Liboni, ultimi giorni da clochard

Caccia ai due che l'hanno aiutato
Il falsario che doveva fornirgli il passaporto per volare nello Sri Lanka, e il trafficante d'armi dal quale doveva comprare i proiettili per la sua pistola: sono loro le due persone ricercate con l'accusa di aver aiutato il "Lupo", Luciano Liboni, durante la fuga finita sabato al Circo Massimo, a Roma. Oltre a loro, nessun altro ha aiutato il fuggiasco, che a quanto pare ha passato i suoi ultimi giorni di latitanza vivendo come clochard.


Proprio per incontrare i due "amici" Liboni si era fatto trovare sabato 24 luglio alla stazione Termini. Ma qualcuno l'aveva riconosciuto, ed era scoppiata la sparatoria con una pattuglia di poliziotti. Il "Lupo" era comunque riuscito a fuggire, ma nessuno, da allora, l'ha più aiutato. Troppo rischioso: quando un malvivente uccide un carabiniere o un poliziotto, la mala gli taglia tutti i ponti alle spalle. Perché, prima o poi, si sa che l'assassino verrà preso, e con lui chi gli ha dato una mano.

E così, a quanto pare, Luciano Liboni ha passato i suoi ultimi giorni vivendo come un barbone nella Capitale. Un algerino che vive nei giardini di San Gregorio al Celio, proprio di fronte al Circo Massimo dove il "Lupo" ha trovato la morte nell'ultima sparatoria, ha raccontato a Repubblica che il fuggitivo dormiva proprio lì, insieme a un gruppo di derelitti. "Quando ha chiesto se si poteva mettere lì, sul prato - racconta il clochard - ho capito subito che era il Lupo. Avevo visto la sua faccia su Metro, su City, i giornali cghe trovo gratis in giro. Non ho avuto paura, ho soltanto nascosto il giornale con la sua foto sotto il sedere. Sapeva che, se non avesse dato fastidio, non ne avrebbe avuto da noi".

L'algerino spiega che il "Lupo" "era un uomo pulito: ogni mattina restava in mutande e si lavava tutto; sabato mattina con l'acqua della fontana si è pure rasato". E per mangiare, Liboni, secondo il racconto del barbone, si serviva proprio dei suoi nuovi "amici": "Aveva i soldi, li dava a qualcuno di noi per procurarsi da mangiare. Scriveva la lista e poi uno andava in salumeria a fare la spesa. Si mangiava e si beveva. Fino a sabato mattina, quando Liboni è stato riconosciuto e ha trovato la morte tentando per l'ultima volta la fuga.

Ma se i clochard non avevano paura di quell'uomo dal grilletto facile, chi invece ne era terrorizzato era il fratello del "Lupo", Giancarlo, che lavora come infermiere all'ospedale di Foligno. Durante gli anni di latitanza, l'uomo ha ricevuto dal fratello diverse lettere. Con minacce di morte per una vecchia lite su una somma di denaro che a Liboni sarebbe servita per pagare i suoi avvocati per uno dei suoi tanti processi.

"Ti ucciderò", scriveva il latitante al fratello. E lui, terrorizzato, ne parlava agli altri infermieri dell'ospedale. "Lui aveva molta paura - racconta una collega - mentre noi gli dicevamo che era tutto un bluff perché ci sembrava assurdo che un uomo avesse potuto versare il sangue del proprio fratello. Giancarlo, invece, era terrorizzato, tanto che prese l'aspettativa e se ne andò per un lungo periodo a vivere a Cuba. Poi, quando tornò a Foligno, chiese alla direzione sanitaria di cambiare posto di lavoro e fu mandato presso il servizio farmacia dell'ospedale. Giancarlo era convinto che un giorno sarebbe stato ucciso dal fratello. Oggi sappiamo che quei timori erano più che fondati".