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Minacce camorriste a Roberto Saviano

Ultimo Aggiornamento: 15/10/2008 10:37
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13/10/2006 17:08
 
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NAPOLI - Minacce allo scrittore che ha raccontato la camorra imprenditrice e le storie della faida di Scampia. Lettere minatorie, telefonate mute. E anche un isolamento ambientale che mette paura forse più delle intimidazioni. Adesso dovranno essere adottate nuove misure di protezione per Roberto Saviano, 28 anni, l'autore del libro-inchiesta "Gomorra", edito da Mondadori, da cinque mesi in testa alle classifiche e vincitore del premio Viareggio Repaci. Il prefetto di Caserta, Maria Elena Stasi, ha aperto un procedimento formale che passerà al vaglio del comitato provinciale per l'ordine pubblico.

Lo rivela il settimanale "L'espresso", con il quale Saviano collabora, nel numero che sarà in edicola oggi. Esponenti di primo piano della camorra campana come Michele Zagaria e Antonio Iovine, il più celebre Francesco Schiavone soprannominato "Sandokan", "hanno mal tollerato - si legge nel lungo servizio - il successo di Gomorra, che ha imposto i loro traffici all'attenzione nazionale".

Non solo. I clan si sono anche "infuriati per la sfida che Saviano ha portato nel loro feudo, nella Casal di Principe che negli anni '90 aveva il record di omicidi". Lo scrittore, ricorda "L'espresso", si è presentato sul palco della cittadina casertana il 23 settembre scorso, insieme al presidente della Camera Fausto Bertinotti, nell'ultima di quattro giornate di mobilitazione anticamorra aperta dal ministro della Giustizia Clemente Mastella.

Saviano "ha chiamato i padrini per nome - scrive il settimanale - "Iovine, Schiavone, Zagaria, non valete nulla. Loro poggiano la loro potenza sulla vostra paura, se ne devono andare da questa terra"". Ma se l'ira della camorra poteva essere messa nel conto delle reazioni che un libro coraggioso come "Gomorra" e i reportages realizzati dal giovane scrittore avrebbero suscitato, altra cosa è l'emarginazione seguita alle sue denunce. "Colpisce il disprezzo delle autorità locali - accusa "L'espresso" - testimoniato dalle bordate di Rosa Russo Iervolino. Il sindaco partenopeo, nel consegnare a Saviano il premio Siani, lo ha definito "simbolo di quella Napoli che lui denuncia", offendendo sia l'autore sia la memoria del giornalista ammazzato 21 anni fa".

Ma c'è anche chi si sta mobilitando per non lasciarlo solo. Un appello improvvisato in sostegno di Roberto Saviano ha raccolto, evidenzia il settimanale, "firme di scrittori e lettori: tra i primi Massimo Carlotto e Giancarlo De Cataldo. Poche righe che denunciano "un isolamento fatto da ciò che non ti fanno e che vogliono farti credere ti faranno. Ma intanto ti fermano, creano diffidenza intorno, screditano, insultano, allontanano tutti dalla tua vita perché mettendo paura ti creano attorno il deserto. A questo punto devono venire fuori altre voci".

Intanto a Napoli la camorra continua a colpire e a fare soldi. Il Viminale lavora a un piano per la città. I firmatari dell'appello non vogliono fermarsi alle parole. Pensano a una grande manifestazione che dovrebbe svolgersi proprio in provincia di Caserta. Nella terra d'origine dello scrittore, e di quella camorra che vorrebbe mettere a tacere chi ne ha denunciato pubblicamente gli intrecci e gli inganni.
repubblica.it


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13/10/2006 17:11
 
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l'ho sentito in un intervista al tg, questo ora ha la vita segnata...

è pazzesco quanto sia soffocante vivere in certi posti.


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13/10/2006 18:53
 
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Colpisce il disprezzo delle autorità locali - accusa "L'espresso" - testimoniato dalle bordate di Rosa Russo Iervolino. Il sindaco partenopeo, nel consegnare a Saviano il premio Siani, lo ha definito "simbolo di quella Napoli che lui denuncia", offendendo sia l'autore sia la memoria del giornalista ammazzato 21 anni fa".


eh già...
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18/10/2006 16:22
 
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sembra che il ministro Amato gli abbia asseganto la scorta [SM=x100074]

meglio a lui che alle mogli di parlamentari per andare a fare shopping [SM=x100075]


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16/01/2008 15:31
 
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riesumo un vecchio post x collegarlo a qs notizia:



Gomorra, anche a distanza di tempo dalla sua pubblicazione, resta best-seller indiscusso.

E così, mentre il team comunicazione di Roberto Saviano decide come lanciare la sua presenza on line, arriva una notizia battuta dalle agenzie: la versione inglese del libro che svela la mafia riporta diversi nomi censurati.

A prender la decisione l’editore Macmillan, impaurito dalla legislazione inglese molto severa sulla diffamazione. E visto che nel libro viene citato anche Antonio La Torre, accusato e processato per aver creato in Scozia un piccolo impero mafioso ma non ancora condannato, la casa editrice ha deciso di non rischiare.
Naturalmente Roberto Saviano non ha apprezzato la censura del suo libro, pronto per essere lanciato nel Regno Unito il 18 gennaio, lui che non ha avuto paura di dire la verità e che adesso vive sottoscorta.

booksblog.it

[SM=x100077]



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13/03/2008 10:34
 
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un esempio di coerenza

Saviano: dico no alla politica
che non parla più di mafia
«Mi volevano dal Pd ad An. Ma non posso essere di parte»

ROMA — Roberto Saviano è ancora un ragazzo. E ogni tanto riesce anche a sorridere, con le labbra che si tendono su una faccia sempre più tesa, sempre più pallida. Quando racconta della presentazione di Gomorra ad Helsinki, con lo speaker che lo introduce come «Roberto Soprano», e i finlandesi che sono lì soltanto per via della serie televisiva americana, riesce pure a ridere di «loro». Li chiama così, «loro». I suoi nemici. Come se fosse una questione personale, tra lui e i mafiosi di Casal di Principe che lo hanno costretto ad una vita infame, da animale braccato.

Quella di Saviano è una storia di paradossi. Con il suo libro ha avuto fama, celebrità, il traguardo del milione di copie vendute tagliato in questi giorni. Con il suo libro ha perso il resto, la libertà personale, la possibilità di vedere il mondo con i propri occhi. «È come se mi sentissi sempre in colpa» sintetizza così il suo stato d'animo, come se qualcuno andasse da sua madre a chiedere «cosa ha fatto tuo figlio?» Ad un certo punto, Saviano si era anche convinto che in Italia ci fosse qualcuno disposto a condividere la sua ossessione.

Da Walter Veltroni alla Sinistra Arcobaleno, passando per il Popolo della Libertà, sponda An, tutti hanno cercato l'autore di Gomorra, blandendolo con la lotta al potere mafioso. «Ma non è il mio mestiere. Non si può parlare di mafia ad una sola parte politica. È un argomento sul quale non ci si può permettere di essere partigiani. La mia responsabilità è la parola ». Chi è stato il più insistente? «Quando Veltroni mi ha chiamato nel suo ufficio al Campidoglio, abbiamo parlato a lungo di mafia e appalti. Mi disse che quello sarebbe stato uno dei primi punti della sua agenda». Promessa mantenuta? «Non mi sembra. Ma il Pd è in buona compagnia. Purtroppo, la lotta alla mafia è la grande assente di questa campagna elettorale, a sinistra come a destra». Altri pretendenti? «Fausto Bertinotti mi ha fatto arrivare una proposta tramite l'assessore regionale campano Corrado Gabriele. Io ho molto apprezzato il lavoro di Forgione alla commissione antimafia, ma credo che anche la sinistra debba fare outing, e ammettere di non essere stata così rigorosa nell'allontanare gli affaristi collusi con la mafia». Avanti con l'elenco delle avances. «Alleanza nazionale mi ha mandato messaggi di apprezzamento. Persino l'Udeur prima che si dissolvesse». Destra, sinistra, centro. «Io sono cresciuto in una terra dove Pci e Msi stavano dalla stessa parte, contro la camorra. E vorrei tanto che il centrodestra riprendesse i valori dell'antimafia, quelli che aveva Giorgio Almirante e che avevano ispirato Paolo Borsellino. Li vedo trascurati, nonostante una base che al Sud ha voglia di sentirli affermare».

A sentirla, non sembra che il Pd sia molto più attivo. «Affatto. Anzi, a Veltroni ho detto che a mio parere anche il centrosinistra ha commesso molti errori in questi anni». Il più grande? «L'intellighenzia di sinistra dà sempre per scontato che la mafia stia dal-l'altra parte. Il complesso di superiorità applicato alla criminalità organizzata. Credersi immune dalle infiltrazioni, pensare che questo sia sempre e solo un problema degli altri. Le dico di più: spero che il Pd riesca a non aver paura di perdere le elezioni pur di cambiare. Solo così potrà davvero vincere». Dove vuole arrivare? «Spero che non abbia paura di parlare del voto di scambio, di denunciarlo. Fino ad ora non lo ha fatto nessuno. Ed è il voto di scambio che determinerà l'esito delle prossime elezioni. Si vince o si perde nei piccoli paesi, dove il clientelismo è l'unica moneta corrente. Si vincono le elezioni per bollette pagate, cellulari regalati, di questo bisogna parlare. La vera sfida sarebbe quella di non svendere il voto. E alzare la voce, denunciare». E invece? «Il grande silenzio. La mafia è la più grande azienda italiana, il suo giro d'affari è il triplo di quello della Fiat. È innaturale che non se ne parli in campagna elettorale. Ma è così. Al massimo qualche cosa simbolica, una celebrazione, qualche commemorazione. Una rimozione bipartisan».

Si è chiesto il perché? «È un tema pericoloso sul piano della comunicazione. Se qualcuno parla di mafia, molta gente pensa che si stia occupando soltanto di una parte ben circoscritta del Paese, che si interessi di cose ai margini, lontane. Nessuno è riuscito a far passare l'idea che la mafia sia qualcosa che riguarda anche Milano, Parma, Roma, Torino. È tornata ad essere un fatto esotico, lontano, noioso». «Non valete niente». Era il 23 settembre 2006 quando sfidò i boss di Casal di Principe a casa loro. Lo rifarebbe? «A vedermi da fuori, come se non fossi stato io, lo rifarei. Ma sarei falso se non dicessi che con quel gesto ho distrutto la mia vita. Mi è diventato impossibile vedere il mondo, confrontarmi con altre persone, poter sbagliare. Sono diventato un simbolo, ma in cambio ho perso tutto». Quando ha scritto Gomorra, cosa si aspettava? «Confesso l'ambizione. Volevo fare un libro che davvero cambiasse le cose. All'inizio, la camorra lo ignorò. I miei problemi cominciarono verso le centomila copie. La gente pensa che io sono come Salman Rushdie, colpito da una fatwa della camorra. Ma non è così. Lui rischia per quel che scrive, io perché mi leggono. Non è Saviano ad essere pericoloso, ma Gomorra e i suoi lettori».

Il disinteresse della politica rende più difficile la sua situazione? «Acuisce la solitudine, questo sì. Gomorra ha fatto sì che la letteratura diventasse un problema per la mafia. Parlarne è un modo per fermarli. Perché la politica non fa lo stesso? È come se questo paese non accettasse di essere raccontato così. Ma è il silenzio che ci distrugge». Se pensa al suo futuro, cosa immagina? «Spero di riavere la mia libertà, un giorno. Come un ragazzino, immagino di aprire la porta e poter camminare in strada, da solo. Ma è solo un sogno». E la realtà? «Me la faranno pagare. Troveranno un modo per colpirmi. Prima con la diffamazione, diranno che è tutto falso, l'operazione di un ragazzotto assetato di visibilità. Poi chissà. È l'unica certezza che ho».

Marco Imarisio
13 marzo 2008



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Re: un esempio di coerenza
bentoribeiro, 3/13/2008 10:34 AM:


Saviano: dico no alla politica

13 marzo 2008




Questo ragazzo mi piace sempre più.



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«Gomorra influisce sui giudici». E i casalesi chiedono lo spostamento del processo
In una lettera i boss Francesco Bidognetti e Antonio Iovine intimidiscono i pm antimafia, una giornalista del Mattino e Saviano

NAPOLI - I boss del clan casalesi puntano il dito contro una giornalista del Mattino, il pm antimafia Raffaele Cantone e «contestano» alcuni passaggi del bestseller Gomorra di Roberto Saviano definendolo «prezzolato pseudogiornalista». Prima sezione della corte d'assise d'appello a Napoli: l'avvocato che difende i boss legge nell'aula bunker una lunghissima lettera, 60 pagine, in cui Francesco Bidognetti e Antonio Iovine (latitante da 12 anni) chiedono di spostare il processo a loro carico - il superprocesso Spartacus - in altro distretto giudiziario, per «legittima suspicione» ossia per «carenza di libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo».

«GIUDICI NON SERENI» - Il sospetto cioè, a sentire le parole degli imputati affidate alla missiva, che nei loro confronti vi sia un'azione premeditata di condizionamento dei giudici. Una «trama» - è l'ipotesi inclusa nella lettera e riportata oggi dal Mattino - che sarebbe stata architettata dal pm Raffaele Cantone e dalla Dda di Franco Roberti nella gestione dei pentiti, dalla giornalista Rosaria Capacchione (che coraggiosamente si occupa di cronaca giudiziaria in provincia di Caserta) la quale avrebbe scritto «alcuni articoli di cronaca - è il testuale - che non hanno alcuna spiegazione se non quella di creare un condizionamento nella libertà di determinazione nei giudici del processo».
SU SAVIANO - In un lungo passaggio della lettera, i boss - già condannati in primo grado all'ergastolo per delitti di camorra - tirano in ballo l'autore di Gomorra: «L'intervento di Roberto Saviano sul silenzio legato alla sentenza Spartacus (nelle pagine di Gomorra, ndr) non può non turbare gli animi dei giudici definiti dal prezzolato pseudogiornalista come degli inetti, incapaci, insensibili alla sete di giustizia della collettività».
Prosegue: «È solo un invito rivolto al signor Saviano e ad altri come lui a fare bene il proprio lavoro e non a essere la penna di chi è mosso da fini ben diversi rispetto a quello di eliminare la criminalità organizzata». Ora il processo andrà in Cassazione. La Suprema corte stabilirà se ci sono i presupposti per spostare il processo.
BALESTRINI E «SANDOKAN» - Un processo «influenzato» da un romanzo. Non è la prima volta che un libro suscita la profonda irritazione del clan dei Casalesi. Anche all'uscita del libro «Sandokan» (soprannome del superboss Francesco Schiavone) di Nanni Balestrini, lo scrittore fu minacciato e gli avvocati presentarono istanza di «legittima suspicione» e spostamento del processo Spartacus in primo grado proprio a causa del contentuto dello scritto.
14 marzo 2008



[Modificato da Zphera 14/03/2008 12:04]



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Stà facendo carriera ... ora scrive pure per il TIME



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finchè di lui si parla... meglio è (anche x lui stesso)



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da repubblica.it
Stasera in tv la canzone scritta dagli Almamegretta con il consenso dello scrittore
Lucariello, il cantante del gruppo napoletano, è nato e cresciuto a Scampia
Il rap shock su Saviano
"Così lo uccideranno"

di CARLO MORETTI
"Vorrei essere un rapper per descrivere la realtà che vivo, racconterei di questa mia assurda condizione, canterei di quest'isolotto dove sono venuto in vacanza, perché è l'unico posto in cui mi sia permesso di vivere senza la scorta". Il desiderio espresso la scorsa estate da Roberto Saviano al rapper di Scampia Lucariello, una delle voci dei napoletani Almamegretta, ora è diventato realtà.

Ma tutto accade nel modo più crudo tra i tanti possibili, perché nel testo di Cappotto di legno scritto da Lucariello e supervisionato da Saviano, si descrive l'omicidio dell'autore di "Gomorra" per mano di un camorrista.

Sull'isola in cui trascorreva le vacanze, per una volta libero di muoversi senza scorta, l'autore di "Gomorra" ascoltava le canzoni del rapper napoletano. In quei brani ci sono le stesse facce, gli stessi luoghi, le stesse atmosfere del suo libro. Lucariello, nato e cresciuto a Scampia, racconta storie ambientate nei vicoli napoletani, sul litorale Domizio, nel casertano, in quel villaggio Coppola diventato tristemente famoso anche grazie alle pagine del libro di Saviano.

Di qui la decisione di contattare il cantante, dicendosi disponibile a collaborare con lui, suggerendo immagini e versi, e aggiungendo anche qualche consiglio musicale. Così è nato il rap intitolato Cappotto di legno in cui tra l'altro si ascolta la voce di Nicola Schiavone, padre del camorrista di Casal di Principe Sandokan, il quale intervistato dai telegiornali parla di Saviano come di "un buffone". Il protagonista della canzone è un giovane camorrista che alla guida di una moto va a cercare la sua vittima: "Su una fotografia a colori gli occhi di un bravo ragazzo, dicono che sia un buffone", dice a un certo punto, rendendo palese la sovrapposizione di Saviano con la vittima designata.

Il titolo della canzone è un'idea dell'autore di "Gomorra", così come la frase "cappotto di legno prima delle botte in petto", dove il cappotto di legno è l'immagine usata nel gergo camorristico per indicare la bara, un'immagine che qui viene però usata per descrivere una sensazione di costrizione e insieme di tragica attesa. Per il resto, il testo è stato scritto da Lucariello: "L'idea di descrivere il suo omicidio è stata mia e lui l'ha accettata. Roberto mi ha fornito gli input necessari, in termini di immagini e informazioni, un ruolo direi quasi "giornalistico", e poi è stata fondamentale la sua supervisione e approvazione su quanto era stato fatto: gli è piaciuto l'impatto emozionale della canzone", spiega.

Stasera Lucariello sarà ospite della trasmissione "Annozero" dedicata alla camorra, con un'inchiesta a Casal di Principe, per parlare della canzone e per farne ascoltare un estratto, e nello studio il rapper incontrerà per la prima volta Roberto Saviano, anche lui ospite di Santoro. La canzone Cappotto di legno, su una base di musica minimalista scritta dal compositore Ezio Bosso, si ascolterà poi in versione integrale e accompagnata da un quintetto d'archi il 29 aprile a Radio Deejay, all'interno del programma condotto da Alessio Bertallot "B-Side".

"Con Ezio Bosso continueremo questa collaborazione" continua Lucariello, "ci piace l'idea di mettere assieme due mondi lontani, quello della strada e quello della musica classica contemporanea, sempre però mantenendo ognuno la sua specificità e senza compromessi. Pensiamo di fare un album, magari anche con la collaborazione di Roberto, che con il suo libro e la sua testimonianza ci ha dato coraggio: noi da ragazzini non potevamo neanche nominare i camorristi, come se anche i muri avessero orecchi. Anche a noi ragazzi napoletani, "Gomorra" ci ha liberato e ridato la voce".

(24 aprile 2008)





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The Movie
Estratto della recensione del critico cinematografico Paolo Mereghetti (Corriere della Sera), sul film GOMORRA, in uscita nella sale italiane da venerdì 16 maggio e in gara a Cannes.
Cinque storie in un solido impianto narrativo.

Ci sono spesso delle zone nere che «cancellano » una parte dell'inquadratura in Gomorra.

Gallerie cieche, stanze in penombra, cantine e seminterrati male illuminati, muri e pareti che bloccano la vista, ambienti senza luce: buchi che risucchiano i personaggi e la macchina da presa, oppure rettangoli che impediscono la visione, come i timbri della censura.

Non si può vedere tutto di quel mondo ci suggeriscono quelle immagini, perché ogni persona è un mondo a sé, risponde a una regola personale, che è quella del profitto, ma non solo. È anche quella del proprio codice d'onore, o del proprio tornaconto, o del proprio bisogno, o delle proprie illusioni. Persino dei propri sogni, come quelli di poter impersonare quello che il cinema ha raccontato con più forza e bellezza... non si può vedere tutto, ma quello che si vede non si dimentica e conferma Matteo Garrone come uno dei veri, grandi registi di oggi.

Adattando il romanzo omonimo di Roberto Saviano insieme a cinque sceneggiatori, Garrone ha estratto cinque storie dalla materia magmatica del libro, privilegiando cinque percorsi personali e lasciando da parte le componenti più cronachistiche e generaliste. Così la guerra di Secondigliano passa attraverso l'apprendistato del piccolo Totò (Salvatore Abruzzese) o le paure del ragionier Ciro (Gianfelice Imparato); l'economia sommersa del casertano viene raccontata attraverso le storie del sarto Pasquale (Salvatore Cantalupo) e di Franco, un industriale che ricicla rifiuti ambientali (Toni Servillo); la cultura della morte e delle armi da fuoco è quella del sogno di gloria di Marco e Ciro (Marco Macor e Ciro Petrone).

Cinque storie per raccontare un mondo e una società, dove i palazzi di Scampia e gli stanzoni con i cinesi curvi sulle macchina da cucire sono importanti come i volti delle persone e le loro azioni. Dell'impianto narrativo e dell'impostazione di fondo di Saviano e del suo libro, Garrone ha conservato soprattutto l'importanza dell'osservazione sul campo, quella capace di non farsi condizionare dai pregiudizi e di entrare in qualche modo in sintonia con una maniera di vivere e di ragionare che altrove può sembrare aberrante. Per questo il momento dei sopralluoghi, della scelta degli attori e delle comparse, delle prove e poi delle riprese sono stati importanti almeno quanto la stesura della sceneggiatura. Per scoprire e insieme capire e poi per trasformare quelle cinque «storie» in cinque percorsi di avvicinamento al cuore delle cose.

Il piccolo Totò pensa che entrare nella camorra voglia dire fare i turni di guardia per proteggere gli spacciatori ma si troverà invece a dover scegliere tra la vita e la morte della madre di un amico; Don Ciro, che ogni mese mantiene per conto dei boss i parenti di chi sta in galera: lui pensa di essere solo un «puro» esecutore di ordini, estraneo alle logiche di potere dei clan. E invece... C'è anche chi decide di tirarsi indietro, come Roberto (Carmine Paternoster) che non vuole accettare la logica per cui la vita di un operaio del Nord dev'essere pagata con la morte (per inquinamento) di una famiglia del Sud. Ma non è su di lui che si chiude il film, bensì su due corpi morti ammazzati e portati via da una ruspa, a ricordare che la logica vincente non è certo quella della vita.

Tutto questo Garrone lo filma con un occhio che si attacca alle cose, attento a non tradire la realtà, ma neanche a volerla a tutti i costi inseguire. È vero che i riciclatori usano ragazzini rom per spostare i camion con i rifiuti tossici? È vero che l'iniziazione al coraggio avviene facendosi sparare da pochi metri, con indosso un giubbotto antiproiettile? È vero che i cinesi nascondono un sarto nel portabagagli per portarlo a dar loro lezioni di cucito? A volte la verità è più sconvolgente ancora, a volte il film diventa il mezzo con cui una realtà «irraccontabile » prende forma. Una forma che il regista usa con un rigore e una moralità dello sguardo davvero encomiabile. Come i veri grandi sanno fare.



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Gli abitanti di Viale Raffaello: se viene lui, addio pace Saviano cerca casa al Vomero e non la trova

I proprietari allo scrittore: «Abbiamo paura» Roberto ha tentato di prendere in fitto un appartamento al quartiere collinare. Ma dopo 6 tentativi andati a vuoto avrebbe rinunciato

NAPOLI - Ha cercato casa a Napoli per oltre un mese, lo scrittore Roberto Saviano, probabilmente desideroso di tornare in città dopo l'esperienza non felicissima ai Quartieri spagnoli, dove alloggiava oltre 2 anni fa. Ha cercato un'abitazione nel quartiere Vomero tramite una agenzia immobiliare, ma non c'è stato niente da fare: un gruppo di proprietari si è opposto alla volontà dello scrittore di prendere in fitto un appartamento. Secondo quanto riferisce il quotidiano Il Mattino, le trattative sono andate avanti per un mese, poi lo scrittore finito nel mirino dei Casalesi è stato definito non gradito.
Roberto aveva visionato sei appartamenti. Alla fine non se ne è fatto niente, sia perchè l’abitazione non era ritenuta soddisfacente ma soprattutto per il rifiuto che sarebbe stato opposto dai proprietari quando hanno saputo il nome di chi voleva affittare l’abitazione. In particolare, una delle proprietarie ha affermato che gli inquilini e i vicini dello stabile l'hanno messa in guardia: «Se fitti la casa a Saviano (un bivani in viale Raffaello, ndr), perdiamo la pace». A causa di tali pressioni l'autore del bestseller «Gomorra» averebbe definitivamente rinunciato all'idea.
Dal quartiere emerge una voce solidale. «Questa storia mi amareggia e delude - afferma Gennaro Capodanno del Comitato valori collinari - . Sono nato e vivo al Vomero da sempre e non mi riconosco affatto in alcuni, fortunatamente pochi, miei concittadini per gli atteggiamenti assunti nei confronti di un uomo che deve invece godere di tutto il nostro rispetto per le battaglie condotte contro la camorra». «Non ho una casa da affittare, ma se l’avessi gliela concederei volentieri in locazione. Anzi - conclude Capodanno - se ne ha piacere m’impegnerò insieme a lui a trovare una nuova abitazione nel quartiere».

corsera
21 maggio 2008

paura o connivenza?



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da repubblica.it
La denuncia di Saviano: circondato dall'odio per le mie parole
Vado via perché voglio scrivere ed ho bisogno di stare nella realtà
"Io, prigioniero di Gomorra lascio l'Italia per riavere una vita"
di GIUSEPPE D'AVANZO


ANDRO' via dall'Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà...", dice Roberto Saviano. "Penso di aver diritto a una pausa. Ho pensato, in questo tempo, che cedere alla tentazione di indietreggiare non fosse una gran buona idea, non fosse soprattutto intelligente. Ho creduto che fosse assai stupido - oltre che indecente - rinunciare a se stessi, lasciarsi piegare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo. 'Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l'odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri - oggi qui, domani lontano duecento chilometri - spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me".

La verità, la sola oscena verità che, in ore come queste, appare con tragica evidenza è che Roberto Saviano è un uomo solo. Non so se sia giusto dirlo già un uomo immaginando o pretendendo di rintracciare nella sua personalità, nella sua fermezza d'animo, nella sua stessa fisicità la potenza sorprendente e matura del suo romanzo, Gomorra. Roberto è ancora un ragazzo, a vederlo. Ha un corpo minuto, occhi sempre in movimento. Sa essere, nello stesso tempo, malizioso e insicuro, timidissimo e scaltro. La sua è ancora una rincorsa verso se stesso e lungo questo sentiero è stato catturato da uno straordinario successo, da un'imprevedibile popolarità, dall'odio assoluto e assassino di una mafia, dal rancore dei quietisti e dei pavidi, dall'invidia di molti. Saranno forse queste le ragioni che spiegano come nel suo volto oggi coabitino, alternandosi fraternamente, le rughe della diffidenza e le ombre della giovanile fiducia di chi sa che la gioia - e non il dolore - accresce la vita di un uomo. "Sai, questa bolla di solitudine inespugnabile che mi stringe fa di me un uomo peggiore. Nessuno ci pensa e nemmeno io fino all'anno scorso ci ho mai pensato. In privato sono diventato una persona non bella: sospettoso, guardingo. Sì, diffidente al di là di ogni ragionevolezza. Mi capita di pensare che ognuno voglia rubarmi qualcosa, in ogni caso raggirarmi, "usarmi". E' come se la mia umanità si fosse impoverita, si stesse immeschinendo. Come se prevalesse con costanza un lato oscuro di me stesso. Non è piacevole accorgersene e soprattutto io non sono così, non voglio essere così. Fino a un anno fa potevo ancora chiudere gli occhi, fingere di non sapere. Avevo la legittima ambizione, credo, di aver scritto qualcosa che mi sembrava stesse cambiando le cose. Quella mutazione lenta, quell'attenzione che mai era stata riservata alle tragedie di quella terra, quell'energia sociale che - come un'esplosione, come un sisma - ha imposto all'agenda dei media di occuparsi della mafia dei Casalesi, mi obbligava ad avere coraggio, a espormi, a stare in prima fila. E' la mia forma di resistenza, pensavo. Ogni cosa passava in secondo piano, diventava di serie B per me. Incontravo i grandi della letteratura e della politica, dicevo quello che dovevo e potevo dire. Non mi guardavo mai indietro. Non mi accorgevo di quel che ogni giorno andavo perdendo di me. Oggi, se mi guardo alle spalle, vedo macerie e un tempo irrimediabilmente perduto che non posso più afferrare ma ricostruire soltanto se non vivrò più, come faccio ora, come un latitante in fuga. In cattività, guardato a vista dai carabinieri, rinchiuso in una cella, deve vivere Sandokan, Francesco Schiavone, il boss dei Casalesi. Se lo è meritato per la violenza, i veleni e la morte con cui ha innaffiato la Campania, ma qual è il mio delitto? Perché io devo vivere come un recluso, un lebbroso, nascosto alla vita, al mondo, agli uomini? Qual è la mia malattia, la mia infezione? Qual è la mia colpa? Ho voluto soltanto raccontare una storia, la storia della mia gente, della mia terra, le storie della sua umiliazione. Ero soddisfatto per averlo fatto e pensavo di aver meritato quella piccola felicità che ti regala la virtù sociale di essere approvato dai tuoi simili, dalla tua gente. Sono stato un ingenuo. Nemmeno una casa, vogliono affittarmi a Napoli. Appena sanno chi sarà il nuovo inquilino si presentano con la faccia insincera e un sorriso di traverso che assomiglia al disprezzo più che alla paura: sono dispiaciuti assai, ma non possono.... I miei amici, i miei amici veri, quando li ho finalmente rivisti dopo tante fughe e troppe assenze, che non potevo spiegare, mi hanno detto: ora basta, non ne possiamo più di difendere te e il tuo maledetto libro, non possiamo essere in guerra con il mondo per colpa tua? Colpa, quale colpa? E' una colpa aver voluto raccontare la loro vita, la mia vita?".
Piacciono poco, da noi, i martiri. Morti e sepolti, li si può ancora, periodicamente, sopportare. Vivi, diventano antipatici. Molto antipatici. Roberto Saviano è molto antipatico a troppi. Può capitare di essere infastiditi dalla sua faccia in giro sulle prime pagine. Può capitare che ci si sorprenda a pensare a lui non come a una persona inseguita da una concreta minaccia di morte, a un ragazzo precipitato in un destino, ma come a una personalità che sa gestire con sapienza la sua immagine e fortuna. Capita anche in queste ore, qui e lì. E' poca, inutile cosa però chiedersi se la minaccia di oggi contro Roberto Saviano sia attendibile o quanto attendibile, più attendibile della penultima e quanto di più? O chiedersi se davvero quel Giuseppe Setola lo voglia disintegrare, prima di Natale, con il tritolo lungo l'autostrada Napoli-Roma o se gli assassini si siano già procurati, come dice uno di loro, l'esplosivo e i detonatori. O interrogarsi se la confidenza giunta alle orecchie delle polizie sia certa o soltanto probabile.
E' poca e inutile cosa, dico, perché, se i Casalesi ne avranno la possibilità, uccideranno Roberto Saviano. Dovesse essere l'ultimo sangue che versano. Sono ridotti a mal partito, stressati, accerchiati, incalzati, impoveriti e devono dimostrare l'inesorabilità del loro dominio. Devono poter provare alla comunità criminale e, nei loro territori, ai "sudditi" che nessuno li può sfidare impunemente senza mettere nel conto che alla sfida seguirà la morte, come il giorno segue la notte.

Lo sento addosso come un cattivo odore l'odio che mi circonda. Non è necessario che ascolti le loro intercettazioni e confessioni o legga sulle mura di Casale di Principe: "Saviano è un uomo di merda". Nessuno da quelle parti pensa che io abbia fatto soltanto il mio dovere, quello che pensavo fosse il mio dovere. Non mi riconoscono nemmeno l'onore delle armi che solitamente offrono ai poliziotti che li arrestano o ai giudici che li condannano. E questo mi fa incazzare. Il discredito che mi lanciano contro è di altra natura. Non dicono: "Saviano è un ricchione". No, dicono, si è arricchito. Quell'infame ci ha messo sulla bocca degli italiani, nel fuoco del governo e addirittura dell'esercito, ci ha messo davanti a queste fottute telecamere per soldi. Vuole soltanto diventare ricco: ecco perché quell'infame ha scritto il libro. E quest'argomento mette insieme la parte sana e quella malata di Casale. Mi mette contro anche i miei amici che mi dicono: bella vita la tua, hai fatto i soldi e noi invece tiriamo avanti con cinquecento euro al mese e poi dovremmo difenderti da chi ti odia e ti vuole morto? E perché, diccene la ragione? Prima ero ferito da questa follia, ora non più. Non mi sorprende più nulla. Mi sembra di aver capito che scaricando su di me tutti i veleni distruttivi, l'intera comunità può liberarsi della malattia che l'affligge, può continuare a pensare che quel male non ci sia o sia trascurabile; che tutto sommato sia sopportabile a confronto delle disgrazie provocate dal mio lavoro. Diventare il capro espiatorio dell'inciviltà e dell'impotenza dei Casalesi e di molti italiani del Mezzogiorno mi rende più obiettivo, più lucido da qualche tempo. Sono solo uno scrittore, mi dico, e ho usato soltanto le parole. Loro, di questo, hanno paura: delle parole. Non è meraviglioso? Le parole sono sufficienti a disarmarli, a sconfiggerli, a vederli in ginocchio. E allora ben vengano le parole e che siano tante. Sia benedetto il mercato, se chiede altre parole, altri racconti, altre rappresentazioni dei Casalesi e delle mafie. Ogni nuovo libro che si pubblica e si vende sarà per loro una sconfitta. E' il peso delle parole che ha messo in movimento le coscienze, la pubblica opinione, l'informazione. Negli anni novanta, la strage di immigrati a Pescopagano - ne ammazzarono cinque - finì in un titolo a una colonna nelle cronache nazionali dei giornali. Oggi, la strage dei ghanesi di Castelvolturno ha costretto il governo a un impegno paragonabile soltanto alla risposta a Cosa Nostra dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio. Non pensavo che potessimo giungere a questo. Non pensavo che un libro - soltanto un libro - potesse provocare questo terremoto. Subito dopo però penso che io devo rispettare, come rispetto me stesso, questa magia delle parole. Devo assecondarla, coltivarla, meritarmela questa forza. Perché è la mia vita. Perché credo che, soltanto scrivendo, la mia vita sia degna di essere vissuta. Ho sentito, per molto tempo, come un obbligo morale diventare un simbolo, accettare di essere al proscenio anche al di là della mia voglia. L'ho fatto e non ne sono pentito. Ho rifiutato due anni fa, come pure mi consigliavano, di andarmene a vivere a New York. Avrei potuto scrivere di altro, come ho intenzione di fare. Sono restato, ma per quanto tempo dovrò portare questa croce? Forse se avessi una famiglia, se avessi dei figli - come li hanno i miei "angeli custodi", ognuno di loro non ne ha meno di tre - avrei un altro equilibrio. Avrei un casa dove tornare, un affetto da difendere, una nostalgia. Non è così. Io ho soltanto le parole, oggi, a cui provvedere, di cui occuparmi. E voglio farlo, devo farlo. Come devo - lo so - ricostruire la mia vita lontano dalle ombre. Anche se non ho il coraggio di dirlo, ai carabinieri di Napoli che mi proteggono come un figlio, agli uomini che da anni si occupano della mia sicurezza. Non ho il cuore di dirglielo. Sai, nessuno di loro ha chiesto di andar via dopo quest'ultimo allarme, e questa loro ostinazione mi commuove. Mi hanno solo detto: "Robe', tranquillo, ché non ci faremo fottere da quelli là"".

A chi appartiene la vita di Roberto? Soltanto a lui che può perderla? Il destino di Saviano - quale saranno da oggi i suoi giorni, quale sarà il luogo dove sceglierà, "per il momento", di scrivere per noi le sue parole necessarie - sono sempre di più un affare della democrazia italiana.
La sua vita disarmata - o armata soltanto di parole - è caduta in un'area d'indistinzione dove sembra non esserci alcuna tradizionale differenza tra la guerra e la pace, se la mafia può dichiarare guerra allo Stato e lo Stato per troppo tempo non ha saputo né cancellare quella violenza sugli uomini e le cose né ripristinare diritti essenziali. A cominciare dal più originario dei diritti democratici: il diritto alla parola. Se perde Saviano, perderemo irrimediabilmente tutti.

(15 ottobre 2008)



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