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NON SCORDIAMO KAROL WOJTYLA!

Last Update: 9/9/2009 1:02 AM
4/26/2009 1:40 AM
 
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Da Petrus

'Santo Subito' - Monsignor Amato rassicura: “Procede sollecitamente la causa di beatificazione di Giovanni Paolo II”



CITTA’ DEL VATICANO - La causa di beatificazione di Giovanni Paolo II procede "abbastanza sollecitamente": lo precisa Monsignor Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Il Papa, ricorda il presule in un'intervista all'Osservatore Romano, "può concedere la deroga all'attesa dei cinque anni dalla morte del candidato per avviare il processo, come ha fatto Benedetto XVI nei confronti di quella di Giovanni Paolo II. Di fatto ha messo la sua procedura su una corsia preferenziale, sgombra. In questa corsia però bisogna seguire varie tappe dell'iter. Credo comunque che si arriverà a conclusione abbastanza sollecitamente". Ci sono allo studio anche dei "presunti miracoli" attribuiti a Wojtyla, "ma prima si deve concludere l'iter per la dichiarazione dell'eroicità delle virtù". La fama di santità, afferma in termini generali Monsignor Amato, "è importante". Spesso, spiega, "ci sono cause che non vanno avanti perché manca il miracolo. Per questo, vorrei invitare a pregare e a invocare i candidati morti in concetto di santità, affinché intercedano a nostro favore. Questa nostra richiesta è molto importante". Monsignor Amato ribadisce anche che "a ottobre avremo a Milano la beatificazione di don Gnocchi", cappellano militare degli alpini nella prima guerra mondiale che si dedicò, poi, alla cura dei bambini.




4/28/2009 5:14 PM
 
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“L'uomo raggiunge la sua bellezza quando si identifica con Dio”
Il Cardinale Rouco a dieci anni dalla Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti



MADRID, martedì, 28 aprile 2009 (ZENIT.org).- L'Arcivescovo di Madrid, il Cardinale Antonio María Rouco Varela, ha presieduto questa domenica una Messa nella Basilica di San Miguel della capitale spagnola in occasione del decimo anniversario della Lettera di Giovanni Paolo II agli artisti.

Nell'omelia, ha segnalato che “l'uomo raggiunge la sua bellezza quando si identifica con Dio”, per cui “quando si vince il peccato con la vita si sta aprendo la strada della bellezza nel mondo”.

L'uomo che conosce Cristo, “il più bello degli uomini, arriva a conoscere la splendida espressione della gloria di Dio e la fa propria”, ha aggiunto.

Secondo il Cardinale, “l'uomo è nato per la bellezza” e “la missione della Chiesa è far sì che gli uomini vivano la propria vita in modo da raggiungere e sperimentare la bellezza gloriosa del Figlio di Dio fatto uomo, morto e risorto per noi”.

In questo senso, ha osservato che “ogni uomo ha la vocazione ad essere artista e a vivere della bellezza di Dio”, e ha definito la persona umana come quella “che ha conosciuto la bellezza di Dio e vuole lasciarsene avvolgere”.

Il cristiano, ha proseguito il porporato, è colui che “vuole vivere questa esperienza al massimo delle sue potenzialità e arrivare a Dio nel modo più vicino, che è quello di Cristo”. “La bellezza di Dio si trasmette attraverso la meraviglia dei sacramenti della Chiesa”.

Il Cardinale Rouco ha infine sottolineato che la Lettera agli artisti scopre “tutta la ricchezza e la bellezza del dono che abbiamo ricevuto essendo cristiani e tutta la possibilità di fare il bene che abbiamo”.

Al termine dell'Eucaristia ha avuto luogo un atto in cui personalità di spicco di varie espressioni artistiche hanno letto il testo della Lettera agli artisti.

Il documento, pubblicato nel 1999, spiega che le opere d'arte riflettono lo splendore dello spirito ed esorta gli artisti a porre il proprio talento a servizio di tutta l'umanità.

Tra le altre cose, propone un dialogo tra l'esperienza religiosa e quella artistica, e invita a riflettere sull'intimo e fecondo dialogo tra la Sacra Scrittura e le varie forme artistiche, dal quale sono scaturiti innumerevoli capolavori.




5/21/2009 4:50 PM
 
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Papa Wojtyla verso la beatificazione
Visita agli uffici della Postulazione

di Renzo Allegri


ROMA, giovedì, 21 maggio 2009 (ZENIT.org).- Il processo di beatificazione di Giovanni Paolo II è alla stretta finale? Proprio in questi giorni a Roma, presso la Congregazione per le cause dei santi si è riunita una commissione, composta da otto teologi più il promotore della fede, monsignor Sandro Corradini, per valutare vita, opere e scritti di Karol Wojtyla e dare il via libera alla procedura ultima.

In pratica, la commissione deve esaminare il lavoro compiuto nell’ambito della prima fase del processo di beatificazione, quella che è chiamata “processo diocesano”, e soprattutto esaminare le prove di santità raccolte e ordinate dal postulatore, cioè dall’ “avvocato difensore” della causa, monsignor Slawomir Oder, in un documento di 1500 pagine. Se la commissione approverà il lavoro del tribunale diocesano e quello dell’avvocato difensore, il giorno fatico della beatificazione di Giovanni Paolo II dovrebbe essere molto vicino.

Quanto vicino? Tutti se lo chiedono. Ma è impossibile stabilirlo.

Viene in mente la frase “santo, santo subito” gridata dalla folla durante le esequie di Papa Wojtyla, la mattina dell’8 aprile 2005, e poi diventata uno slogan. Celebrava il rito il cardinale Ratzinger e con lui concelebravano 157 cardinali. Erano presenti 700 vescovi e 3000 tra prelati e sacerdoti. Da ogni parte del mondo erano giunti i potenti della terra: 169 delegazioni straniere con 10 monarchi, 59 capi di Stato, 3 principi ereditari, 17 capi di governo, primi ministri, presidenti di parlamenti, ministri.

E una folla di fedeli calcolata intorno a due milioni, mentre le telecamere di 137 catene televisive di 81 Paesi trasmettevano la cerimonia in diretta, in mondovisione, raggiungendo un numero di spettatori calcolato sui tre miliardi.

C’era la Chiesa e il mondo intero intorno a quella bara povera, posta sulla nuda terra della piazza. E quel grido “Santo, santo subito”, ripetuto durante l’omelia del cardinale Joseph Ratzinger pareva una ripetizione corale e quasi dolorosa, rivolta alla Chiesa.

Ratzinger, che in quel momento, come cardinale decano, rappresentava la Chiesa, volle rispondere e lo fece con delle frasi incredibili che, pronunciate in quel momento, davanti alla più grande assemblea ecclesiale che si potesse immaginare e al mondo intero avevano il significato di una proclamazione, di una beatificazione immediata.

Con voce sicura, commossa e ispirata, disse: “Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice”. Il 28 aprile, poi, cioè sole tre settimane dopo quelle esequie, quando Ratzinger era diventato Papa da nove giorni, volle dare il via libera per l’inizio della causa di beatificazione di Papa Wojtyla, concedendo la deroga alla norma canonica che stabilisce che le cause di beatificazione non possano iniziare prima che siano passati cinque anni dalla morte del candidato.

Sembrava quindi che l’invocazione “santo, santo subito” potesse trovare una immeditata risposta. Sono trascorsi quattro anni. Se il processo si concludesse a breve, quel grido avrebbe ancora un significato. Ma, in Vaticano non tutti sono ottimisti.

"Restano ancora delle ombre, molte ombre", affermano i pessimisti. Ritengono impossibile che, a così breve distanza dalla morte, si sia potuto esaminare con equilibrio e completezza l’esistenza di un Pontefice che ha regnato per quasi 27 anni e ha intrattenuto rapporti con i potenti di ogni parte del mondo.

Inoltre, affermano che non si possa procedere in questo processo senza prima esaminare tutti gli scritti di Wojtyla. Giovanni Paolo II, nel testamento aveva chiesto che tutte le sue carte private fossero bruciate, ma il suo segretario Stanislao Dziwisz le ha conservate e l’immenso archivio è stato trasferito da Roma all’arcivescovado di Cracovia dove però non è ancora stato inventariato e non è stato possibile quindi esaminare il contenuto di quelle carte.

Ci sono poi i documenti dei servizi segreti russi e polacchi. Gli 007 di quei Paesi spiarono in continuazione la vita di Wojtyla, ed erano riusciti anche a infiltrare quattro superspie del KGB nello stretto entourage del Papa in Vaticano. Che cosa contengono quei documenti segreti?

I dubbi dei pessimisti si scontrano con i sostenitori della tesi “santo, santo subito”. I quali temono che, a voler esaminare tutto, ci si immetta in un labirinto da cui non si sa quando si potrà uscire.

Come è accaduto per la causa di beatificazione di Pio XII e, in un certo senso, anche per quella di Giovanni XXIII. I Papi moderni, che hanno una attività diplomatica intensissima, con contatti con tutte le nazioni, credenti e non credenti, possono diventare bersaglio di campagne diffamatorie, basate su calunnie e su falsi documenti, che, grazie al frenetico tam tam mediatico tipico della nsotra civiltà, diventano baluardi insuperabili.

Chi avrà ragione nell’immediato per quanto riguarda la causa di beatificazione di Giovanni Paolo II? Gli ottimisti o i pessimisti?

In attesa che il dilemma si chiarisca, abbiamo visitato gli Uffici della Postulazione, il luogo cioè dove lavora l’avvocato difensore, monsignor Oder, colui che nel processo di beatificazione ha avuto l’incarico di produrre le “prove” della santità di Giovanni Paolo II.

Ci ha guidato la dottoressa Aleksandra Zapotoczny che in questi quattro anni ha fatto parte del gruppo dei collaboratori più stretti di monsignor Oder. "Queste sono le stanze dove arriva tutto quello che riguarda Papa Wojtyla", dice Aleksandra Zapotoczny. "In particolare lettere con le speranze, le angosce, le ansie e gli affetti del mondo che ama Giovanni Paolo II".

Siamo al quarto piano del Palazzo arcivescovile del Vicariato di Roma. Gli Uffici del Postulatore sono francescanamente semplici. Poche stanze e nessun lusso.

Aleksandra Zapotoczny è una giovane giornalista polacca nata a Wadowice, la cittadina di Karol Wojtyla. Lavora con il postulatore della Causa fin dall’inizio ed è quindi molto informata sull’argomento.

E’ responsabile del periodico “Totus tuus”, la rivista ufficiale della causa di beatificazione di Papa Wojtyla, ed ha pubblicato tre libri di testimonianze sulla sua santità. "Ho imparato ad amare Giovanni Paolo II fin da bambina", dice. "Mia madre, medico, raccomandava sempre i suoi malati a Papa Wojtyla, e quando lui era in vita, li portava qui a Roma perché li benedisse. Mia nonna, fu compagna di scuola al liceo di Karol; la mia bisnonna si inginocchiava quando lo vedeva in televisione. Non avrei mai potuto pensare che un giorno la mia vita sarebbe stata così legata a Giovanni Paolo II".

Di quante persone è composta l’équipe dei collaboratori del Postulatore?

Aleksandra Zapotoczny: Il gruppo che lavora qui con monsignor Oder, cioè i suoi stretti collaboratori, è esiguo. Praticamente siamo in quattro: la dottoressa Michèle Smits, belga, che è la segretaria di monsignor Oder; ci sono io, polacca, che faccio da assistente al postulatore per le cose polacche, da intermediaria con i giornalisti e curo la rivista “Tutus tuus”. Poi ci sono due italiani, don Giuseppe Mangia che risponde alle lettere dei lettori e provvede a soddisfare le loro richieste, e Stefano Chiodo che è responsabile del sito Internet.

Che genere di lavoro è il vostro?

Aleksandra Zapotoczny: Aiutiamo il postulatore a tenere i contatti con la grande famiglia degli ammiratori e dei devoti di Giovanni Paolo II. Famiglia immensa, sparsa su tutta la terra. Monsignor Oder, come postulatore, lavora con la commissione incaricata di raccogliere e valutare tutto quello che riguarda Giovanni Paolo II. Noi invece teniamo i contatti con il pubblico, con i giornali, con la gente.

Monsignor Oder è un lavoratore infaticabile. Ha organizzato tutto con criteri innovativi. Questo genere di processi erano operazioni macchinose che procedevano su binari vecchi e lenti. Un procedere imbrigliato da antiche consuetudini e lentezze burocratiche. Monsignor Oder, fin dall’inizio del suo mandato ha deciso di utilizzare tutti i mezzi moderni e i canali della comunicazione.

In particolare quelli legati a Internet, la rete globale. Quindi, ha voluto che ci fosse un Sito, in cui dare le informazioni sul processo in tempo reale: e la posta elettronica, attraverso la quale la gente, in qualunque parte del mondo, poteva inviare notizie e informazioni. Questo sistema ha aiutato molto il lavoro, rendendolo dinamico. Ed ha anche trasformato il processo di una beatificazione, che in genere, nel suo svolgersi, era un fatto un po’ misterioso per la gente, in una vicenda pubblica, interessante, seguita, come era giusto fosse per un personaggio tanto amato dalle folle come Giovanni Paolo II. E per rendere partecipi anche coloro che non usano il computer, ha inventato una rivista sulla quale si pubblica quello che si trova sul sito.

Che cosa arriva in questo vostro ufficio?

Aleksandra Zapotoczny: Di tutto. Lettere, e-mail, testimonianze, regali fatti a Papa Wojtyla, invocazioni disperate di aiuto, richiesta di preghiere, una valanga di materiale. Le lettere, le e-mail vengono lette, catalogate e conservate. Se necessario, si risponde...Quelle più significative le abbiamo pubblicate sul sito e sulla rivista.

Tutti e due, rivista e sito, hanno lo stesso titolo: “Totus Tuus”, che richiama la frase di Papa Wojtyla, nei confronti della sua grandissima devozione alla Madonna: “Tutus tuus ego sum”. All’inizio, la rivista era di 4 pagine. Poi, grazie anche all’incoraggiamento del cardinale Ruini e alla richiesta dei lettori, la rivista è cresciuta, oggi ha 32 pagine e viene pubblicata in sei lingue: polacco, italiano, spagnolo, inglese, francese e portoghese. Io sono responsabile della edizione in polacco, mentre c’è un capo redattore, Angelo Zema, per le altre lingue.

Cosa scrive la gente?

Aleksandra Zapotoczny: Confida il suo amore, la sua devozione per Giovanni Paolo II. Molte lettere contengono richieste di aiuto. Le persone si rivolgono a Giovanni Paolo II come se fosse vivo. Lo chiamano per nome, “Caro Papa”, “Caro Karol”, “Caro Giovanni Paolo”, e anche “Caro papà”.

Raccontano le loro pene, le sofferenze, fisiche e morali. A volte le loro tragedie. Certe lettere sono macchiate e si capisce che la persona scrivendo piangeva. Ma ci sono anche tante lettere di ringraziamento. Persone che raccontano di aver pregato il Papa e di aver ottenuto grazie importanti, guarigioni strepitose, miracoli. Nel primo anno dopo la morte del Papa, le lettere erano prevalentemente dominate dal dolore per la perdita di Giovanni Paolo, persona amatissima. Nel secondo anno invece dominavano le richieste di aiuto. Nelle lettere del terzo anno dopo la morte, prevalgono i ringraziamenti per grazie ricevute e i racconti di conversioni, di guarigioni prodigiose.

Da dove provengono le lettere?

Aleksandra Zapotoczny: Soprattutto dalla Polonia e dell’Italia, ma in pratica da tutto il mondo. Anche dal Giappone, dalla Cina. Scrivono cattolici, ma anche islamici, ebrei, buddisti, protestanti, e perfino atei, che si dichiarano tali, ma che in realtà dimostrano con il loro scritto di amare profondamente Papa Wojtyla.

C’è qualche lettera che ricorda in maniera particolare?

Aleksandra Zapotoczny: Le ricordo tutte perché ognuna è come un brandello vivo di sofferenza e di amore. Mi commuovono soprattutto le lettere delle giovani spose che desiderano avere un figlio e non arriva.

Sembra che Giovanni Paolo II, dal cielo, sia molto sensibile a questi problemi. Monsignor Oder dice che, quando sarà fatto santo, Papa Wojtyla potrebbe diventare il protettore delle mamme che non riescono ad avere figli. Sono moltissime infatti le lettere di spose che ringraziano Giovanni Paolo II perché hanno avuto la grazia di un figlio dopo cinque e anche dieci anni di attesa. Qualcuna di queste mamme a volte viene a Roma a pregare sulla tomba del Papa e poi vengono qui, nei nostri Uffici, con il bambino in braccio a farcelo vedere.

Ci sono lettere che raccontano di qualche guarigione veramente prodigiosa?

Aleksandra Zapotoczny: Molte. Le lettere sono servite proprio per conoscere le guarigioni che sono poi state studiate e utilizzate come “prove” di santità. A volte le guarigioni risultavano così strepitose che la gente, pensando che noi non si potesse credere a quanto raccontava, ci inviava anche le cartelle cliniche.

Mi ha molto colpito il racconto di una donna di 50 anni. Ammalata di tumore, con metastasi diffuse, fu dimessa dall’ospedale perché potesse morire in famiglia. Lei, cosciente del suo stato, si preparava alla morte pregando Papa Wojtyla. Ma chiedeva anche aiuto, aggiungendo sempre però la frase; “Sia fatta la volontà di Dio”. Era andata perfino a comperare il vestito che voleva indossare da morta. Ma ad un certo momento cominciò a sentirsi meglio. Alla visita di controllo, i medici rimasero stupefatti. Del tumore e delle metastasi non c’era più traccia. La signora sta bene e ogni tanto ci manda i saluti.

Un altro caso strepitoso è accaduto in Polonia. Un ragazzo, Davide, fu colpito da un tumore ai reni. Inoperabile. Nella lettera, la mamma racconta che furono tentate tutte le cure possibili, ricovero in ospedali vari, chemioterapia e anche una nuova cura sperimentale americana. Niente. Il male progrediva rapidamente. Si formarono metastasi ai polmoni e il giovane non riusciva più a respirare. Sarebbe morto soffocato. Allora i genitori pensarono di portare Davide a Roma per pregare sulla tomba di Papa Wojtyla, ma Davide si oppose, disse che lui non credeva.

I genitori insistettero e riuscirono a convincerlo. Davide non si reggeva in piedi e fu portato sulla tomba del Papa in barella. I suoi genitori pregavano e piangevano, Lui guardava in silenzio. Ad un certo momento accadde qualche cosa di stupefacente. Davide si sentì improvvisamente bene.

“Usciti dalla Basilica”, scrive la mamma del giovane nella sua lunga lettera “Davide ha cominciato a correre tenendosi con le mani i pantaloni che erano diventati larghi a causa del suo spaventoso dimagrimento e gli cadevano”. Il giovane era guarito e sta sempre bene. E’ un episodio sconvolgente, ma nelle lettere ce ne sono tanti altri di simili.

Mi commuovono le lettere dei bambini. Mandano disegni dove tratteggiano il Papa con le ali o con l’aureola dei santi. A volte sulla busta scrivono come indirizzo. “Papa Giovanni Paolo II” e indicano come città “Cielo”. Oppure “Paradiso”. Nient’altro. E la cosa stupenda è che le lettere arrivano qui da noi. Questo significa che molte altre persone, impiegati delle poste, portalettere delle varie nazioni e città, si danno da fare perché quelle lettere raggiungono il Vaticano dimostrando in questo modo che anche loro amano Papa Wojtyla.

Struggenti le lettere di carcerati e sono diverse. Non chiedono di poter tornare liberi, ma piangono sulle loro colpe e chiedono perdono. Ricordo un giovane di 33 anni. Scrisse chiedendo una foto del Papa. Gliela inviammo. Dopo qualche settimana mandò una lettera di 14 pagine nella quale raccontava la sua vita sbagliata e la conversione che era arrivata attraverso il ricordo di Giovanni Paolo II. Voleva collaborare in qualche modo al processo di Beatificazione. Scrisse che non aveva soldi per fare un’offerta.

L’unico oggetto prezioso era una collanina d’oro ricordo della sua mamma e mise nella lettera quella collanina d’oro. Non potevano tenerla. Andai nelle grotte Vaticane e la posi sulla tomba del Papa pregando. Poi la rispedii a quel carcerato che rispose una lettera che faceva piange.

Lei ha raccolto queste lettere anche in alcuni libri.

Aleksandra Zapotoczny: Sono testimonianze stupende di fede, di amore. Sono certa che a conoscerle fa bene. In accordo con monsignor Oder, abbiamo perciò deciso di raccoglierle in un libro che abbiamo pubblicato un anno fa, con il titolo di “Miracoli”. Lo abbiamo pubblicato in Polonia ed è stato un successo strepitoso, centomila copie in pochi mesi. Per questo abbiamo poi pubblicato un secondo libro, “Nuovi miracoli” e un libro con i disegni e le lettere dei bambini che ho curato con il vaticanista Franco Bucarelli. Ora questi volumi saranno tradotti in varie lingue.

Il successo era inevitabile. Questi libri contengono storie che non sono frutto di invenzione, della fantasia di uno scrittore, sono storie vere, resoconti semplici di vicende a volte strepitose, come le guarigioni, veramente accadute e raccontate da chi le ha vissute. Ma il successo è dovuto soprattutto perché il protagonista di questi libri è Giovanni Paolo II. E’ morto da quattro anni, ma la sua popolarità continua ad essere grande, grandissima. Qui nei nostri uffici ne abbiamo la prova. Con il passare del tempo, le lettere, le e-mail, invece di diminuire, aumentano. E arrivano da ogni parte, perché il mondo intero continua a parlare di lui.

5/22/2009 5:46 PM
 
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Rettifica all'articolo “Papa Wojtyla verso la beatificazione”



ROMA, venerdì, 22 maggio 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito una dichiarazione del dott. Angelo Zema, direttore responsabile del settimanale diocesano "Roma sette" e del periodico “Totus Tuus”.

* * *

In merito all’articolo-intervista “Papa Wojtyla verso la beatificazione” apparso su ZENIT il 21 maggio u.s., in qualità di direttore responsabile del periodico “Totus Tuus”, segnalo alla Vs. attenzione che l’intervista ad Aleksandra Zapotoczny non è mai stata autorizzata. La Zapotoczny, che collabora con la rivista e cura soltanto l’edizione polacca, smentisce di aver rilasciato un’intervista in tal senso.

Quanto ai contenuti diffusi nel testo dell’articolo, ci preme precisare che:

- non è vero che monsignor Oder avrebbe “inventato una rivista sulla quale si pubblica quello che si trova sul sito”, com’è stato scritto, ma il sito riprende semplicemente alcuni, e solo alcuni contenuti, della rivista;

- non è vero che il sito ha il titolo “Totus Tuus”, com’è stato scritto, ma ha l’indirizzo web www.vicariatusurbis.org/Beatificazione;

- non è vero che “la rivista all’inizio era di 4 pagine”. Dal 2006 era di 26 pagine, fino al passaggio a 28 pagine dal 2007 e a 32 nel 2009;

- la rivista è pubblicata in cinque lingue (il portoghese non c’è più);

- Aleksandra Zapotoczny, come detto, non è responsabile del periodico “Totus Tuus”, ma collaboratrice dell’edizione italiana e curatrice dell’edizione polacca;

- l’équipe dei collaboratori del postulatore, per quanto riguarda la rivista “Totus Tuus”, comprende anche Domitia Caramazza e Riccardo Bencetti.

Corrisponde invece al vero, anche se non possono essere considerate come risposte di un’intervista mai autorizzata, il contenuto del racconto delle testimonianze dei devoti e fedeli su Giovanni Paolo II che arrivano alla postulazione.



Grazie per la collaborazione e comprensione. Cordiali saluti.

6/2/2009 4:13 PM
 
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KAROL E WANDA: LE LETTERE FRENANO LA BEATIFICAZIONE...
Giacomo Galeazzi per "La Stampa"

Karol Wojtyla la chiamava «Dusia», «sorellina», e la loro corrispondenza durata 55 anni è così fitta da «riempire una valigia». Una montagna di carte, in parte consegnate alle autorità ecclesiastiche per la beatificazione di Giovanni Paolo II, in parte pubblicate in Polonia in un contrastato libro (che verrà tradotto in italiano a febbraio), ma in massima parte custodite nell'appartamento di Wanda Poltawska affacciato sul Mercato di Cracovia, la più grande piazza medievale d'Europa.
Lettere personalissime, arrivate con inflessibile regolarità: per posta o attraverso amici comuni di passaggio a Roma, che ora rischiano di rallentare la macchina burocratica della beatificazione per la prassi vaticana di acquisire tutte le prove documentali prima di proclamare nella Chiesa un nuovo «esempio di santità».
«Noi lavoriamo per la storia e tutta la documentazione su un candidato alla santità ci riguarda», afferma il cardinale Josè Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione delle Cause dei Santi. Materiale «sensibilissimo» per la Santa Sede, di cui solo Wanda conosce la totalità dei contenuti.
Prima di elevare Wojtyla agli onori degli altari, la Santa Sede vuole la certezza che nessuna prova contrastante possa emergere ad avvenuta proclamazione inficiando un accertamento che Benedetto XVI vuole «rigoroso e rispettoso delle regole» dopo aver già derogato ai canonici cinque anni dalla morte per avviare il processo.
Per comprendere l'avvolgente e per taluni imbarazzante tono di confidenza dello sterminato epistolario, spiega il padre mariano Adam Boniecki (dal 1964 stretto collaboratore di Karol Wojtyla a Cracovia e a Roma), occorre conoscere il suo «libero e per nulla clericale cammino di formazione, il seminario frequentato in clandestinità, la compagnia teatrale in piena occupazione nazista, il lavoro di operaio».
Sempre, «in mezzo a laici, ragazzi e ragazze, come l'attrice ebrea che lo chiamava "Lolek" e alla quale si era molto legato, con la costante attitudine a conciliare spiritualità e vita pratica, senza una quotidianità in seminario che ne comprimesse l'affettività e la maturazione sentimentale».
Nella sua casa vicino alla chiesa dei domenicani, il cardinale Marian Jaworski, amico di entrambi dal 1951, conferma «il sostegno che si sono sempre dati reciprocamente» ed evidenzia come «Karol Wojtyla si sia sempre rapportato spontaneamente e alla stessa maniera con laici e consacrati, sia da semplice sacerdote sia da vescovo e poi Papa».
Come in vita creava imbarazzi e malumori in Curia quella strettissima amica del Papa che, racconta Boniecki, talvolta stupiva per l'anticonformismo e l'informale familiarità con il Pontefice, come quando le capitava di partecipare in pantofole alle messe mattutine nella cappella privata dell'appartamento papale alla terza loggia del Palazzo Apostolico, si lasciava scorgere dalle finestre del Gemelli durante la convalescenza post-attentato e trascorreva le vacanze estive a Castel Gandolfo, adesso in morte del «servo di Dio» Karol Wojtyla la sterminata mole di lettere dai toni affettuosi tra un Papa e una laica costituisce motivo di obiezione, difficoltà, rallentamento all'iter svolto dagli otto periti teologi chiamati ad esaminare in Curia la «positio», cioè le testimonianze e gli atti processuali.
Lo stesso cardinale Stanislaw Dziwisz, l'ombra di Karol per quattro decenni, era preoccupato dal grado di esposizione pubblica dell'antico sodalizio tra il futuro beato e Wanda Poltawska. Karol Wojtyla, che divenne Papa restando uomo, sconvolge ancora gli schemi ecclesiastici.



RAGIONAVAMO INSIEME SULL'AMORE"...
Giacomo Galeazzi per "La Stampa"

Per Wanda Poltawska sarà sempre il «geniale» studente di teologia conosciuto dopo la guerra all'Università Jagellonica e ritrovato assistente dei futuri medici nella parrocchia di San Floriano. L'amica del cuore di Giovanni Paolo II, psichiatra infantile premiata in tutto il mondo per i suoi studi (a partire da quelli sui bimbi polacchi scampati ai campi di concentramento che giocavano a fucilare gli ebrei), conosce le «resistenze» e le incomprensioni suscitate dallo sterminato epistolario custodito in casa sua e accetta di raccontare un «sodalizio spirituale» durato oltre mezzo secolo «per rendere un servizio alla verità e perché la storia di un santo appartiene alla gente».
Negli occhi intensi e nella postura salda c'è ancora il riflesso della ragazza con i capelli raccolti fotografata in una giornata di sole accanto al biondo Karol in talare nera e occhiali scuri. Era orfano e il fratello medico era morto per la scarlattina contratta dai pazienti che cercava di salvare.
«E' appena rientrata mia figlia dagli Stati Uniti e ho la casa piena di gente», quasi si giustifica con schietta cortesia mentre esce dal portone di via Bracka per raggiungere il Tribeca Coffee messo al riparo dal tendone del Festival cinematografico in corso a Cracovia. Non ama parlare con i giornalisti e ha cercato di tenersi sempre «il più lontano possibile» dai mass media. «Qui di fronte ho conosciuto Karol Wojtyla in un confessionale», accenna passando davanti alla chiesetta di San Wojciech. Una vita accanto a Karol, così intimo da siglare le lettere «fr», ossia «fratello».

LE CARTE DA BRUCIARE
Al segretario Stanislao Dziwisz, oggi popolarissimo cardinale di Cracovia (che avrebbe preferito una maggiore discrezione sull'epistolario privato) ha chiesto nel testamento di bruciare tutte le carte accumulate in quasi tre decenni di pontificato. A Wanda il suo antico direttore spirituale ha lasciato la memoria cartacea di un legame indissolubile.
In fluente italiano, davanti ad una cioccolata calda sotto un cielo carico di pioggia, Wanda Poltawska, 88 anni di lucida forza interiore, dipana il filo dei ricordi in un vibrante ritratto intimo della granitica amicizia con Karol da quando, partigiana cattolica arrestata dalla Gestapo e reduce dal campo di concentramento di Ravensbrück (dove fu sottoposta a macabri esperimenti medici) fugge dalla sua Lublino per studiare psichiatria in una facoltà che ha come cappellano un sacerdote filosofo di un anno più grande.
«Ci siamo conosciuti nel 1950, ero tormentata, devastata. Noi cavie eravamo chiamati "coniglietti". Nel lager ho capito che l'uomo non è automaticamente immagine di Dio, anzi deve lavorare per essere tale. Volevo studiare la mente per capire come l'umanità può creare un simile orrore, lui divenne il mio confessore e mi aiutò ad uscire dall'atroce dolore del lager, grazie a lui smisi di sentirmi colpevole di essere ancora vita di fronte alle madri che avevano perso i figli - racconta -.
Gli incubi del lager mi impedivano di dormire. Lui mi insegnò a rispondere alle domande che mi tormentavano dentro. Abbiamo condiviso interessi, momenti importanti, spiritualità e quell'amore per la natura che vivevamo nei campeggi di montagna della Polonia meridionale fino alle villeggiature nella gabbia dorata di Castel Gandolfo dopo l'elezione al soglio di Pietro. A Cracovia abbiamo lavorato insieme per salvare bambini dal regime comunista che favoriva l'aborto».

«IRRADIAVA LUCE»
Nel lager, assieme ad altre settanta giovani polacche, su ordine diretto di Himmler, venne usata come cavia per gli esperimenti del dottor Karl Gebhardt, poi processato e impiccato a Norimberga. La descrizione del primo incontro ricorda quella di un colpo di fulmine.
«Dal primo istante che l'ho visto sapevo che sarebbe diventato santo - spiega -. La sua santità era evidente, irradiava luce interiore, era impossibile da nascondere. Ho una valigia piena di sue lettere, non posso dire quante ne ho date alla causa di beatificazione, io non ne ho distrutta nessuna, ho selezionato alcune e le ho pubblicate in Polonia anche se c'era chi non era d'accordo. Ho riportato pure le sottolineature di suo pugno con cui metteva in evidenza le cose più importanti. Già cinquant'anni fa mia madre era sicura che sarebbe diventato Papa».
La questione di quanto dell'immenso epistolario resta fuori dal processo di canonizzazione è «sensibile», si schermisce. «Non si può dire quanto ho dato al postulatore Slawomir Oder, ho giurato di non parlare di questo, non posso dire quanta parte del carteggio ho consegnato», afferma la donna per la cui guarigione da un tumore nel 1962 il vescovo Wojtyla implorò il «venerabile Padre Pio affinché Dio mostri misericordia a lei».
Wanda inspiegabilmente guarì e la lettera di Wojtyla finì tra le carte che hanno reso santo Padre Pio. Quando nel '78 partì da Cracovia per il conclave con Dusia si dissero che «se eletto il suo nome sarebbe stato Giovanni Paolo II». Poi appena uscito Papa dalla Cappella Sistina si affretta scriverle una sterminata, accorata lettera di quattro pagine.
La loro ininterrotta corrispondenza non ha precedenti nella storia dei pontificati. Lei, il marito Andrzej, anch'egli medico, i figli, diventati la famiglia di Karol.
«Ha perso molto presto i genitori e il fratello Edmondo, aveva solo lontani parenti ma ripeteva che trovarsi senza amici era un peccato. La sua giovialità conquistava, era di una generosità d'animo travolgente. E' entrato in casa mia da giovane prete, baciava la mano a mia madre, anche io ero molto giovane. La sua vocazione come forma di amore. Santo per carattere, geniale come intelletto - prosegua Wanda Poltawska -.
La sua filosofia mi ha aiutato nella vita privata e nel lavoro di scavo psicologico nella la personalità umana. La sua missione era santificare l'amore. Abbiamo scritto insieme, ragionato insieme su come salvare l'amore umano tra uomo e donna. Lui è già santo prima che avvenga la proclamazione».
Appena si sente domandare cosa le manchi più dell'amico di una vita, quale abitudine quotidiana, quale consuetudine radicata nel loro rapporto, un bagliore attraversa il suo sguardo. Prima lo abbassa come commossa, poi rialza fiera gli occhi puntandoli di fronte a sé.
«E' una domanda troppo personale, è la mia vita privata, chiederlo è poco delicato come un elefante in una cristalleria - dice di un fiato -. Quando gli hanno sparato a piazza San Pietro sono partita dopo poche ore e gli sono stata accanto finché non è tornato in forze. Gli leggevo romanzi e libri di storia polacca. Dell'ultimo anno di vita, più di metà l'ho trascorso a Roma». E anche il 2 aprile 2005, nella sua stanza in cui è morto Vaticano, Karol aveva accanto la sua «carissima Dusia».


Giovanni Paolo IILettera di Wanda a Karol del 31 ottobre 1962

Posso dirti che i miei sospetti si sono verificati. Sono meravigliata non tanto dalla diagnosi del tumore, ma dalla mia tranquillità. La fonte del dolore è una dura, rotonda cisti ulcerosa di 13 centimetri. Uscita dall'ambulatorio medico, sono andata nel parco di Planty e ho passeggiato un'ora. Le ultime foglie d'oro. All'improvviso tutto ha un altro significato e nel contempo tutto ha perso ogni significato. Cosa devo fare adesso? Come vivere questi due o forse tre anni? Mi sono resa conto che le gemelline hanno solo 5 anni. Ho deciso di smettere subito di lavorare e di passare il resto della vita con loro affinché si ricordino qualcosa della loro madre. La realtà è dura. Ho negli occhi le montagne e le nostre gite.
Tutto questo è passato ma qual è il futuro? Il mio corpo acquista adesso un altro significato. Non piango, cresce in me una certa apatia. Non ho voglia di niente. Tu mi hai detto che Dio dà sempre all'essere umano la forza di cui ha bisogno. Mi sforzo di volere per me solo quello che lui vuole, ma mi manca la fiducia. Devo pregare per la fiducia perché mi manca. Il dottore è mio amico, ha acconsentito di operarmi, mi ha baciato due volte la mano e ha bestemmiato: «Il mondo è di merda».


Lettera di Karol a Wanda del 10 novembre 1962

Carissima Dusia! Ieri ho ricevuto la tua lettera con i risultati delle analisi. Ti scrivo solo una parte di ciò di cui mi sono reso conto. In questo momento cerco prima di tutto di capacitarmi bene dell'intera situazione. Si tratta di decidere come agire in questa situazione. E qua, cara Dusia, ti vorrei incitare a lottare per la tua salute. Tu hai passato un'esperienza terribile nel lager di Ravensbrück, hai avuto gravi problemi, ma hai appena 40 anni, quattro bambini piccoli e tuo marito Andrzej.
La rassegnazione è contraria alla volontà di Dio e ti chiedo di trattare tutta questa situazione come ti dico. Sono molto grato a don Marian (ndr, l'attuale cardinale Jaworski, amico di entrambi) per l'aiuto che ti dà in questi momenti difficili. È molto bravo. Ma non puoi lasciare all'oscuro del problema tuo marito. Sarebbe impossibile e anche ingiusto. Ieri ero molto giù. Oggi dopo aver avuto rassicurazioni mediche sulla possibilità di guarigione, mi sento rincuorato. Aspetto telefonate. Fr



Lettera di Karol a Wanda del 30 giugno 1978

Oggi, verso le 21, vorrei venire a casa per parlare delle prossime vacanze. Ho portato la tua ultima lettera agli esercizi spirituali. Penso che durante il nostro soggiorno presso il fiume Wislok troveremo del tempo per rivedere i vecchi quaderni e rileggere insieme qualche pagina del libro «Il segno del perdono». Fr(atello).

6/4/2009 1:17 AM
 
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"WANDA IMBARAZZA IL VATICANO"
Giacomo Galeazzi per "La Stampa"

«La familiarità con Wanda ha suscitato malumori e dubbi. Divenne Papa restando uomo perché la sua affettività non fu soffocata dal seminario ». Monsignor Adam Boniecki (dal 1964 stretto collaboratore di Karol Wojtyla a Cracovia e a Roma, dove ha diretto per 11 anni l'edizione polacca dell'«Osservatore romano») ha visto maturare la frequentazione e l'epistolario tra Giovanni Paolo II e la «carissima Dusia». Il suo ufficio affacciato sul cortile arcivescovile è «il rifugio dove si nascondevano Wojtyla e gli altri seminazisti clandestini per sfuggire alle retate dei nazisti».

Perché il carteggio suscita scandalo?
«Si pensa al Papa come ad un essere spiritualizzato, fuori dalla realtà, invece Wojtyla ha sempre mantenuto la propria umanità. Quella tra lui e la Poltawska non è solo una corrispondenza durata 55 anni, è molto di più. Wojtyla sentiva che Wanda aveva sofferto per lui nel lager e ha sempre avvertito responsabilità verso di lei. L'ha anche fatta operare da specialisti a Bangkok».

Cosa disturba in Vaticano?
«Wanda si sente l'unica persona al mondo a conoscere la verità e a sapere come fosse davvero Wojtyla nella sua grandezza e complessità umana. Tra loro scorreva un flusso esclusivo di contatto e comunicazione. Lei è l'unica che sa tutto questo. Le loro lettere sono personalissime, rivelano un calore umano e una fiducia assoluta. Wojtyla le scrive che è stata la Provvidenza a portarla da lui. Il giorno in cui divenne vescovo, uscì dalla chiesa presentandola come sua sorella.

Un legame fortissimo, da parte di entrambi. Tra loro si chiamavano fratello e sorella. Si scrivevano pensieri, meditazioni in uno scambio continuo. Sono più che lettere, è un dialogo privatissimo, ininterrotto. Accanto a Wojtyla, Wanda è cresciuta come donna e come medico, approfondendo i temi dell'amore, della famiglia».

Wanda racconta di aver chiesto a Benedetto XVI cosa fare del carteggio con Wojtyla e di essere stata autorizzata a disporne liberamente. E' così?
«Non so quanto e cosa Wanda abbia consegnato alla postulazione. E' giusto vagliare tutto, ma tra i documenti già acquisiti nella "positio" c'è già molto della Poltawska. Don Stanislao ha sempre provato un disagio, quasi un fastidio per questa familiarità. C'è l'abitudine a papi distanti, senza contatti con le donne. Wanda è coraggiosa a far emergere l'esistenza di un legame così forte».

Don Stanislao lo nega. Perché?
«Da sempre in Vaticano e in Polonia molti storcevano il naso perché "una donna sempre attorno al Papa fa una cattiva impressione e non è abbastanza discreta". Ricordo una volta al "Gemelli" dopo l'attentato, la gente aspettava che Wojtyla si affacciasse per la benedizione invece, dalla finestra accanto, videro Wanda. Oppure per le messe nella cappella privata del Papa.

Lei abitava a Borgo Pio, a due passi dal Vaticano, in una casa presa in affitto da una famiglia che abitava all'estero. Spesso la mattina andava alla messa privata del Papa con le pantofole della notte. Forse aveva male ai piedi per i suoi guai fisici, però era un'impressione per molti sgradevole vedere una donna che entra in pantofole nell'appartamento papale».

Vede ostacoli alla beatificazione?
«Il relativismo dei meeting ad Assisi e il bacio al Corano, sono quelli gli impedimenti. Ma non si può far finta di ignorare una corrispondenza di mezzo secolo. Nel tono delle lettere Wanda sembra innamorata. In un certo modo è amore e questo è una cosa bellissima. E' l'odio ad essere negativo, non l'amore. Dall'epistolario esce una nuova pagina dell'umanità di Wojtyla, capace di essere amico di una donna. Attorno alle lettere ci sono speculazioni, ma tra loro c'è qualcosa di speciale, come tra San Francesco di Sales e Giovanna de Chantal».


Karol Wojtyla Cosa preoccupa di questo rapporto?
«Don Stanislao è stato cresciuto da Wojtyla come un figlio. Nella sua assoluta fedeltà aveva quasi un'ossessione: occuparsi dell'immagine del Papa. Non voleva nessuna ombra e questa donna, una psichiatra accanto a Wojtyla, lo preoccupava. Appena eletto Wojtyla le scrisse una lettera lunghissima, d'impulso, quasi come un fidanzato a una fidanzata. Aveva il coraggio di restare un uomo normale anche da Papa».

Troppo libero per le consuetudini ecclesiali?
«Ha frequentato l'università e mantenuto amicizie con ragazzi e ragazze. Quando i nazisti ghettizzavano gli ebrei, lui per protesta si mise accanto ad un'ebrea, non ad un ebreo. Aveva una fisicità spontanea. Faceva vita pratica, non solo religiosa. Ho parlato con due amiche attrici di Wadowice e ognuna delle due pensava che Wojtyla fosse innamorato di lei. Era molto legato anche a un'altra ragazza ebrea emigrata prima della guerra.

Insomma, un uomo come gli altri. Per questo da Papa ha fatto discorsi sull'amore mai sentiti prima. Qui nel dopoguerra il sacerdote non poteva camminare per strada accanto alla sorella veniva sospeso «a divinis» se portava in moto una donna. Lui è sempre stato libero da quel clima oppressivo».





I giornali polacchi: è un santo...
Giacomo Galeazzi per "La Stampa"

Le lettere «personalissime» tra Karol Wojtyla e Wanda Poltawska tengono banco su giornali, siti Internet e tv, soprattutto in Polonia. La «Gazeta Wyborcza» si chiede se il copioso epistolario possa ritardare la beatificazione di Giovanni Paolo II e fa riferimento ad aggiunte alla «positio», la raccolta dei documenti allo studio della Congregazione per le Cause dei santi.

Dà notizia del caso anche il cattolico «Tygodnik Powszechny» (il giornale stampato a Cracovia che ha avuto come editorialista Wojtyla prima dell'elezione al Soglio di Pietro) evidenziando che «alla beatificazione bisogna dare tutto il tempo necessario senza essere impazienti» e che «il carteggio tra i due non mette in dubbio la certezza della santità del Papa, in quanto l'amore non è un sinonimo di peccato e la profonda amicizia che unisce i grandi santi con le donne non diminuisce la loro santità».

Riprende il tema anche l'edizione polacca di «Famiglia Cristiana», diretta dall'editore delle memorie di Wanda Poltawska, padre Tomasz Lubas. Secondo cui «le lettere raccontano un connubio spirituale di straordinaria intensità dal quale emerge tutta l'umanità e la ricchezza interiore di un uomo e di una donna capaci di donarsi completamente in un'amicizia senza fine».

Intanto il relatore della causa, il domenicano padre Daniel Ols spiega che «le procedure seguono i tempi necessari» e non conferma né smentisce l'ipotesi secondo cui la beatificazione dovrebbe arrivare nell'aprile 2010. «Questo dipende da come andranno le cose - sottolinea -. Benedetto XVI ci ha chiesto, nei confronti della causa di Giovanni Paolo II, priorità ma allo stesso tempo che il lavoro sia fatto bene e dunque con la massima accuratezza».

6/10/2009 5:17 PM
 
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Da Petrus

Wanda Poltawska torna a chiarire il suo rapporto con Giovanni Paolo II: “Karol e io come Francesco e Chiara”

CITTA’ DEL VATICANO - L'amicizia fra Karol Wojtyla e Wanda Poltawska, per la quale l'allora arcivescovo di Cracovia chiese un miracolo a Padre Pio, "puo' essere paragonata alla relazione fra San Francesco e Santa Chiara". E' la stessa psichiatra polacca a proporre questa interpretazione di un sodalizio durato oltre 50 anni e raccontato dalla donna, oggi ultraottuagenaria, nel libro "Gli esercizi spirituali nelle Beskidy", che raccoglie una corrispondenza copiosa e ininterrotta (Giovanni Paolo II volle scriverle anche all'indomani dell'elezione assicurando che avrebbe trovato il tempo per continuare a farlo). In un'intervista rilasciata al direttore della rivista "Tygodnik Powszechny", il sacerdote Adam Boniecki, la Poltawska esprime infatti la propria convinzione che sia corretto paragonare il suo rapporto con il papa polacco all'amicizia tra il Poverello e la giovane ragazza di Assisi come aveva fatto un lettore del settimanale in una lettera. Nell'intervista, la psichiatra afferma anche che le carte sono state lette dal postulatore della causa di beatificazione di Wojtyla, Monsignor Slawomir Oder, ed esaminate dalla commissione teologica della congregazione per le cause dei Santi e respinge al mittente le critiche del Cardinale Stanislaw Dziwisz, per piu' di 40 anni segretario di Wojtyla e oggi suo successore alla guida della chiesa di Cracovia, secondo il quale le lettere non avrebbero dovuto essere pubblicate in quanto "troppo personali". Per la Poltawska e' invece Dziwisz a non aver reso giustizia al papa scomparso limitando alla sfera pubblica i ricordi affidati al vaticanista Gianfranco Svidercoschi per il libro "La mia vita con Karol". "Io - spiega Poltawska - vorrei far conoscere la spiritualita' del Santo Padre mentre il cardinale preferisce tenere le emozioni per se stesso".

6/10/2009 5:17 PM
 
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Il sacerdote che insegnò a Giovanni Paolo II a parlare portoghese
Intervista a monsignor Fernando José Monteiro Guimarães

di Alexandre Ribeiro


SAN PAOLO, mercoledì, 10 giugno 2009 (ZENIT.org).- Nel 1980, durante i preparativi per il primo viaggio di Giovanni Paolo II in Brasile, un sacerdote brasiliano venne chiamato per lavorare nella Segreteria di Stato e aiutare il Papa a imparare il portoghese.

Oggi Vescovo di Garanhuns (Stato del Pernambuco, nel nord-est del Brasile), monsignor Fernando José Monteiro Guimarães, missionario redentorista, ha raccontato a ZENIT questa storia. Circa la facilità del Papa a imparare la lingua, il Vescovo confessa di essere arrivato a pensare: “Mio Dio, sto vedendo la realtà dello Spirito Santo”.

Come è diventato il professore di portoghese di Giovanni Paolo II?

Monsignor Fernando Guimarães: All'epoca lavoravo come assistente del Cardinale Eugênio Sales, Arcivescovo di Rio de Janeiro. Pur essendo missionario redentorista e vivendo in convento, lavoravo a tempo pieno al servizio dell'Arcidiocesi. Facevo parte dei consulenti della pastorale, dei consulenti della stampa e dell'équipe teologica del Cardinale Sales. All'inizio del 1980, quando si preparava la prima visita di Giovanni Paolo II in Brasile, nella Santa Sede si sentì il bisogno di un sacerdote brasiliano, perché all'epoca nella Curia Romana c'erano praticamente solo il Cardinale Agnelo Rossi e il Vescovo Lucas Moreira Neves.

Serviva qualcuno che nella Segreteria di Stato, insieme all'officiale lusofono, che era un monsignore portoghese, potesse incaricarsi dei preparativi del viaggio apostolico di Giovanni Paolo II, il terzo del suo pontificato. Non c'era know-how, mancava una struttura per un viaggio papale, che all'epoca era ancora una grande novità.

Andai a Roma nel febbraio 1980 per lavorare nella Segreteria di Stato. La preparazione del viaggio papale riguardava l'organizzazione generale della visita, dalla parte tecnica ai discorsi del Santo Padre in portoghese, al dialogo e all'intesa con la Conferenza Episcopale e con il Governo brasiliano.

Com'erano le lezioni di portoghese per il Papa?

Monsignor Fernando Guimarães: Ci incontravamo regolarmente per la celebrazione della Santa Messa nella cappella privata del Papa. Da febbraio a luglio del 1980, quando avvenne il viaggio, si organizzava due volte a settimana la celebrazione della Santa Messa in lingua portoghese. Con la collaborazione di monsignor Stanislaw Dziwisz, segretario particolare del Papa, chiamavamo per ogni Messa un gruppo di suore brasiliane a Roma, che venivano e cantavano in portoghese. Anche le letture erano in portoghese. Dopo la Messa, il Santo Padre le riceveva per un breve momento per la benedizione. Poi si andava a fare colazione, solo gli stretti collaboratori del Papa, e si iniziava il lavoro. Lavorava molto durante i pasti. L'abbiamo fatto due volte a settimana fino al momento del viaggio.

In quell'occasione, ho avuto l'onore di essere l'unico brasiliano membro della comitiva papale. Durante le 12 ore di viaggio, tra una città e l'altra, spesso durante i voli interni, era normale che il Papa mi chiamasse e allora ripassavamo i discorsi della tappa successiva.

Il Pontefice era quindi molto attento alla realtà che visitava?

Monsignor Fernando Guimarães: Sì, e questo mi colpì molto. Mi ricordo un episodio. Stavamo andando dal sud del Brasile al nord-est – in quel viaggio visitammo tutto il Paese, da nord a sud – e ricordo che facemmo uno scalo tecnico a Sergipe, perché l'ambasciatore del Brasile presso la Santa Sede di allora era originario di lì. Quando l'aereo si stava già abbassando per atterrare, ricevetti un avviso da monsignor Stanislaw, che disse che il Papa mi chiamava.

Il Santo Padre mi disse: “Fernando, capisco che le case dei poveri di qui non sono uguali a quelle che abbiamo visto a sud. Quali sono le differenze?”. Dall'aereo vide le baraccopoli del nord-est. A sud aveva visto piccole case di legno. Stava vedendo per la prima volta case di fango e con il tetto di paglia. Il Papa voleva che gli spiegassi come viveva un povero del nord-est. Io, essendo di quella regione, glielo dissi. Giovanni Paolo II aveva una sensibilità enorme. Poi, al momento di pronunciare il suo piccolo discorso, fece delle improvvisazioni. Disse: “Signore, il tuo popolo soffre la fame”. Non c'era nel testo ufficiale. Era la sua reazione alla realtà che vedeva con i propri occhi.

Giovanni Paolo II ha imparato rapidamente il portoghese?

Monsignor Fernando Guimarães: Sì. In Vaticano, in uno di quegli incontri in cui si praticava la lingua portoghese, ricordo che usai una parola che non capiva. Me ne chiese il significato, lo annotò e continuammo il lavoro. Nell'incontro successivo, due o tre giorni dopo, a un certo punto compose una frase in portoghese con quella parola. Dopo averlo fatto mi guardò con lo sguardo che faceva quando voleva scherzare o provocare, chiudendo un po' gli occhi. Con un sorriso, mi fece capire: “Ha visto che ho imparato”.

Giovanni Paolo II aveva una facilità impressionante. Conosceva bene lo spagnolo. Quando era un giovane sacerdote, negli anni Quaranta, aveva studiato a Roma e aveva composto la tesi di dottorato in Teologia sulla fede negli scritti di San Giovanni della Croce, il grande mistico carmelitano spagnolo. Per compiere quello studio, dovette leggere gli scritti di San Giovanni nella lingua originale. E leggere lo spagnolo di San Giovanni della Croce significa non solo leggere lo spagnolo moderno di oggi, ma quello del XVI secolo. La conoscenza della lingua spagnola gli facilitò l'apprendimento del portoghese.

Qui in Brasile ebbe una difficoltà, che all'epoca fu anche menzionata da uno degli organi di stampa locali: era il suono nasale “ão”, che usciva come un suono più orale. All'epoca scherzarono dicendo che il voto per il professore di portoghese era 9.

Un altro esempio della facilità che aveva: nell'incontro privato con i Vescovi, al termine della visita, era previsto che alcuni presuli parlassero, anche non era nel programma. Il Papa non aveva alcun testo preparato per l'occasione. Ci furono cinque o sei interventi, in cui i Vescovi manifestarono le proprie preoccupazioni e le proprie ansie, con temi precisi e delicati. Io ero in fondo alla sala, accanto a monsignor Stanislaw, e dissi che il Papa poteva rispondere in una lingua che dominava bene, come lo spagnolo, il francese o l'italiano, che quasi tutti i Vescovi comprendono bene, vista la delicatezza dei temi.

Il Papa aveva chiesto all'inizio carta e penna per scrivere degli appunti. Al termine degli interventi, si alzò e disse in portoghese: “Capirete che non sono nelle condizioni di rispondere in questo momento, ma per favore datemi i testi per iscritto, li studierò con calma a Roma e risponderò. Per ora...” e lì iniziò, in portoghese, una riflessione seria, teologica, pastorale. Punto per punto, parlò poco più di 20 minuti, senza un testo scritto. Nonostante vari “italianismi” nella struttura, che non erano propriamente errori, se in tutto quel tempo fece quattro o cinque sbagli di portoghese è molto. Erano errori che non ostacolarono affatto la comprensione di ciò che stava dicendo. Quando finì di parlare, io, dal fondo della sala, pensavo tra me e me: “Mio Dio, sto vedendo la realtà dello Spirito Santo”.

[Traduzione dal portoghese di Roberta Sciamplicotti]

6/12/2009 1:49 AM
 
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QUANTI NEMICI PER WOJTYLA – ANNI DOPO L’ATTENTATO DEL 1981 IL GIUDICE PRIORE VOLLE INTERROGARE LA GRANDE AMICA DEL PAPA: “SI FIDAVA SOLO DI LEI” – TAGLIò I PONTI CON LA SEGRETERIA DI STATO – IL MISTERO DELLE FOTO SCATTATE DA UNA TALPA AL PAPA CONVALESCENTE… -
Francesco Grignetti per "La Stampa"


Wanda Poltawska, la grande amica di Giovanni Paolo II, non conserva solo un'eccezionale corrispondenza privata con il Pontefice. E' la depositaria anche dei segreti più terribili di quel Pontificato. Sa molto dell'attentato in piazza San Pietro, ad esempio. E non è un caso se il giudice Rosario Priore, che indagò a lungo sui mandanti che si nascondevano dietro la mano di Alì Agca, la interrogò tre volte nel novembre del 1993.
Il giudice infatti, aveva scoperto con stupore che nelle ore seguenti all'attentato il Papa aveva tagliato i ponti con la Curia e con la Segreteria di Stato, affidandosi a questa sconosciuta signora polacca, un medico di Cracovia, nella quale riponeva la massima fiducia. «Giovanni Paolo II - spiega Priore - si circondò di una fascia ristrettissima di fide persone polacche, tagliando fuori tutti gli altri». Ovvia la deduzione: non si fidava del resto del Vaticano.
Di questa fiducia assoluta in Wanda, il giudice Priore se n'è convinto esaminando una storia poco nota: le fotografie «rubate» al Papa nei primi giorni della convalescenza. Una decina di scatti presi con un potente teleobiettivo che si materializzarono all'improvviso in Vaticano. Se le ritrovò tra le mani un certo monsignore Salerno, consulente legale presso la Prefettura degli Affari economici.
Erano indubbiamente choccanti: raffiguravano il Papa dolorante che si affacciava in vestaglia su un piccolo terrazzo, con due medici al fianco. Forse c'era anche Wanda con loro. Monsignor Salerno capì che si trattava di roba grossa. E che ne fece? Si affrettò a consegnarle a Wanda Poltawska «molto vicina - dice in una testimonianza - al Sommo Pontefice».
Priore volle capirne di più. «Valutai - gli disse monsignor Salerno - più proficuo informare una persona come la dottoressa di un caso che mi appariva delicato per le ragioni connesse alla sicurezza personale del Pontefice piuttosto che sollecitare formalmente le autorità interne». Un'altra prova della sfiducia imperante nell'appartamento papale. «Mi era noto il suo legame con il Sommo Pontefice e la ritenevo la persona più idonea a esperire eventuali interventi per evitare una esposizione imprudente della persona del Papa».
La dottoressa Poltawska capì anche lei, fin dal primo sguardo, che si trattava di materiale incandescente. Segnalavano una falla nella sicurezza: e se qualcuno si fosse appostato con un fucile di precisione? Guai in vista, poi, per la privacy: e se queste foto fossero finite su un giornale?
Infine una terza questione, molto imbarazzante: ricostruendo le prospettive, e considerando che il terrazzo papale non affacciava che verso l'interno del Vaticano, le foto potevano essere state scattate soltanto dalla Lanterna posta sopra la Cupola di San Pietro. E per di più con una macchina fotografia professionale che aveva bisogno di un robusto cavalletto. Chi poteva averle scattate? C'era evidentemente una talpa in Vaticano. Forse nella stessa Sicurezza.
Wanda Poltawska perciò avviò una sua inchiesta interna, coinvolgendo monsignor Salerno e il fotografo dell'Osservatore romano, Arturo Mari. Un'inchiesta segretissima su cui, interrogata dalla magistratura italiana, è stata volutamente fumosa. Queste le sue vaghissime risposte: «Io al tempo non conoscevo quasi nessuno in Italia. Personalmente non presi alcuna decisione, se riferire o meno a persone della Sicurezza vaticana. Ne riferii solo al Sommo Pontefice».
Però l'indagine ci fu, eccome. Mari ha riferito di aver studiato le foto e poi di averle restituite a Wanda. Lei stessa ricostruì meglio quando potevano essere state scattate. «Avendo mostrato copia di quelle fotografie al personale che all'epoca prestava servizio nell'appartamento privato, accertava che solo nei primi tre o quattro giorni dopo il rientro, il Santo Padre fu assistito da medici del Gemelli». Insomma gli scatti dovrebbero essere stati «rubati» tra il 4 e il 6 giugno 1981.
Resta un mistero anche la via attraverso cui arrivarono in Vaticano. A monsignor Salerno le diede un sacerdote, Ennio Antonelli, che a sua volta - disse - le aveva ricevute da un generale italiano. Raccontò una storia palesemente falsa. Il generale le avrebbe avute da un giovane sconosciuto, assieme ad altre che riguardavano la tragedia di Vermicino, mentre saliva su un aereo militare che lo avrebbe portato a Parigi.
Sull'aereo, sfogliando il plico, avrebbe scoperto la serie che riguardava Wojtyla e le sottrasse. Ma chi era mai questo generale? Chiamato a palazzo di Giustizia, don Ennio si appellò al segreto del confessionale. E non ci fu modo di farlo parlare. Però forse Wanda lo sa.

6/12/2009 4:58 PM
 
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La storia di Wanda Poltawska, la "sorellina" di Giovanni Paolo II
di Renzo Allegri


ROMA, venerdì, 12 giugno 2009 (ZENIT.org).- Da qualche settimana, il suo nome circola sui giornali di mezzo mondo. Si chiama Wanda Poltawska, è polacca, ha 88 anni ed è medico psichiatra.

La ragione di questo improvviso interesse della stampa sta nel fatto che la Poltawska ha reso pubbliche molte delle lettere che ha ricevuto da Giovanni Paolo II. E, come era prevedibile, alcuni mezzi di comunicazione hanno voluto fare delle lettere di un Papa a una donna uno scandalo.

Le lettere, pubblicate in un libro, uscito alcune settimane fa in Polonia, fanno parte di una intensa corrispondenza intercorsa tra la Poltawska e Wojtyla nell’arco di 55 anni. I due si sono conosciuti subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono diventati amici, hanno collaborato in numerose iniziative insieme.

Prima a Cracovia, nelle attività culturali e sociali della diocesi, soprattutto per i problemi della famiglia; e, dopo l’elezione di Karol Wojtyla a Pontefice, a Roma, dove la Poltawska divenne membro del Pontificio Consiglio per la Famiglia, consultore del Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute e membro della Pontificia Accademia per la Vita.

Una attività intensa, un’amicizia solare, che tutti conoscevano. Un’amicizia che ebbe una straordinaria visibilità nel 1984, quando si seppe che la Poltawska aveva ottenuto un miracolo per intercessione di padre Pio, tramite richiesta di Karol Wojtyla.

La vicenda risale al 1962. Ammalata di tumore, Wanda stava per morire. I medici non davano speranze. Volevano comunque tentate un intervento chirurgico. Wojtyla, giovane vescovo, si trovava a Roma per il Concilio. Venne informato e scrisse subito una lettera a padre Pio, chiedendogli di pregare per quella donna.

La lettera porta la data del 17 novembre 1962. Fu recapitata a padre Pio a mano, da Angelo Battisti, che era amministratore della Casa Sollievo della Sofferenza. padre Pio chiese a Battisti di leggergli la lettera. Al termine, disse: “Angiolino, a questo non si può dire di no”. Battisti, che conosceva bene i carismi di padre Pio, tornò a Roma stupito e continuava a chiedersi il “perché” di quella frase: “A questo non si può dire di no”.

Undici giorni più tardi, e cioè il 28 novembre fu incaricato di portare una nuova lettera a padre Pio. In questa, il vescovo polacco ringraziava il padre delle preghiere perché “la donna ammalata di tumore, era guarita all’improvviso, prima di entrare in sala operatoria”. Un vero e strepitoso miracolo quindi, attestato dai medici.

Conosco bene questa vicenda perché fui io a farla conoscere per la prima volta nel 1984, in una biografia di padre Pio che scrissi per Mondadori. Le lettere di Wojtyla mi erano state date da Angelo Battisti il quale mi aveva anche riferito il dettaglio del commento incredibile del Padre: “A questo non si può dire di no”.

Appena uscito il mio libro, quelle lettere furono riprese dalla stampa di mezzo mondo e quindi, fin da allora, l’amicizia tra Karol Wojtyla e Wanda Poltawska era nota. In seguito furono scritti molti altri articoli sull’argomento, da me e da altri colleghi, e furono pubblicate numerose e bellissime fotografie, che ora sono riportate in vari giornali. Niente di nuovo, perciò. Una grande amicizia, una straordinaria collaborazione che non furono interrotte con l’elezione di Wojtyla al soglio Pontificio.

La pubblicazione delle lettere, però, suscita scalpore. E anche preoccupazione, soprattutto nel mondo ecclesiastico. Il cardinale di Cracovia, in una intervista, fatta nel pieno delle polemiche, ha rimproverato la dottoressa Poltawska dicendo che doveva stare zitta. Ma, esaminando la situazione a mente fredda, si arriva a dare ragione alla dottoressa Poltawska. Ha fatto bene a pubblicare quelle lettere.

La sua amicizia era nota. Molti sapevano di quella corrispondenza. Presso la Congregazione per le Cause dei santi volevano quelle lettere. Ma non si sa come le avrebbero giudicate. E il loro giudizio sarebbe rimasto segreto, sepolto negli archivi di quei palazzi invalicabili. La dottoressa Poltawska ha preferito la luce del sole. Proprio perché non c’è niente da nascondere. Anzi, sono lettere bellissime, di una ricchezza spirituale e umana commovente. Dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, la grandezza smisurata del cuore di Karol Wojtyla, l’immenso amore che aveva in quel suo cuore, “immenso” proprio perché “amava” con l’amore di Dio.

Una vicenda del genere si era verificata nel corso della causa di beatificazione di padre Pio. Intorno al 1990, la causa era bloccata. E proprio per una serie di lettere che il Padre aveva scritto a una sua “figlia spirituale”, Cleonice Morcaldi. L’aveva conosciuta intorno al 1930. quando era una ragazza ed era rimasta orfana di entrambi i genitori. Come aveva promesso alla madre morente della ragazza, padre Pio se ne prese cura , come fosse una vera “figlia adottiva”. E da allora la trattò sempre con affetto e amore grandissimi, come un padre tratta una figlia.

Amicizia contrastata, condannata, causa di grandi sofferenze e umiliazioni per padre Pio, di calunnie e insinuazioni gravissime. E anche in quella vicenda vi erano le lettere, considerate troppo affettuose.

Un giorno quelle lettere mi furono date da due sacerdoti, figli spirituali di padre Pio e amici di Cleonice Morcaldi. Mi chiesero di pubblicarle, affinchè il mondo giudicasse se quelle erano “lettere del peccato” o invece straordinarie prove di una amicizia spirituale altissima.

Le pubblicai nel mio libro “A tu per tu con padre Pio”. Subito suscitarono un autentico putiferio, ma poi la verità finì per emergere e nessuno più parlò di scandalo, anzi, quelle lettere contribuirono a capire in modo ancor più profondo la grandezza del cuore di padre Pio.

Nei vari articoli usciti in questi giorni si parla delle lettere del Papa alla dottoressa Poltawska, ma nessuno si sofferma a spiegare chi sia questa donna e perché sia stata tanto amica di Karol Wojtyla.

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale nel 1939, Wanda Poltawska era una giovane studentessa universitaria. Aveva diciotto anni. Frequentava, i circoli degli studenti cattolici. E quando i nazisti invasero la Polonia, come tanti altri suoi coetanei, entrò a far parte della Resistenza partigiana, per difendere la patria. Ma venne scoperta, arrestata, tradotta in Germania e trascorse cinque anni in un lager.

Tornata a casa, riprese gli studi, si laureò in medicina, si specializzò in psichiatria. Persona riservata, non parlava mai di quanto aveva sofferto. Volle però trascrivere in un quaderno quanto ricordava perché non andasse perduto. E solo all’inizio degli anni Ottanta si lasciò convincere da un’amica a pubblicare quelle sue memorie in un libretto, che si intitola "E ho paura dei miei sogni... Una donna nel Lager di Ravensbrück".

Me lo fece conoscere nel 1996 il professor Adolfo Turano, microbiologo, che lo stava traducendo per pubblicarlo anche in Italia. Conservo ancora il manoscritto che mi diede. Poi il professore morì prematuramente, ma so che il libro, lo scorso anno, è stato pubblicato anche nel nostro paese, dalle Edizioni dell’Orso.

E’ un documento sconvolgente. Svela particolari tremendi, alcuni inediti, sulle crudeltà degli aguzzini nazisti. La Poltawska racconta la propria vicenda di giovane prigioniera che vive un dramma spaventoso, ma la racconta con una commovente e meravigliosa partecipazione alla sofferenza degli altri.

La Poltawska non si limita a riferire, in quelle pagine, i propri patimenti, le proprie ansie, le proprie sofferenze. Guarda a se stessa e a tutte le compagne con lo stesso interesse. E questo è un dato da tenere ben presente perché dimostra che le disumane sofferenze patite non spensero mai nel suo cuore la bontà, la dignità umana, la solidarietà. Nei Lager tedeschi ci fu l’inferno, dilagò il “Male personificato” ma tra le vittime innocenti ci furono luminosi e incredibili esempi di bene, di altruismo eroico.

"Una sera", scrive Wanda Pol­tawska all'inizio di quel suo libretto di memorie (cito dalla traduzione che mi diede il professor Turano) "studiavo a casa quando all'ingresso una voce maschile, in po­lacco, risuonò strana e aggressiva: 'Chi di voi è Wanda?'. E così co­minciò. Mi alzai, uscii... e sono tornata solo adesso, dopo quasi cinque anni di campo di concen­tramento".

La ragazza, dapprima fu portata al co­mando della Gestapo, a Cracovia, e sottoposta a un interrogatorio che durò alcuni giorni. Venne picchiata, violente­mente, con pugni in faccia, nello stomaco, minacciata con una ri­voltella.

Venne poi rinchiusa in una cella zeppa di persone. "Nella prigione c'erano pidocchi, pulci, sporcizia, non c'era l'acqua ed era scoppiato il tifo. Di notte, a volte, all'im­provviso, accendevano le luci fa­cendoci stare sull'attenti, comin­ciavano a chiamare alcune di noi. Dopo, in cella, non si dormiva più, si pregava per quelle che erano andate via. E poco dopo, sotto le no­stre finestre sentivamo i colpi d'arma da fuoco dell'esecuzione".

Dopo quasi sette mesi, le pri­gioniere furono caricate su un treno merci e inviate in Germania, nel famigerato lager di Ravensbrück, dove i medici tedeschi fa­cevano esperimenti su cavie uma­ne. "Eravamo destinate a morire. Le nostre sorveglianti ci picchia­vano a sangue. Fummo spogliate nude, ci diedero dei vestiti a righe, ci raparono a zero, volevano di­struggere la nostra personalità".

Cominciarono i lavori, pesanti, pesantissimi. "Caricavano una quantità smisura­ta di pesi sulle nostre spalle... Ri­cordo di aver portato sulle mie spalle 80 chili di cemento salendo scale strette fino al soffitto di una casa a due piani: mi sentivo morire ma non potevo far cadere quel pe­so perché dietro di me c'era un'al­tra prigioniera e l'avrei uccisa... Dovevamo spalare sabbia. Aveva­mo accanto le sorveglianti con ter­ribili cani che ringhiavano minac­ciosi appena una di noi si riposava un poco. Le mani sanguinavano. Al mattino la sabbia era bagnata e pesante, durante il giorno si asciu­gava con il vento, si alzava, entra­va negli occhi, nella bocca, nelle orecchie".

Un tormento terribile era costi­tuito dal freddo. "Dove dormiva­mo pendevano dal soffitto i ghiac­cioli. Sulle nostre coperte c'era la brina e la sorvegliante ci ordinava sistematicamente che aprissimo le finestre dei due lati del dormitorio per colpirci con le correnti d'aria”.

"Nelle baracche dove andava­mo a lavorare era, invece, molto caldo. La baracca era superaffolla­ta e sudavamo. Indossavamo ve­stiti leggeri, con le maniche corte. Il mio turno terminava alle cinque del mattino, ci sbattevano fuori, tutte sudate e con gli stessi vestiti leggeri rimanevamo ore e ore al gelo”.

"Tornavamo dal lavoro con le mani gonfie, le ossa rotte. Ci but­tavamo sulle brande e dopo un'ora suonava la sirena e dovevamo al­zarci per gli appelli. Ritornavamo nel dormitorio e dopo un'altra ora ancora la sirena per l'appello. Non si riusciva a chiudere occhio. La stanchezza era enorme. A volte, durante gli appelli, si dormiva in piedi, a occhi aperti, e qualcuna cadeva a terra tramortita e veniva presa a bastonate. La fame era più forte del desiderio di dormire. Era­vamo magre come scheletri. Neanche la vista delle donne nude, in coda per il bagno, terribilmente magre, causava più disgusto.

“Guardavamo con indifferenza la no­stra magrezza e quella delle altre, così come la per­dita dei seni e la morte. Per la fame eravamo diven­tate ladre, ci rubavamo un tozzo di pane, litigavamo per poche bricio­le".

E poi, ecco, a un certo momento, l'appello di un gruppo che viene portato nel padiglione dell'infer­meria, tra esse anche Wanda. Ven­gono lavate, un'infermiera depila le loro gambe, pratica delle inie­zioni che fanno perdere la coscien­za e quando le ragazze si sveglia­no si trovano con le gambe inges­sate. Che cosa é accaduto? Non lo sanno. Vengono riportate nel dor­mitorio su una sedia a rotelle. Messe a letto e, nel corso della notte, quando termina l'effetto del potente sonnifero, cominciano do­lori lancinanti.

Inizia così il martirio. Quelle ragazze diventano delle cavie u­mane per atroci esperimenti medi­ci. Gli interventi chirurgici alle gambe si succedono a periodi fis­si. Le ferite praticate vengono trat­tate con medicinali particolari che producono infe­zioni, cancrene. In quello stato le vit­time vengono ab­bandonate sole nel dormitorio, senza alcuna assistenza.

Wanda, pur non riuscendo a reggersi in piedi, si la­scia cadere dal letto e, aggrappan­dosi alle brande delle compagne, raggiunge quelle più sofferenti per dare loro un po' di conforto, bagna i visi bruciati dalla febbre con stracci inumiditi, conforta chi sta agonizzando.

Di giorno arrivano i medici che osservano le ferite e ordinano altri esperimenti. Le po­vere cavie umane vengono ripor­tate nel padiglione dell'infermeria e sottoposte ad altre orribili muti­lazioni, asportazioni di pezzi di os­sa, iniezioni di batteri nelle ferite. Un calvario spaventoso e interminabile. Ogni tanto una ragazza muore. Se ne vanno in questo mo­do in molte. Wanda le ricorda, scrivendo i loro nomi, come su una lapide, perché sono vittime in­nocenti, uccise da un odio assurdo, freddo, cinico, umanamente in­concepibile.

L'esasperazione delle sopravvissute è indicibile. Ma Wanda, anche in quella tremenda situazione, riesce a mantenere il suo equilibrio cristiano. “Non pro­vavo odio e neanche adesso lo provo. Cosa vedevo in quei tede­schi? Li guardavo e cercavo in lo­ro le persone”.

Questa, in una rapidissima sin­tesi, l'incredibile e orribile espe­rienza che Wanda Poltawska fece, dai 18 ai 23 anni, nel lager di Ravensbrück. Un'esperienza capace di distruggere qualsiasi equilibrio psichico. Wanda è sopravvissuta fi­sicamente e psichicamente a que­gli orrori grazie alla sua fede. E grazie all’aiuto di un giovane sacerdote, Karol Wojtyla, conosciuto al suo rientro a casa, riuscì a superare e a vincere le conseguenze devastanti che gli orrori patiti avrebbero certamente lasciato nella sua personalità.

A quel sacerdote confidò i suoi drammi spaventosi e quel sacerdote potè “capire”, perché anche lui, negli anni della guerra, era stato martoriato da grandi dolori personali che lo avevano condotto alla vocazione sacerdotale. E nacque così un’amicizia, continuata per il resto della vita, intensa di attività e di iniziative per promuovere i valori che da quelle lontane sofferenze erano germogliati.

6/15/2009 5:58 PM
 
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SCOPPIA uno dei segreti meglio custoditi al mondo: una talpa ASSASSINA A SAN PIETRO - l’inchiesta che Wanda, la migliore amica di WOJTYLA, condusse SULl’attentato al Papa - IL dossier non è mai stato consegnato ai magistrati né Segreteria di Stato: PERCHé?
Francesco Grignetti per "La Stampa"







WANDA, 007 PER WOJTYLA...



È stato uno dei segreti meglio custoditi al mondo, l'inchiesta parallela che Wanda Poltawska, la migliore amica di Giovanni Paolo II, condusse subito dopo l'attentato al Papa. Subito dopo il ritorno del Sommo Pontefice dall'ospedale, lei sola, la dottoressa polacca, e naturalmente don Stanislao, avevano accesso all'appartamento papale.


E non soltanto per assistere l'illustre infermo, ma per indagare sull'accaduto sotto la sua stessa guida. E' qui che entrarono in gioco le misteriose fotografie che qualcuno scattò in quei giorni al Pontefice convalescente, foto «rubate» da una postazione sulla sommità della Cupola di San Pietro, e che per vie traverse arrivarono nell'appartamento papale.


Wanda prese in mano le redini dell'indagine. Uno su cui s'appoggiò fu Arturo Mari, il fotografo dell'Osservatore romano. Mari preparò per la Poltawska una sorta di dossier, compresa un'analisi molto particolareggiata degli scatti «rubati» all'intimità del Pontefice.

Un altro fu monsignor Francesco Salerno, consulente legale della Prefettura per gli Affari Economici, che era stato il «postino» che recapitò le foto a Wanda, «sapendola molto vicina al Sommo Pontefice». Le aveva ricevute da don Ennio Innocenti, un sacerdote, che a sua volta le aveva avute fortunosamente da un ignoto generale italiano.

Quando fu interrogato dal giudice Rosario Priore, monsignor Salerno raccontò così: «La dottoressa Poltawska mi chiese se poteva esaminare assieme a Mari i reperti fotografici. Nel visionarle, Mari rilevò che le foto erano state scattate dalla cupola di San Pietro e che la distanza tra il punto di osservazione e il soggetto fotografico era molto ravvicinata, e comunque tale da sconsigliare una permanenza del Pontefice in un luogo così accessibile».


Mari è un eccezionale professionista che dal 1956 segue i Pontificati. A Salerno e poi a Wanda Poltawska spiegò che il misterioso paparazzo doveva aver usato un teleobiettivo da 1000 millimetri, probabilmente raddoppiato, e un treppiedi. Con tutto questo armamentario, si era appostato chissà per quanto tempo sulla Lanterna che si trova sulla sommità della Cupola.


Chiaramente in orari in cui non c'era il pubblico. E con il mirino fisso su un preciso terrazzino, il solo su cui si poteva affacciare il Pontefice. Ovvia la conclusione: c'era una talpa dentro il Vaticano. Quali fossero gli scopi, impossibile dirlo. Solo voglia di scoop? Il tentativo di replicare il più famoso colpo fotografico del secolo, ovvero le foto di Pio XII morente, fatta di nascosto dall'archiatra Galeazzi Lisi nel 1957? O c'era di peggio? Un tentativo di intimidazione? O ancora un'operazione per intaccare l'immagine di Karol Wojtyla? Tante brutte domande frullarono per la testa di Wanda Poltawska e del ristretto staff papale.


«E' passato così tanto tempo», si schermisce oggi il fotografo Mari. «E poi da parte mia fu un intervento irrisorio». Dice di non ricordare più molto di questa storia. Non rammenta i suoi contatti con Wanda Poltawska. Ugualmente smentisce di aver parlato con monsignor Salerno. «Sa, la memoria fa brutti scherzi». Spiega però che la Lanterna sulla Cupola è da sempre un'ottima postazione per i fotografi. «Quando ci sono le udienze papali, la Lanterna viene chiusa al pubblico. Il 13 maggio 1981, quando ci fu l'attentato al Papa, sulla Lanterna c'era uno dei miei che fece una serie di foto. Riprese la jeep che si allontanava dalla Piazza con a bordo il Papa ferito. Foto che consegnammo alle autorità».


Eppure Mari aiutò molto Wanda Poltawska nella sua inchiesta. Anche lui, come monsignor Salerno, e come il sacerdote Ennio Innocenti, sapeva bene di trattare con una persona di piena fiducia del Pontefice. Raccontò il monsignore: «Mari dopo il nostro incontro ha trattenuto queste fotografie e le ha unite a un dossier contenente altre fotografie riguardanti l'attentato al Papa, e la sua degenza all'Ospedale e udienze o cerimonie precedenti l'attentato. Tutto questo dossier è stato poi consegnato da Mari alla Poltawska».


Tutto ciò avveniva a caldo, nel giugno 1981. Oggi Mari continua a schermirsi. «Non ricordo granché. I giornalisti ne hanno avanzate di fantasie su questo attentato... Mi pare di rammentare solo qualche discorso sulla possibilità che un cecchino si sistemasse sulla Cupola... Oppure un fotografo... Mi sembra che un settimanale straniero, forse era "Stern", o forse era "Paris Match", non sono sicuro quale fosse la testata, uscì con una copertina dove c'era la figura del Papa nel centro di un mirino e la scritta: "Avremmo potuto sparargli"».


Di quelle foto misteriose non s'è mai saputo più nulla. Il dossier che Mari consegnò alla Poltawska non è mai stato reso pubblico. Tantomeno ne è stata data copia alla magistratura italiana. C'è persino da chiedersi se l'abbia avuto la Segreteria di Stato oppure se è conservato nella famosa valigia che Wanda Poltawska ha portato con sé in Polonia e che imbarazza oggi il Vaticano, al punto da aver rallentato il processo di beatificazione di Giovanni Paolo II.









DON ENNIO INNOCENTI: "ERO IN POSSESSO DI ALTRI SCATTI SEGRETI"...



«Il nome di chi fu a darmi quelle foto, un generale dell'esercito italiano, non lo dissi al giudice Priore. Dovrei dirlo adesso a un giornalista? E' una persona anziana. Lasciamolo in pace». Don Ennio Innocenti è il sacerdote che scovò le famose fotografie che violavano la privacy di Karol Wojtyla e che testimoniavano di una clamorosa falla nella protezione di un Papa appena colpito da Alì Agca. Le fece avere a Wanda Poltawska perché sapeva che era l'unico modo sicuro per sottoporle a Giovanni Paolo II.


Don Innocenti, come mai questo generale senza nome sapeva di Wanda Poltawska e della sua possibilità di contattarla?
«Perché gli avevo fatto conoscere in un'altra occasione monsignor Francesco Salerno e quindi sapeva che tramite noi, sua eccellenza e me, aveva la possibilità di un contatto diretto con l'appartamento papale».


Come andò esattamente che lei entrò in possesso di quegli scatti «rubati»?
«Esattamente come ho raccontato al giudice Priore quando mi ha interrogato. Questo generale dell'esercito che aveva fiducia in me in quanto io ero il suo confessore, ed era mio amico, si trovava a Fiumicino. Era in coda per salire su un aereo che l'avrebbe portato a Parigi. All'epoca era nel consiglio della Nato e stava andando lì per una riunione. Lo avvicinò un giovane fotografo che gli chiese il favore di portare un plico a Parigi. "Vede - gli disse - sono scatti presi a Vermicino. Dall'altra parte la contatterà uno di "Paris Match".
Non c'è possibilità di errore. La riconoscerà in quanto lei ha la divisa". Il generale accettò.



Però poi a bordo volle controllare meglio. E scoprì che oltre a quelle di Vermicino, nella busta c'era anche una serie di scatti sul Papa. Lo si vedeva che camminava a fatica su un terrazzino assieme a due medici. Capì subito che erano di grande importanza e quindi se le mise in tasca. Non arrivarono mai a Parigi. Quando poi tornò a Roma, mi chiamò e mi chiese di farle avere direttamente al Pontefice attraverso Wanda Poltawska».



Perché?
«Anche un fesso avrebbe capito che se al posto del fotografo ci fosse stato un cecchino...».

Un cecchino avrebbe terminato l'opera che Alì Agca non era riuscito a portare a termine. E dopo?
«Nulla. Il mio ruolo finì lì. Io diedi le foto a monsignor Salerno e so che lui le portò alla Poltawska. Mai incontrata direttamente. Non ne ho saputo più nulla».



Perché non volle fare il nome del generale al giudice Priore?
«Perché il colloquio con il giudice andò subito male. E pensare che io avevo in tasca un'altra fotografia che avrebbe potuto interessarlo. Era una foto del Papa in piscina. E di queste sapevo da dove venivano».

6/23/2009 4:45 PM
 
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Una statua di Giovanni Paolo II nel piazzale del Policlinico Gemelli
Verrà inaugurata martedì 30 giugno



ROMA, martedì, 23 giugno 2009 (ZENIT.org).- Martedì 30 giugno, alle 19.00, verrà inaugurata nel piazzale del Policlinico Gemelli di Roma una statua in ricordo di Giovanni Paolo II.

Il monumento, dedicato dall’Università Cattolica alla memoria di Papa Wojtyła, sarà benedetto dal Cardinale Stanislaw Dziwisz, per decenni segretario particolare del Pontefice.

La statua, ricorda un comunicato del Policlinico inviato a ZENIT, è opera dello scultore toscano Stefano Pierotti, che sarà presente all'evento, ed è intitolata “Non abbiate paura!”, come la celebre espressione pronunciata dal Papa polacco il 22 ottobre 1978 durante l’omelia della Messa di inizio pontificato.

La scultura verrà collocata nel piazzale antistante l’ingresso principale del Policlinico Gemelli, dove Giovanni Paolo II fu ricoverato 9 volte, dal 13 maggio 1981 – giorno dell’attentato in Piazza San Pietro – all’ultimo ricovero del marzo 2005.

Su quel piazzale, Papa Wojtyła si affacciava dalla finestra dell’appartamento al decimo piano per recitare l’Angelus domenicale e benedire i fedeli. In una di quelle occasioni, durante il ricovero del 1996, definì il Policlinico Gemelli “Vaticano III”, in quanto “casa” del Papa insieme ai Palazzi Apostolici di Roma e Castel Gandolfo.

Dopo l'intervento introduttivo del Rettore dell’Università Cattolica, il prof. Lorenzo Ornaghi, seguirà quello del Direttore Amministrativo, il dott. Antonio Cicchetti. Alle 19.25 avranno luogo l’inaugurazione e la benedizione della statua da parte del Cardinale Dziwisz, Arcivescovo di Cracovia.

Seguiranno gli interventi del prof. Francesco Sisinni, Dirigente del Master in studi storico-artistici presso la Libera Università Maria Santissima Assunta (LUMSA), già Direttore Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, e del prof. Francesco Buranelli, Segretario della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e Ispettore della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, già Direttore dei Musei Vaticani.

All’inaugurazione sarà presente anche il Sindaco di Roma, Gianni Alemanno.

Durante la cerimonia, la Banda Musicale dell’Arma dei Carabinieri, diretta dal Maestro Tenente Colonnello Massimo Martinelli, eseguirà alcuni brani che faranno da intermezzo anche agli interventi. La manifestazione si concluderà alle 20.00 con il concerto della Banda dei Carabinieri.

7/1/2009 1:54 AM
 
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Inaugurata la statua di Giovanni Paolo II al Policlinico Gemelli
Intitolata “Non abbiate paura”



ROMA, martedì, 30 giugno 2009 (ZENIT.org).- E' stata inaugurata alle 19.00 di questo martedì nel piazzale d’ingresso del Policlinico Gemelli una statua dedicata dall’Università Cattolica alla memoria di Papa Giovanni Paolo II.

L'opera, dello scultore toscano Stefano Pierotti, presente all’evento, è stata benedetta dal Cardinale Stanislaw Dziwisz, segretario particolare di Papa Karol Wojtyła nei 27 anni del suo pontificato.

All’inaugurazione era presente anche il Sindaco di Roma, Gianni Alemanno.

Come ha sottolineato nell'introduzione al volume “Non abbiate paura” (edito da Vita & Pensiero), il Cardinale Dziwisz, Arcivescovo di Cracovia, ha ricordato che il Policlinico Gemelli è stata la prima meta toccata da Papa Giovanni Paolo II al di fuori dei confini vaticani. Il pomeriggio del 18 ottobre 1978, appena due giorni dopo la sua elezione, il Pontefice si recò infatti a far visita al monsignore polacco Andrzej Deskur, futuro Cardinale, ammalato.

Il Pontefice è stato ricoverato al Gemelli nove volte, per un totale di 153 giorni e 152 notti. Nel 1996 disse “Il Vaticano Uno sta in piazza San Pietro, il Vaticano Due è a Castelgandolfo, il Vaticano Tre è diventato il Policlinico Gemelli”.

“Era l’ironia con cui egli sapeva stemperare i momenti di maggior tensione – ha riconosciuto il Cardinale –. Ma, battuta a parte, non era molto distante dalla realtà: effettivamente sentiva il Gemelli un po’ casa sua. Era l’ospedale ‘cattolico’ per eccellenza; inoltre era collegato ad un’università, dove studiavano migliaia di giovani, gli interlocutori da lui preferiti. Come non amare quel posto, che sarebbe diventato l’altare simbolico dove avrebbe offerto la sua vita?”.

“Da questo luogo egli ha insegnato a tutta la Chiesa come si vive e come si muore con il Signore. Il Policlinico Gemelli è stata una sua originale ‘cattedra’. Per questo il nome dell’ospedale rimarrà inscindibile rispetto alla memoria di questo Papa”.

“Dalla finestra del decimo piano egli ha benedetto la folla dolente, e ora dal centro del piazzale – dove è stata con squisita sensibilità elevata la sua effigie – continuerà a vigilare su questo luogo e a benedire quanti vi arriveranno. E quanti qui serviranno il dolore dell’uomo”.

Il Direttore amministrativo dottor Antonio Cicchetti ha affermato dal canto suo che fin dall'aprile 2005 si pensava “a come ricordare in maniera tangibile in questa sede romana dell’Università Cattolica la figura di Giovanni Paolo II, che tanto ha legato il suo nome a quello del Policlinico Gemelli, che attraverso di Lui divenne in tempi rapidi noto in tutto il mondo, accrescendone la fama e il prestigio”.

“Viste le dimensioni dell’opera, il luogo dove si immaginava di collocarla non poteva essere altro che sul piazzale antistante il Policlinico, in modo che si vedesse dalle finestre dell’Ospedale, e principalmente da quella finestra del 10° piano. Una finestra semplice e ‘anonima’, ma che riempita dalla figura di Papa Giovanni Paolo è diventata un simbolo per tutto il mondo e non solo di quello cattolico”.

Il Magnifico Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Lorenzo Ornaghi, nella prefazione al volume “Non abbiate paura” ha ripreso la definizione di Vaticano III del Policlinico Gemelli dicendo che il Papa, “ricorrendo a quello spirito di fraterna arguzia e di paterno umorismo con cui a tutti infondeva e chiedeva coraggio”, chiamò così “il luogo in cui le malattie e le sofferenze del suo corpo – dal drammatico e miracoloso pomeriggio del 13 maggio 1981 – erano state sanate, accudite, alleviate”.

Negli ultimi ricoveri, ha ricordato, la finestra dell’appartamento del decimo piano riservato al Santo Padre “si trasformò per tutti nell’accesso a una cattedra, sì, di dolore, ma anche di lode incessante al Signore, di insegnamento umano e testimonianza cristiana sull’impareggiabile dono gratuito della vita e della fede”.

La statua è costituita da un blocco proveniente dalle cave di Carrara dal peso originario di oltre 47 tonnellate. La statua è alta 3,05 metri; con il basamento e la croce di metallo la misura totale ne raggiunge circa 4,6. Il peso della statua è di 18 tonnellate, mentre il basamento ne pesa circa 20. La crepa sul basamento assume il grande significato di forza della fede che spacca inesorabilmente i mali del mondo.

La durata effettiva del lavoro per realizzare la scultura, senza considerare i numerosi bozzetti eseguiti prima in creta e in varie dimensioni, è stata di circa 7 mesi.

Il commento musicale della cerimonia è stato affidato alla Banda Musicale dell’Arma dei Carabinieri diretta dal Maestro Tenente Colonnello Massimo Martinelli.

7/1/2009 4:21 PM
 
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Inaugurata dal cardinale Dziwisz la statua di Giovanni Paolo II al Policlinico Gemelli. Intervista con lo scultore Stefano Pierotti


"Non abbiate paura". Ciò che ha rappresentato il motto per una lunga stagione della Chiesa da ieri è anche il messaggio che accoglie chiunque si rechi al Policlinico Gemelli di Roma. Un messaggio simboleggiato dalle fattezze di Giovanni Paolo II riprodotte nella grande statua in marmo collocata nel piazzale dell'ospedale capitolino. La cerimonia di inaugurazione della scultura è avvenuta nella serata di ieri, alla presenza delle autorità di Roma e del Policlinico e di un ospite speciale, come riferisce nella sua cronaca il giornalista del quotidiano Avvenire, Mimmo Muolo:

Da oggi sarà Giovanni Paolo II ad accogliere coloro che arrivano al Gemelli di Roma. La bianca statua in marmo del Pontefice è stata infatti inaugurata ieri sul piazzale dell’ingresso principale del Policlinico dell’Università Cattolica. Alla presenza del cardinale Stanislaw Dziwisz, attuale arcivescovo di Cracovia e già segretario personale di Papa Wojtyla, del rettore dell’Università, Lorenzo Ornaghi, e di diverse autorità , tra le quali il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, secondo il quale “questa statua si trova nel cuore della capitale, dato l’amore che i romani hanno nutrito per Giovanni Paolo II”.

“Il Papa - ha detto il cardinale Dziwisz - è sicuramente contento di stare giorno e notte insieme con chi soffre, chi non è certo del suo futuro, chi spera e chi prega”. “Egli, del resto - ha aggiunto - ha trascorso qui 153 giorni in nove ricoveri, per 21 volte dalla finestra del decimo piano ha recitato l’Angelus. Inoltre, la sua prima ed ultima uscita, rispettivamente nel 1978 e nel 2005, dal Palazzo apostolico, sono state effettuate per recarsi al Gemelli”. Il porporato ha concluso dicendo che “questo è davvero il Vaticano III”, secondo la celebre definizione coniata da Papa Wojtyla durante il ricovero del 1996. La statua - che con il basamento è alta 4,60 metri ed è opera dello scultore Pierotti - s’intitola “Non abbiate paura”; il filo conduttore di tutto un Pontificato che da oggi Giovanni Paolo II ripete idealmente a tutti coloro che visitano il grande ospedale romano.

Qual è stata la scintilla ispiratrice che ha trasformato un blocco di marmo alto quasi cinque metri nella figura di un Papa tanto amato e indimenticato? Eliana Astorri lo ha chiesto allo scultore che l'ha realizzata, il maestro Stefano Pierotti:

R. - Il ricordo dei funerali di Giovanni Paolo II: mi commossi così tanto che poi volli ricordarlo con un mio lavoro, lo stesso poi proposto al Policlinico Gemelli.

D. - Quale aspetto di Wojtyla ha voluto esaltare?

R. - Quello che veramente mi ha colpito tanto è la sua umanità, la dimostrazione agli occhi del mondo della sofferenza vissuta senza nascondersi, oltre certamente al suo modo di comunicare ai giovani di tutto il mondo alle Giornate mondiali della gioventù - alla quale tra l’altro partecipai con il Crocifisso “Morto e risorto”. Sono state tante le cose che mi hanno colpito e che hanno lasciato in me il segno di questa figura incredibile.

D. - Quale materiale ha usato?

R. - Il materiale è stato il marmo bianco di Carrara. Un blocco molto grande, perché la figura alla fine sfiora i cinque metri.

D. - Quanto il tempo utilizzato per questa realizzazione?

R. - Ci sono state due o tre fasi per la lavorazione di una scultura del genere. Prima si fa un modello sulla creta e una volta che si è soddisfatti di questo modello si procede con la formatura in gesso, e poi, appunto, si iniziano a riportare questi punti del modello in gesso sul marmo. La lavorazione del marmo da parte mia ha richiesto circa sette mesi e, considerando anche il precedente intervento di sbozzatura, l’operazione in totale è durata quasi un anno.

D. - Pierotti, cosa prova un artista, quando dalle proprie mani crea un’opera dedicata a uomini, che così profondamente hanno lasciato un’impronta nel cuore della gente?

R. - Non è chiaramente una delle solite sculture che si fanno quotidianamente. Per me, questa scultura è nata da un forte sentimento, da uno slancio emotivo. Quindi, da lì poi si sviluppa un’opera, si fanno delle riflessioni, si apportano piccoli cambiamenti sull’idea originaria. L’emozione, però, è tanta.


Radio Vaticana

9/9/2009 1:02 AM
 
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Giovanni Paolo II ha fatto capire che l'antisemitismo è peccato
Ha detto il Rabbino capo di Polonia, Michael Schudrich



ROMA, martedì, 8 settembre 2009 (ZENIT.org).- “C’è antisemitismo in Polonia, ma è meno grande di quanto si possa immaginare perché la testimonianza di Giovanni Paolo II ha dato l’opportunità di comprendere che l’antisemitismo è peccato”. E' quanto ha affermato lunedì a Cracovia il Rabbino capo di Polonia M. Schudrich.

Intervenendo al panel dal titolo “Auschwitz non si può dimenticare”, inserito nella cornice dell'Incontro internazionale per la pace promosso dalla Comunità di Sant’Egidio a Cracovia a 70 anni dalla Seconda Guerra Mondiale, Schudrich ha detto che “ogni volta che anche un solo individuo ricorda il genocidio nazista [...] allontaniamo un po’ il rischio che ciò possa avvenire di nuovo”.

Il Vescovo luterano di Plock, Jürgen Johannesdotter, nella tavola rotonda “Memoria e profezia: l’eredità di Giovanni Paolo II” ha detto invece che “Giovanni Paolo II è stato il buon pastore al di là dei confini della Chiesa cattolica e di ogni Chiesa cristiana”.

“Giovanni Paolo II – ha continuato il Vescovo tedesco – ha testimoniato che non c’è pace senza riconciliazione e perdono” ed “ha vissuto e testimoniato la libertà del Vangelo anche da malato”.

Oppositore del materialismo

Nel prendere la parola lo stesso giorno Michel Camdessus, Governatore onorario della Banca di Francia, ha affermato che Giovanni Paolo II “era un uomo abitato dalla storia”, che sapeva “meditare la storia antica o recente nella sua verità, avvicinandola il più possibile, per trarne lezione e illuminare un cammino di conversione e di avanzamento verso una civiltà dell’amore”.

In lui, “memoria e profezia erano gemelle”, ha continuato Camdessus che ha poi ricordato di averlo incontrato in due occasioni, “proprio in ragione del ruolo che il Fondo Monetario Internazionale era chiamato a giocare in funzione dei suoi statuti e soprattutto, a partire dal 1989, per il sostegno ai paesi dell’Est nella transizione verso l’economia di mercato”.

“Mi ha parlato a lungo dell’esperienza del suo paese – ha raccontato –, della frustrazione dei suoi compatrioti per la mollezza o l’impotenza delle grandi democrazie di fronte all’ascesa dei grandi totalitarismi e infine alla collusione, dopo la fine della guerra, con quella che egli chiamava la vergognosa spartizione di Yalta che abbandonava i paesi dell’Est all’influenza sovietica per 40 anni”.

In questo modo, gli disse, si era potuto instaurare un regime un sotto il quale “la Polonia ha rischiato di perdere la sua anima” e “nel quale la pesante mano dello Stato insteriliva ogni creatività, ogni iniziativa”.

Per il Papa polacco, ha continuato, l’Occidente e le istituzioni mondiali dovevano evitare “le seduzioni di un altro materialismo, che egli individuava nel consumismo e nell’economismo occidentali”.

E la profonda crisi economica che attraversiamo oggi, ha commentato, “trova la sua origine profonda nell’indifferenza all’avvertimento contenuto in quella profezia del Papa e nell’abbandono del mondo a una cultura del possedere”.


Uomo di Dio

Per il Cardinale Crescenzio Sepe, Arcivescovo di Napoli, Giovanni Paolo II è stato prima di tutto e innanzitutto un “uomo di Dio” e “padre di un’umanità alla ricerca di senso”, “un’umanità smarrita, sulla quale è parso calare, a un tratto, tutto il peso della storia complessa e tragica dell’ultimo secolo del millennio”.

“Giovanni Paolo II è stato, in larga misura, il punto e a capo di un tempo nuovo – ha affermato il porporato –. La speranza è tornata a prendere respiro tra gli uomini”.

“Ma non in senso semplicemente emotivo – ha tenuto a precisare –: Papa Wojtyla ha dato conto di questa speranza e, dal primo atto del suo pontificato, non ha smesso di indicarla per nome: 'aprite, anzi spalancate, le porte a Cristo'”.

“Se la libertà è riuscita a farsi strada e a venire finalmente a capo dei molti suoi ostacoli, non è stato certo per il solo prodigarsi delle cancellerie politiche – ha aggiunto –. Gli anni di pontificato di Giovanni Paolo II hanno fatto vedere, quasi in senso fisico, come le esigenze di libertà abbiano preso a respirare e a riempire delle loro attese, il mondo intero”.

“Il suo segreto era la preghiera”, ha spiegato il Cardinale, “la sua familiarità con il Signore”. E il suo dono era “di rendere quasi viva e palpabile, proprio attraverso questa sua estrema familiarità, la presenza del Dio-accanto”.

Profeta di pace e pioniere dell'unità

Secondo il Metropolita ortodosso Serafim del Patriarcato di Romania, “Giovanni Paolo II è stato un vero profeta di pace e di unità tra gli uomini”, ed “ha saputo legare bene il patriottismo polacco con lo spirito di apertura mondiale diventando 'Pastore di popoli'”.

“E siccome la guerra ha spesso tra le cause la povertà - ha ricordato -, il beato Papa si è fatto costantemente avvocato dei poveri”, condannando “senza riserve il Nord prospero che si arricchisce a detrimento del Sud povero” ed esortando alla condivisione dei beni materiali.

Nello stesso tempo, ha continuato il Metropolita ortodosso Serafim, Giovanni Paolo II “era profondamente ferito dalla divisione dei cristiani e, a livello delle religioni, dal fatto che sono spesso causa di conflitti etnici o interetnici, invece di essere fonte di pace e benedizione per le nazioni”.

“Non posso qui nascondere l’esperienza del popolo di Dio in Romania, che durante la messa papale in presenza del patriarca Teoctis si mise spontaneamente a urlare : unitate! unitate! Era un grido profetico che i responsabili delle Chiese devono avere sempre a cuore”, ha ricordato.

Maestro nell'arte di comunicare

Franco Sottocornola, responsabile del Centro per il Dialogo Interreligioso Shinmeizan, in Giappone, ha invece rievocato il viaggio di Giovanni Paolo II in Giappone nel febbraio del 1981, quando durante l'esibizione di un coro di bambini della Scuola materna che mano nella mano si muovevano in cerchio cantando canzoni polacche, il Papa si alzò improvvisamente e si unì a loro.

“Quella scena rubò il cuore non solo dei 7000 giovani presenti, ma anche di quanti stavano guardando la televisione e di tutto il Paese”, ha commentato.

A Hiroshima, invece, dopo aver visitato il museo dell’atomica che fu sganciata sulla città il 6 agosto 1945, il Papa tenne un discorso rivolgendosi al mondo intero: “La maggior parte dei giapponesi ebbe per la prima volta la percezione della ‘cattolicità’ della Chiesa di Cristo, e del ruolo mondiale del Vescovo di Roma” oltre che della sua capacità di parlare “la lingua del cuore”.

A Nagasaki, poi, Giovanni Paolo II presiedette l’Eucaristia accogliendo nella Chiesa un gruppo di “cristiani nascosti” che ancora non avevano riconosciuto nella Chiesa cattolica la Chiesa dei loro antenati, ordinando nuovi sacerdoti e celebrando altri riti liturgici: tutto in giapponese.

“Questo fu un fatto inatteso e sorprendente”, ha esclamato Franco Sottocornola.


“Seppi, poi, da persone informate, che il Santo Padre si era preparato per mesi celebrando la Messa in giapponese nella sua cappella privata – ha raccontato – . Questa attenzione alla cultura e alla lingua del Paese ospitante commosse profondamente i cattolici giapponesi felici di sentire il Papa parlare nella loro lingua”.

Per questo si può dire che Giovanni Paolo II fu un maestro nell' “arte di comunicare con l’altro, di far sentire l’altro in contatto con noi” e “un esempio di 'dialogo'”.

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