A Marco Aurelio successe lo stravagante figlio, Lucio Aurelio Commodo.
Egli aveva compiuto da pochi mesi diciannove anni, essendo nato il 21 agosto del 160. Se nelle fattezze somigliava al padre, Commodo era completamente diverso da Marco Aurelio nell' indole: fin da fanciullo aveva dato prova dei suoi istinti malvagi ordinando -che si gettasse nel forno un servo reo di avere riscaldato troppo l'acqua del suo bagno; di studi non aveva voluto saperne e si era dato con passione agli esercizi fisici: al salto, alla danza, ai giuochi e ai piaceri.
C'era anche lui a Vindobona quando morì Marco Aurelio; e assunto all'impero, pronunciò al campo alla presenza delle truppe l'elogio del padre, poi fece noto il suo proposito di tornare a Roma. Invano i suoi generali insistettero affinchè la guerra, così bene iniziata, fosse condotta a termine: egli fu inesorabile e aderì sollecitamente alle proposte di pace che gli erano state fatte dai Marcomanni, dai Quadi e dai Buri.
Non a lui certamente si dovette se la pace fu conclusa a condizioni vantaggiose per i Romani, ma alla stanchezza del nemico che aveva subito dure sconfìtte ed all'abilità dei suoi generali, cui il padre, morendo, lo aveva raccomandato. Erano fra questi i due Quintili, fratelli notissimi più per il loro valore e la concordia che regnava tra loro che per le grandi ricchezze; Salvio Giuliano, Claudio Pompejano, che aveva sposata Annia Lucilia, vedova di Lucio Vero, e il prefetto del pretorio Tarrutenio Paterno.
Nonostante l'opera di costoro i nemici si impegnarono a restituire i disertori e i prigionieri; mentre i Marcomanni e i Quadi si impegnarono a fornire truppe ausiliarie all' impero e a riunirsi soltanto una volta l'anno e sotto la sorveglianza d'un centurione romano in un punto designato dalle autorità imperiali; i Buri accettarono di non risiedere o pascolare a meno di cinque miglia dal confine dacico.
Conclusa la pace, Commodo fece ritorno a Roma dove entrò trionfalmente. Con lui rinacquero le orge di sciagurata memoria neroniana o domiziana; e il potere cadde nelle mani di favoriti ingordi, fra cui sono degni di menzione il cubiculario Saotero e Figidio Perenne che alla morte di Marco Aurelio era stato dato come collega a Tarrutenio Paterno nella prefettura del pretorio.
Il rifiorire dei favoriti, i quali avevano l'interesse di accentrare nelle loro mani l'amministrazione dello stato e di abbassare l'autorità dell'ordine senatorio e dell'equestre, ruppe la concordia che gli Antonini avevano stabilita tra il principe e il Senato e portò come conseguenza una lotta tra i due ordini; inasprita del rifiorire degli avventurieri che si erano istallati alla corte; dunque una lotta che doveva naturalmente produrre congiure e persecuzioni.
La prima congiura di cui si abbia notizia sotto l'impero di Commodo fu capitanata da una sorella stessa del principe, Annia Lucilia. Fra i congiurati erano il marito Claudio Pompejano, Unmidio Quadrato, che aveva in moglie un'altra figlia di Marco Aurelio di nome Annia Faustina, e il senatore Quinziano, genero ed amante di Lucilia.
L'incarico di sopprimere l'imperatore era stato dato a Quinziano che ne godeva l'intimità; ma il colpo fallì: prima di colpire, Quinziano mostrò l'arma al principe esclamando «te la manda il Senato ». Commodo schivò il colpo e, gridando aiuto ai suoi guardiani, riuscì a fare arrestare il senatore (183).
L'attentato ebbe un seguito di processi e di condanne: Lucilia venne relegata a Capri dove fu trucidata; Quinziano fu messo a morte; la medesima sorte toccò ad Unmidio Quadrato; Tarrutenio Paterno, a quanto pare, non aveva preso parte alla congiura, ma era detestato da Perenne che avrebbe voluto da solo avere il comando del pretorio.
In quel tempo venne proditoriamente assalito ed ucciso anche Saotero. Si sparse la voce che autore del delitto fosse Paterno e Commodo, senza dubbio aizzato da Perenne, lo esonerò dal comando dei pretoriani nominandolo senatore. Pochi giorni dopo però, accusato di aver cospirato contro il principe, venne arrestato e messo a morte. La stessa sorte subì Giuliano, comandante delle legioni della Germania.
Né si fermarono qui le persecuzioni e le condanne: i due fratelli Quintini furono uccisi per ordine dell'imperatore e i loro beni, tra cui una magnifica villa nella campagna romana, vennero confiscati. Si ignorano i motivi di questa condanna. A morte fu condannato anche Sesto, figlio di Candiano Massimo, ma non si sa se la condanna abbia avuto esecuzione o se il condannato sia poi riuscito a scampare con la fuga.
Morto Paterno, il comando delle coorti pretorie rimase a Figidio Perenne che diventò così il vero padrone dell' impero. Si dice che egli avesse in animo di sbalzare dal trono Commodo e di dare l'impero al proprio figlio; che aveva perfino fatto coniare monete con la sua effigie.
Non sappiamo però quanto ci sia di vero in queste voci. È certo invece che Perenne si rese inviso al Senato e suscitò un vivissimo malcontento nelle legioni dell' Eritannia sostituendo i comandanti che appartenevano all'ordine senatorio altri dell'ordine equestre. Una deputazione di mille e cinquecento soldati dell'esercito della Britannia venne, tumultuando minacciosamente, in Italia. Commodo andò loro incontro nelle vicinanze di Roma alla testa di un forte gruppo di pretoriani e, ascoltate le lagnanze dei soldati, consegnò loro Perenne, che dalla turba inferocita venne messo a morte insieme con la moglie e due figli (185).