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Quarantennale di Dallas nella stampa. 2^parte. CITATO SITO FERRERO!

Ultimo Aggiornamento: 23/11/2003 14:43
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23/11/2003 14:33

ANNIVERSARI

MORTE DI UN PRESIDENTE


di Massimo Ferrari


QUARANT’ANNI FA, L’ATTENTATO DI DALLAS CONTRO JOHN FITZGERALD KENNEDY, ANCORA OGGI UNO DEI GRANDI MISTERI DEL XX SECOLO

DALLAS, 22 NOVEMBRE 1963: le fucilate esplose da Lee Harvey Oswald uccidono il presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, durante una visita elettorale nella città texana. Il fatto lasciò di ghiaccio l’opinione pubblica internazionale suscitando un’ondata di emozioni e cordoglio tanto all’estero quanto negli Usa. JFK appariva agli occhi del mondo come l’immagine buona dell’America, pronta ad aiutare i più deboli con la sua forza economica e militare e nello stesso tempo comprensiva e rispettosa delle esigenze degli altri.

Era proprio così? Molti storici oggi ridimensionano il mito di Kennedy, che sostenne la causa dei diritti civili ma fu poi molto cauto nel concederli ai neri d’America (sebbene fosse vicino alle posizioni di Martin Luther King); che promosse la causa dello sviluppo internazionale ma badò bene a mantenere una posizione preminente per gli Usa; che apparve come l’uomo dalla faccia pulita e dalla coscienza adamantina ma fu sospettato di comportamenti personali censurabili e relazioni pericolose.

In realtà, esistono due miti che riguardano JFK: l’uno che coglie solo gli aspetti positivi, attribuendogli un’immagine eccessivamente agiografica, e l’altro completamente negativo. Certo, Kennedy non mancò di alimentare profonda ammirazione ma anche odi radicati: sul piano razziale, per esempio, fu antisegregazionista tiepido ma inequivocabilmente favorevole alla piena concessione dei diritti alla minoranza nera e molti esponenti del partito democratico del Sud non glielo perdonarono.

Nelle relazioni internazionali, Kennedy fece andare in bestia il Cremlino più di quanto si immagini: propose il superamento della posizione del suo predecessore Eisenhower, che aveva basato la sicurezza dell’America sulla dottrina della risposta nucleare immediata: chi avesse aggredito o cercato di aggredire gli Usa avrebbe dovuto subire la ritorsione di tutto il loro arsenale atomico.



JFK si rese conto che questa posizione garantiva solo in apparenza l’incolumità del suo Paese, perché in realtà lo obbligava ad assumere posizioni senza ritorno o a cedere. Per evitare passi falsi, senza perdere in credibilità, Kennedy mantenne e rafforzò l’arsenale atomico americano, facendo formulare, però, al Pentagono, una nuova teoria dell’impiego delle forze militari, chiamato "risposta flessibile" e basato su una vasta panoplia di armi capaci di garantire il successo in caso di confronto con l’Urss anche senza ricorrere all’arma atomica. Per questo, il presidente, appoggiato dal segretario alla Difesa Robert McNamara, avviò un massiccio programma di acquisizione di nuove armi e mezzi che assorbì ingenti investimenti, facendo contenti gli industriali del settore ma rendendo ben poco soddisfatti gli imprenditori di altri campi. E anche gli Stati maggiori non furono soddisfatti, pur se JFK mantenne una posizione estremamente dura verso i movimenti comunisti internazionali, arrivando a paragonarli a un’infezione che andava contenuta a qualsiasi costo. Per arginarli, vennero identificate due vie. Una, quella dello sviluppo dei Paesi alleati e del Terzo mondo, si rivelò la più pericolosa per i teorici del socialismo reale, in quanto mirava a sottrarre loro consensi con una politica attenta alle esigenze delle masse, da attuarsi con generosi aiuti. Alla carota, però, si accompagnava il bastone, in quanto la Casa Bianca inaugurò un’attiva politica di contenimento della sovversione comunista, soprattutto nel Sudest asiatico e in America latina. Così, Kennedy avviò la politica di impegno americano nel Vietnam e affrontò, con la sfortunata impresa della Baia dei Porci, una stagione di duro confronto con Cuba.

Insomma, tra finanziamenti per la difesa e impegno anticomunista, JFK si alienò molte simpatie nel settore progressista della società, in patria e all’estero. La pagina forse più gloriosa e indiscutibile dell’amministrazione Kennedy fu la sfida lanciata per la cosiddetta "nuova frontiera", ovvero la conquista dello spazio. L’America era profondamente frustrata per i primi successi missilistici sovietici, la cui valenza strategica, militare e propagandistica andava ben al di là della messa in orbita di un satellite o di una capsula contenente un astronauta.

Gli Sputnik erano il segno di una superiorità tecnologica e di un prestigio destinato a pesare negli equilibri internazionali: Kennedy lo comprese e lanciò gli Usa in una sfida senza ritorno la cui posta era la conquista della Luna. Per questo scopo, non vennero lesinati stanziamenti e l’impegno dei migliori cervelli del Paese. Alla fine, la superiorità nella corsa spaziale venne conseguita, anche al di là del mandato di Kennedy e, anzi, divenne una costante di tutte le amministrazioni americane che gli succedettero.

Ma l’uomo del duro braccio di ferro con Castro e Kruscev per Cuba e che lanciò la sfida contro il muro di Berlino fu anche quello della chiacchieratissima amicizia con Frank Sinatra e altre personalità del mondo dello spettacolo e della finanza sospettate di legami con la mafia, oltre che il presunto amante di Marilyn Monroe e, inoltre, il responsabile indiretto del suo suicidio, in una girandola di rivelazioni in cui il pubblico e il privato si sono mischiati in intrecci nei quali le ombre hanno prevalso di molto sulle luci.



Eppure, quale che sia il giudizio storico sul personaggio, a 40 anni dalla sua tragica scomparsa, resiste inossidabile l’immagine che di lui avevano costruito i media e che egli stesso aveva promosso: quella di un giovane di buona famiglia, marito e padre esemplare, eroe di guerra, che aveva avuto il coraggio di lanciare l’America in una sfida dal sapore di un sogno e di esserne uscito vincitore. Sotto questo aspetto, lo spirito degli anni di John Fitzgerald Kennedy, anche se allora spalancò le porte all’insoddisfazione giovanile culminata nelle rivolte dei campus e nella contestazione, resiste ancora oggi come uno dei grandi miti dell’America contemporanea.

Massimo Ferrari


Tra le tesi anche... gli Ufo
L’apparente inconsistenza di un movente qualsiasi, se non legato a un complotto, spinse i giornalisti sin dai primi giorni della tragedia di Dallas a ipotizzare che dietro alla morte di John Fitzgerald Kennedy si nascondessero trame inquietanti, riconducibili sia alla malavita sia a centri politici ed economici antagonisti. Gli interventi dell’Fbi, dei servizi segreti e della magistratura avviarono una serie di inchieste dettagliate circa i molti punti oscuri delle indagini sul delitto.

Colpì anche il fatto che Lee Harvey Oswald, presunto autore del delitto, fosse stato eliminato a sua volta da un privato qualsiasi, Jack Ruby, che era fin troppo facile immaginare come un killer inviato da mandanti occulti, per impedirne eventuali pentimenti. Il Rapporto Warren, redatto da un’apposita commissione riunita dal Parlamento per fare luce sull’intera vicenda, aprì più interrogativi di quanti ne chiarisse, lasciando ipotizzare interventi della mafia e dei fuoriusciti cubani. Insomma, in 40 anni le ipotesi sulla fine di JFK, tutte più o meno allineate sull’ipotesi del complotto, si sono moltiplicate, senza però che si arrivasse a una parola conclusiva. La più bizzarra sostiene che il presidente sia stato eliminato perché voleva rivelare la presenza a Roswell dei resti di esseri extraterrestri. Ma c’è chi è andato controcorrente. Lo studioso italiano Diego Verdegiglio, per esempio, sentiti numerosi esperti giudiziari italiani, è giunto alla conclusione che la verità ufficiale sul delitto di Dallas sia attendibile, mentre quella del complotto sia inconsistente.



Assassini venuti dal nulla
A circondare di un alone di mistero la morte di JFK ha contribuito la scarsa visibilità del suo assassino. Lee Harvey Oswald era infatti un ex marine che lavorava come dipendente del deposito di libri della Texas School di Dallas. Un anonimo impiegato, per di più addetto a un lavoro sedentario e senza militanze politiche o ideologiche particolari: difficile pensare a lui come a un killer professionista. Ma anche Jack Ruby, l’uomo che uccise Oswald con un gesto clamoroso consumato davanti a telecamere e giornalisti, era un signor nessuno: gestore di locali notturni in odore di rapporti con la mafia, non poteva essere classificato un omicida di professione. A lasciare perplessi fu la modalità con cui Ruby eliminò Oswald: in diretta tv, sotto gli occhi del mondo intero, senza che la polizia avesse preso le opportune misure di tutela di un imputato speciale qual era il presunto omicida di Kennedy. Che, inoltre, era accusato di aver eliminato anche l’agente di polizia Tippit, che lo aveva fermato per normali controlli. Da questi punti, prese le mosse l’ipotesi del complotto ideato da mandanti eccellenti.



Fascino di una storia tutta americana
L’ipotesi del complotto dietro la fine di JFK, alimentata dalle non sempre convincenti spiegazioni del Rapporto Warren e di altre inchieste, ha fornito lo spunto per numerosi testi e articoli: tra loro il monumentale libro di Norman Mailer Oswald. L’avallo più forte alla tesi del complotto viene dal film di Oliver Stone JFK, che ha reso un’ampia documentazione della vicenda. E che a 40 anni di distanza non cessa di attirare i curiosi, come dimostrano i tanti siti sul primo presidente cattolico degli Usa.

Tra i più interessanti, in inglese: www.cs.umb.edu/jfk.library/, www.whitehouse.gov/histori/president/jk35.html e www.nps.gov/jofi/, che forniscono una ricca messe di notizie, foto e curiosità.

Da non perdere il sito italiano www.johnkennedy.it che contiene un’esauriente e puntigliosa documentazione circa l’assenza di un complotto dietro la fine del presidente.
l' articolo


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[Modificato da Stefano F. 23/11/2003 14.35]

[Modificato da Stefano F. 23/11/2003 14.56]

Stefano
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23/11/2003 14:43

paginedidifesa.it: kennedy, la scelta tra nucleare e forze convenzionali
Kennedy, la scelta tra nucleare e forze convenzionali

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Franco Apicella, 22 novembre 2003


Il 22 novembre 1963 veniva assassinato a Dallas il presidente USA John F. Kennedy. Solo un anno prima il mondo aveva sfiorato la catastrofe nucleare con la crisi dei missili che Kruschev aveva schierato a Cuba, cercando di spostare verso l'America quel confronto USA - URSS materializzato in Europa con la costruzione del muro di Berlino.
L'URSS pensava di tenere in pugno gli occidentali con il ricatto nucleare, ma aveva dovuto rinunciare all'idea di impadronirsi di Berlino Ovest causando una prima crepa al momento quasi impercettibile nel sistema sovietico. A determinarla furono le decisioni di Kennedy, che aveva disposto un sensibile incremento delle forze convenzionali e manifestato chiaramente la sua determinazione a usare ogni mezzo per difendere la parte di città in mano agli alleati.

Kennedy e i suoi strateghi, tra cui va ricordato Mc Namara come il più autorevole, compresero che l'arma nucleare per quanto devastante negli effetti non poteva da sola assicurare la credibilità della deterrenza. Era necessario disporre di una serie completa di opzioni che potessero fronteggiare in maniera proporzionata e dunque credibile la minaccia rappresentata da qualsiasi iniziativa avversaria, percorrendo - a iniziare dal basso - i gradini dell'escalation.

Ancora più pregevole appare questa transizione se si pensa che negli USA fino ad allora l'approccio all'eventuale confronto armato con l'URSS, fortemente influenzato dalla lobby dell'USAF, considerava come inevitabile lo scenario nucleare ed era basato di fatto sulle possibilità di sopravvivenza e risposta residue dopo il primo attacco o primo scambio. In questa ottica la parte delle forze convenzionali era marginale.

Introducendo invece nell'equazione anche le forze convenzionali si elevava la soglia oltre la quale la deterrenza passava alla minaccia nucleare e si aprivano nuove possibilità alla gestione della crisi. Perché potesse accadere tutto questo era forse necessario attraversare come fosse una sorta di verifica la crisi di Cuba, in cui l'escalation della minaccia varcò dichiaratamente e in modo credibile la soglia del nucleare. Ma intanto si era compiuto il passaggio dalla "massive retaliation" alla "flexible response".

Questa svolta nel pensiero strategico USA ebbe due conseguenze, distanti tra loro nel tempo e diverse per i risultati che conseguirono.

La prima, quasi immediata, fu una maggiore disponibilità di forze convenzionali che indirettamente faciliterà l'impegno diretto e massiccio degli USA in Viet Nam. A dire il vero all'epoca la strategia dell'amministrazione Kennedy in quello scacchiere non fu tra le più brillanti. Pur avendo intuito l'esigenza di adottare un nuovo approccio rispetto al mix di aiuti, consiglieri militari e CIA, alla fine si scelse una via di mezzo tra il ritiro completo e lo schieramento di un vero e proprio contingente militare a sostegno del sud Viet Nam.

Si decise infatti di incrementare il numero dei consiglieri militari e l'ingerenza politica arrivando all'invio di ben 16.000 consiglieri, premessa di quello che diventerà l'enorme e disastroso impegno delle forze armate USA sotto le successive amministrazioni.

La seconda conseguenza dell'incremento delle forze convenzionali deciso da Kennedy si farà invece sentire alla distanza, quando il gap tecnologico, industriale ed economico tra USA e URSS contribuirà, tra gli altri fattori, a determinare il crollo dell'impero sovietico non più in grado di competere con l'occidente.

Il mantenere consistenti forze, la cui credibilità può essere fondata solo sulla loro efficienza e sulla efficacia dei mezzi disponibili, implica il sostegno dell'apparato economico industriale che, a sua volta, ne riceve impulso decisivo. La decisione di Kennedy evitò in sostanza che i settori della ricerca e della produzione degli armamenti convenzionali venissero abbandonati o quanto meno trascurati, come invece avrebbe potuto accadere se ci si fosse concentrati solo sul nucleare.

In questo modo, nel bene e nel male, l'industria degli armamenti ha operato e prosperato in tutti i suoi settori, spesso condizionando anche le scelte politiche, quasi sempre quelle militari. Anche questo forse era un prezzo da pagare per la fine del bipolarismo.


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Stefano
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