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Mangiare con...arte!

Ultimo Aggiornamento: 03/03/2007 11:27
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Tutto quello che dicevano o dicono gli artisti sul cibo. Un modo diverso di guardare le nostre pietanze!



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Il Leopardi e la minestra!

"A morte la minestra"

Metti, o canora musa, in moto l'Elicona
e la tua cetra cinga d'alloro una corona.
Non già d'Eroi tu devi, o degli Dei cantare
ma solo la Minestra d'ingiurie caricare.
Ora tu sei, Minestra, dei versi miei l'oggetto,
e dirti abominevole mi porta gran diletto.

O cibo, invan gradito dal gener nostro umano!
Cibo negletto e vile, degno d'umil villano!
Si dice, che resusciti, quando sei buona, i morti;
ma il diletto è degno d'uomini invero poco accorti!

Or dunque esser bisogna morti per goder poi
di questi benefici, che sol si dicon tuoi?
Non v'è niente pei vivi? Si! Mi risponde ognuno;
or via su me lo mostri, se puote qualcheduno;
ma zitti! Che incomincia furioso un tale a dire;
ma presto restiamo attenti, e cheti per sentire:
"Chi potrà dire vile un cibo delicato,
che spesso è il sol ristoro di un povero malato?"

E' ver, ma chi desideri, grazie al cielo, esser sano
deve lasciar tal cibo a un povero malsano!
Piccola seccatura vi sembra ogni mattina
dover trangugiare la "cara minestrina"?






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Il carciofo di Pablo Neruda!

Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero,
ispida edificò una piccola cupola,
si mantenne all'asciutto sotto le sue squame,
vicino al lui i vegetali impazziti si arricciarono,
divennero viticci,
infiorescenze commoventi rizomi;
sotterranea dormì la carota dai baffi rossi,
la vigna inaridì i suoi rami dai quali sale il vino,
la verza si mise a provar gonne,
l'origano a profumare il mondo,
e il dolce carciofo lì nell'orto vestito da guerriero,
brunito come bomba a mano,
orgoglioso,
e un bel giorno,
a ranghi serrati,
in grandi canestri di vimini,
marciò verso il mercato a realizzare il suo sogno:
la milizia.
Nei filari mai fu così marziale come al mercato,
gli uomini in mezzo ai legumi coi bianchi spolverini erano i generali dei carciofi,
file compatte,
voci di comando e la detonazione di una cassetta che cade,
ma allora arriva Maria col suo paniere,
sceglie un carciofo,
non lo teme,
lo esamina,
l'osserva contro luce come se fosse un uovo,
lo compra,
lo confonde nella sua borsa con un paio di scarpe,
con un cavolo e una bottiglia di aceto finché,
entrando in cucina,
lo tuffa nella pentola.
Così finisce in pace la carriera del vegetale armato che si chiama carciofo,
poi squama per squama spogliamo la delizia e mangiamo la pacifica pasta
del suo cuore verde.



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La Tosca!






Fonte: http://www.eat-online.net/italian/

L'ambientazione di Tosca in Roma ci introduce a molte possibilità gastronomiche! Nessun cantante lirico italiano potrebbe disconoscere l'importanza del cibo nell'opera italiana. Nel caso di Tosca, é facile ipotizzare ciò che i personaggi avrebbero mangiato.

Il cestino della colazione
L'amante di Tosca, Cavaradossi, ha un cestino della colazione preparatogli dal sacrestano della chiesa. Probabilmente la sua colazione non era molto diversa da ciò che si mangia attualmente a Roma. Potrebbe aver contenuto un pezzo di pane - probabilmente bianco, in quanto Cavaradossi era un nobile (i popolani mangiavano pane scuro e solo i più benestanti bianco); un formaggio locale di pecora, quale la Caciotta romana o il Pecorino che possiamo reperire anche oggi. Senza dubbio c'era del salame casereccio e una fiaschetta di vino - forse un bianco di Orvieto.

La cena di Scarpia
Vediamo ora cosa mangiava Scarpia in quella notte fatale. Quale capo della polizia di Roma, dovrebbe aver mangiato secondo lo stile della nobiltà romana. Poiché era sera, la sua cena era una versione più leggera del pranzo principale consumato a mezzogiorno.
Così come oggi, il cibo era uno "status" per gente come Scarpia. Il suo pranzo del mezzogiorno con molta probabilità era iniziato con un vassoio artisticamente organizzato di piccoli antipasti quali prosciutto, marzapane colorato, tartine, piccole frittelle, pane dolce e, forse, delle ostriche. Una zuppa potrebbe aver seguito questa portata - probabilmente brodo di cappone con ravioli - il loro ripieno é costituito da cappone arrostito, formaggio, cannella, noce moscata, zucchine e aromi. Poi del pesce intero arrosto farcito con tartufi o, forse, lepre in una piccante salsa agro-dolce di pepe nero, zucchero, aceto, nocciole, frutta e vino rosso. Dopo questa portata, i camerieri potrebbero avergli servito un grande piatto d'argento con un intero agnellino arrosto, rigirato su un fuoco vivo fino a rendergli una croccante crosta marrone mogano. La tenera carne potrebbe essere stata guarnita da striscioline di prosciutto ed imbevuta con vino bianco aromatizzato da erbe. Per dessert, Scarpia probabilmente gustò dolcetti e marzapane farcito e, forse, un elaborato semifreddo composto da fette di dolce guarnite di gelato. Quando Tosca entra si potrebbe immaginare che Scarpia sta appunto finendo il dessert. Il "Vin di Spagna" cui si riferisce é certamente un vino dolce, con molta probabilità uno Sherry "oloroso dorato e ricco".



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Brillat-Savarin, Fisiologia del Gusto
Fonte: http://www.letteratour.it/altro/A01culina01.htm#capo


Un deputato, conosciuto soprattutto per essere buongustaio, pubblica un'opera interamente dedicata all'apologia dell'arte culinaria, ricca di aforismi, consigli ed eventualmente anche buone ricette...

AFORISMI


I. L'universo non è nulla se non passa dalla vita, e tutto ciò che vive si nutre.
II. Gli animali si nutrono; l'uomo mangia; solo l'uomo di spirito sa mangiare.
IV. Dimmi cosa mangi, ti dirò chi sei.
XVIII. Colui che riceve i suoi amici e non cura per nulla il pasto che viene loro servito, non è degno di avere amici.
XX. Invitare qualcuno a desinare, è incaricarsi della sua felicità durante tutto il tempo in cui rimane sotto il nostro tetto.


MEDITAZIONE


Esiste una verità purtroppo troppo generale, cioè che l'uomo è assai più organizzato per sentire il dolore che non il piacere. Tuttavia il gusto, così come la natura ce l'ha donato, è ancora quello, tra i nostri sensi, che tutto sommato ci procura più godimento:
1. è un piacere a cui non segue alcuna fatica;
2. è concesso in ogni tempo, in ogni età e in ogni condizione;
3. si ha almeno tre volte al giorno;
4. può essere mescolato a tutti gli altri piaceri, e persino consolarci della loro assenza;
5. ci lascia delle impressioni durature;
6. arreca una sensazione indefinibile e particolare di benessere.
L'uomo è superiore a tutti gli altri animali (basti pensare che è onnivoro, e che può dunque gustare e godere di una varietà considerevole di cibi). La golosità è l'appannaggio esclusivo dell'uomo. L'uomo è il grande goloso della natura.

SUI VOLATILI


Sono un gran partigiano delle cause seconde, e credo fermamente che l'intero genere delle galline sia stato creato unicamente per dotare le nostre stive e arricchire i nostri banchetti.
Effettivamente, dalla quaglia al gallo cedrone, ovunque si trovi un individuo di questa numerosa famiglia, si è certi di trovare un alimento leggero, saporito, e che conviene ugualmente al convalescente e all'uomo che gode della più robusta salute.
Il tacchino è certamente uno dei più bei regali che il Nuovo Mondo abbia fatto al Vecchio.
[Sul tacchino tartufato] ...il suo succo ristoratore a più d'una volta schiarito dei visi eminentemente diplomatici.


SUI TARTUFI


Colui che dice tartufo pronuncia una grande parola che risveglia ricordi erotici e golosi nel sesso portatore di gonne, e ricordi golosi ed erotici nel sesso portatore di barba.
Questa duplicazione onorevole deriva dal fatto che questo tubero eminente sia considerato non solo squisito al gusto, ma anche dal fatto che lo si crede che elevi una potenza di cui l'esercizio è accompagnato dai più dolci piaceri.
Verso il 1780, i tartufi erano rari a Parigi [...]. Al momento in cui scrivo (1825) la gloria del tartufo è al culmine. Non si osa dire che ci si è trovati a consumare un pasto in cui non sia stata servita almeno una pietanza tartufata.
Il tartufo è il diamante della cucina.

BOZZA


Ma, dirà forse il lettore impaziente, come si deve fare, nell'anno di grazia 1825, per riunire tutte le condizioni che procurano al supremo grado il piacere della tavola? Risponderò alla vostra domanda. Raccoglietevi, lettori, e prestate attenzione: è Gasterea, è la più graziosa tra le muse che m'ispira; sarò chiaro come un oracolo, e i miei precetti attraverseranno i secoli:

Che il numero degli invitati non ecceda i dodici, affinché la conversazione possa essere costantemente generale;
Che essi siano scelti in maniera tale che le loro occupazioni siano svariate, i loro gusti analoghi, e con dei tali punti di contatto che non si sia obbligati ad aver ricorso all'odiosa formalità delle presentazioni;
Che la sala da pranzo sia illuminata, il coperto sia di una pulizia eccezionale, e l'atmosfera alla temperatura da tredici a sedici gradi;
Che gli uomini siano pieni di spirito e le donne amabili senza essere troppo civette;
Che i cibi siano di una scelta squisita, ma in numero ristretto; e i vini di prima qualità, ciascuno nella propria gradazione;
Che la progressione, per i primi, vada dai più sostanziosi ai più leggeri; e per i secondi, dai più limpidi ai più profumati;
Che il movimento di consomazione sia moderato, essendo la cena l'ultimo compito della giornata; e che gl'invitati siano come dei viaggiatori che devono arrivare insieme alla stessa meta;
Che il caffè sia bruciante, e i liquori di scelta specialissima da maestro;
Che il salotto che deve ricevere gl'invitati sia grande abbastanza da permettere a coloro che non possono farne a meno di organizzare qualche gioco;
Che gli ospiti siano intrattenuti dai piaceri della società e animati dalla speranza che la serata non trascorra senza piaceri ulteriori;
Che il tè non sia troppo carico; che gli arrosti siano artisticamente imburrati, e il punch fatto con cura;
Che il rientro non cominci prima delle undici, ma che a mezzanotte ognuno sia coricato.



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O'rraù (Il ragù) Eduardo De Filippo

'O 'rraù
'O rraù ca me piace a me
m' 'o ffaceva sulo mammà.
A che m'aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
io nun songo difficultuso;
ma luvàmmel' 'a miezo st'uso

Sì,va buono:cumme vuò tu.
Mò ce avéssem' appiccecà?
Tu che dice?Chest' 'è rraù?
E io m' 'o mmagno pè m' 'o mangià...
M' ' a faja dicere na parola?...
Chesta è carne c' ' a pummarola





Sabato domenica e lunedì (commedia di Eduardo)

ROSA Hai fatto?

VIRGINIA (piagnucolando) Devo affettare queste altre due. ,

ROSA E taglia, taglia... fai presto.

VIRGINIA Signo', ma io credo che tutta questa cipolla abbasta.

ROSA Adesso mi vuoi insegnare come si fa il ragù Più ce ne metti di cipolla più aromatico e sostanzioso viene il sugo. Tutto il segreto sta nel farla soffriggere a fuoco lento. Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera; via via che ci si versa sopra il quantitativo necessario di vino bianco, la crosta si scioglie e si ottiene così quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro e si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro quando il vero ragù è riuscito alla perfezione.

VIRGINIA ma ci vuole troppo tempo. A casa mia facciamo soffriggere un poco di cipolla, poi ci mettiamo dentro pomodoro e carne e cuoce tutto assieme.

ROSA E viene carne bollita col pomodoro e la cipolla. La buonanima di mia madre diceva che per fare il ragù ci voleva la Pazienza di Giobbe. Il sabato sera si metteva in cucina con la cucchiaia in mano, e non si muoveva da vicino alla casseruola nemmeno se I'uccidevano. Lei usava o il « tiano » di terracotta o la casseruola di rame. L'alluminio non esisteva proprio.
Quando il sugo si era ristretto come diceva lei, toglieva dalla casseruola il pezzo di carne di «annecchia» e lo metteva in una sperlunga; come si mette un neonato nella « connola », poi situava la cucchiaia di legno sulla casseruola, in modo che il coperchio rimaneva un poco sollevato, e allora se ne andava a letto, quando il sugo aveva peppiato per quattro o cinque ore. Ma il ragù della signora Piscopo andava per nominata.

VIRGINIA (compiacente) Certo, quando uno ci tiene passione.

ROSA E quello papà, se non trovava il ragù confessato e comunicato faceva rivoltare la casa.

VIRGINIA Povera mamma vosta!

ROSA Ma era pure il tipo che ti dava soddisfazione. Venivano amici e dicevano: «Signo' ma come lo fate queslo ragù che fa uscire pazzo a vostro marito! L'altra sera ci ha fatto una testa tanta "E, il ragù di mia moglie; di sotto, e il ragù di mia moglie sopra...>> e mamma' tutta contenta l'invitava; e quando se ne andavano dicevano: «Aveva ragione vostro marito». E si facevano le croci.

VIRGINIA Vostro marito invece non ci va tanto appresso.

ROSA (con ironica amarezza) Don Peppino non parla; don Peppino è superiore a queste cose. Però si combina un piatto accoputo di Ziti così... e qualcbe volta pure due.

VIRGINIA Pe' mangia' mangia'.



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La cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio



La vicenda

La vicenda è narrata in prima persona da Encolpio, giovane di buona cultura, che viaggia insieme al bel Gitone attraverso il mondo degradato e opulento dell'età imperiale. La loro storia amorosa si intreccia all'incontro con molti personaggi e a situazioni ambigue, e lascia spazio a digressioni letterarie e vivaci scene di costume.

La cena

E' Encolpio, quindi, che ci introduce alla cena di Trimalcione, un liberto diventato ricchissimo, quello che noi chiameremmo "un uomo che si è fatto da sé". Alla sua ascesa sociale, tuttavia, non è corrisposta un'ascesa intellettuale, perciò questo ricco possidente esibisce lo sfarzo in cui vive, ma non dimostra alcuna raffinatezza, e quando ostenta la propria cultura non fa altro che riportare citazioni imparate a memoria, che però confonde inevitabilmente, visto che si vanta di non essere mai stato a scuola dai filosofi.
Anche la sua famosa cena rispecchia questa tendenza all'ostentazione, perché è impostata come un susseguirsi di piatti studiati attentamente per stupire: cibi costruiti come scatole cinesi, con una sorpresa dentro l'altra; cibi che hanno un certo aspetto e poi si rivelano tutt'altra cosa; Trimalcione e i servi che recitano come su un palco, a sottolineare la teatralità delle portate. Non a caso il cuoco viene presentato con il nome di Dedalo: cuoco architetto, di cui sono esaltate le straordinarie possibilità creative; sa infatti realizzare qualunque piatto a partire da diverse materie prime: un pesce da una vulva, un colombo da un pezzo di lardo, una tortora da un prosciutto, una gallina da una pancetta. Il gusto per il travestimento dei cibi non sarà stato sconosciuto ai romani, ma qui raggiunge livelli davvero estremi.
Insomma, enigmi, travestimenti e finzioni sono gli ingredienti di questa cena.
Vediamo, allora, quali tipi di espedienti vengono usati per stupire con il cibo.

* L'antipasto con cui si apre la cena si presenta così: nel mezzo del vassoio c'è un asinello di bronzo corinzio con due bisacce piene l'una di olive bianche, l'altra di olive nere; sopra l'asinello, due piatti che portano inciso il nome di Trimalcione e il loro peso d'argento; ponticelli saldati gli uni agli altri sostengono ghiri conditi con miele e papavero. C'è poi una graticola d'argento, con salsicce calde sopra e, sotto, prugne di Siria e chicchi di melagrane per imitare la brace.

E' una portata, questa, che si serve di un oggetto decorativo (l'asinello di bronzo), è costruita con la complessità di una vera e propria architettura (i ponticelli), e offre il suggestivo effetto illusionistico di prugne e chicchi di melagrane che imitano la brace scura e incandescente.

* Mentre i convitati sono ancora all'antipasto, viene servito un grande vassoio che porta una cesta e una gallina di legno con le ali aperte a ventaglio "come fanno quando covano". Due schiavi frugano nella paglia e tirano fuori uova di pavone che distribuiscono ai commensali. Dopo questo "colpo di scena", Trimalcione si dichiara preoccupato che le uova di pavone covate da una gallina possano contenere il pulcino, e invita tutti a controllare: si spezza il guscio, fatto con densa farina, e si trova un grasso beccafico che nuota in un rosso d'uovo pepato.

Questo piatto è una sorpresa continua. Come il precedente, si serve di un oggetto decorativo (la gallina di legno). Non di poco conto, tra l'altro, è l'attenzione per la posizione delle ali, perché chi ha realizzato questo oggetto non ha proposto soltanto una gallina, ma una gallina intenta a covare. Gli schiavi, allora, frugano nella paglia, come se si trovassero in un'aia, ed ecco, per la prima volta, un colpo di scena: uova di pavone covate da una gallina! Ed è il turno di Trimalcione, che recita la sua parte fingendo preoccupazione e creando tensione tra i convitati per quello che si può trovare nelle uova; e sortisce l'effetto sperato, perché il narratore confessa che per poco non buttò via quello che aveva nel piatto, poiché gli sembrava di vedere già un pulcino ben formato. Ma non è un vero guscio, è fatto di farina, quindi il cibo non è quello che sembra, è un'illusione. Tanto è vero che, rompendo il presunto uovo, si trova un beccafico nel rosso d'uovo: un altro colpo di scena basato sull'effetto delle scatole cinesi, una sorpresa dentro l'altra.

* La portata successiva non risponde alle aspettative dei commensali, eppure li colpisce per lo spettacolo che offre. E' un grande trionfo da tavola, con i 12 segni dello zodiaco disposti in cerchio e, su ciascuno, un cibo che allude a quel segno: ceci cornuti (Ariete), una bistecca di manzo (Toro), testicoli e rognoni (Gemelli), una corona (Cancro; è il segno di Trimalcione, che non ha voluto rappresentarlo con delle vivande per non gravare sulla sua stella), fichi d'Africa (Leone), una vulva di scrofetta (Vergine), una bilancia che porta una torta in un piatto e una focaccia in un altro (Bilancia), un pesciolino di mare (Scorpione), un corvo (Sagittario), una locusta di mare (Capricorno), un'oca (Acquario), due triglie (Pesci). Al centro del trionfo, una zolla tagliata con la sua erba sostiene un favo di miele, perché la madre terra è al centro di tutto e racchiude in sé ogni dolcezza. A questo punto, quattro servi tolgono la parte superiore del trionfo e compare un vassoio con pollame ingrassato, ventresche di scrofa e, in mezzo, una lepre con le ali posizionate in modo da raffigurare Pegaso. Agli angoli, quattro satiri con piccoli otri versano salsa piccante su alcuni pesci che nuotano. La sorpresa è apprezzata, scaccia il poco entusiasmo con cui era stata accolta la portata e tutti si mettono ad applaudire.

I commensali sembrano soddisfatti solo quando viene presentata loro la sorpresa, che si basa sul gioco delle scatole cinesi: un'intera scenografia nascosta all'interno della parte centrale del trionfo.
Un aspetto che non va trascurato è che Trimalcione spiega le caratteristiche dei nati sotto ciascun segno: il cibo, quindi, non è solo delizia degli occhi e del palato, ma anche arricchimento intellettuale, perché portatrice di una simbologia che può richiedere una spiegazione. Non è comunque nostro compito valutare la profondità della simbologia di questi piatti, perché Trimalcione si presenta come un uomo grossolano e poco colto, quindi non ci si può aspettare una spiegazione raffinata.

* Iniziano i preparativi per la nuova portata. Vengono distesi sui letti tappeti raffiguranti scene di caccia: reti e cacciatori in agguato. Poi, compare una muta di cani di Laconia che corre ovunque. Finalmente, viene servito un grande vassoio con un enorme cinghiale con un berretto in testa; dalle zanne pendono due cestelli di foglie di palma intrecciate: uno pieno di datteri freschi, l'altro di secchi. Intorno, porcellini di pasta dura sembrano attaccati alle mammelle e indicano quindi che il cinghiale è femmina. Un gigante vestito con un gabbano da caccia si fa avanti e colpisce il fianco del cinghiale, e dalla ferita esce uno stormo di tordi, subito catturati dagli uccellatori. Trimalcione chiede di vedere di quali ghiande si è nutrito l'animale, e vengono serviti, in parti uguali, datteri freschi e secchi.

Il tema di questa portata viene enfatizzato in tutti i modi: non solo i tappeti, ma addirittura i cani proiettano i commensali in una battuta di caccia. E' come se venisse cambiato lo sfondo della scena per un nuovo atto teatrale. E la teatralità, alla cena di Trimalcione, è di casa, come viene ulteriormente sottolineata dal taglio della carne, compiuta dal gigante vestito da cacciatore. Un nuovo colpo di scena, quindi, con il volo dei tordi, non solo per l'effetto delle scatole cinesi (i tordi dentro al cinghiale), ma proprio per la spettacolarità del librarsi in volo degli uccelli. I porcellini di pasta dura sono un altro esempio di perizia dell'arte culinaria, la cui funzione non secondaria è quella di chiarire il sesso femminile del cinghiale. Per servire i datteri viene usato un pretesto, cioè la richiesta di Trimalcione di vedere le ghiande di cui si è cibato l'animale: il padrone di casa è sempre complice dello spettacolo che è in scena.
Come la portata precedente, anche questa richiede una spiegazione, seppure venga dichiarata superflua: il cinghiale è stato presentato con il berretto da liberto perché, servito il giorno prima come ultima portata, non era stato mangiato dai commensali ormai sazi; è, dunque, un liberto.
A questo punto, Trimalcione affranca uno schiavetto che raffigura Bacco, sottolineando questo gesto con l'esortazione "Dioniso, sii Libero", un gioco di parole basato sul fatto che Dioniso e Libero sono due appellativi di Bacco.
La scena, dunque, va ben oltre il tema della caccia e la complessa scenografia per rappresentarla; culmina con un atto di teatrale generosità del padrone di casa.

* I commensali non sospettavano di essere soltanto a metà di "quel cammino di delizie": vengono portati tre maiali bianchi vivi. Saranno gli ospiti a scegliere quale cucinare. In realtà, poi, a decidere è Trimalcione, che opta per il più grosso, perché i suoi cuochi "son capaci di mettervi in casseruola un vitello intero". Poco dopo, il maiale viene servito e tutti sono stupiti della rapidità dell'esecuzione. Ad un tratto, Trimalcione inizia a imprecare perché si è accorto che il maiale non è stato sventrato e vuole punire il cuoco che, piagnucolando, ammette di essersene dimenticato. Allora Trimalcione lo invita a sventrarlo lì, davanti a tutti: ed ecco che, dai tagli, escono salsicce e sanguinacci.

La scena è stata ben studiata: la presentazione dei maiali ancora vivi, la scelta del più grosso da cucinare e la rapidità della cottura creano le condizioni per rendere credibile l'indignazione di Trimalcione che, a ragione, si infuria per la mancanza di attenzione del cuoco; entrambi, qui, recitano una parte: il padrone indignato e il cuoco colpevole e desolato. A sciogliere la tensione è un ennesimo colpo di scena, che segue di nuovo lo schema delle scatole cinesi: il maiale che contiene salsicce e sanguinacci. Non sono le viscere che ci si aspetterebbe di vedere; ancora una volta, il cibo non è quello che sembra, è un'illusione. Il gioco sembra particolarmente riuscito, perché salsicce e sanguinacci si prestano bene a rappresentare le interiora. Il cuoco riceve l'applauso della servitù.

* Su un vassoio di 200 libbre viene portato un vitello con un elmo in testa. Uno, proprio come Aiace pazzo (sono appena stati narrati episodi omerici), taglia a pezzi l'animale, lavora di taglio e punta e offre le fette disposte sulla spada ai commensali stupefatti.

In questo episodio non c'è alcun colpo di scena, né finzione. Lo stupore dei commensali è dato dall'abilità con cui "l'Aiace pazzo" lavora la carne per servirla. Se si può parlare di teatralità dell'azione, la si deve riferire ai modi con cui viene svolta, perché non è sostenuta da alcuna costruzione preparata ad hoc. Certamente, il racconto della follia di Aiace l'ha anticipata e ha creato il giusto clima per realizzare quel taglio forsennato della carne.

* Sulla tavola è posto un trofeo colmo di torte con, in mezzo, un Priapo di pasticceria che, secondo l'uso, porta in grembo uva e frutti di ogni genere, simbolo di fecondità. I commensali stendono avidamente le mani su tanta abbondanza quando torta e frutta, appena sfiorate, gettano fuori schizzi di zafferano.

Ritroviamo qui sia l'uso della pasticceria per rappresentare un soggetto simbolico, sia un nuovo effetto sorpresa: è facile immaginare la vivacità della scena quando i commensali, intenti a prendere dolce e frutta, si vedono schizzare di zafferano…

* I commensali sono sazi perché, al solo ricordo dei manicaretti, al narratore si rovescia ancora lo stomaco. Ma Trimalcione insiste affinché ciascuno mangi una gallina ingrassata e disossata, con contorno di uova d'oca incappucciate.
* Poi, un altro piatto sapientemente preparato: tordi di fior di farina ripieni di uva passa e noci, a cui seguono mele cotogne irte di spine così da sembrare ricci. Infine, un piatto che ha l'apparenza di un'oca ingrassata circondata da pesci e uccelli di ogni tipo: il tutto preparato con carne di maiale.

Tutti questi piatti sono basati sull'apparenza: i tordi in realtà sono fatti di farina, i ricci sono mele cotogne, e anche oca, pesci e uccelli non sono quello che sembrano. Si tratta di giochi illusionistici, trasformazioni, sperimentazioni.

* Infine, entrano due schiavi che sembrano avere litigato presso la fontana e, con un randello, distruggono ciascuno l'anfora dell'altro. Rimangono tutti sbigottiti quando dalle anfore cadono ostriche e pesci pettine che uno schiavo raccoglie su un vassoio e distribuisce.

I due schiavi sono i nuovi attori che entrano in scena: il loro litigio è una finzione che crea confusione, tensione e prepara un altro colpo di scena; la rottura delle anfore, che sembra il culmine della discussione, in realtà è l'espediente per servire ostriche e pesci, che fanno il loro ingresso seguendo l'ormai consueto schema delle scatole cinesi.




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Il Don Giovanni di Mozart e la gastronomia!
Fonte:http://www.mensamagazine.it/articolo.asp?id=639



Nel Don Giovanni, una delle più favoleggiate commedie dal settecento ad oggi, del gran seduttore viene messo in evidenza più l'amore per il cibo che le sue capacità amatorie. Il compositore lo punisce non per i peccati amorosi, ma per i peccati di gola. Un susseguirsi di pranzi e cene, feste e banchetti, con una cucina ricca e sontuosa, in cui Don Giovanni non lesina grassi, condimenti o vini, perché l'opulenza, nasconde un esaltante potere afrodisiaco."

Don Giovanni, teso alla conquista di Zerlina, ordina a Leporello di distrarre Masetto, promesso sposo di Zerlina, e tutta la compagnia, offrendo loro ogni sorta di piacere e comodità:

va' con costor: nel mio palazzo conducili sul fatto. Ordina ch'abbiano cioccolatte, caffè, vini, presciutti. cerca divertir tutti. Mostra loro il giardino, la galleria, le camere; in effetto, fa' che resti contento il mio Masetto.Hai capito?

Più tardi, insiste, aggiungendo "confetti" e "sorbetti", non senza aver prima precisato la sua filosofia circa la necessità della concorrenza dei piaceri per formare un vero libertino:

Fin ch'han del vino calda la testa, una gran festa fa' preparar. Se trovi in piazza qualche ragazza, teco ancor quella cerca menar…Ed io frattanto, dall'altro canto, con questa e quella vo' amoreggiar.

Non basta. Sfidato dallo spirito del Commendatore ucciso in duello a recarsi a cena da lui, consapevole che il cimento a cui viene sfidato potrebbe essergli fatale e dannarlo per sempre, Don Giovanni accoglie la sfida senza tentennamenti (è in gioco la libertà, la sua libertà di libertino che non ammette limiti, a costo della vita) invitando a sua volta il Commendatore a cena a casa sua.
La sera convenuta da' ordine che venga allestita, per due, una cena sontuosa, innaffiata dai vini migliori. Consapevole o meno della sorte che lo attende, l'impenitente libertino non rinuncia, fino all'ultimo, ai suoi piaceri: "Già la mensa è preparata. Voi suonate, amici cari: giacché spendo i miei danari io mi voglio divertir. Leporello, presto in tavola!" E i "bocconi da gigante", i "pezzi di fagiano", l'"eccellente Marzimino" si susseguono, tra inni ai piaceri e fermezza nel loro godimento, senza pentimenti, fino alla morte: (a Donna Elvira) "Lascia ch'io mangi, e, se ti piace, mangia con me", "Vivan le femmine! Viva il buon vino! Sostegno e gloria d'umanità!".
E al Commendatore che, al motto di "Non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste", lo invita, senza appello, al pentimento, la replica di Don Giovanni è secca e netta:

- Pentiti, scellerato
- No, vecchio infatuato! -
- Pentiti! -
- No -
- Sì -
- No -
- Ah! Tempo più non v'è! -

Il Commendatore sparisce, la terra s'apre e inghiotte Don Giovanni tra lingue di fuoco infernali. Egli soccombe, inneggiando senza pentimenti, ai piaceri della vita, alle femmine, al buon vino.
La morale dovuta e pretesa (ma per Mozart l'opera era finita lì) era scontata: "Questo è il fin di chi fa mal! E de' perfidi la morte alla vita è sempre ugual!".

[Modificato da Nina§ 29/01/2007 18.56]



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La prima sorsata di birra! P. Delern

La prima sorsata di birra di P.Delern

"E' l'unica che conta.Le altre, sempre piu' lunghe, sempre piu' insignificanti, danno solo un appesantimento tiepido,un'abbondanza sprecata.
L'ultima, forse, riacquista, con la delusione di finire, una parvenza di potere...
Ma la prima sorsata! Comincia ben prima di averla inghiottita. Gia' sulle labbra un oro spumeggiante, frescura amplificata dalla schiuma, poi lentamente sul palato beatitudine velata di amarezza. Come sembra lunga, la prima sorsata. La beviamo subito, con un'avidita' falsamente istintiva. Di fatto tutto sta scritto: la quantita', ne' troppa ne' troppo poca che e' l'avvio ideale,il benessere immediato sottolineato da un sospiro, uno schioccar di lingua, o un silenzio altrettanto eloquente, la sensazione ingannevole di un piacere che sboccia all'infinito... Intanto, gia' lo sappiamo. Abbiamo preso il meglio. Riappoggiamo il bicchiere, lo allontaniamo un po' sul sottobicchiere di materiale assorbente. Assaporiamo il colore, finto miele, sole freddo. Con tutto un rituale di circospezione e attesa, vorremmo dominare il miracolo appena avvenuto e gia' svanito. Leggiamo soddisfatti sulla parete di vetro il nome esatto della birra che avevamo chiesto. Ma contenente e contenuto possono interrogarsi, rispondersi tra loro, niente si riprodurra' piu'. Ci piacerebbe conservare il segreto dell'oro puro e racchiuderlo in formule.Invece, davanti al tavolino bianco chiazzato di sole, l'alchimista geloso salva solo le apparenze e beve sempre piu' birra con sempre meno gioia. E' un piacere amaro:si beve per dimenticare la prima sorsata di birra."



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Il mangiare dei filosofi.

In quanto uomini ancor prima che pensatori (si ricordi il detto latino “primum vivere, deinde philosophari”), anche i filosofi hanno (avuto) i loro “piatti preferiti”, rivelandosi non di rado dei grandi estimatori del “mangiar bene”. L’attenzione che essi hanno riservato al cibo affiora, oltre che dalle loro autobiografie (nelle quali spesso menzionano esplicitamente i loro piatti preferiti), anche nelle loro stesse opere filosofiche, in cui le metafore – diciamo così – culinarie sono ricorrenti e testimoniano un’incredibile attenzione alla sfera eno-gastronomica… Ludwig Feuerbach, a una sua famosa opera del 1862, aveva dato il titolo Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia. L’uomo è ciò che mangia: in tedesco, “der Mensch ist was er isst”. L’obiettivo manifesto che Feuerbach si pone è, naturalmente, quello di sostenere un materialismo radicale e anti-idealistico, a tal punto da portarlo a sostenere che noi coincidiamo precisamente con ciò che ingeriamo… Forse questa coincidenza tra essere e mangiare potrà sembrare un po’ eccessiva, ma è innegabile il fatto che, se siamo, è perché mangiamo. Che poi siamo ciò che mangiamo, forse è un po’ troppo, con buona pace di Feuerbach. Un antico adagio dice che non si può pensare con la pancia vuota: e Aristotele stesso ci ricorda, nella Metafisica (982 b 21), che la filosofia nasce quando l’uomo ha risolto i suoi bisogni primari.

Platone, che pure a questo mondo preferiva decisamente quello eterno e immutabile delle Idee, non era certo insensibile al mangiar bene: di lui si sa che amava olive e fichi secchi. Nella Lettera settima, inoltre, Platone se la prende con i Siracusani, accusandoli di mangiare ben tre volte al giorno!

È poi risaputo che i Pitagorici teorizzarono il vegetarianesimo come prassi di vita, nella convinzione che l’uomo non dovesse cibarsi di carni perché, nella misura in cui le anime possono reincarnarsi anche negli animali, ciò equivarrebbe a essere cannibali… E Pitagora proibì ai suoi discepoli di mangiare fave e la leggenda vuole che egli stesso, inseguito dai suoi nemici, si fece da essi catturare anziché mettersi in salvo correndo per un campo di fave.

Di Epicuro, invece, è diventata proverbiale l’ingordigia, come se egli in tutta la sua vita non avesse fatto altro che fare grandi abbuffate e grandi bevute… Tant’ che se oggi diamo dell’epicureo a qualcuno, alludiamo alla sua sfrenatezza in materia di piaceri… Eppure quest’immagine di Epicuro che beve e si abbuffa a più non posso non corrisponde pienamente alla realtà, benché, nel tramandarcela, la tradizione sia stata piuttosto uniforme. Nella famosa Lettera a Meneceo, scrive testualmente Epicuro:

“Allorché affermiamo che il piacere è il fine, non facciamo riferimento ai piaceri dei dissoluti e a quelli che risiedono nel godimento dei sensi – come ritengono alcuni ignoranti che non sono d’accordo oppure che interpretano malamente –, ma il non soffrire nel corpo né turbarsi nell’anima. Non sono infatti le bevute e i continui bagordi ininterrotti, né il godimento di ragazzini e donne, né il gustare pesci e altre cibarie, quante ne porta una tavola riccamente imbandita, che possono dar luogo a una vita piacevole, bensì il ragionamento assennato, che esamina le cause di ogni scelta e repulsa, e che elimina le opinioni per effetto delle quali il più grande turbamento attanaglia le anime”.

All’immagine di un Epicuro che si abbuffa di cibi raffinati, si deve sostituire quella di un uomo sobrio ed equilibrato, che si accontenta di tacitare i morsi della fame con del cibo frugale: fichi e formaggio.

Lo stesso Lucrezio, che si professava epicureo, nel suo poema De rerum natura (III, 931 e ss.) cercava di fugare la paura della morte ricorrendo a un’immagine “culinaria”. Chi si accinge a morire – spiega Lucrezio – deve ragionare come un convitato sazio quando finisce il banchetto: se la vita trascorsa é stata colma di gioia, allora ci si può ritirare da essa come un convitato sazio e felice dopo un lauto banchetto; se, al contrario, é stata segnata da dolori e tristezze, non ha senso desiderare che essa prosegua, trascinandosi tra nuove sofferenze.

Ben più radicale degli epicurei era Diogene di Sinope, il celebre “Cinico”: rigettando la sontuosità delle mense imbandite di cibi raffinati che titillano il palato, anch’egli opta per la frugalità dei pasti, tant’è che ci viene spesso descritto nell’atto di mangiare del pane ordinario e delle lenticchie; addirittura, se questo aneddoto non è solo una leggenda, quando vide un fanciullo che beveva nel cavo delle mani, Diogene gettò via dalla bisaccia la ciotola, esclamando con soddisfazione: “un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità!”. Diogene buttò poi via anche il catino, quando vide un fanciullo che, rotto il piatto, pose le lenticchie nella parte cava di un pezzo di pane.

Anch’egli nemico dello sfarzo (senza però arrivare all’estremismo di Diogene), Seneca amava la cucina poco elaborata, alla buona, semplice ma genuina. Egli scrive nel De tranquillitate animi:

“Mi piace il cibo che non debbano elaborare e sorvegliare stuoli di servi, non ordinato molti giorni prima né servito dalle mani di molti, ma facile a reperirsi e semplice, un cibo che non ha nulla di ricercato o di prezioso, che non verrà a mancare da nessuna parte si vada, non oneroso per il patrimonio né per il corpo, tale da non uscire poi per la stessa via dalla quale è entrato 7. Mi piacciono il servo alla buona e lo schiavetto rustico, l'argenteria massiccia ereditata dal padre contadino che non reca norni di artigiani, e una tavola che non si fa notare per la varietà delle venaturel e che non è famosa in città per il frequente susseguirsi di padroni eleganti, ma che sia improntata alla praticità, tale da non trattenere su di sé gli occhi di nessun commensale per il piacere né accenderli di invidia”.

In sintonia coi Pitagorici, anche Porfirio porta avanti la causa vegetariana: nel suo trattato Astinenza dagli animali, egli spiega che gli animali non possono essere sfruttati dall’uomo e considerati semplicemente disponibili per i suoi bisogni. Il suo trattato consiglia l’astinenza anche in un’ottica ascetico-religiosa: un’alimentazione a base di frutta e verdura, più sobria e frugale di quella a base di carne, oltre a essere più salubre per il corpo, è certamente migliore per la vita dell’anima, e più adatta all'uomo religioso che cerca l’assimilazione al divino nel distacco da tutte le passioni e da tutti i piaceri del corpo; gli dèi, inoltre, non gradirebbero affatto i sacrifici cruenti e le combustioni delle vittime, che andrebbero a ingrassare solo il godimento dei dèmoni malvagi. Scrive Porfirio:

“La carne non contribuisce alla buona salute, ma è piuttosto di ostacolo ad essa. Infatti la salute si conserva con quei mezzi dai quali essa riceve forza: e riceve forza da una dieta leggerissima e senza carne [...]. Infatti né della forza né dell’accrescimento della robustezza ha bisogno il filosofo se vuole volgere la mente alla contemplazione e non alle azioni e alle intemperanze. Nulla di strano che la maggioranza degli uomini creda che il mangiar carne contribuisce alla buona salute: perché è degli stessi credere che conservano la salute i godimenti e i piaceri erotici, i quali non hanno mai giovato a nessuno, e bisogna contentarsi se non l’hanno danneggiato”.

Uova, noci, riso, patate, pane, mele, biscotti, latte e soprattutto salsicce, sono gli alimenti per i quali Friedrich Nietzsche ebbe una particolare predilezione. Potrebbe sembrare apparentemente alquanto poco usuale che, l’ideatore del Superuomo avesse anche una passione travolgente per il cibo e per alcuni prodotti in modo particolare. Eppure è così. Certo, il suo modo di cibarsi non era particolarmente ordinato e forse neanche dieteticamente equilibrato. Basti pensare che, nel suo ultimo anno di lucidità, il 1888, spesso accostava “bistecca, omelette, prosciutto e tuorli d’uovo crudi con pane”. La sua dieta, come si evince, era tutt’altro che “in bianco”. L’alimento, però, per il quale aveva una vera e propria forma di attrazione erano le salsicce, che si faceva inviare regolarmente per posta dalla madre. Infatti, nell’anno 1880, la quasi totalità della sua corrispondenza con la propria madre, era costituita da una serie interminabile di ordinazioni di prosciutti e salsicce; che egli appendeva delicatamente e con cura, tramite una cordicella, alla parete. Stranamente, come bevanda non amava né l’alcol, né la birra. Al contrario, ebbe parole d’elogio verso la buona acqua, per bere la quale, portava sempre con sé un bicchiere. Nell’anno trascorso a Torino, Nietzsche apprezza molto l’atmosfera che vi si respira. Non manca di parlarne, nella sua fitta corrispondenza, con la sorella, con Peter Gast e con Franz Overbeck. A Torino, era spesso di ottimo umore e raccomandava agli amici di prevedere un soggiorno nella città subalpina. Che cosa lo esaltava particolarmente? Il clima allegro delle persone che incontrava quotidianamente, dalla fruttivendola ai librai, dal gelataio al signor Fino, l’edicolante che gli affittava una stanza in Via Carlo Alberto. Ma soprattutto amava sostare nelle osterie e mangiare i piatti poveri ma molto nutrienti della cucina piemontese. “La cucina piemontese è la mia preferita”, scrive in Ecce homo, la sua autobiografia.

Sappiamo invece (e non è un pettegolezzo) che, sempre a Torino, Jean-Jacques Rousseau rubò in diverse occasioni… i famosi grissini torinesi, dei quali andava ghiotto.

La ben nota scrupolosità di Immanuel Kant trovò anche in sede alimentare un suo campo d’applicabilità: il filosofo tedesco fu sicuramente quello che definiremmo oggi una “buona forchetta”. In particolare, quando assaggiava qualcosa di nuovo che gli piaceva, non mancava di farsi dare la ricetta. Tra le sue abitudini alimentari più bizzarre ricordiamo che, quando mangiava la carne, la masticava a lungo in modo da ricavarne il succo, che poi ingoiava, mentre la parte solida non veniva ingoiata. Non era di suo gradimento la cucina particolarmente sofisticata: preferiva quella semplice e alla buona. A differenza delle abitudini moderne, tutti i suoi pasti duravano molto, poiché non mangiava velocemente e non gli piaceva alzarsi dalla tavola subito dopo aver finito il pasto. Non mangiava mai da solo, poiché sosteneva che mangiare da soli è nocivo e che c’è sempre bisogno di una buona compagnia, alla quale faceva recapitare sin dal mattino l’invito a pranzo. Preferiva che i commensali fossero da tre a nove: “non meno delle Grazie e non più delle Muse”. Un aneddoto racconta che, un giorno, ritrovandosi da solo, disse al proprio cameriere di invitare il primo passante a pranzare con lui. Solamente i suoi pranzi erano particolarmente lunghi ed elaborati; la sua colazione, invece, che consumava alla cinque del mattino, consisteva soltanto in una o due tazze di tè. Durante le stagioni calde, sembra che Kant avesse l’abitudine di mangiare con la finestra che si affacciava sul giardino aperta, in modo che l’aria profumata stimolasse il suo appetito e la sua digestione. Si può allora dire che Kant non si cibava solo di quelle idee che sconvolsero il pensiero filosofico a partire dal 1700... Pare aggiungesse la senape ad ogni alimento e andasse matto per il baccalà e per il formaggio olandese.

Dal canto suo, Ludwig Wittgenstein al cibo non s’interessava affatto: l’importante era che in tavola trovasse sempre lo stesso piatto…

Karl Marx sembrava invece attento al bere più che al mangiare: in particolare, egli era un gran bevitore di birra, specie nei suoi anni universitari.

Anche Hegel pare che non disdegnasse il bere, preferendo però il vino alla birra: addirittura, per render conto del passaggio dalla religione alla filosofia all’interno del suo sistema, egli spiega che è un po’ come con lo champagne, quando nel calice la schiume si fonde con vino…
Il più materialista dei materialisti, l’ateo illuminista La Mettrie, pare amasse gozzovigliare e fare pasti pantagruelici: a tal punto che sarebbe morto per un indigestione di patè di fagiano, di cui era davvero ghiotto (forse troppo…).

E Arthur Schopenhauer, dal canto suo, consumava i suoi pasti generalmente al “Ristorante Inglese”: cominciando a mangiare, metteva sulla tavola, dinanzi a se, una moneta d’oro, che riponeva in tasca a pasto finito. Un cameriere, senza dubbio indignato, gli chiese alla fine il significato di quell’invariabile cerimonia. Schopenhauer rispose di aver promesso a se stesso di lasciar cadere la moneta nella cassetta dei poveri il primo giorno in cui avesse udito gli ufficiali inglesi, che pranzavano nel ristorante, discorrere di qualche cosa che non fosse di cavalli o di donne o di cani…
Con un’immagine alquanto efficace, Ernst Bloch dice che “l’uomo non vive di solo pane, specialmente quando non ne ha”: fuor di metafora, è nei momenti più desolati e difficili (le carestie, le guerre, ecc) che si fa sentire con più forza la spinta a trascendere il presente e a sperare in un futuro migliore.
Fonte:http://www.filosofico.net/filosofiatavola.htm

[Modificato da Nina§ 10/02/2007 23.57]



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Satie e la gioia del cibo!





Certamente un compositore così stravagante, conosciuto per la sua arguzia ed i suoi inimitabili giochi di parole, Satie, a giudicare dalla sua corrispondenza ebbe una ambigua relazione con le arti culinarie. In un articolo su “L’arte della tavola”, egli scrisse: “ personalmente ho sempre nutrito grande ammirazione , anzi, un’ammirazione senza confini, per le arti culinarie. Sono tutt’altro che indifferente ad un buon pasto. Direi perfino che ho una sorta di rispetto, o perfino di più…Per me, mangiare è un dovere naturale, molto piacevole, e voglio portare avanti questo compito con esattezza e con l’attenzione dovuta.
Il mio appetito è buono e mangio per me stesso, senza ingordigia alcuna. In altre parole, la mia postura è migliore a tavola che a cavallo, anche se cavalco piuttosto bene(…)
Durante un pasto svolgo un ruolo centrale: sono un ospite a tavola come lo sono gli spettatori a teatro. Sì…lo spettatore ha un ruolo ben definito: egli ascolta e vede, l’ospite mangia e beve. In questo senso è la stessa cosa – nonostante le differenze fra i due ruoli.”…”I piatti che richiedono una virtuosità calcolata o una scienza particolare nella preparazione non sono quelli che attirano la mia attenzione per il gusto. Nell’arte, amo la semplicità come la amo nel cibo…”

Nel 1903 Satie compose un pezzo per pianoforte a quattro mani intitolato “Trois morceaux en forme de poire avec une manière de commencement, une prolongation du me^me et un en plus, suivi d’une redite” (Tre pezzi a forma di pera con un inizio, un prolungamento dello stesso e uno in più, seguito da un ritornello), che nonostante il titolo è una composizione di cinque pezzi.
Per Satie, il numero tre aveva un’importanza predominante: era una sorta di numero magico. In un volume dedicato a Satie della Collezione Seuil’s Solfèges, Anne Rey spiega che “è stato dimostrato che Satie collegava il simbolismo del numero TRE ad uno specifico modo di fare e ascoltare musica, secondo un’attitudine che può essere definita mistica”.






Fonte:http://www.mondodelgusto.it/



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