storia di Cristo, avviene ed avverrà anche nella storia del mondo. Quei segni che allo sguardo umano sono soltanto segnali di morte, annunziano - sia pure sommessamente e solo per chi ha orecchi - una prossimità misteriosa: il Signore è alla porta del mondo, e bussa. "Se uno ode la mia voce ed apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me" (Ap. 3,20).



Vegliate e state pronti

Don Roberto Rossi

"Vegliate e state pronti, perché non sapete in quale giorno verrà il Signore".
Al termine ormai dell'anno liturgico siamo invitati dalla Parola di Dio a meditare sulle realtà ultime della terra e sulle realtà eterne. Così siamo aiutati a essere vigilanti, saggi, pronti, preparati.
Ogni conclusione, ogni cosa che finisce ci richiama quella che è la grande fine del mondo, ci richiama anche la nostra fine personale sulla terra. Di fronte a queste cose ci vengono le domande e gli interrogativi più forti: Come sarà il futuro? Cosa avverrà? Come sarà la fine del mondo? Quando avverrà? (bisogna stare attenti a non andar dietro alle manie delle sètte, che ne vogliono sapere più di Dio!)
E per quanto riguarda la mia vita, quanto durerà ancora? Come sarà il mio futuro, i miei anni nell'età avanzata, se vi arrivo? Come avverrà la mia morte? E dopo cosa ci sarà? Finisce tutto oppure no?
Gesù ci aiuta: la sua parola e la sua vita sono come una luce grande e potente che illumina queste realtà per noi oscure e ci dà la possibilità di vedere il vero volto delle cose sulla terra e per l'eternità.
Gesù ci dice: "Non sapete né il giorno né l'ora: vegliate e state pronti". E' un invito alla responsabilità, alla vigilanza operosa, all'attesa nella fede, nella preghiera, nelle opere buone.
Ma Gesù non ci fa un discorso triste, pauroso, ma ci annuncia la "buona notizia" dell'incontro pieno e definitivo con il Signore: "Il giorno in cui verrà il Signore". Molti santi nel momento della loro morte dicevano: "Viene il Signore!". Se viene il Signore, che abbiamo cercato e amato nella fede, nel sacrificio, Lui ci salverà per sempre, anzi "saremo sempre con il Signore", dove non ci sarà più morte, né lutto, ma la gioia piena e definitiva: "Entra nella gioia del tuo Signore".
Gesù dice: Guardate il fico o qualunque pianta: quando mette le foglie vuol dire che arriva la primavera e l'estate. Gesù ci insegna che la morte non è la fine, ma l'inizio di una vita nuova, una vita talmente più grande e più bella che neppure riusciamo a immaginare, come il bambino, nel grembo di sua madre, non riesce ad immaginare la sua vita, quando verrà alla luce. Ma quando viene alla luce esperimenta che è tutta un'altra cosa, immensamente più perfetta e neanche ricorda i mesi passati nel grembo della madre. Dice uno scrittore cristiano: "Dopo la vita, c'è la Vita" (con la lettera maiuscola). Ancor meglio S. Ignazio di Antiochia, in viaggio verso il martirio, afferma: "quando sarà giunto là, nella vita eterna, sarò veramente uomo". Così Benedetta Bianchi Porro che dice: "Non muoio, ma entro nella vita".
"Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me, dice Gesù, vado a prepararvi un posto e dove sono io, voglio che siate anche voi".
Gesù è venuto per questo. E' venuto a salvarci da ogni pericolo e da ogni male, per portarci nella vita piena, nella libertà dei figli di Dio, nella Casa del Padre, dove lo vedremo così come egli è e noi saremo simili a Lui".
Queste sono le parole della fede e della speranza cristiana. La speranza cristiana è la certezza che Dio porterà a compimento quanto Egli ha promesso.
Dobbiamo coltivare nel cuore la meditazione sui "novissimi" (cioè le ultime cose: morte, giudizio, inferno, paradiso), ma non in maniera paurosa, forse come è avvenuto qualche volta in passato, ma in maniera luminosa, perché è la luce della parola, della vita, della salvezza di Gesù che illumina anche il cammino oscuro della sofferenza e della morte. "Se anche andessi per valle oscura, non temerei alcun male, perché Tu sei con me".
La nostra è la religione dell'amore, non del timore, della fiducia e della speranza, non dell'angoscia. Dobbiamo pensare con serietà e responsabilità all'incontro con Dio e al suo giudizio, cercando di fare il bene e opere buone il più possibile, lottando contro il male, implorando continuamente il perdono per i nostri peccati. Dobbiamo soprattutto vivere nella fiducia, nell'impegno, nel sacrificio, nella santificazione di tutta la nostra vita, per amore del Signore e per la salvezza degli uomini, nostri fratelli. Nell'incontro con il Signore avremo un solo grande dispiacere, quello di non aver fatto molto di più, come opere buone, e quello di non aver implorato continuamente con vera fede tutto il suo perdono sui nostri peccati.
24/11/2006 21:39
 
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Perché vado alla S. Messa ogni Domenica?

ROMA, giovedì, 23 novembre 2006 (ZENIT.org).- Da circa un anno monsignor Raffaello Martinelli, Officiale alla Congregazione per la Dottrina della Fede e collaboratore del Cardinale Joseph Ratzinger per 23 anni, ha messo a disposizione dei fedeli presso la Basilica dei SS Ambrogio e Carlo al Corso, a Roma, alcune schede catechistiche su argomenti di attualità, redatte sulla base del Catechismo e di altri documenti pontifici.

Con grande meraviglia monsignor Martinelli, che dal 1987 è anche Rettore del Collegio Ecclesiastico Internazionale San Carlo e Primicerio della Basilica di San Carlo al Corso (www.sancarlo.pcn.net), ha constatato che più di 800.000 schede sono state prese dalle persone che sono entrate nella Basilica.

Conscia di questa situazione, Antonia Salzano, Presidente dell’Istituto e delle Edizioni San Clemente I Papa e Martire (www.istitutosanclemente.it) ha voluto raccogliere le 33 schede in un CD, ora in vendita presso le librerie cattoliche con il titolo “Catechesi Dialogica su argomenti di attualità”.

Considerando la qualità, la competenza e l’utilità di queste schede catechistiche, ZENIT ha deciso di pubblicarne una ogni giovedì.

Il tema affrontato questa settimana è: “Perché vado alla S. Messa ogni Domenica?”.



* * *


Che cos’è la S. Messa?

La S. Messa è:

• la celebrazione del mistero-sacrificio Pasquale (passione, morte, risurrezione) di Cristo Signore, reso presente ed efficace all’interno della comunità cristiana: “Celebriamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”;
• la presenza vera, reale, sostanziale del Cristo con il suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità: vero Dio e vero Uomo;
• il banchetto-comunione con Cristo e, grazie a Lui, con i fratelli: mediante il suo sacrificio, Cristo ci unisce mirabilmente a sè e tra noi, così da costituire una “cosa sola”.

Cristo nella S. Messa:

• rende lode e grazie a Dio Padre (eucaristia);
• attualizza il suo Sacrificio pasquale (memoriale);
• si rende presente realmente con il suo Corpo e Sangue nel pane e nel vino consacrati nella potenza dello Spirito Santo (transustanziazione);
• si fa nostro cibo e bevanda per la nostra salvezza eterna (banchetto).

Chi ha istituito la S. Messa?

Cristo Signore ha istituito la S. Messa il giovedì santo, la notte in cui veniva tradito.

Che cosa significa che la S. Messa è il Memoriale del Sacrificio di Cristo?

La S. Messa è memoriale nel senso che rende presente ed efficace sull’altare, in modo incruento, il sacrificio che Cristo, in modo cruento, ha offerto al Padre sul Calvario per la salvezza di tutti gli uomini.

La S. Messa non è dunque soltanto il ricordo di avvenimenti passati, ma rende presente e attuale quell’unico e perfetto sacrificio di Cristo sulla croce.
Identici sono la vittima e l’offerente: Cristo. Identica la finalità: la salvezza di tutti. Diverso è il modo di offrirsi: cruento sulla croce del Calvario, incruento nella S. Messa.

Che cosa significa Transustanziazione?

Significa che nella S. Messa, grazie alla potenza dello Spirito Santo, il pane di grano e il vino di uva diventano, nella loro sostanza, il Corpo e il Sangue di Cristo.

Qual è il rapporto tra la S. Messa e la Chiesa?

L’Eucaristia esprime e costruisce la Chiesa, come autentica comunione del popolo di Dio, nella sua ricca pluralità e nella sua intima unità. Lo stesso pane eucaristico, fatto di molti grani, e il vino, fatto con molti acini, significano l’unità e la pluralità del popolo cristiano che celebra l’Eucaristia.

L’Eucaristia fa la Chiesa, nel senso che l’Eucaristia la riunisce, la manifesta, la nutre, la fortifica, la fa crescere in qualità e la invia a tutta l’umanità.
E nello stesso tempo, la Chiesa fa l’Eucaristia, la celebra, la offre al Padre unita a Cristo nello Spirito Santo.

L’Eucaristia è l’apice della liturgia. È il compendio e la somma della nostra Fede. Contiene tutto il tesoro spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e nostro pane vivo. È il luogo privilegiato in cui la Chiesa confessa la sua Fede e la confessa nel modo più alto e completo.

Come la S. Messa coinvolge la vita quotidiana?

La S. Messa costituisce il centro, il cuore di tutta la vita cristiana per la comunità ecclesiale, universale e locale, e per i singoli fedeli.
Infatti, la S. Messa:

- è il culmine dell’azione con cui Dio santifica il mondo in Cristo, e del culto che gli uomini danno al Padre;

- è fonte e vertice di tutta la vita cristiana. Si pone al centro della vita ecclesiale. Essa unisce il cielo e la terra. Comprende e pervade tutto il creato;

- è il punto di arrivo e di partenza di ogni attività della comunità cristiana e di ogni fedele. È dalla S. Messa che si va verso il mondo, verso la propria attività quotidiana con l’impegno di vivere ciò che si è celebrato (Messa - mandato - missione nel mondo).

Ed è alla S. Messa che si fa ritorno, tutti ripieni del proprio lavoro (Eucaristia, offerta e lode per tutto ciò e di tutto ciò che si è fatto per mezzo di Cristo);
• è il centro, la norma, il modello e il più sublime momento di ogni preghiera della Chiesa e del singolo cristiano;
• è l’appuntamento d’amore, settimanale ma anche possibilmente quotidiano, con Colui che ha dato tutto se stesso per noi;
• è il sacramento nel quale viene manifestato e attuato il mistero di Cristo, il mistero della Chiesa, il mistero stesso della persona umana, la quale esprime e realizza compiutamente se stessa nella S. Messa;
• La S. Messa è alimento, luce e forza per il nostro pellegrinaggio terreno e suscita e alimenta il nostro desiderio della vita eterna: il paradiso.

C’è una preghiera che sia uguale o superi la S. Messa?

Assolutamente no. La S. Messa supera la portata delle altre preghiere, ed anzi nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado. Essa è quanto di più prezioso la Chiesa possa avere nel suo cammino nella storia. In essa è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa.

È obbligatorio partecipare alla S. Messa?

I cristiani hanno l’obbligo di partecipare alla S. Messa ogni domenica e nelle altre feste di precetto, a meno che non vi siano gravi motivi (malattia…). In assenza di tali gravi motivi, il cristiano, che non adempie tale obbligo, commette peccato mortale.
L’Eucaristia domenicale è «una questione di identità», anzi un bisogno, una necessità vitale, dalla quale non si può evadere.

Perché è obbligatorio proprio di domenica?

Perché Gesù Cristo è risorto “il primo giorno dopo il sabato” (Lc 24,1), il dies solis (il giorno del sole), poi chiamato dies Domini: il giorno di domenica (cfr. S. Giustino, I Apologia, cap. 65/67).
E la risurrezione di Cristo è l’evento centrale di tutta la vita di Cristo e della nostra Fede cristiana.
“Se Cristo non è risuscitato, vana è la vostra Fede” ci dice S. Paolo (1 Cor 15,14).

Come si santifica la domenica?

• Partecipando alla S. Messa;
• e dedicandosi a quelle attività che consentono di:
- rendere culto a Dio (maggior tempo dedicato alle preghiere personali e familiari, agli incontri e alle letture di approfondimento religioso, alle visite ai cimiteri …);
- curare la propria vita coniugale, familiare, parentale;
- assicurare il giusto e doveroso riposo del corpo e dello spirito;
- dedicarsi alle opere di carità soprattutto a servizio dei malati, degli anziani, dei poveri...

Quale deve essere il nostro atteggiamento nei confronti della S. Messa?

La S. Messa, per ciò che è, richiede da parte nostra:

• una grande Fede (“mistero della Fede”) che porta ad accogliere tutta la ricchezza del mistero;
• una continua disponibilità ad approfondire, mediante la catechesi, ciò che viene celebrato così che possa diventare Vita nella nostra vita;
• una formazione adeguata, in vista di una piena, consapevole e attiva partecipazione alla celebrazione eucaristica;
• una partecipazione gioiosa e comunitaria. Proprio perché la S. Messa ha carattere comunitario, grande rilievo assumono:
- i dialoghi fra il celebrante e l’assemblea
- il canto: segno della gioia del cuore: “Prega due volte chi canta bene”
- i gesti e gli atteggiamenti (stare in piedi, in ginocchio, seduti…), che esprimono e favoriscono l’intenzione e i sentimenti interiori di partecipazione, e che sono segno dell’unità di spirito di tutti i partecipanti;

• una purezza di coscienza: solo chi è in pace con Dio e con i fratelli partecipa pienamente ed efficacemente alla S. Messa;
• una partecipazione completa. Essa comporta:
- puntualità nell’arrivare in Chiesa per l’inizio della S. Messa;
- partecipazione attenta alla mensa della Parola di Dio;
- condivisione del banchetto del Corpo del Cristo (“Prendete e mangiatene tutti...”).

Partecipando alla S. Messa, si deve fare la S. Comunione?

È cosa molto buona che i cattolici, ogni qual volta partecipano alla S. Messa, facciano anche la S. Comunione. E comunque non più di due volte al giorno.

Chi può fare la S. Comunione?

Può fare la S. Comunione ogni cattolico che sia in grazia di Dio, e cioè che, dopo aver esaminato attentamente la sua coscienza, abbia la consapevolezza di non essere in peccato mortale, perchè in tal caso commetterebbe un sacrilegio: “Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del Sangue del Signore… mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11, 27-29).

Come accostarsi alla S. Comunione?

• Con rispetto: anche con l’atteggiamento del corpo (gesti, abiti dignitosi) si esprime il rispetto, la solennità, la gioia di questo incontro con il Signore;
• con il digiuno da almeno un’ora;
• dopo aver partecipato, dall’inizio, alla S. Messa, e impegnandosi a ringraziare il Signore per il grande Dono ricevuto, anche dopo la S. Messa e durante la giornata e la settimana.

Perché è importante rispettare le norme liturgiche nella S. Messa?

Le norme liturgiche:
• esprimono e tutelano la S. Messa, la quale, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza;
• consentono di rispettare ed attuare l’intrinseco legame tra professione e celebrazione della Fede, tra la lex orandi e la lex credendi: La sacra Liturgia, infatti, è intimamente collegata con i principi della dottrina e l’uso di testi e riti non approvati comporta, di conseguenza, che si affievolisca o si perda il nesso necessario tra la lex orandi e la lex credendi;
• sono espressione dell’autentico senso ecclesiale. Attraverso di esse passa l’intero flusso della Fede e della tradizione della Chiesa.
• La S. Messa non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante né della comunità nella quale si celebrano i Misteri. L’obbedienza alle norme liturgiche va riscoperta e valorizzata come riflesso e testimonianza della Chiesa una e universale, resa presente in ogni celebrazione dell’Eucaristia;
• garantiscono la validità, la dignità, il decoro dell’azione liturgica, e con essa anche il “rendersi presente” di Cristo;
• conducono alla conformità dei sentimenti nostri con quelli di Cristo, espressi nelle parole e nei riti della Liturgia;
• esprimono e garantiscono il “diritto” dei fedeli ad una celebrazione degna, e pertanto anche il loro diritto ad esigerla.
• Qualora si verificassero inadempienze ed abusi, i fedeli le segnalino, nella verità e con carità, alla legittima autorità (al Vescovo o alla S. Sede).

Quali danni causano gli abusi liturgici?

• Gli abusi liturgici non solo deformano la celebrazione, ma provocano insicurezza dottrinale, perplessità e scandalo nel popolo di Dio. Non rispettare le norme liturgiche contribuisce ad oscurare la retta Fede e la dottrina cattolica su questo mirabile Sacramento. Gli abusi liturgici, più che espressione di libertà, manifestano una conoscenza superficiale o anche ignoranza della grande tradizione biblica ed ecclesiale relativa all’Eucaristia, espressa in tali norme.
• Il Mistero affidato alle nostre mani è troppo grande perché qualcuno possa permettersi di trattarlo con arbitrio personale, che non ne rispetterebbe il carattere sacro e la dimensione universale.

Che cosa hanno detto alcuni Santi circa l’Eucaristia?

• “Se voi siete il corpo di Cristo e le sue membra, allora il vostro stesso mistero giace sulla mensa eucaristica. Voi dovete essere ciò che vedete e dovete ricevere ciò che siete” (S. Agostino).
• “Soltanto la Chiesa può offrire al Creatore questa oblazione pura (l’Eucaristia), offrendogli con rendimento di grazie ciò che proviene dalla sua creazione” (S. Ireneo).
• “La parola di Cristo, che potè creare dal nulla ciò che non esisteva, non può trasformare in una sostanza diversa ciò che esiste?” (S. Ambrogio).
• “L’Eucaristia è quasi il coronamento di tutta la vita spirituale e il fine al quale tendono tutti i sacramenti” (S. Tommaso).


Il Primicerio della Basilica dei SS.Ambrogio e Carlo in Roma
Mons. Raffaello Martinelli

NB Per approfondire l’argomento, ecco alcuni documenti pontifici:
* Paolo VI, Mysterium fidei, 1965;
* GIOVANNI PAOLO II:
- Dominicae Cenae, 1980
- Ecclesia de Eucharistia, 2003;
* CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, nn.1322-1419;
* CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E I SACRAMENTI, Redemptionis Sacramentum, 2004.

[a titolo personale aggiungo che uno splendido libro per approfondire il tema è "Il Dio Vicino" di Papa Ratzi, interamente dedicato all'eucaristia]

[SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799]

[Modificato da Discipula 24/11/2006 21.40]

27/11/2006 00:23
 
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Omelia 26 Novembre 2006



Prima lettura


Dal libro del profeta Daniele

Guardando nelle visioni notturne,
ecco apparire, sulle nubi del cielo,
uno, simile ad un figlio di uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui,
che gli diede potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano;
il suo potere è un potere eterno,
che non tramonta mai, e il suo regno è tale
che non sarà mai distrutto.



Seconda lettura


Dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo
Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà;
anche quelli che lo trafissero
e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto.
Sì, Amen!
Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!

+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, disse Pilato a Gesù: “Tu sei il re dei Giudei?”. Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”. Pilato rispose: “Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?”.
Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”.
Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”.ù

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Un vero re? Servitore del mondo
Padre Ermes Ronchi - Avvenire


Dunque, tu sei re?» Un prigioniero e il governatore, i due estremi della scala del potere, colui che tiene nella sua mano la bilancia della giustizia e la spada, colui che invece è solo un po' di polvere sulla bilancia, si misurano su ciò che più li rende lontani. Ed è il prigioniero, inerme e mitissimo, a lanciare una sfida, che è per sempre, al cuore del potere. «Io sono re, ma il mio regno non è di questo mondo». Come per dire: «Il mio regno cambierà questo mondo. Un'altra è la verità della storia. Io ne sono testimone». Le parole greche originarie suonano così: io sono il martire della verità. E che cos'è la verità? Non una idea, ma una vita; non una nozione, ma una persona, la sua, con il suo breve perimetro di carne e sangue spezzato sulla croce. La verità non si dimostra, si mostra, con parole e voce, con scelte e rifiuti, con gesti e martirio. Gesù è un re che non ha mai abitato nelle regge. Una sola volta ci è andato, per essere condannato a morte. Non ha mai portato armi, non ha mai arruolato eserciti. Non manda a morte nessuno per lui, ma muore lui per tutti. Il suo primo trono fu una greppia, l'ultimo la croce. Da quella non ha voluto scendere, anche se poteva scendere. È stato tentato dal potere, da tutte le mie stesse tentazioni, e ha detto di no, è l'unico che ha detto di no.
Ha sempre servito e mai comandato. Ha promulgato una sola legge: amatevi. È un re che non ha mai ingannato nessuno, il suo parlare era sì, sì; no, no. È l'unico re che ha detto la verità, sempre, anche per questo il suo Regno non può essere di questo mondo.
Eppure: «Per questo sono nato, per testimoniare un Dio che ama, per un martirio d'amore». Cristo è re per il suo martirio. La sua regalità non consiste nel disporre di terre e di eserciti, nel comandare a malattie o tempeste, a stelle od oceani, ma nella testimonianza d'amore.
Regalità umanissima, e possibile anche a me, a noi, a un mondo nuovo, dove tutti, tutti sono uguali. Cristo è re perché la sua figura è generativa di umanità; perché innesta bisogni inediti, crea una tensione a fiorire, un avanzamento dell'umano.
«Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». Il nostro compito è un cuore che ascolta. Per l'uomo biblico Dio è voce, e sguardo geloso di ciascuno. Un giorno questa voce prende volto, ed è Gesù. Nell'incontro con il Volto in cui prende forma la Voce, inizia la mia fede. Vedendo lì il martirio di un Dio che ama. A lui mi do, perché lui a me si è dato. Do fiducia a un Dio che da fiducia. Credo in lui, non perché è credibile, ma perché lui crede in me. Quasi una fede nella fede, un duplicarsi di fede. Questo sarà il re che io servirò, perché questo re è il solo che si è fatto mio servitore.


Io sono re. Per questo sono nato

Monaci Silvestrini - Bassano Romano

Su questo brano del Vangelo bisogna avere le idee chiare per evitare di credere che il regno, di cui parlava Gesù davanti a Pilato e per cui fu condannato a morte, sia un regno unicamente spirituale, senza alcun risvolto temporale e alcuna incidenza sulla storia umana. Già questa festa, quando fu istituita, suscitò qualche obiezione. Il termine "Cristo re" non piaceva e non piace molto all'opinione pubblica, sia perché evoca tempi di monarchia da noi superati, sia perché richiama l'immagine dell'uomo-suddito. E' necessario rimuovere delle sovrastrutture storiche e sociali. Il regno di Dio non è stato inaugurato con una dominazione militare, ma con l'arresto del suo re. Non è stato imposto con una solenne cerimonia, ma con un condannato a morte di croce. Cristo è fuggito quando lo cercavano a furor di popolo per farlo re, e si è dichiarato di essere tale davanti a Pilato, prigioniero e in balia degli altri: "Io sono re". Ma sappiamo perfettamente la sua idea: "I re dalla terra dominano. Chi vuole essere il primo diventi l'ultimo, il servo di tutti". Pilato capì che Gesù non negava la sua regalità. Ne fu più che convinto da giustificare il motivo della condanna a morte del Nazareno. Di fronte alla disapprovazione dei giudei, indispettito di come erano andate le cose, rispose: "Ciò che ho scritto, ho scritto". Questo è conforme a quanto Gesù gli aveva detto precedentemente. "Tu lo dici: io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità". Di fronte alla mentalità giuridica e politica, Gesù rivela una funzione del tutto superiore, diversa, trascendente: la funzione di rendere testimonianza alla verità, alla verità che è fondamento di tutto. Ossia vuole portarci alla conoscenza, alla comunione con il suo Padre. "Per questo è nato, per questo è venuto" e per questo ha consumato tutta la sua vita per rivelare il volto del Padre. "Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce". In questo modo, davanti ai capi religiosi e politici, si introduce il vero re, che dirige la storia e questi è Gesù, il Nazareno. Nel suo essere innalzato sulla croce ci mostra l'amore del Padre, attira tutti a sé, vincendo il capo di questo mondo. I nemici che lo vogliono morto, sono strumento involontario e inconsapevole della sua regalità. Lo metteranno sul trono, dove si rivelerà sovrano su tutti, perché offre la sua vita per tutti.
03/12/2006 14:19
 
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Riflessione sull'Avvento
Mons. Angelo Comastri parla dell’Avvento ai microfoni della Radio Vaticana

La Prima Domenica d’Avvento segna per la Chiesa l’inizio di un nuovo Anno liturgico. L’arcivescovo Angelo Comastri, arciprete della Basilica di San Pietro e vicario generale di Sua Santità per lo Stato della Città del Vaticano ha spiegato alla Radio Vaticana cosa rappresenta l’Anno liturgico, per poi parlare dei significati dell’Avvento.

"Un Anno liturgico - ha detto mons. Comastri - è un itinerario, uno spezzone di tempo che si muove attorno alla vita di Gesù. Avvento, Nascita, Passione, Risurrezione, Pentecoste: per noi cristiani il tempo non ha senso se non si muove attorno a Gesù. Dal momento che non finiamo mai di imparare Gesù, abbiamo bisogno di ritornare continuamente sul mistero di Gesù perché ci entri dentro al punto tale da poter dire che siamo veramente cristiani, cioè persone che profumano di Cristo". Avvento significa venuta, qualcosa che sta per accadere: "È vero - ha detto mons. Comastri - che Avvento significa qualcosa che sta per accadere, ma parte da qualcosa che già è accaduto. L’Avvento parte dal Natale del Signore, dalla venuta di Gesù dentro la storia per aprire dentro questa storia, segnata dal peccato, un varco di salvezza, un itinerario di salvezza. Noi sappiamo che questo è già avvenuto: il figlio di Dio si è fatto uomo, è entrato nella nostra storia, al punto tale che noi oggi possiamo dire che siamo imparentati con Dio, perché Dio si è fatto uomo. Ma la salvezza non è compiuta, la salvezza non è terminata, la salvezza non è conclusa; la salvezza è iniziata, è iniziata come un lievito, è iniziata come una primizia. Noi aspettiamo il ritorno di Gesù perché sia completata la salvezza, perché sia completamente liberata l’umanità dal peso del peccato e perché sia liberato anche il mondo dalla schiavitù del peccato. Noi aspettiamo i cieli nuovi, la terra nuova, aspettiamo una nuova Gerusalemme e per questo, mentre ricordiamo la venuta di Gesù nella storia, accendiamo la lampada - o meglio mettiamo olio nella lampada - per poter andare incontro al Signore che viene. E a questo incontro noi vogliamo prepararci. Certamente - ha proseguito mons. Comastri - Maria è la via storica che Dio ha seguito per entrare nel mondo. Se noi andiamo al racconto dell’Annunciazione restiamo stupiti da un fatto: l’evangelista Luca con estrema precisione, con estremo rigore dice: "L’Angelo Gabriele fu mandato da Dio". Quel complemento d’agente è davvero un tuono e chi dice che la mariologia è un’invenzione successiva della Chiesa cattolica è smentito immediatamente dal Vangelo. La mariologia nasce con il Vangelo e nasce perché Dio cerca la collaborazione e Maria è la più bella collaborazione che Dio abbia mai potuto trovare nella storia dell’umanità. L’angelo Gabriele fu mandato da Dio: la Chiesa ricorda che la via storica che Dio ha seguito per entrare nel mondo è la via di Maria, allora la rivive, la ripensa, la rimedita, per imparare da Maria lo stile del sì. Maria è una creatura straordinaria perchè la sua libertà non è abortita come tante libertà abortiscono: la sua libertà si apre totalmente a Dio nell’obbedienza che libera, nell’obbedienza che rende adulti, nell’obbedienza che rende felici. Per questo Maria dice: ‘Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola’. Ebbene quell’Eccomi è il punto centrale di tutta la storia umana e a quell’Eccomi siamo tutti legati. Abbiamo tutti bisogno di ritornare a quell’Eccomi per imparare anche noi a dire il nostro Eccomi, imparare a dire il nostro sì, per questo Maria è la maestra della fede".

In questo tempo di Avvento, come prepararci al Natale assieme a Maria? "Dobbiamo ripercorrere con Maria la via di Betlemme - ha sottolineato mons. Comastri -. Quando Maria si mette in viaggio sicuramente si abbandona nelle mani di Dio. Forse si sarà chiesta: ma come mai questo viaggio? Come potrò dare alla luce il bambino lontano da casa? Cosa accadrà di me? Cosa accadrà di lui? Ma sicuramente Maria, dinanzi a queste domande, avrà di nuovo risposto: ‘Eccomi sono la serva del Signore, mi porti dove vuole’. Noi dobbiamo metterci alla scuola di Maria per rifare la strada di Betlemme e ne abbiamo tanto bisogno perché oggi nella società occidentale, in modo particolare, contano soltanto due poteri: il potere del denaro e il potere del successo, che sono due demoni nel vero senso della parola, due inganni, due menzogne colossali. Sappiamo che conta soltanto Dio: è la lezione del Natale. E per poter imparare questa lezione Maria è la migliore maestra, e la strada che ha percorso Maria insieme a Giuseppe è quella che la Chiesa propone anche a noi in Avvento perché finalmente di anno in anno ci possiamo accostare sempre di più al mistero di Betlemme ed essere riempiti della luce di Betlemme, al punto di sentire anche noi il canto degli angeli: ‘Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama’".


fonte: www.korazym.org
05/12/2006 00:21
 
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Liturgia 3 Dicembre 2006


Prima lettura

Dal libro del profeta Geremia
Ecco verranno giorni - oracolo del Signore - nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa di Israele e alla casa di Giuda.
In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia; egli eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra.
In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla. Così sarà chiamata: “Signore-nostra-giustizia”.

Seconda lettura

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, il Signore vi faccia crescere e abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti, come è il nostro amore verso di voi, per rendere saldi e irreprensibili i vostri cuori nella santità, davanti a Dio Padre nostro, al momento della venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi.
Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù: avete appreso da noi come comportarvi in modo da piacere a Dio, e così già vi comportate; cercate di agire sempre così per distinguervi ancora di più. Voi conoscete infatti quali norme vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.


+ Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con potenza e gloria grande.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra.
Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo”.



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Vigilanti nella speranza

Don Marco Pratesi

Il vangelo oggi ci parla di segni cosmici. Sappiamo che si tratta di un particolare modo di esprimersi che non vuole descrivere quanto accadrà, ma piuttosto rivelarci la sostanza di quello che accadrà, anzi di quello che già accade in ogni momento della storia (così come i racconti biblici della creazione e delle origini). Questi segni cosmici indicano ogni situazione in cui l'uomo sente mancare qualsiasi solido punto di riferimento, qualsiasi sicurezza. Una situazione che assomiglia a quella del caos primordiale, quando l'azione ordinatrice di Dio non aveva ancora fatto del caos un cosmo e fissato limiti invalicabili a tutte quelle potenze ostili e incontrollabili che fanno paura all'uomo e che sono contrarie alla sua vita. Sono tutte quelle situazioni nelle quali le cose sembrano andare a rovescio, non riusciamo più a capire, a padroneggiare la situazione, ci sentiamo in balia di forse oscure e incontrollabili, non sappiamo dove "andremo a finire". A livello collettivo pensiamo al tempo di guerra; a livello personale a una malattia grave: il mondo sembra crollare.
Quale positività può esserci in tutto questo? Umanamente nessuna. Ma Gesù ci sorprende ancora una volta: attraverso tutto questo Dio porta a compimento quel progetto iniziato con la creazione. I momenti di travaglio e sofferenza possono diventare strumenti di maturazione, di redenzione, di resurrezione, sia a personalmente che comunitariamente. Ciascuno ha fatto questa esperienza. La Chiesa ha fatto questa esperienza.
Ma che il travaglio diventi resurrezione non è automatico, non viene da sé. Occorre avere quell'atteggiamento che ci viene suggerito dal vangelo: la vigilanza. Vigilanza significa non addormentarsi, non appiattirsi sul presente. Non "dissiparsi", non vivere senza un centro interiore, senza una meta, senza un progetto. Non "ubriacarsi", non cercare lo stordimento fine a se stesso, un superamento del limite umano che è illusorio e distruttivo. Non lasciarsi dominare dall'ansia della vita, dalle preoccupazioni, così che tutto il nostro orizzonte interiore sia occupato da quelle e non resti più tempo ed energia per altro.
Senza questi atteggiamenti la venuta del Signore non potrà significare per noi che paura, perdita del nostro mondo e delle nostre sicurezze, incomprensibilità. La vigilanza ci apre invece alla speranza, apre i nostri occhi per vedere che il travaglio presente - e futuro - è il travaglio del parto nel quale nasce la nuova creazione, la terra e i cieli che Dio ha pensato, finalmente completamente corrispondenti al suo progetto.


Commento Luca 21,25-28.34-36

Mon. Vincenzo Paglia

Con questa domenica inizia il tempo di preparazione al Natale. E un tempo di attesa per la nascita di Gesù. Sono passati più di duemila anni da quel giorno che cambiò non solo il calendario ma la vita stessa del mondo. Il profeta Geremia lo previde: "Ecco verranno giorni - oracolo del Signore - nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa di Israele e alla casa di Giuda. In quei giornie in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia" (Ger 33, 14-15).
Quei giorni sono venuti. Ma noi siamo a tal punto chini su noi stessi e sui nostri problemi da rischiare di non accorgercene. L' Avvento viene a scuoterci dal nostro torpore perché non ci sovrasti uno stile di vita scialbo e triste. Le parole del Vangelo vengono a scuoterci: "Badate bene. Non lasciatevi intontire da orge e ubriachezze. Non abbiate troppe preoccupazioni materiali. Altrimenti diventerete pigri, vi dimenticherete del giorno del giudizio e quel giorno vi piomberà addosso improvvisamente. Infatti, esso verrà su tutti gli abitanti della terra come un laccio. Voi invece state svegli e pregate senza stancarvi".
Stare svegli e pregare. Ecco cosa ci è chiesto da oggi a Natale. Il tempo che viene chiede a ciascuno un impegno serio di vigilanza: "Alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina", dice Gesù. È tempo di alzarsi dalla pigrizia dell'egocentrismo e di pregare. Alzarsi vuol dire attendere qualcosa di nuovo, o meglio qualcuno che è nuovo: Gesù. Si tratta perciò di orientare i nostri pensieri e le nostre speranze verso colui che deve venire. E la preghiera è legata alla vigilanza. Chi non attende non sa cosa significa pregare, non comprende cosa vuoI dire rivolgersi al Signore con tutto il cuore. La preghiera nasce sempre dall'attesa di qualcuno che deve venire e inizia quando alziamo il capo da noi stessi per rivolgere gli occhi al Signore. "A te, Signore, innalzo l'anima mia", canta l'inno di ingresso della liturgia di questa domenica. I giorni che ci separano dal Natale siano giorni di frequentazione del Vangelo, giorni di ascolto e di riflessione. È questo il senso della vigilanza e della preghiera.
Non passsi giorno pertanto senza che almeno una parola sia stata deposta nel nostro cuore. E' vero, spesso il nostro cuore somiglia ad una grotta buia. Ma in questo tempo di Avvento può divenire, come quella grotta di Betlemme, il luogo ove il Signore Gesù rinasce. Scriveva un mistico del Seicento: "Nascesse Cristo mille volte a Betlemme, ma non nel tuo cuore, saresti perduto in eterno". Prepariamoci ad accogliere Gesù che viene a salvarci.

12/12/2006 23:40
 
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Liturgia 10 Dicembre 2006

(scusate, non ho avuto il tempo per postare la liturgia di domenica scorsa...provvedo subito!! [SM=g27822] )



Prima lettura

Dal libro del profeta Baruc
Deponi, o Gerusalemme,
la veste del lutto e dell’afflizione,
rivestiti dello splendore della gloria
che ti viene da Dio per sempre.
Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio,
metti sul capo il diadema di gloria dell’Eterno,
perché Dio mostrerà il tuo splendore
ad ogni creatura sotto il cielo.
Sarai chiamata da Dio per sempre:
“Pace della giustizia e gloria della pietà”.
Sorgi, o Gerusalemme, e stà in piedi sull’altura
e guarda verso oriente; vedi i tuoi figli riuniti
da occidente ad oriente,
alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio.
Si sono allontanati da te a piedi, incalzati dai nemici;
ora Dio te li riconduce
in trionfo come sopra un trono regale.
Poiché Dio ha stabilito di spianare
ogni alta montagna e le rupi secolari,
di colmare le valli e spianare la terra,
perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio.
Anche le selve e ogni albero odoroso
faranno ombra ad Israele per comando di Dio.
Perché Dio ricondurrà Israele con gioia
alla luce della sua gloria,
con la misericordia e la giustizia
che vengono da lui.



Seconda lettura


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, prego sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera, a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del vangelo dal primo giorno fino al presente, e sono persuaso che colui che ha iniziato in voi quest’opera buona la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù.
Dio mi è testimone del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.



+ Dal Vangelo secondo Luca

Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Ed egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:
“Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sia riempito,
ogni monte e ogni colle sia abbassato;
i passi tortuosi siano diritti;
i luoghi impervi spianati.
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”.


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Giovanni predica un battesimo di conversione
Don Marco Pratesi

L'Evangelista cita un oracolo del profeta Isaia che parla del ritorno degli esiliati da Babilonia attraverso il deserto: attraverso luoghi impervi Dio aprirà una strada; laddove umanamente non c'era alcun passaggio si aprirà grazie all'intervento di Dio uno spazio. Pensiamo anche al Mar Rosso, alla Pasqua. Questa profezia comincia a realizzarsi nel momento in cui la Parola di Dio scende sull'ultimo dei profeti, Giovanni il Battista. Egli annunzia un intervento di Dio straordinario e decisivo nella storia. Un intervento che lui stesso, Giovanni, faticherà a decifrare, che solo gradualmente metterà a fuoco. Occorre prepararsi a questo evento: Giovanni predica un "battesimo di conversione per la remissione dei peccati". Per trovarci in sintonia con questo imminente evento, per comprenderlo correttamente, per accoglierlo - egli ci dice - bisogna fare un gesto che esprima la nostra volontà di conversione. Non è ancora il battesimo di Gesù, quello nell'acqua e nello Spirito, che sarà una nuova nascita. Il battesimo di Giovanni era per la conversione, la conversione del cuore predicata dai profeti, battesimo che è un abbozzo del vero battesimo e della vera conversione annunziati da Gesù, fondati sulla rivelazione dell'amore assoluto di Dio. Conversione significa prendere coscienza - e non accettare - di essere ancora non totalmente abitati da Dio, di avere ancora degli idoli. Chiedere a Dio di cambiarci, e dare dei segnali, anche piccoli ma reali, di questa volontà. Questo apre la strada all'intervento di Gesù e del suo Spirito. E dove non c'era alcuno sbocco, si aprirà il cammino, dove mancava ogni prospettiva si aprirà l'infinito, dove si soffocava nell'angustia (ristrettezza) si respirerà l'aria libera della novità di Dio e della sua Pasqua perennemente rinnovata.




Commento Luca 3,1-6
Don Fulvio Bertellini

La figura di Giovanni Battista è la figura chiave di questo Avvento 2003: ben due domeniche sono dedicate a lui e al suo invito alla conversione. Riscoprire Giovanni Battista non è un'operazione di revival, che falserebbe il giusto significato dell'Avvento: la nostra attesa di Gesù non è memoria di quella dei profeti e dell'antico popolo di Israele. Anche in Avvento facciamo memoria del Risorto, destinato a tornare nella gloria: non è necessario far finta che non sia mai arrivato! Ma Giovanni Battista ci comunica alcuni atteggiamenti permanenti dell'essere credenti, che valgono anche per noi, discepoli del Risorto: la promessa, l'attesa, la conversione. Questi almeno mi sembrano i temi fondamentali di questa domenica, che valgono soprattutto per la nostra relazione con Dio; domenica prossima saremo invece invitati a riflettere sulla nostra relazione con il prossimo. E anche allora Giovanni avrà qualcosa da dirci.

La promessa

Punto di riferimento di Giovanni è il compimento delle antiche promesse. Non è l'uomo che si impegna nei confronti di Dio, ma Dio che si impegna nei confronti dell'uomo. Un impegno che ha radici profonde nella storia, ma che è anche continuamente sottoposto ai dubbi della storia. Il dubbio di Israele: Dio è con noi sì o no? Si interessa a noi o ci ha abbandonato? I salmi sono pieni di invocazioni e anche contestazioni a Dio che sembra nascondersi o - peggio - dimenticare il suo popolo: "Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando nasconderai il tuo volto?". La promessa buona di Dio sembra essere in contrasto con una realtà di sofferenza, comunitaria e personale. Di fronte a certe disgrazie ci vien da chiedere come Dio abbia potuto permetterle, perché non sia intervenuto... che ne è stato della sua promessa.

L'attesa

L'atteggiamento fondamentale di chi crede nel Dio della promessa è quindi l'attesa. O meglio, l'attesa è una delle manifestazioni più decisive dell'atteggiamento di base, che è la fede. Non un'attesa rassegnata, non un'attesa fideistica, ma fiduciosa e attiva. Aspettare Dio è ciò che ci trasforma. Giovanni vive nel deserto: lui per primo ha cambiato vita, si è posto in atteggiamento di conversione; finché la parola di Dio scende su di lui: non si tratta di una decisione sua, ma di una decisione di Dio, secondo i tempi di Dio. E la proposta di Giovanni consiste precisamente nell'assumere l'atteggiamento vigilante e fiducioso di chi aspetta Dio.

Conversione e perdono dei peccati


Aspettare Dio significa desiderarlo, scoprire la sua assenza, scoprire quanto vitale per noi sia la sua presenza. Ma accanto al desiderio di Dio, sperimentiamo in noi anche la resistenza nei suoi confronti. La voglia di fare a meno di lui. Di programmare la nostra esistenza indipendentemente dalla sua volontà. Volontà di Dio è per noi - purtroppo - un'espressione un po' logora, buona per interpretare le disgrazie: "Sia fatta la volontà di Dio". E' comprensibile che ci si possa ribellare di fronte a questo cortocircuito tra le catastrofi della vita e la volontà di Dio. La volontà di Dio è il bene dell'uomo. Volontà di Dio non sono le disgrazie, ma che noi abbiamo la forza di superarle. E se è peccato la disperazione totale, la totale sfiducia nei confronti di Dio, certamente non è meno pericoloso il fatalismo fondamentalista di chi attribuisce tutto subito alla sua "volontà": anche costui non sa aspettare, né lasciarsi convertire dall'attesa di Dio.

Chi semina nel pianto...

Il Salmo di questa domenica ci inserisce nel clima spirituale di questo Avvento meglio di quanto possa fare ogni altra parola umana. L'esperienza dell'esilio è per Israele la massima catastrofe, che non appare mai risolta. Ma da tanto dolore nasce la gioia del ritorno. Anche nella disgrazia, si compie un misterioso progetto di Dio, e chi sa attendere lo riconosce - ma non può esprimerlo se non in termini simbolici: "Chi semina nelle lacrime / mieterà con giubilo". Le promesse di Dio non sono andate perse, si sono compiute. Certo, non come volevano gli uomini. Non con i tempi degli uomini. Solo chi sa aspettare può riconoscerlo. Quale promessa di Dio si sta compiendo per noi oggi? E noi la sappiamo aspettare?


Flash sulla I lettura

"Deponi o Gerusalemme la veste del lutto e dell'afflizione...": il vestito a lutto rappresenta la devastazione e l'esilio. Dopo la riduzione in schiavitù, comincia una nuova epoca di prosperità, preannunciata con una serie di simboli regali: la veste, lo splendore, il manto il diadema.
"Sarai chiamata da Dio per sempre": la città riceve un nome nuovo da Dio, che ne definisce l'identità. Il nome per la mentalità semitica antica indica la realtà stessa delle cose; il nome di Gerusalemme significava, secondo l'interpretazione comune "città della pace".
"Pace della giustizia": la pace di cui Gerusalemme porta il nome sarà fondata sulla giustizia, sulla solidarietà, su legami di fratellanza che si stabiliranno tra i suoi membri. Solo questa è vera pace, non quella fondata sulla sopraffazione e sulla forza.
"e gloria della pietà": mentre la giustizia riguarda il rapporto con i fratelli, la pietù esprime l'atteggiamento dell'uomo di fronte a Dio, in cui entrano rispetto, venerazione, umiltà, accoglienza dei suoi voleri, osservanza del culto, osservanza della legge nel rapporto con gli altri. Nell'intenzione dell'autore non esiste una giustizia umana indipendente da un buon rapporto con Dio.
"Vedi i tuoi figli riuniti da occidente a oriente": dopo la dispersione, il ritrovarsi. E' un tema tipico del periodo postesilico, l'aspirazione profonda di ogni israelita che si ritrova lontano dalla sua patria. Ma è una nostalgia che riguarda anche noi: trovarsi insieme, riunirsi, sentirsi una cosa sola, un solo cuore, una sola famiglia... tutte le occasioni in cui qualcosa del genere avviene ci appaiono splendide e desiderabili, ma inevitabilmente parziali e incomplete. Ciò a cui aspiriamo è un ritrovarsi pieno e definitivo.

Flash sulla II lettura

"Prego sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera": i Filippesi sono una delle comunità più amate da Paolo, ma inevitabilmente l'apostolo è spesso lontano, e non può vederli di persona. Il vuoto dell'assenza è però colmato dalla preghiera - da parte dell'apostolo - e dalla cooperazione alla diffusione del Vangelo - da parte della comunità. Se leggiamo il brano identificando l'apostolo con il prete, e i Filippesi con la parrocchia, ne derivano indicazioni interessanti: nella nostra attuale situazione non è più possibile in molti casi una vicinanza fisica e una presenza costante del parroco o del sacerdote nelle famiglie, nell'oratorio, nelle attività parrocchiali. Per Paolo non si trattava solo di una costrizione, ma di una scelta consapevole: l'apostolo fondava la comunità, e poi proseguiva la corsa del Vangelo altrove. Il suo stesso stile di evangelizzazione e la sua ansia missionaria comportavano il distacco e la lontananza. I risvolti non erano necessariamente negativi: la comunità si dava una sua strutturazione, e nel caso dei Filippesi collaborava attivamente al sostegno - anche finanziario - dei viaggi di Paolo; e nel distacco fisico dalla comunità l'apostolo manteneva il legame nella fede, e la lucidità spirituale per dare alla comunità - anche a distanza - le indicazioni vitali per mantenersi fedeli al Vangelo. E' questa ludidità spirituale uno dei più grandi bisogni delle nostre comunità, non solo sempre più sole, ma soprattutto sempre più disorientate, prive di autonomia.
"E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio": conoscenza e discernimento sono i termini che l'apostolo usa per esprimere l'autonomia spirituale, la capacità di reggersi da sé, che non è isolamento, ma presupposto per una più autentica e profonda comunione.
17/12/2006 23:07
 
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Liturgia 17 Dicembre 2006

Prima lettura

Dal libro del profeta Sofonia
Gioisci, figlia di Sion,
esulta, Israele,
e rallegrati con tutto il cuore,
figlia di Gerusalemme!
Il Signore ha revocato la tua condanna,
ha disperso il tuo nemico.
Re d’Israele è il Signore in mezzo a te,
tu non vedrai più la sventura.
In quel giorno si dirà a Gerusalemme:
“Non temere, Sion,
non lasciarti cadere le braccia!
Il Signore tuo Dio in mezzo a te
è un salvatore potente.
Esulterà di gioia per te,
ti rinnoverà con il suo amore,
si rallegrerà per te con grida di gioia,
come nei giorni di festa”.


Seconda lettura


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi.
La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!
Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.


+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: “Che cosa dobbiamo fare?”. Rispondeva: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”.
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare, e gli chiesero: “Maestro, che dobbiamo fare?”. Ed egli disse loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”.
Lo interrogavano anche alcuni soldati; “E noi che dobbiamo fare?”. Rispose: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe”.
Poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: “Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile”.
Con molte altre esortazioni annunziava al popolo la buona novella.




Sei la gioia di Dio!

Don Paolo Curtaz

"Che cosa dobbiamo fare?"
Ce li immaginiamo i soldati, i pubblicani, i padri di famiglia che raggiungono Giovanni nel deserto affascinati dalla sua predicazione. Il mondo ha sete di profeti, oggi come allora.
"Che cosa dobbiamo fare?" è anche la domanda che sorge nel nostro cuore quando ci guardiamo dentro, quando lasciamo che il silenzio evidenzi, smascheri la nostra sete di felicità e di bene, quando una tragedia ci ridesta alla durezza e alla verità della vita.
"Che cosa dobbiamo fare?" e il mondo ci risponde: "Sistemati, lavora, guadagna, riposati, curati..." tutte cose piuttosto vere. Ma saranno poi davvero capaci di riempire il cuore? Dove avete puntato la prua della vostra nave? Quale strada state percorrendo? Vi porterà davvero alla felicità?

Giovanni risponde in maniera dolce e sorprendente: consigli spiccioli, spicchi di vita: "condividete, non rubate, non siate violenti..." Tutto lì? Attenti a non cadere nella sindrome del buon cristiano della domenica: "non rubo, non uccido" pronti a ricevere il bollino blu della buona condotta. No: questo atteggiamento di verità, di desiderio di cambiamento (i pubblicani abitualmente rubavano, i soldati abitualmente erano violenti) è un trampolino per la riflessione che Giovanni sta per fare.
La gente è turbata: Giovanni è un uomo buono, mostra loro una strada semplice, dà loro retta... che sia lui il Messia? Ed ecco la notizia: arriva uno più forte che battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Arriva il Cristo, è lui la risposta al cosa dovete fare, è lui colui che brucia dentro, che dà forza. Giovanni ancora non lo conosce eppure il suo cuore pulsa di gioia. Si sente quanto è affascinato da colui che annuncia, quanto ne è turbato, quanto lo desideri.

Già: la gioia. Il tema di oggi è proprio la gioia. Curiosamente (e drammaticamente) pensare al Vangelo non dà gioia. I giovani che incontro declinano la parola "fede" con "noia, dovere, obbligo, Dio rompiscatole..." come mai? Forse hanno visto le nostre facce all'uscita di Messa! E si sono detti: "e questi sono coloro che hanno incontrato il risorto?" Ah! Di quanta conversione abbiamo bisogno!
Giovanni ha già il cuore colmo di gioia anche se ancora aspetta, anche se ancora non vede. Ma già gioisce. L'annuncio che vi faccio, la "buona novella" in mezzo a tante orribili notizie che ci raggiunge è proprio questa: Dio ti ama e te lo dimostra in Gesù Cristo. Accogliere Gesù è avere il cuore pieno di gioia. La fede cristiana è anzitutto gioia. Non gioia semplice, sciocca, ingenua. Mediteremo a lungo, fra qualche mese, di come la gioia cristiana sia una tristezza superata, sia una gioia conquistata a caro prezzo...

Nel frattempo Paolo dice ai Filippesi e a noi: "rallegratevi nel Signore sempre!"; aggiunge che la nostra gioia deve essere nota a tutti, cioè che la gente deve pensare ai cristiani come gente serena e piena di luce! Per Paolo, che pure di cose tristi ne subisce e ne vede, la pace che viene da Dio custodisce i nostri cuori.
Ma se la mia vita è un calvario? Se proprio la sofferenza è la nota dominante della mia vita? Se la depressione o la solitudine hanno minato alla radice il mio buonumore? Perché mai devo essere felice?
La risposta di Sofonia, profeta vissuto nel 640 a.C., è bruciante: "Il Signore tuo Dio... esulterà di gioia per te, ti rinnoverà con il suo amore". Sii felice: tu sei la gioia di Dio! Sii felice: Dio ti ama teneramente con il suo amore ed è il suo amore che ti rinnova, ti cambia. Tutta la Bibbia, tutta l'esperienza di Israele prima e della Chiesa poi dice questo: sei amato, il vero volo di Dio è uno sguardo di bene e di amore che ti ricostruisce.
Natale si avvicina e siamo invitati a riscoprire questo atteggiamento fondante della fede cristiana: non come sforzo ma come consapevolezza; siamo la gioia del nostro Dio e questo riempie la nostra vita di gioia per essere discepoli di colui che è fuoco e dona lo Spirito...

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Viene il Dio della gioia
Don Marco Pratesi

"Alleluia! Viene in mezzo a noi il Dio della gioia." Il responsorio del salmo odierno riassume benissimo, in una frase, il senso dell'oracolo di Sofonia. Esso infatti è un invito molto semplice ma essenziale: gioisci!
Il motivo della gioia, ancora una volta, non risiede nella bontà delle situazioni umane, anzi. Chi conosce il resto del breve libro di Sofonia, sa che il profeta annunzia tempi duri per l'Israele indocile del suo tempo. Non a caso l'autore medievale del famoso "Dies irae" si rifarà alle espressioni di Sofonia circa il "giorno del Signore", il momento del suo intervento forte. Però, attraverso e oltre tutto questo, il Signore si farà presente in modo nuovo e più intenso. Il motivo della gioia è appunto questo: "Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente" (v. 17). Non c'è più la punizione, non più il nemico, non più la rovina incombente, col suo seguito di ansia e di sgomento. Il Signore in te gioirà di te, esulterà per la tua salvezza. La gioia alla quale siamo chiamati consiste proprio in questo: sintonizzare il nostro cuore sulla gioia del Signore, attingere dal suo cuore un po' di quella gioia.
Si può comandare la gioia? Non è qualcosa che nasce spontaneo e basta?
C'è una igiene da fare: non lasciare il nostro orizzonte interamente ostruito dalle cattive notizie.
C'è una educazione da darsi: disporsi ad accogliere la gioia che esiste già in Dio.
Come tutte le cose preziose, la gioia autentica è al tempo stesso, paradossalmente, conquista e dono. Non viene da sé, senza il nostro impegno; ma viene da sé, perché è il Signore che si fa presente.
Non viviamo spesso come se lui non fosse presente? Non abbiamo così spesso la sensazione di una vita che sta sotto la maledizione: debole, incerta, minacciata, breve? Non siamo spesso soggiogati dall'ansia che inflessibile, ci sferza, facendoci sgambettare a suo piacimento? Non sentiamo diminuire la nostra energia di fronte a forze ostili che invece sembrano crescenti?
Antidoto contro il male è la presenza del Signore. L'avvento, scuola di gioia, ce lo ricorda. Ripetiamocelo spesso in questa settimana, diciamocelo in mezzo alle stanchezze, alle ansie, alle paure: "Alleluia! Viene in mezzo a noi il Dio della gioia."
25/12/2006 12:17
 
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Liturgia 25 Dicembre 2006

Prima lettura


Dal libro del profeta Isaia
Il popolo che camminava nelle tenebre
vide una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia,
hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te
come si gioisce quando si miete
e come si esulta
quando si divide la preda.
Poiché tu, come al tempo di Madian,
hai spezzato il giogo che l’opprimeva,
la sbarra sulle sue spalle
e il bastone dell’aguzzino.
Poiché un bambino è nato per noi,
ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il segno della sovranità
ed è chiamato:
“Consigliere ammirabile, Dio potente,
Padre per sempre, Principe della pace”;
grande sarà il suo dominio
e la pace non avrà fine
sul trono di Davide e sul regno,
che egli viene a consolidare e rafforzare
con il diritto e la giustizia, ora e sempre;
questo farà lo zelo del Signore.




Seconda lettura


Dalla lettera di san Paolo apostolo a Tito
Carissimo, è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone.



+ Dal Vangelo secondo Luca

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città.
Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo.
C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva:
“Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e pace in terra agli uomini che egli ama”.




Questo per voi il segno: un bambino in una mangiatoia

Padre Raniero Cantalamessa

In questa liturgia notturna del Natale, una cosa ci è soprattutto necessaria: una grande semplicità. Solo chi ha, o sa darsi, occhi di bambino è capace di stupirsi sempre di nuovo di ciò che ascolta questa notte. Lo stupore è la porta per entrare nell'adorazione e nella gioia del Natale. Chi vuole fare il grande, l'adulto, il ragionatore, anche davanti al suo Dio che si fa bambino, non capirà nulla. E' qui con noi al banchetto eucaristico, ma come quell'invitato che non aveva la veste nuziale.
" Gioire davanti a Dio come si gioisce durante la mietitura", ci ha suggerito Isaia nella prima lettura. Perché gioire? " Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio ". Ma non nascono tutti i giorni e tutte le ore dei bambini? Certo: e infatti ogni nascita è un motivo di gioia e di speranza. Lo è anzitutto per la mamma che lo ha atteso, come dirà Gesú un giorno; lo è per il mondo; lo è per Dio. Ogni bimbo che nasce in questa terra è un segno che Dio non dispera ancora degli uomini. Ma il bambino di cui commemoriamo la nascita questa notte reca ben altri motivi di speranza e di gioia. " Sulle sue spalle è il segno della sovranità... Grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine... Egli viene a consolidare la giustizia ". Con lui, ha proseguito san Paolo nella seconda lettura, " è apparsa la benignità di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini ". Tutti questi motivi li abbiamo poi sentiti riassunti nel primo annuncio del Natale, quello fatto ai pastori: "Non temete, ecco vi annuncio una grande gioia che sarà per tutto il popolo: oggi è nato un Salvatore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia".
Possiamo fermarci qui. Il paradosso del Natale (e dell'intero Vangelo) è tutto contenuto in queste parole. Grandi cose si attendevano da questa nascita ' lo abbiamo sentito: gioia, pace, giustizia, salvezza. E poi eccoci condotti davanti a un bambino in una stalla, davanti allo spettacolo piú concentrato di debolezza, di impotenza e di povertà che l'umanità abbia mai immaginato. Completano questo quadro Maria e Giuseppe, due di quelle creature per le quali non c'è mai posto nell'albergo. La pace e la giustizia per tutto il mondo da uno che non ha avuto neppure una casa per nascere.
In quel tempo, altri parlavano di pace e di giustizia al mondo. Era quel Cesare Augusto che abbiamo sentito nominare all'inizio del brano evangelico. L'evangelista lo ha nominato qui, evocando la potenza e lo splendore della Roma imperiale, per creare il piú forte contrasto con il bambino che nasce nell'oscura borgata della Giudea. Anche Cesare Augusto si faceva chiamare salvatore e principe della pace. Dopo di lui, ogni imperatore che saliva al trono era salutato con scritte incise sulle monete che lo chiamavano " restauratore del mondo", " atteso delle genti", "restitutore della luce ". E, in verità, gli uomini fino a quel giorno avevano sempre pensato cosí: che, cioè, solo chi è forte, chi ha eserciti, chi ha il comando, può imporre agli altri la pace e portare la salvezza. Dio ha rovesciato, con il Natale di Cristo, tutte queste false certezze degli uomini. " Dio - ha scritto Paolo - ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti; Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti. (1 Cor. 1, 27). E che cosa è piú stolto per il mondo della povertà; che cosa è piú debole di un bambino? Per questo egli ha scelto di darci questo segno: un bambino in una mangiatoia.
Solo Dio poteva pensare a un rovesciamento cosí totale della logica umana; solo lui poteva pronunciare un " no " così potente a ciò che gli uomini hanno sempre posto in cima alla loro scala di valori: alla ricchezza, al potere, agli onori, all'autorità. Noi, da soli, non ci avremmo mai pensato, ma adesso che lo sappiamo ci rallegriamo e diciamo con gioia a Dio il nostro " si ". Tu hai nascosto queste cose ai grandi e le hai rivelate ai piccoli: si, o Padre, perché cosí è piaciuto a te (cf. Mt. 11, 26). 1 grandi, i potenti, i forti, d'ora in poi, non ci faranno piú paura come facevano paura un tempo. Tu hai confuso i sapienti e i forti e questo ne è, d'ora in poi, il segno: un bambino in una mangiatoia. Avresti potuto nascere a Roma, nella reggia imperiale, come figlio del piú potente della terra. Lí aveva immaginato la tua nascita il poeta pagano nella celebre Quarta Egloga. Sarebbe stata anche quella un'incarnazione teologicamente perfetta; saresti stato " vero Dio e vero uomo " anche cosí. Ma adesso sappiamo come sarebbe stato diverso. Avresti detto "sí" a ciò che gli uomini avevano sempre pensato. Nulla di veramente nuovo sarebbe cominciato, nessun corso nuovo nel mondo. Invece, per te, piú che farti -uomo, era importante farti povero e umile. Cosí tu hai dato davvero una speranza ai poveri della terra, ai derelitti, a quelli che non contano. Hai dato una speranza " a tutto il popolo", perché non tutti possono essere ricchi, sapienti e forti in questo mondo, ma tutti possono diventare umili.
Una cosa ci resta ora da capire a conclusione di tutto: che la speranza di pace e di giustizia che tu rechi ai poveri non è un tranquillante per nessuno; non è un "oppio del popolo"; non è, cioè, un surrogato di quel -
l'altra pace e di quell'altra giustizia che tanto tormentano gli uomini di oggi, ma ne è la premessa e il fondamento.
Ora il nostro pensiero si volge all'Eucaristia che stiamo per celebrare. li segno del bambino nella mangiatoia si fa presente nel segno, non meno umile, del pane sull'altare. Che diremo a Gesú questa notte, noi comunità riunita nel suo nome? Una parola sola: Grazie, Signore!


L'azzeramento assoluto

Don Luciano Sanvito

Nella notte di Natale avviene, nel profondissimo buio, il miracolo più inatteso e forse ancora sconosciuto, anche all'occhio del credente, abituato sempre meno alle cose spirituali e accecato nelle cose umane.

E' lo sprigionarsi della semplicità, che azzera e fa stramazzare a terra ogni costruzione che vada al di sopra di quella che è la nuda realtà.
La notte fa scomparire tutto: quello che crediamo della nostra umanità, e anche quello che crediamo di credere della/e nostra/e divinità.

E' il ritorno all'inizio, alla nascita, appunto; è il 'big bang' morale che è lì, in attesa di esplodere, e racchiude in sè, in questo misterioso zero assoluto, tutta l'infinità del positivo e del negativo dell'umanità universale.

La piccolezza è più piccola di quanto la facevamo apparire, in tutti i campi; ma proprio perché capace di racchiudersi nel buio, nello zero, ecco che l'energia appare più densa di mistero, di energia purissima, di recupero di una originalità pronta per essere donata ad ogni uomo.

La notte di Natale è la notte del natale di ogni realtà; è il grembo misterioso ma efficacissimo della vita nascente, che orienta tutto in avanti, niente indietro: tutto rientra nel piano della vita: tutto quanto.

Niente sfugge a questo punto di riferimento che è la notte di Natale.
Anche le potenze umane e politiche mondiali, non sussistono a confronto con questa semplicità: nulla e nessuno può diventare più potente, semplice ed efficace quanto la notte di Natale.
Tutte le armi distruttive umane, non sono così potenti come questa semplicità che azzera e fa ricominciare ogni cosa.
Tutti i programmi umani, sociali devono ripartire da qui, per essere veri.
Tutte le intenzioni umane vengono vagliate da questa notte dei valori.
Tutti i valori solo da questa notte ricevono luce, perché non c'è per essi un più potente punto di confronto, né un vaglio così equilibrante.

E anche l'uomo più ottuso e più chiuso, non può sfuggire a questa notte buia e fredda natalizia, cioè che gli imprime dentro una forza riproduttiva, una energia generante per sè e per il mondo attorno.

La notte di Natale ci richiama che ognuno di noi riparte ogni attimo da uno zero assoluto, per ricostruirsi, per mettersi nuovamente in gioco nella vita; per ricordarci che la vita, pur immersa nella notte delle cose e delle persone, racchiude in sè, in ogni attimo, sempre, la coscienza della vita nascente: dono per ognuno di noi, in questa notte di Natale.

15/01/2007 00:35
 
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Prima lettura


Dal libro del profeta Isaia
Per amore di Sion non mi terrò in silenzio,
per amore di Gerusalemme non mi darò pace,
finché non sorga come stella la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada.
Allora i popoli vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
ti si chiamerà con un nome nuovo
che la bocca del Signore indicherà.
Sarai una magnifica corona nella mano del Signore,
un diadema regale nella palma del tuo Dio.
Nessuno ti chiamerà più “Abbandonata”
né la tua terra sarà più detta “Devastata”
ma tu sarai chiamata “Mio compiacimento”
e la tua terra, “Sposata”,
perché il Signore si compiacerà di te
e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine,
così ti sposerà il tuo creatore;
come gioisce lo sposo per la sposa,
così il tuo Dio gioirà per te.


Seconda lettura


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.
E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro infine l’interpretazione delle lingue.
Ma tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole.




Vangelo

+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: “Non hanno più vino”.
E Gesù rispose: “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora”. La madre dice ai servi: “Fate quello che vi dirà”.
Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: “Riempite d’acqua le giare”; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: “Ora attingete e portatene al maestro di tavola”. Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo e gli disse: “Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono”.
Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Dopo questo fatto, discese a Cafarnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli e si fermarono là solo pochi giorni.



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"Che ho da fare con te, donna? Non è ancora giunta la mia ora!"


Don Marco Pratesi

Il vangelo delle nozze di Cana ci consente di prolungare la meditazione sulla figura di Maria che ci ha accompagnato nei tempi di Avvento e Natale.
Nel rapporto tra Gesù e Maria secondo i Vangeli possiamo distinguere tre periodi: 1. la vita nascosta 2. la vita pubblica 3. l'"ora", cioè la passione.
Nel primo periodo Gesù si comporta da figlio a tutti gli effetti.
Nel secondo periodo Gesù vuole agire lasciandosi guidare unicamente dalla volontà del Padre, senza condizionamenti né interferenze di sorta (ricordiamo lo smarrimento al tempio durante la Pasqua). Per Giovanni questo secondo momento inizia proprio a Cana; Gesù dice a Maria: "smetti di intervenire nella mia vita".
Nel terzo momento, quello dell'"ora", ai piedi della croce Maria ricompare nuovamente. Allora, richiamando la Genesi, Gesù chiama ancora una volta Maria "donna", come a Cana. Ella diventa la nuova Eva, riceve la missione di essere madre di ogni discepolo.
Il "vino nuovo" è frutto dell'"ora" di Gesù: «D'ora in poi non berrò più di questo frutto della vite, fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio» (Mt 26,29). Il vino è il segno della gioia e della festa, di ciò che serve non per "sopravvivere" ma per vivere in pienezza.
A questo punto, possiamo capire il senso della densa frase che il Figlio rivolge alla Madre: "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora". Adesso stiamo entrando nella fase in cui tu devi farti da parte. Nella mia ora, insieme al vino nuovo della Pasqua ti donerò ai miei discepoli come madre.
In questa risposta è delineato l'Esodo di Maria, il suo personale cammino verso la Pasqua, attraverso il superamento del suo ruolo di madre in senso umano, verso una maternità nuova e più ampia.
Conosciamo la risposta di Maria: La madre dice ai servi: "Fate quello che vi dirà". Lo dice a loro, ma lo dice prima a se stessa: pienamente fiduciosa nella Parola del Figlio si dispone a seguire il cammino che lui le indica. Un cammino che, come quello del Figlio stesso e di ogni discepolo, richiede l'abbassamento per condurre all'esaltazione.
Anche questa volta la sua umiltà viene esaltata: Gesù compie il miracolo del vino come gesto che esprime in anticipo il frutto della sua ora: la festa della liberazione piena, della vittoria di sulla morte.
Maria, immagine e modello di ogni discepolo, ci invita a fare come lei e ci accompagna nel nostro esodo. Anche noi siamo chiamati ad abbassarci per essere esaltati, a farci piccoli e metterci a servizio per diventare grandi, a perdere la vita per salvarla. Per questo, accogliamo oggi il suo invito: qualunque cosa sia, "facciamo quello che Gesù ci dirà".




I vantaggi di avere Gesù come amico di famiglia

Padre Raniero Cantalamessa

Il Vangelo della II Domenica del Tempo Ordinario è l'episodio delle nozze di Cana. Cosa ha voluto dirci Gesù, accettando di partecipare a una festa di nozze? Anzitutto, in questo modo egli ha onorato, di fatto, le nozze tra l'uomo e la donna, ribadendo, implicitamente, che esse sono una cosa bella, voluta dal creatore e da lui benedetta. Ma ha voluto insegnarci anche un'altra cosa. Con la sua venuta, si realizzava nel mondo quello sposalizio mistico tra Dio e l'umanità che era stato promesso attraverso i profeti, sotto il nome di "nuova ed eterna alleanza". A Cana, simbolo e realtà si incontrano: le nozze umane di due giovani sono l'occasione per parlarci di un altro sposalizio, quello tra Cristo e la Chiesa che si compirà nell' "ora sua", sulla croce.

Se vogliamo scoprire come dovrebbero essere, secondo la Bibbia, i rapporti tra l'uomo e la donna nel matrimonio, dobbiamo guardare come sono quelli tra Cristo e la Chiesa. Proviamo a farlo, seguendo il pensiero di san Paolo su questo argomento, come è espresso in Efesini 5, 25-33. All'origine e al centro di ogni matrimonio, secondo questa visione, vi deve essere l'amore: "Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei".

Questa affermazione – che il matrimonio si fonda sull'amore – oggi sembra a noi scontata. Invece solo da poco più di un secolo si è giunti a un riconoscimento di ciò, e ancora non dappertutto. Per secoli e millenni, il matrimonio era una transazione tra famiglie, un modo di provvedere alla conservazione del patrimonio o alla mano d'opera per il lavoro dei capi, o un obbligo sociale. I genitori e le famiglie erano i protagonisti, non gli sposi che spesso si conoscevano solo il giorno delle nozze.

Gesù, dice ancora Paolo nel testo di Efesini, ha dato se stesso "al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile". È possibile, per un marito umano, emulare, anche in questo, lo sposo Cristo? Può egli togliere le rughe alla propria moglie? Sì che lo può! Ci sono rughe prodotte dal non amore, dall'essere lasciati soli. Chi si sente ancora importante per il coniuge, non ha rughe, o, se le ha, sono rughe diverse, che accrescono, non diminuiscono la bellezza.

E le mogli, cosa possono imparare dal loro modello che è la Chiesa? La Chiesa si fa bella unicamente per il suo sposo, non per piacere ad altri.

È fiera ed entusiasta del suo sposo Cristo e non si stanca di tesserne le lodi. Tradotto sul piano umano, questo ricorda alle fidanzate e alle mogli che la loro stima e ammirazione è una cosa importantissima per il fidanzato o il marito.

A volte, è per essi la cosa che conta di più al mondo. Sarebbe grave fargliela mancare, non avere mai una parola di apprezzamento per il suo lavoro, la sua capacità organizzativa, il suo coraggio, la dedizione alla famiglia; per quello che dice, se è un uomo politico, che scrive se è uno scrittore, che crea se è un artista. L'amore si nutre di stima e muore senza di essa.

Ma c'è una cosa che il modello divino ricorda soprattutto agli sposi: la fedeltà. Dio è fedele, sempre, nonostante tutto. Oggi, questo della fedeltà è diventato un discorso scabroso che nessuno osa fare più. Eppure il fattore principale dello sgretolarsi di tanti matrimoni è proprio qui, nell'infedeltà. Qualcuno lo nega, dicendo che l'adulterio è l'effetto, non la causa, delle crisi matrimoniali. Si tradisce, in altre parole, perché non esiste più nulla con il proprio coniuge.

A volte questo sarà anche vero; ma molto spesso si tratta di un circolo vizioso. Si tradisce perché il matrimonio è morto, ma il matrimonio è morto proprio perché si è cominciato a tradire, magari in un primo tempo solo con il cuore. La cosa più odiosa è che spesso proprio colui tradisce fa ricadere sull'altro la colpa di tutto e si atteggia a vittima.

Ma ritorniamo all'episodio evangelico, perché esso contiene una speranza per tutte le coppie umane, anche le migliori. Avviene in ogni matrimonio quello che avvenne alle nozze di Cana. Esso comincia nell'entusiasmo e nella gioia (di ciò è simbolo il vino); ma questo entusiasmo iniziale, come il vino a Cana, con il passare del tempo si consuma e viene a mancare. Allora si fanno le cose non più per amore e con gioia, ma per abitudine. Cala sulla famiglia, se non si sta attenti, come una nube di grigiore e di noia. Anche di questi sposi, si deve dire mestamente: "Non hanno più vino!".

L'episodio evangelico indica ai coniugi una via per non cadere in questa situazione, o uscirne se vi si è dentro: invitare Gesù alle proprie nozze!

Se lui è presente, gli si può sempre chiedere di ripetere il miracolo di Cana: trasformare l'acqua in vino. L'acqua dell'abitudine, della routine, della freddezza, nel vino di un amore e di una gioia migliore di quelli iniziali, come era il vino moltiplicato a Cana. "Invitare Gesù alle proprie nozze", significa tenere in onore il Vangelo nella propria casa, pregare insieme, accostarsi ai sacramenti, prendere parte alla vita della Chiesa.

Non sempre tutti e due i coniugi sono religiosamente sulla stessa linea.

Magari uno dei due è credente e l'altro no, o almeno non allo stesso modo.

In questo caso, inviti Gesù alle nozze quello dei due che lo conosce, e faccia in modo - con la sua gentilezza, il rispetto per l'altro, l'amore e la coerenza della vita- che divenga presto l'amico di tutti e due. Un "amico di famiglia"!
22/01/2007 00:54
 
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Prima lettura


Dal libro di Neemia

In quei giorni, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere.
Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntar della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci di intendere; tutto il popolo porgeva l’orecchio a sentire il libro della legge. Esdra, lo scriba, stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza.
Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutto il popolo; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore Dio grande e tutto il popolo rispose: “Amen, amen”, alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore.
I leviti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemia, che era il governatore, Esdra sacerdote e scriba e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: “Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete!”.
Perché tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.
Poi Neemia disse loro: “Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”.


Seconda lettura


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
[Fratelli, come il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito.
Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra.] Se il piede dicesse: “Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe più parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: “Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe più parte del corpo. Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato?
Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”. Anzi quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno.
Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora [voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte.]
Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue.
Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti operatori di miracoli? Tutti possiedono doni di far guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? Aspirate ai carismi più grandi.

+ Dal Vangelo secondo Luca
Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi.
Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore”.
Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”.





Capacità di stupirci

Mons. Antonio Riboldi

Oggi ci viene fatto dono del saperci stupire di fronte all'annuncio della Parola del Signore. L'Evangelista Luca ci presenta Gesù che inizia coraggiosamente la missione avuta dal Padre di educare e convertire gli uomini alla Verità farli capaci di entrare nella luce della Buona Novella. Non aveva titoli, come tante volte noi superficialmente ci attendiamo da chi vorrebbe insegnarci qualcosa di nuovo, e in questo caso, qualcosa che supera, e di molto, le povere cognizioni che formano la nostra cosiddetta cultura o capacità di accostarci alla verità. "Chi parla oggi?" è la domanda che tante volte sentiamo fare, quando qualcuno si reca ad udire la Parola di Dio. Come se la forza della Parola fosse nella povertà dell'uomo che la proclama e non nella stessa Parola, di cui uno è solamente servo e speriamo servo fedele.
"IN quel tempo, dice l'Evangelista, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi. Si recò a Nazareth, dove era stato allevato ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia: apertolo, trovò il passo dove era scritto: "Lo Spirito del Signore è sopra di me: per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione, e ai ciechi la vista: per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore". Poi arrotolò il volume, lo consegno all'inserviente e sedette.
Gli occhi di tutti nella sinagoga erano fissi su di lui. Allora egli cominciò a dire: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con le vostre orecchie". Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca" (Lc. 1,14-23).
Possiamo facilmente immaginare la grande attenzione, quella sospensione dello Spirito, posta di fronte ad una verità attesa: lo stupore suscitato. Diremmo noi: "stavano a bocca aperta" come a voler riempire l'anima della gioia della verità. Stupore è la parola giusta di fronte all'annuncio che Gesù fa della sua missione: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura".
C'è ancora questo stupore, questa attesa, ogni volta siamo chiamati ad ascoltare la Parola di Dio? Si ha come l'impressione che la proclamazione della Parola di Dio, durante l'Eucarestia, susciti più che stupore, noia: al punto da misurare i minuti di durata della cosiddetta "predica" (brutta parola) e distinguere o catalogare i preti bravi da quelli non bravi dalla durata breve o lunga della omelia. Da solo questo modo di pensare la dice lunga sulla poca importanza che diamo a Dio che ci parla. E' un negativo segno della nostra vita di fede. Tanti, se potessero, cancellerebbero dalla Messa ogni forma di lettura o annuncio, in modo "da non perdere tempo". Incredibile. Qui davvero non c'è posto per lo stupore che ha suscitato Gesù e suscitano i veri testimoni del Vangelo. Saremmo stati, per esempio, a sentire Madre Teresa di Calcutta per ore e lo stupore non solo non si sarebbe esaurito, ma sarebbe cresciuto in modo tale da desiderare che non finisse mai, come se la Parola non fosse più suono, ma melodia di Dio. Quale responsabilità abbiamo anche noi vescovi, preti, diaconi nel servizio della Parola. Non solo non ci è lecito affidarsi alla improvvisazione, come se fossimo noi la parola che però non può costruire la casa sulla roccia, ma tradiremmo chi ci ascolta. A volte, lo dico con grande rossore, sentendo sacerdoti "fare la predica", mi domando: " Ma dov'è la bellezza della Parola di Gesù?" A volte si cerca il compiacimento della gente. A volte sono parole senza speranza, che si fermano ai fatti del mondo, dove non ha luogo la speranza. La Parola di Dio non solo dovrebbe essere preparata nella contemplazione ed offerta con lo stupore della Buona Notizia, ma dovrebbe scuotere, tagliare, come una spada affilata, lo spessore della nostra cecità e delle tenebre che ci avvolgono e mostrare tutta la luce accecante che solo Dio sa dare. Sapere offrire la Parola, entrando nei meandri delle anime e saperli percorrere, fino a sciogliere la matassa dei tanti dubbi, delle disperazioni, che sempre si annidano e formano come una gabbia, che non permette di volare con le ali della Parola di Dio. Occorre saper dialogare con la Parola di Dio, anche se si ha di fronte una massa, come se ci si rivolgesse ad uno, ad uno dei presenti, tanto da fare dire: "Oggi Dio mi ha visitato, mi ha tolto la cecità, mi ha dato speranza, mi ha stupito". Succede questo quando si ha la fortuna di ascoltare ministri santi e veri missionari. Così il Santo Padre esprime la necessità che la Parola di Dio non solo sia proclamata oggi da tutti, ma susciti stupore: "Oggi più che mai è necessaria la coscienza missionaria in ogni cristiano, a iniziare dai vescovi, dai presbiteri, dai diaconi, dai consacrati, dai catechisti, dagli insegnanti di religione...
L'Europa reclama evangelizzatori credibili, nella cui vita, in comunione con la croce e la resurrezione di Cristo, risplenda la bellezza del Vangelo. L'uomo contemporaneo "ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri è perché sono testimoni". Decisivi sono quindi i segni e la presenza della santità: essa è prerequisito essenziale per una autentica evangelizzazione, capace di dare speranza. Occorrono testimoni forti, personali e comunitari, di vita nuova in Cristo. Non basta infatti che la verità e la grazia siano offerte mediante la proclamazione della Parola e la celebrazione del Sacramento: è necessario che siano accolte e vissute in ogni circostanza concreta, nel modo di essere dei cristiani e delle comunità ecclesiali" (E.inE.n.49).
Quanto è necessario scrollarci di dosso quella pericolosa mentalità che si è formata intorno alla proclamazione della Parola, che chiamiamo "predica" ed è invece la solennità della manifestazione di Dio che parla a noi: e questo da parte di tutti, preti e fedeli.
Ce ne offre un esempio il racconto che ci fa oggi la S. Scrittura. Leggiamola assieme per farci riempire dello stesso stupore dei nostri fratelli ebrei, al tempo del sacerdote Esdra. "In quei giorni, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all'assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere. Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle acque, "dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno", in presenza degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere: tutto il popolo porgeva le orecchie a sentire il libro della legge". Esdra, lo scriba, stava sopra una tribuna di legno che aveva costruito per l'occorrenza. Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutto il popolo; come ebbe aperto il libro tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore Dio grande e tutto il popolo rispose: "Amen, amen" alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinnanzi al Signore. I leviti leggevano nel libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso e così facevano comprendere la lettura. Neemìa, che era il governatore, Esdra sacerdote e scriba e i leviti che ammaestravano il popolo, dissero a tutto il popolo: "Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete" Perché tutto il popolo piangeva mentre ascoltava la parola della legge. Poi Neemìa disse loro: "Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro: non rattristatevi perché la gioia del Signore è la vostra forza" (Num.8, 2-10).
E' questo lo stupore di cui dobbiamo riappropriaci, ogni volta, nell'ascolto della Parola del Signore, perché Gesù ci conferma. ogni volta, secondo la profezia di Isaia, che vede nel Salvatore colui che ci salva da ogni male, l'OGGI della speranza.



La Parola si realizza oggi
Don Marco Pratesi

Nella sinagoga di Nazareth Gesù legge la profezia di Isaia e conclude: oggi si è realizzata questa Scrittura. Per l'evangelista Luca questo "oggi" è il tempo della visita di Dio al suo popolo, l'oggi della salvezza. Pensiamo all'annuncio degli angeli nella notte di Betlemme: "oggi è nato per voi il Salvatore". Pensiamo all'esperienza di Zaccheo: "oggi la salvezza è entrata in questa casa". Pensiamo all'esperienza del malfattore crocifisso insieme a Gesù: "oggi sarai con me nel paradiso". "Oggi" significa dunque il tempo in cui Dio ti visita, viene da te per intervenire nella tua storia e salvarti, per essere il Dio-con-te. Questo "oggi!"Gesù non solo lo diceva in quel sabato a Nazareth, ma continua a dirlo in ogni tempo ad ogni uomo che oggi si mette in ascolto della sua parola: oggi per te, per noi, la Parola di Dio si realizza, il suo progetto prende forma nella storia.
Devo allora domandarmi: "Mi accorgo di questo? Vivo il mio presente come tempo di salvezza? Vedo già in qualche modo i sordi udire e gli zoppi saltare? Scopro questa salvezza presente già ora nelle pieghe della storia?"
Certo, la salvezza è anche nel mio futuro, perché so che il progetto di Dio si realizzerà completamente solo nel futuro. Ma questa salvezza deve essere già nel mio presente, come nel seme è già presente la pianta. E' fondamentale dunque farsi queste domande, perché sganciata dall'oggi la salvezza diventa insignificante: che cosa può interessarmi di un Vangelo che non si realizza da nessuna parte, di una buona notizia che vedo irreale? Le cose che contano, quelle che fanno marciare il mondo, sono altre! Una proposta di salvezza in questi termini si può solo lasciar perdere, perché non risolve nulla.
Oppure la si può rendere strumento per allontanarsi dal proprio presente, evadere dalla realtà, proiettarsi in un altro mondo, artificiale, dove magari mi sono costruito le mie gratificazioni fittizie. A questo punto la salvezza non è più solo insignificante: è divenuta alienante. Non si rifiuta il Vangelo, lo si mette a servizio di un altro scopo, magari per calmare le nostre ansie sul futuro, per tenersi buono Dio, per sentirsi persone a posto.
Dio mi chiama invece a vedere la salvezza nel mio oggi. Non si tratta di inventarsi qualcosa che non c'è, di lavorare di fantasia, ma di leggere le situazioni con i criteri di Dio, di vedere la mia storia con i suoi occhi. Salvezza oggi significa proprio anche questo: gli occhi dei ciechi si riaprono e diventano capaci di vedere Dio che nella storia agisce, giudica e salva.
29/01/2007 00:09
 
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Liturgia 28 Gennaio 2007

Prima lettura


Dal libro del profeta Geremia
Nei giorni del re Giosia,
mi fu rivolta la parola del Signore:
“Prima di formarti nel grembo materno,
ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce,
ti avevo consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni.
Tu, dunque, cingiti i fianchi,
alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti alla loro vista,
altrimenti ti farò temere davanti a loro.
Ed ecco oggi io faccio di te
come una fortezza,
come un muro di bronzo
contro tutto il paese,
contro i re di Giuda e i suoi capi,
contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.
Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno,
perché io sono con te per salvarti”.


Seconda lettura



Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi

Fratelli, aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte.
Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla.
E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.
[La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia.
Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.
Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!



+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù prese a dire nella sinagoga: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”.
Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: “Non è il figlio di Giuseppe?”. Ma egli rispose: “Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!”. Poi aggiunse: “Nessun profeta è bene accetto in patria. Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Zarepta di Sidóne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro”.
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.




Commento Luca 4,21-30

Padre Paul Devreux


A Nazaret, tutti gli anni, il rabbino della sinagoga organizzava dei pellegrinaggi a Gerusalemme e nei grandi santuari. La gente del paese ci andava volentieri, e invitavano anche Gesù. Quando tornavano a casa, raccontavano la loro esperienza. Qualcuno era entusiasta e qualcuno deluso, come sempre. Gesù li ascoltava sorridente e forse qualche volta provava a dirgli che il Signore potevano trovarlo anche a Nazaret, ma lo ascoltavano distrattamente.

Il Vangelo d'oggi ci racconta il giorno in cui Gesù ha provato apertamente a dire ai suoi paesani che era proprio lui il Signore che cercavano, il messia tanto atteso. A provato anche a spiegargli i motivi della loro difficoltà a crederci, ma non c'è stato nulla da fare; troppo vicino, troppo semplice, o troppo presente. Per cui tutt'oggi la gente di Nazaret aspetta un salvatore, e qualche Nazareno si fa anche saltare per aria tanto è grande il loro malessere. Eppure il Signore è cresciuto lì, è stato con loro, è uno di loro. Che peccato! Quanta grazia sciupata.

Anche oggi Gesù è qui, con noi, e ci domanda: "Che cosa vuoi? Ti fa piacere se viviamo insieme, se sono presente nella tua vita, o preferisci venirmi a trovare una volta la settimana o in qualche occasione particolare? Rispondimi, e sappi che io ti sto accanto, e provo a manifestarti la mia presenza continuamente tramite le persone che vivono con te, con cui lavori o sei amico. Sono anche abituato a stare accanto a te facendo finta di essere un altro, per non disturbarti, ma se mi vuoi vedere, ascoltare o parlare sappi che io ci sono sempre, così come sono stato presente a Nazaret, tramite le persone che ti ho messo accanto. Non mi cercare lontano o nelle cose grandi, mi troverai nelle cose piccole e semplici del tuo quotidiano".

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Il più celebre e sublime inno all’amore
Padre Raniero Cantalamessa


Dedichiamo la nostra riflessione alla seconda lettura, dove troviamo un messaggio importantissimo. Si tratta del celebre inno di san Paolo alla carità. Carità è il termine religioso per dire amore. Questo dunque è un inno all'amore, forse il più celebre e sublime che sia mai stato scritto.

Quando apparve sulla scena del mondo il cristianesimo, l'amore aveva avuto già diversi cantori. Il più illustre era stato Platone che aveva scritto su di esso un intero trattato. Il nome comune dell'amore era allora eros (da cui il nostro erotico ed erotismo). Il cristianesimo sentì che questo amore passionale di ricerca e di desiderio non bastava a esprimere la novità del concetto biblico. Perciò evitò del tutto il termine eros e ad esso sostituì quello di agape, che si dovrebbe tradurre con dilezione o con carità, se questo termine non avesse acquistato ormai un senso troppo ristretto (fare la carità, opere di carità).

La differenza principale tra i due amori è questa. L'amore di desiderio, o erotico, è esclusivo; si consuma tra due persone; l'intromissione di una terza persona significherebbe la sua fine, il tradimento. A volte perfino l'arrivo di un figlio riesce a mettere in crisi questo tipo di amore. L'amore di donazione, o agape, al contrario, abbraccia tutti, non può escludere nessuno, neppure il nemico. La formula classica del primo amore è quella che sentiamo sulle labbra di Violetta nella Traviata di Verdi: "Amami Alfredo, amami quant'io t'amo". La formula classica della carità è quella di Gesù che dice: "Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri". Questo è un amore fatto per circolare, per espandersi. Un'altra differenza è questa. L'amore erotico, nella forma più tipica che è l'innamoramento, per sua natura non dura a lungo, o dura soltanto cambiando oggetto, cioè innamorandosi successivamente di diverse persone. Della carità invece S. Paolo dice che "rimane", anzi è l'unica cosa che rimane in eterno, anche dopo che saranno cessate la fede e la speranza.

Tra i due amori però – quello di ricerca e quello di donazione –, non c'è separazione netta e contrapposizione, ma piuttosto sviluppo, crescita. Il primo, l'eros, è per noi il punto di partenza, il secondo, la carità, il punto di arrivo. Tra i due c'è tutto lo spazio per una educazione all'amore e una crescita in esso. Prendiamo il caso più comune che è l'amore di coppia. Nell'amore tra due sposi, all'inizio prevarrà l'eros, l'attrattiva, il desiderio reciproco, la conquista dell'altro, e quindi un certo egoismo. Se questo amore non si sforza di arricchirsi, cammin facendo, di una dimensione nuova, fatta di gratuità, di tenerezza reciproca, di capacità di dimenticarsi per l'altro e proiettarsi nei figli, tutti sappiamo come andrà a finire.

Il messaggio di Paolo è di grande attualità. Tutto il mondo dello spettacolo e della pubblicità sembra impegnato oggi a inculcare ai giovani che l'amore si riduce all'eros e l'eros al sesso. Che la vita è un idillio continuo, in un mondo dove tutto è bello, giovane, sano; dove non c'è vecchiaia, malattia, e tutti possono spendere quanto vogliono. Ma questa è una colossale menzogna che genera attese sproporzionate, che, deluse, provocano frustrazione, ribellione contro la famiglia e la società, e aprono spesso la porta al crimine. La parola di Dio ci aiuta a far sì che non si spenga del tutto nella gente il senso critico di fronte a quello che quotidianamente le viene propinato.

[Modificato da Ratzigirl 29/01/2007 0.09]

18/02/2007 23:47
 
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Prima lettura


Dal primo libro di Samuele
In quei giorni, Saul si mosse e scese nel deserto di Zif conducendo con sé tremila uomini scelti di Israele, per ricercare Davide nel deserto di Zif.
Davide e Abisai scesero tra quella gente di notte ed ecco Saul giaceva nel sonno tra i carriaggi e la sua lancia era infissa a terra a capo del suo giaciglio mentre Abner con la truppa dormiva all’intorno. Abisai disse a Davide: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo”. Ma Davide disse ad Abisai: “Non ucciderlo! Chi mai ha messo la mano sul consacrato del Signore ed è rimasto impunito?”.
Davide portò via la lancia e la brocca dell’acqua che era dalla parte del capo di Saul e tutti e due se ne andarono; nessuno vide, nessuno se ne accorse, nessuno si svegliò: tutti dormivano, perché era venuto su di loro un torpore mandato dal Signore. Davide passò dall’altro lato e si fermò lontano sulla cima del monte; vi era grande spazio tra di loro.
E Davide gridò: “Ecco la lancia del re, passi qui uno degli uomini e la prenda! Il Signore renderà a ciascuno secondo la sua giustizia e la sua fedeltà, dal momento che oggi il Signore ti aveva messo nelle mie mani e non ho voluto stendere la mano sul consacrato del Signore”.


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi


Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita.
Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale.
Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Quale è l’uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti. Eccome abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste.


Vangelo


+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “A voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro.
Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto.
Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro.
Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio”.





Commento Luca 6,27-38

Mons. Vincenzo Paglia

Il Vangelo segue il discorso delle beatitudini, e resta sulla stessa "altezza". Gesù, con tono autorevole, continua: "Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano". Queste parole suonano ancora oggi estranee al sentire comune. Com'è possibile amare il proprio nemico e fare del bene a coloro che ci odiano? Se c'è una cosa pacifica tra noi è proprio la divisione tra amici e nemici: i primi vanno beneficati (anche perché da loro ci aspettiamo altrettanto), i secondi, nella migliore delle ipotesi, vanno ignorati. Tutto ciò vale sia nella vita delle singole persone sia in quella dei gruppi o delle nazioni. Ma Gesù non si ferma. E aggiunge: "A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l'altra: a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica". E a noi viene da commentare: "è una delle tante affermazioni irrealizzabili del Vangelo!" Riteniamo infatti sia del tutto impossibile metterle in pratica: esse sono rivolte o a persone masochiste, oppure a degli angeli, i quali, appunto, non hanno guance. Tutti sperimentiamo quanto sia difficile perdonare chi ci fa qualche torto. Quanto è ancor più difficile perdonare chi si pone come nostro nemico! Un Vangelo che chiede non solo di perdonare le offese, ma che arriva sino a pretendere l'amore per i nemici, è troppo estraneo alla vita quotidiana. Certo, è senza dubbio diverso dal mondo, ma non è estraneo alla vita. Anzi, queste parole mai suonano così attuali come nel nostro tempo. Raramente una società ne ha bisogno come la nostra. Essa è stata costruita e continua a costruirsi fondandosi sulla legge ferrea della competitività: ha valore solo ciò ch'è competitivo. Ma, la competizione porta con sé, inevitabilmente, la contrapposizione ad un altro che viene sentito come concorrente, anzi come nemico. Il brano evangelico vuole sconfiggere alla radice questa logica del nemico. Una logica terribile che sottende ogni violenza e ogni guerra. Per questo le parole evangeliche sono tutt'altro che disumane. Semmai è disumana la vita che normalmente tutti facciamo, poiché basata sulla logica della contrapposizione. Sono davanti ai nostri occhi i frutti amari che nascono dal non voler porgere l'altra guancia e dal non amare i nemici. A Gesù manca una categoria fondamentale che tutti abbiamo, ossia l'idea della vittoria sugli altri a tutti i costi. Egli non vuole sconfiggere nessuno; non ritiene nessuno suo nemico e mai ha accettato la cultura della competitività. Per noi, vincere è un'ossessione. Facciamo cose folli, pur di vincere e prevalere, magari sacrificando migliaia e migliaia di vite umane, come avviene nelle guerre. La vita è uccisa sull'altare della competizione e della sopraffazione. Per Gesù non c'è nemico e quindi neppure l'idea di vincere. Vincere chi? Gesù non odia, non disprezza, non nutre sentimenti di contrapposizione tesi a schiacciare l'avversario. L'unica grande legge per lui è la misericordia: "Siate misericordiosi, com'è misericordioso il Padre vostro". Ed è profondamente saggia la norma che segue: "Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro". E' il segreto del mondo propostoci da Gesù: un mondo meno violento e meno frustrante di quello che siamo abituati a vivere. Le parole del Vangelo non sono astratte; in Gesù diventano realtà. Egli per primo ci mostra che è possibile amare i nemici. E la ragione di fondo sta nel fatto che nessun uomo per lui è nemico. Tutti portano iscritto nel cuore i tratti di Dio, fossero anche nascosti nei recessi più bui e profondi. Come non ricordare la scena dell'orto degli ulivi quando chiama Giuda "amico" proprio mentre lo tradisce? Forse questa immagine è l'icona più bella dell'amicizia, l'immagine più chiara delle parole "amate i vostri nemici". Beati noi se sappiamo almeno conservarla nel cuore.


Il Signore è buono e grande nell'amore (286)
Don Remigio Menegatti

Per comprendere la Parola di Dio alcune sottolineature
La prima lettura (1 Sam 26, 2-7.12-13.22-23) racconta un momento importante nella lotta tra Saul e Davide. Il re Saul ha motivo di temere Davide, scelto e consacrato da Dio per essere il nuovo re, e così cerca di eliminarlo. In un momento che potrebbe dimostrarsi favorevole per Davide, questi manifesta la sua misericordia e saggezza: non vuole far del male al consacrato di Dio e risparmia la vita di colui che invece ha deciso di ucciderlo, diventando di fatto suo nemico.
Il vangelo (Lc 6, 27-38) riprende alcune indicazioni che Gesù offre a chi intende essere suo discepolo: un amore superiore a quello dei peccatori che si chiudono nel loro gruppo. Il discepolo è chiamato ad amare anche i nemici, a fare del bene a quanti lo odiano e maledicono. Anche la preghiera non può rimanere nello stretto orizzonte di quanti dimostrano rispetto e amore: si tratta di invocare Dio per quanti maltrattano, percuotendo e derubano. In questo modo i discepoli si dimostrano veri figli di Dio, imitano il suo stile di bontà.


Il salmo, dopo l'invito iniziale a benedire il Signore con tutta la propria vita, motiva le richieste di Gesù e il comportamento esaltato in Davide: è lo stile di Dio che fonda il comportamento richiesto all'uomo che vuole essere fedele a lui.
Infatti se all'uomo è chiesto di perdonare è perché "egli – Dio – perdona tutte le tue colpe", perché "Buono e pietoso è il Signore, lento all'ira e grande nell'amore". Il Signore infatti "Non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe", che invece allontana da sé "Come dista l'oriente dall'occidente".
Siamo figli di Dio e il suo amore richiama e supera quello di qualsiasi genitore verso le sue creature. Infatti, ricorda il salmo: "Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono".
Il discepolo del Signore è chiamato quindi a scoprire nella sua vita questa tenerezza del Signore, e a imitarla per giungere alla vera gioia e vivere da figlio di Dio, l'Altissimo.

Un commento per ragazzi

"Tocca sempre a me!?" sento dire ogni tanto da chi – piccolo o grande che sia – cerca un'onorevole via d'uscita alla richiesta di fare la pace, oppure muovere il fatidico "primo passo" per risolvere una questione che altrimenti sembrerebbe impossibile. Di solito rispondo in modo chiaro e disarmante: "Certo, tocca a te, se ci tieni a questo legame!".
Non so se Dio risponderebbe nella medesima maniera. Ma lui, più che dirci tante cose, ci ricorda che la risposta siamo in grado di trovarcela con facilità se solo consideriamo con attenzione il suo stile. Rileggendo il salmo proposto per questa domenica scopriamo che lo stile di Dio risulta ben chiaro e non ammette tante discussioni.
Un'altra risposta alla domanda relativa alla necessità del pieno e costante perdono è contenuta nella affermazione-provocazione: "Dipende da che parte uno si mette", ovvero dal punto di coinvolgimento. Di solito se siamo noi a chiedere la pazienza e la misericordia degli altri, desideriamo che non abbiano "le braccine corte", ovvero con il cuore piccolo. Infatti una persona dal cuore grande è anche disposta a perdonare. "Misericordia" rimanda al cuore: usa misericordia chi ha il cuore grande. E quello di Dio è davvero grande perché il suo amore per noi è infinito.
Questo spiega il comportamento dimostrato da Davide in un momento cruciale della lotta che Saul gli muove. È la chiave – come una password – che motiva anche le richieste di Gesù ai suoi amici che vogliono diventare anche suoi discepoli.
Il discepolo è uno che segue, non solo perché va dietro ad un maestro, facendo la stessa strada, per ascoltare le sue belle parole; segue nel senso che mette in pratica, realizza, attua, imitando il Maestro. Il discepolo "ascolta" non soltanto perché ode il suono delle parole e ne comprende il significato, quanto invece se le traduce in scelte, le trasforma in gesti concreti, le fa fiorire con impegni a cui è fedele anche quando non risultano facili. Amare i nemici non è una propensione spontanea, un desiderio innato nel nostro cuore; forse il primo passo è quello di non farsi nemici, di non inasprire delle piccole situazioni che altrimenti diventano sempre più complicate. E poi si tratta di lasciarsi guidare da Dio, diventare discepoli del suo Figlio. Ascoltare, nel senso di imitare, quel Gesù che ha camminato sulle nostre strade, ha parlato con la gente, ha mostrato la solidità delle sue parole con gesti altrettanto forti. Ha amato con cuore d'uomo, ha sperimentato l'ostilità e il tradimento, il sospetto e l'opposizione gretta...senza mai smettere di amare, cercando invece il confronto schietto e con animo limpido, il dialogo sincero, donando fiducia e seminando il perdono. Questo stile lo ha accompagnato per tutta la vita, e anche sulla croce tra le sue ultime parole troviamo l'invocazione del perdono per quanti lo insultano dopo averlo crocifisso.

Discepoli del Signore, è questo il nostro obiettivo, e non tanto "ricevere la prima comunione" o la cresima. Sono solo tappe, importanti fin che si vuole, ma tappe sul cammino dei discepoli, un percorso sempre valido anche a distanza di duemila anni perché prima di tutto non cambia il Signore. Lui continua a presentarsi a noi come "Buono e pietoso... lento all'ira e grande nell'amore", colui che "non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe", e ha pietà di quanti lo temono come un padre ama i suoi figli. Lui non smette di essere Padre; noi desideriamo gustare la gioia di essere figli. Gesù, il Figlio più grande, il nostro fratello maggiore, ci insegna. Lo fa sia con le parole che con l'esempio. Un fratello da ascoltare e da imitare, per far parte della grande festa che Dio prepara per chi vuole sedere alla sua mensa senza escludere alcuno dei fratelli.

Un suggerimento per la preghiera

"Padre clementissimo"... ci piace invocarti così, perché abbiamo scoperto come "nel tuo unico Figlio ci riveli l'amore gratuito e universale". Ti chiediamo: "Donaci un cuore nuovo, perché" pure noi "diventiamo capaci di amare anche i nostri nemici e di benedire chi ci ha fatto del male" e crescere così nella tua amicizia. Lo chiediamo insieme al nostro Signore Gesù Cristo, il tuo Figlio e nostro grande fratello.
25/02/2007 23:52
 
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LITURGIA 25 FEBBRAIO 2007

Prima lettura


Dal libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo, e disse: “Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore tuo Dio e tu pronunzierai queste parole davanti al Signore tuo Dio: Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato. Le deporrai davanti al Signore tuo Dio e ti prostrerai davanti al Signore tuo Dio”.


Seconda lettura


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, che dice la Scrittura? “Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore”: cioè la parola della fede che noi predichiamo. Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.
Dice infatti la Scrittura: “Chiunque crede in lui non sarà deluso”. Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano. Infatti: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato”.


+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni; ma quando furono terminati ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane”. Gesù gli rispose: “Sta scritto: ‘‘Non di solo pane vivrà l’uomo’’”.
Il diavolo lo condusse in alto, e mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: “Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la dò a chi voglio. Se ti prostri dinanzi a me, tutto sarà tuo”. Gesù gli rispose: “Sta scritto: ‘‘Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai’’”.
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; sta scritto infatti: ‘‘Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano’’; e anche: ‘‘Essi ti sosterranno con le mani, perché il tuo piede non inciampi in una pietra’’”. Gesù gli rispose: “È stato detto: ‘‘Non tenterai il Signore Dio tuo’’”.
Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato.





La bussola e il cammino
Don Fulvio Bertellini

Camminare soltanto non basta. Devi anche sapere dove vai. Ma neanche sapere la direzione è sufficiente. E neppure indicarla. Certo, se ti trovi a vagare nella notte al buio e non sai la strada, chiunque sia che ti indica il cammino, basta che sia la strada giusta: non è rilevante che il tale ti accompagni o no. Ma un genitore, un prete, un educatore, un politico, un vescovo, il papa, o anche un semplice amico... è sufficiente dare le direttive giuste? Indicare il giusto cammino? O può bastare andare, senza sapere dove si va?
Fare Quaresima è ritrovare le due cose: l'orientamento, la bussola da una parte. Ma dall'altra parte anche mettersi in viaggio.

La via dell'essenzialità


La via che la Chiesa propone è quella dell'essenzialità; da anni – secoli! – ormai si insiste sui tre impegni tradizionali: preghiera, elemosina, digiuno. Ritrovare sobrietà e semplicità. Il dubbio ci sfiora che tutto questo sia inutile, forse anche banale. Vorremmo qualcosa di più stimolante, aggiornato culturalmente. O magari qualcosa di più brioso, mediaticamente più coinvolgente. Digiuno e preghiera "non vengono bene" né in fotografia, né in televisione. Ma ciò che sembra banale, troppo umile, per le nostre mentalità culturalmente evolute o televisivamente anestetizzate, ridiventa incredibilmente prezioso nel momento in cui si FA. Nel momento in cui usciamo dal cortocircuito dei nostri pensieri, e decidiamo di alzarci dalla nostra poltrona, di tiarci indietro per un momento dalla nostra frenesia, ci allontaniamo dalle nostre tavole imbandite, e ricominciamo seriamente a pregare, digiunare, fare elemosina.

Provare per credere


Io l'ho provato, qualche sera fa', preparando il pellegrinaggio della croce: mollare tutto, interrompere ciò che si può rimandare, eliminare quello che è inutile, lasciare ad altri la partita in TV, per ritrovarmi da solo a camminare sull'argine, sotto un cielo stellato, per una, due ore o anche più. Non so se questo sia raccomandabile per tutti: ognuno deve trovare l'esperienza spirituale simbolica che più lo avvicina a Dio. Può essere un tempo di preghiera in una chiesa, un tempo di preghiera in una casa, la visita costante a un ammalato, un gesto di rinuncia... ma deve essere un'esperienza reale, determinata e ricercata. E se ne apprezza il valore solo realizzandole.

Nel deserto, il digiuno

Luca ci presenta Gesù che fa i suoi quaranta giorni nel deserto, digiunando e pregando. Da sempre è questa una delle chiavi di comprensione del periodo quaresimale. Per noi è difficile da capire soprattutto il digiuno. Sembra un gesto di sapore magico, una inutile autotortura, o magari anche una prova di forza con se stessi, un voler essere bravi e accumulare meriti di fronte a Dio. Gesù lo spiega con quella sua parola: "Non di solo pane vivrà l'uomo". Un'affermazione intrigante. Da un lato si ammette: che l'uomo vive ANCHE di pane. Ma dall'altro si nega: quel pane non è il TUTTO di cui l'uomo ha bisogno. La nostra cultura ci appiattisce da una parte o dall'altra: o esalta il corpo, la fisicità, la sensazione, il piacere... il corpo diventa una macchina, il cervello un computer, la generazione si riduce a produzione di embrioni, la medicina a fabbricazione di pezzi di ricambio, a tutti i costi... oppure sopravvaluta l'intelligenza e il pensiero, come unica dimensione realmente umana: l'uomo esiste solo finché pensa, sente, può relazionarsi responsabilmente con gli altri.

Cervelli e robot

L'embrione non è vita, finché non PENSA. E quando sarà possibile sganciare il cervello dal corpo e trapiantarlo in un robot biomeccanico, probabilmente lo faremo. Ma saremo ancora uomini? A noi dunque presi dall'esaltazione del corpo e dalla sopravvalutazione dell'intelligenza, la Parola ricorda: "Non di solo pane vivrà l'uomo". L'uomo non si realizza solo nella realizzazione del piacere fisico, dei bisogni immediati, e neanche nella pura e semplice soddisfazione intellettuale. Abbiamo bisogno del pane e, INSIEME, della parola. Abbiamo bisogno (o desiderio) di gesti esterni, ma che siano nutriti di amore. Di aiuto materiale, e del conforto dell'amicizia. Non basta consegnare un oggetto per fare un regalo: deve essere accompagnato da un sorriso, da una parola... gli esempi si potrebbero moltiplicare. Abbiamo bisogno di vivere come un tutto.

Ritrovare unità

Ma continuamente la vita sembra sospingerci a frammentarci, a spezzettarci, e siamo tentati di cedere alla tentazione di vivere a blocchi separati. Il digiuno è il gesto simbolico con cui siamo invitati a ritornare in noi stessi, a riappropriarci del tutto della nostra vita, svuotandoci di tutto ciò con cui abitualmente ci ingozziamo o ci ingolfiamo: piaceri, emozioni, pensieri... ritrovare la semplicità, l'essenzialità, per essere noi stessi, per entrare in relazione con Dio, per reincontrarci con i fratelli. "Non di solo pane vivrà l'uomo": questa parola ci indica una direzione. Ma ci dà anche la forza di camminare. Ma avremo il coraggio di partire?


Flash sulla I lettura

"Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all'altare del Signore tuo Dio...": il rito della presentazione delle primizie non è visto dalla Bibbia come un rito magico e propiziatorio, ma come un riconoscimento dell'azione di Dio nella vita della comunità e del singolo. La cesta contiene i frutti della terra, il risultato del lavoro dell'uomo, che viene visto nella sua dimensione profondamente religiosa. Offrendo i frutti della terra, l'ebreo presentava a Dio tutta la sua esistenza. Noi oggi vediamo ancora questo legame tra il nostro lavoro e la nostra fede? Tra la nostra attività quotidiana e la promessa di Dio?
"Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù": il lavoro in Egitto aveva preso la forma della schiavitù. Non più realizzazione, ma oppressione. Non è forse questo - a volte - o spesso - il nostro modo di vivere il nostro lavoro?
"Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione": il problema della schiavitù del popolo sarebbe rimasto insolubile senza la presenza amorosa di Dio, che si preoccupa del suo popolo. Ma noi oggi abbiamo ancora fiducia nel Dio della salvezza, riguardo ai nostri problemi quotidiani?

Flash sulla II lettura

"Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore": citando il Deuteronomio, Paolo reinterpreta tutta la riflessione antica sulla Legge in chiave cristiana. Quella parola di cui si parla non è più la Legge di Mosè, ma "la parola della fede che noi (= Paolo) predichiamo".
"Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo": confessione significa qui "riconoscimento". Si tratta di un atto estremamente semplice e difficile. Non è la semplice "informazione": non basta che io "sappia" che Gesù è un grande uomo, un grande personaggio, e neanche che è "il Figlio di Dio fatto uomo"; in più lo accolgo, lo riconosco come il Signore, il "padrone" della mia vita, il punto di riferimento essenziale delle mie scelte, colui che misura le mie scelte. E non per un semplice "dovere", o per la pura e semplice "tradizione": la nostra vita quotidiana spazza via la fede fatta solo di costrizioni o di abitudini - ed è bene che sia così. Si tratta di maturare convinzioni: e ci vuole tempo, pazienza. Non solo belle intenzioni. Si tratta di lasciare che quella persona diventi il Signore della mia vita: il punto di riferimento delle mie scelte, del mio modo di vedere le cose, la guida che mi accompagna, colui che sorregge l'amore per le persone che amo, colui che mi ama... a questo servono i quaranta giorni della Quaresima. E probabilmente non sono neanche troppi...
26/03/2007 02:10
 
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Prima lettura


Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore,
che offrì una strada nel mare
e un sentiero in mezzo ad acque possenti,
che fece uscire carri e cavalli,
esercito ed eroi insieme;
essi giacciono morti: mai più si rialzeranno;
si spensero come un lucignolo, sono estinti:
“Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
Ecco, faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche,
sciacalli e struzzi,
perché avrò fornito acqua al deserto,
fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
Il popolo che io ho plasmato per me
celebrerà le mie lodi”.



Seconda lettura

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede.
E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo.
Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.



Vangelo


+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava.
Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo.
Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.
E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.






Padre Paul Devreux

Oggi vediamo i scribi e i farisei uniti per mettere Gesù alla prova: vedere se il suo insegnamento regge alla prova dei fatti. Pensano di metterlo in difficoltà perché se Gesù afferma che va condannata, contraddice il suo insegnamento sul perdono e si mette in urto con l'autorità dei romani; se afferma che va perdonata va contro la legge di Mosè.
L'istituto della lapidazione ebraica prevedeva che i testimoni buttassero la prima pietra, assumendosi la responsabilità della condanna. Con la sua frase: "Chi è senza peccato scagli la prima pietra, "Gesù non dice: "Come fai a giudicare l'altro tu che sei peccatore, chi ti credi di essere!" Se questo fosse il significato della sua frase, delegittimerebbe tutti i tribunali. Questi non si basano sulla purezza dei giudici, ma sulla legge.
Forse intende dire: "Chi, in coscienza, è convinto che con la lapidazione si elimina il male dalla società, e da noi stessi, cominci."
Con quale tono e stato d'animo Gesù pronuncia questa frase? Sappiamo che Gesù non divide l'umanità tra buoni e cattivi; non è complice dell'adultera, non la difende colpevolizzando gli altri. Desidera accogliere anche i scribi e farisei, non solo perché accoglie tutti, ma perché guarda con simpatia a coloro che hanno il coraggio di affrontare il problema della giustizia. Sa che lapidare non è divertente per nessuno.
Le parole di Gesù sono dette con amore. Gesù si china prima e dopo aver parlato per assumere un
atteggiamento disarmato, che permetta ai presenti di ragionare serenamente. Un atteggiamento altezzoso avrebbe alimentato quella rivalità che acceca le coscienze.
I più anziani sono i primi a partire, non perché sanno d'essere peccatori, quanto perché sanno che
queste esecuzioni capitali non danno pace, e non hanno mai cambiato nulla, tant'è vero che questa adultera non è la prima. Il primo a partire ha avuto coraggio e anche noi dobbiamo guardare a lui con simpatia.
Per capire meglio, pensiamo al diluvio universale: Dio elimina i cattivi, e poi promette di non farlo
mai più, perché vede che non serve a nulla. Il cuore dell'uomo non cambia. Affronterà il problema diversamente, mandando suo figlio. Ed è questo è il punto importante di questa storia: come affronta Gesù il problema della giustizia?
Gesù lo affronta prendendo su di se il peccato del mondo; come? Dicendo: "Signora, sono disposto a pagare io per lei. Se c'è bisogno che muoia qualcuno per ristabilire l'ordine sociale,
preferisco morire io affinché lei possa avere la possibilità di ricominciare. Ho fiducia in lei e nella mia capacita di amarla. Penso che se lei contemplerà il mio morire per lei, si sentirà talmente amata e accolta, da non sentire più il bisogno di commettere adulterio, perché diventerò io la sorgente necessaria e sufficiente per la sua vita. Ora vada, ma se trova difficoltà a tornare a casa, non si disperi, sappi che la mia comunità è sempre disposta ad accoglierla."
Signore grazie, per come, con la tua Passione, tu fai giustizia concretamente, affrontando i
problemi di base. Fa' che anche io possa contemplate la tua disponibilità a morire per me, affinché il mio cuore si sazi di te e non sia più schiavo dell'avidità che mi porta a fare del male.

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Neppure io ti condanno
Don Roberto Rossi


Abbiamo ancora nella mente e nel cuore la commovente pagina del Figliol prodigo
della liturgia di domenica scorsa: era una parabola con cui il Signore ci
esortava a credere nella infinita misericordia del Padre celeste e a lasciarci
riconciliare con Lui per vivere nella pace vera dell'anima. Oggi dalla parabola
passiamo alla realtà: Gesù dà tutto il suo perdono alla donna peccatrice, le
cambia il cuore, le dà la possibilità e la forza di ricominciare tutto da capo,
di "non peccare più".
Anche noi dobbiamo mettere in pratica ciò che abbiamo sperimentato e capito.
Abbiamo sperimentato tante volte la misericordia come il figlio prodigo,
dobbiamo imparare a vivere nell'amore di Dio, con la sua forza: "rimanete nel
mio amore". Abbiamo capito come il figlio maggiore della parabola che non ci
possiamo mai sentire a posto, che non possiamo giudicare, che dobbiamo imparare
a fare festa per ogni persona che è in cammino verso il Signore: sarà il modo
migliore per far scomparire tanta parte del male che c'è nel mondo.
Nell'episodio della peccatrice adultera abbiamo notato il tranello che i farisei
e gli scribi tendono a Gesù, ricordando la chiarezza della legge. La legge è
chiara, non ci sono dubbi. Una donna che va con un altro uomo non merita pietà.
Quello che ha fatto è grave: ha tradito la sua famiglia, suo marito, i suoi
figli. Il male che ha commesso deve essere tolto di mezzo. Per questo viene
lapidata: perché davanti al male non ci possono essere mezze misure. Gli scribi
e i farisei conoscono bene la legge e chiedono a Gesù di applicarla. Senza mezzi
termini. Del resto ci troviamo non in un luogo qualsiasi, ma sulla spianata del
tempio, in un luogo sacro. Gesù si sentirà di andare contro la "legge di Dio"
proprio mentre si trova nella sua casa? Della donna e del male che ha commesso,
a questa gente non importa nulla; per loro è solo un pretesto, per mettere Gesù
in difficoltà. Dapprima si mette a scrivere, col dito, per terra. Cosa abbia
scritto il vangelo non lo dice. Poi lancia il suo avvertimento: "Chi di voi è
senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei, per ucciderla". Almeno
ora diventano onesti e sono coerenti: uno alla volta se ne vanno tutti,
cominciando dai più anziani. Ora resta solo la donna e Gesù; dice S. Agostino:
la "misera" e la "misericordia". Ma Gesù non vuole affatto condannare, non è
venuto per questo. E' venuto a portare misericordia, a guarire i malati, per
questo lascia libera la donna. "Nessuno ti ha condannata?" "Neppure io ti
condanno!". Ma deve togliere il male, lottare contro il male. Per questo le
dice: "Và e non peccare più". Sono le parole più belle e più grandi del cuore di
Dio a chi sente tutta la sofferenza dei propri peccati. Gesù dice a ciascuno: Io
non ti condanno. Gesù non è venuto a condannare il mondo, ma a salvarlo; non è
venuto per i giusti, ma per i peccatori...
Vogliamo imparare tutto l'insegnamento di Gesù mettendoci al posto della
peccatrice.
Non dobbiamo avere paura di incontrare Gesù quando abbiamo sbagliato, quando
siamo nel peccato, nella debolezza, nella tentazione. "Ci ama sempre...
E' proprio l'unica cosa necessaria che ci possa capitare e che noi dobbiamo
cercare: l'incontro con Gesù che prende le nostre difese, ci capisce, ci perdona
e ci salva. La fiducia nella misericordia del Signore deve diventare la luce e
la forza di ogni giorno della nostra vita. Sentiamo anche tutta la profondità
dell'invito di Gesù: Và e non peccare più. Su Certi peccati ce la dobbiamo fare
e ce la faremo a essere decisi, a tagliare ciò che va tagliato. "Ciò che è male
in te, taglialo". Dobbiamo chiedere tutta la forza del Signore e crederci. Su
altri peccati può darsi che facciamo ancora fatica e che ci capiti di sbagliare
ancora: anche qui vogliamo chiedere tanta forza al Signore, per tornare sempre a
lui, implorare il suo perdono, ricominciare ogni volta con buona volontà: ma
siamo certi, con il Signore vinceremo e Lui ci salverà.
Vogliamo imparare tutto l'insegnamento di Gesù, mettendoci al posto dei farisei
e degli scribi.
Gesù ci aiuta a esaminare la nostra coscienza, a essere onesti e sinceri, a
riconoscere che anche noi tante volte facciamo i peccati che denunciamo negli
altri e che anzi possiamo essere certe volte noi stessi causa di quei peccati.
Si tratta di depositare i sassi. Facciamo degli esempi: la violenza. Noi
puntiamo il dito contro la violenza, ma molte volte noi stessi forse coltiviamo
le cause della violenza, il disagio sociale, l'ingiustizia, la cattiva
educazione.
L'immoralità: Noi puntiamo il dito contro l'immoralità nei giovani, nelle
famiglie, nelle relazioni sociali. Ma forse siamo in parte noi stessi causa di
tutto questo, quando si permette una cultura che banalizza e strumentalizza la
sessualità, che scardina la fedeltà, la famiglia, l'impegno e il sacrificio.
La politica: si punta il dito contro tanti errori e inadempienze o contro un
modo di fare politica che afferma il bene della gente solo a parole ma in fondo
non è altro che un cercare interessi personali e di parte. Ma ciascuno di noi
deve esaminarsi se ha capito e se coltiva nel cuore quello che Gesù ha detto:
Chi vuol essere il primo si faccia servo di tutti, Io non sono venuto per essere
servito, ma per servire e dare la vita.
La religiosità. Puntiamo il dito sulla scarsa religiosità e la scarsa frequenza
alla chiesa. O ci scandalizziamo di fronte a tante forme di magia e di
satanismo. Ma come presentiamo la religione, come coltiviamo le educazione
religiosa nelle famiglie, come siamo accanto ai ragazzi e ai giovani nella loro
crescita, come viviamo la fede noi adulti?
Immigrazione: Spesso diciamo contro gli stranieri e condanniamo certi fenomeni
negativi del loro comportamento. Ma in fondo se possiamo sfruttarli lo facciamo
volentieri: affitti, lavori...
Di questi esempi ciascuno ne può trovare tanti altri. Si tratta di deporre
davanti a Cristo questi sassi che vorremmo scagliare, si tratta di esaminare e
convertire il nostro cuore per non essere più gente che giudica, ma gente che
prende coscienza dei propri peccati e responsabilità e prende su di sé
sull'esempio di Cristo i peccati dell'umanità, per vincerli e portare la
salvezza, la grazia, la vita vera...
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