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"Motu Proprio"

Ultimo Aggiornamento: 10/01/2009 20:53
04/09/2007 13:46
 
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SCHIAFFO DI MILANO AL PAPA

Il Motu proprio sulla messa antica? A Milano dicono no

di Redazione

Il prossimo 14 settembre entrerà in vigore il Motu proprio di Benedetto XVI che liberalizza l’antico messale preconciliare, ma a Milano e in tutte le zone dove vige rito ambrosiano non sarà applicato. Lo ha comunicato nei giorni scorsi ai decani della diocesi monsignor Luigi Manganini, arciprete del Duomo e vicepresidente della Congregazione per il rito ambrosiano. Decisione di per sé ineccepibile, dato che nel documento papale si parla solo del «rito romano». Ma certamente dallo stesso Motu proprio emerge un’indicazione di apertura e di mano tesa del Pontefice ai tradizionalisti che avrebbe potuto giustificare un’interpretazione più estensiva anche in terra ambrosiana.

«In quei territori della diocesi di Milano che seguono il rito romano - precisa al Giornale monsignor Manganini - il Motu proprio si applicherà, anche se noi non abbiamo mai avuto contestazioni o particolari richieste di tradizionalisti. Per quanto riguarda invece le parrocchie di rito ambrosiano, che è un rito autonomo con un suo capo-rito nella persona dell’arcivescovo di Milano, non avendo riscontrato in questi anni particolari istanze, non riteniamo debbano rientrare nel Motu proprio. A Milano c’è fin dal 1988 una chiesa dove si celebra ogni domenica la liturgia antica, al Gentilino. E continuerà. Nel documento del Papa - conclude Manganini - si parla della necessità che vi sia un gruppo stabile, che segua davvero la spiritualità legata al messale antico. I fedeli del Gentilino non mi sembrano un gruppo stabile».

Nicola Degrandi, uno dei più assidui alla messa domenicale del Gentilino, non è d’accordo: «Monsignor Manganini non ritiene di applicare le condizioni dettate dal Motu proprio perché non esiste a suo dire un gruppo stabile che si sia finora creato. E così vuole evitare che si crei un gruppo stabile per non applicare le condizioni del Motu proprio...».

Degrandi fa notare anche che il «gruppo stabile» di fedeli richiedenti stabilito nel Motu proprio «riguarda le messe cosiddette d’orario nelle parrocchie.
Ma dal testo del Papa si evince molto chiaramente che i preti sono liberi di celebrare fuori da questi orari - anche alla presenza di fedeli - senza chiedere alcun permesso».
Come si ricorderà, un mese fa era stato il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, a prendere in qualche modo le distanze dalla decisione papale dalle colonne del Sole 24Ore facendo sapere che lui non avrebbe celebrato alla maniera antica e dicendo «che il vescovo non può moltiplicare le celebrazioni».

© Copyright Il Giornale, 4 settembre 2007



EVVIVA L'UBBIDIENZA... (scusate, LA DISOBBEDIENZA!!!!)

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[Modificato da Paparatzifan 04/09/2007 13:48]
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Ecco perché Milano dice no alla Messa preconciliare

di Andrea Tornielli

La decisione è formalmente ineccepibile ma ha comunque destato qualche sorpresa e non soltanto negli ambienti tradizionalisti. Molti lettori hanno scritto, altri sono intervenuti nei blog. Come anticipato dal Giornale nei giorni scorsi, la diocesi di Milano ha stabilito che il Motu proprio «Summorum Pontificum», con il quale Benedetto XVI ha inteso liberalizzare l’antico messale venendo incontro alle attese dei fedeli legati alla liturgia preconciliare, non sarà applicato al rito ambrosiano. Rito mai citato nelle nuove norme papali. Lo scorso 24 agosto il pro-presidente della Congregazione del rito ambrosiano, l’arciprete del Duomo monsignor Luigi Manganini, ha firmato un comunicato che è stato consegnato ai decani della diocesi (ma non è ancora stato reso noto ufficialmente). In questo testo Manganini ricorda che il Motu proprio, come spiegato lo stesso Benedetto XVI nella lettera inviata a tutti i vescovi, è stato emanato per «favorire la riconciliazione interna alla Chiesa e recuperare chi si è allontanato da essa per diversi motivi a seguito della riforma liturgica».

Poi l’arciprete del Duomo precisa che le nuove norme, in vigore dal 14 settembre riguardano «com’è ovvio, le parrocchie e le comunità di rito romano presenti in diocesi», e non quelle, cioè la stragrande maggioranza, di rito ambrosiano. Ma è curioso che anche nel paragrafo dedicato alle prime si attesti che in queste «non ci sono state richieste per l’utilizzo della precedente concessione» di celebrare alla vecchia maniera, «né risultano esistere gruppi stabili di fedeli per i quali potrebbero essere opportuni passi di riconciliazione».

Come dire: il Motu proprio entrerà in vigore, ma già si mette preventivamente nero su bianco che – mancando gruppi stabili di fedeli – non sarà necessario provvedere a messe in rito antico.

«Per quanto attiene il rito ambrosiano – continua monsignor Manganini – l’apposita Congregazione, presieduta dall’arcivescovo capo rito, in assenza di situazioni di rottura ecclesiale a seguito della riforma liturgica attuata secondo i decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II», conferma le indicazioni date nel luglio 1985, ricordando che sono tenuti ad osservarle «i sacerdoti, i diaconi, i consacrati e le consacrate, i singoli fedeli e le comunità che celebrano secondo il rito ambrosiano». Vale a dire che il Motu proprio non si applica per gli ambrosiani, ma rimane in vigore un’unica messa domenicale in rito antico per tutta la diocesi celebrata nella chiesa del Gentilino (ora sospesa per la pausa estiva). «La nostra diocesi, che ha nel rito ambrosiano la sua peculiare modalità celebrativa – conclude Manganini – si senta impegnata a far si che la liturgia costituisca davvero il culmine e la fonte della vita e dell’azione della Chiesa (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 10), con una celebrazione sapientemente curata, che esprime la fede professata, vissuta e testimoniata nel mondo di oggi».

Quella ambrosiana è un’interpretazione più che letterale del documento papale, ma che può anche suonare come una rispettosa presa di distanze – e così è stata letta da molti – dalle indicazioni di Benedetto XVI, il quale ha voluto invece concedere con maggiore liberalità l’uso dei testi liturgici antichi permettendo che i fedeli si rivolgano direttamente ai loro parroci per chiedere la celebrazione di messe antiche in orario domenicale.
E stabilendo inoltre l’assoluta libertà dei singoli sacerdoti di celebrare coi libri preconciliare nelle messe cosiddette private alle quali possono partecipare i fedeli.

Nella lettera di Ratzinger ai vescovi si legge che i beneficiari della decisione papale sono i fedeli «fortemente legati» al rito antico, che «fin dall’infanzia era per loro diventato familiare».

Il Papa rileva però anche che «giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma particolarmente appropriata per loro, di incontro con il mistero della santissima eucaristia». Inoltre il documento stabilisce che i fedeli possano presentare la loro richiesta ai parroci con l’entrata in vigore del documento, e non che debba essere documentata l’esistenza precedente di gruppi stabili di fedeli.

Il Motu proprio riconosce dunque apertamente la piena cittadinanza del messale preconciliare, che non è da considerare un testo «fuori legge», ma una forma straordinaria di celebrare lo stesso rito. Colpisce infine che monsignor Manganini non consideri un «gruppo stabile» i fedeli che da vent’anni seguono la messa al Gentilino, concessa dall’allora arcivescovo Carlo Maria Martini: sono circa una sessantina ogni domenica, provenienti da varie zone della diocesi.

© Copyright Il Giornale (Milano), 8 settembre 2007


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Venerdì torna la Messa in latino

Intervista a mons. Fisichella: «Un passo avanti, nessun tradimento del Concilio»

di GIUSEPPE DE CARLI

TRA due giorni, in occasione della festa dell'Esaltazione della Santa Croce, la liturgia romana avrà due forme (usus): quella «ordinaria» voluta da Paolo VI nel 1970 e quella «straordinaria» celebrata secondo i libri liturgici voluti da Giovanni XXIII nel 1962. In pratica, viene reintrodotta la messa tridentina di San Pio V. Papa Benedetto XVI lo ha stabilito con un «Motu Proprio» nel luglio scorso. La reintroduzione della messa in latino, con un rito pre-conciliare, come sarà accolta? Non prevede sconvolgimenti o reazioni negative il vescovo Rino Fisichella, rettore magnifico della Pontificia Università Lateranense.

Monsignor Fisichella quali sono le differenze sostanziali?

«Rispetto alla prassi precedente ci sono alcune novità. Prima era il vescovo che dava ai sacerdoti la possibilità, in alcune chiese particolari, di celebrare secondo il rito di San Pio V, che non è mai stato abrogato. Ora un gruppo di fedeli che avesse il desiderio di pregare con quel rito lo può chiedere direttamente al parroco che deve accogliere volentieri tale richiesta».

Rimane la questione dell'orazione «Pro Judaeis» dove si chiede la conversione degli ebrei.

«Intanto, nel Canone c'è un’espressione molto bella e significativa: si fa il ricordo di "Abele, il giusto" e del "sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede". Abramo, padre dei credenti delle tre religioni monoteiste. Il "Pro Judaeis" era una preghiera del venerdì santo, ma che non potrà essere utilizzata durante il triduo pasquale».

I preti cattolici non invocheranno perciò la conversione degli ebrei?

«I preti cattolici continueranno a pregare tenendo conto che le sensibilità sono cambiate. Vorrei, però, osservare che anche in quella preghiera in latino non vi era alcuna offesa nei confronti dei fratelli ebrei. Si tratta di cogliere la matrice semantica del termine e di collocarla nella sua giusta prospettiva storica e interreligiosa».

L'edificio liturgico è di nuovo tutto in piedi nel suo splendore: il motivo di fondo di questo recupero?

«Potrebbe essere triplice. La grande passione per la liturgia di Benedetto XVI e per il suo senso più profondo. Lo abbiamo visto anche nei giorni scorsi in Austria. Joseph Ratzinger è uno degli studiosi più acuti delle radici e della storia della liturgia. Nel contempo, il Papa ha voluto dare un segnale particolare di attenzione a quanti, nei decenni scorsi, volevano pregare col rito tridentino.
Infine, è una mano tesa verso le comunità che si richiamano a monsignor Lefevre».

Non abbiamo motivo di temere?
Benedetto XVI non ci farà tornare indietro? Non è una sconfessione del Concilio Vaticano II?

«Assolutamente no! Non c'è alcun passo indietro rispetto al Concilio; anzi, può essere considerato un ulteriore passo in avanti. La prima Costituzione che i padri conciliari hanno approvato è stata "Sacrosanctum Concilium" proprio sulla liturgia». Ci sono stati anche tanti abusi... «Vede, gli abusi sono sempre stati marginali. Sugli abusi si può intervenire. Sulle interpretazioni di fondo è più difficile. Il Concilio non voleva abolire, voleva essere nella condizione di esprimere la bellezza della liturgia e, quindi, di poter far pregare il popolo di Dio nel migliore dei modi. Ora, se una parte dei fedeli si ritrova nella espressione liturgica del messale di San Pio V, non vedo perché, a questa parte, si debba imporre un altro messale».

Lo stesso Paolo VI concesse personalmente a Padre Pio l'indulto per continuare a celebrare pubblicamente la santa messa secondo il rito tridentino.

«È la conferma, attraverso questi casi, che non vi è stato alcun tradimento del Concilio, ma fedeltà a una tradizione ininterrotta. Il desiderio del Papa e dei Pastori della Chiesa è quello di aiutare il più possibile i credenti a pregare nel modo in cui riescono ad esprimere maggiormente se stessi».

Eccellenza, lei celebrerà le messa tridentina di San Pio V?

«Se ne avrò l'occasione lo farò volentieri. La messa in latino di San Pio V è quella con la quale ho iniziato le mie preghiere da bambino. Ho servito la messa da chierichetto già a sette anni. Sono cresciuto col rito in latino e quel latino è rimasto impresso nella mia memoria a caratteri di fuoco».

© Copyright Il Tempo, 12 settembre 2007


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Messa in latino al via: il “Motu proprio” in vigore da domani

di FRANCA GIANSOLDATI

CITTA’ DEL VATICANO - Tra ventiquattr’ore entrerà in vigore in tutte le chiese del mondo il Motu Proprio ”Summorum Pontificum”, pubblicato da Benedetto XVI il 7 luglio scorso. Fatto salvo un gruppetto di aficionados, la liberalizzazione del messale pre-conciliare voluta da Papa Ratzinger, non sta riscuotendo particolare successo di popolo. Sicchè nelle diocesi restano pochi i fedeli desiderosi di assistere alla messa in latino secondo il rito antico. Persino al Vicariato di Roma, la diocesi del Papa, ad oggi non sono pervenute particolari richieste da parte di parroci o fedeli desiderosi di far inserire nella propria parrocchia celebrazioni del genere. La messa col sacerdote che dà le spalle ai fedeli, rivolto all’altare, con le letture nella lingua di Cicerone ed un calendario liturgico differente, non fa breccia. Il cardinale Camillo Ruini starebbe pensando di istituire una «parrocchia personale». Allo stesso tempo in Vicariato si riflette se assegnare ai fan del latino una chiesa più grande per ospitare le messe tridentine. «Si sta valutando la soluzione pastoralmente più adeguata» filtra dal Palazzo del Laterano. La possibilità di celebrare col messale del 1962, a Roma era da tempo già possibile in tre le chiese: nella chiesa di Gesù e Carlo al Corso e a San Nicola in Carcere la domenica, mentre a San Gregorio dei Muratori anche ogni giorno. La mattina presto e la sera alle 19. «Vi assistono sempre non più di 30 persone. Nei giorni feriali un po’ di meno. Da quando è stato pubblicato il Motu Proprio abbiamo registrato una certa attenzione. Ci sono venuti a chiedere informazioni ma l’interesse non si è ancora tradotta in un aumento di fedeli. Forse è perchè la chiesa che abbiamo è piccolina, situata in un vicolo che nessun conosce. Sarebbe bello se venisse eretta una parrocchia personale» ha commentato speranzoso padre Joseph Kramer, sacerdote australiano di origine tedesca, alla guida della fratenità sacerdotale di San Pietro. Riflessioni in corso anche nella basilica di San Pietro. Anche lì di decisioni definitive non ne sono state ancora prese, benchè vi sia l’idea di assegnare alle celebrazioni tridentine l’altare della cappella della Presentazione. Sotto questo altare riposano le spoglie di S.Pio X, il pontefice al quale nel periodo post-conciliare facevano riferimento i cattolici tradizionalisti. Nelle Grotte vaticane, invece, l’unica cappella che potrebbe essere utilizzata (perchè la sola provvista di un altare rivolto al muro) è quella della Madonna della Bocciata. In vista del 14 settembre la frastagliata realtà dei cattolici tradizionalisti si è mossa per tempo e c’è persino chi, come una associazione di tradizionalisti di Verona, ha messo su internet un formulario per facilitare le eventuali richieste della messa in latino al proprio parroco o al proprio vescovo. «Lo abbiamo fatto perchè ci hanno chiesto consigli. Si sono rivolti a noi perchè non sapevano come fare. Le richieste sono arrivate da Bergamo, Livorno, Brescia e Piombino» ha spiegato Maurilio Cavedini, portavoce dell’associazione. Tra diocesi tiepide o addirittura indifferenti ed altre ancora totalmente contrarie (molte in Francia), parecchi vescovi hanno fatto presente la scarsa preparazione dei parroci in fatto di latino. Il latinorum non fa più parte del bagaglio del giovane sacerdote come invece può essere l’uso del computer e di internet. Segno dei tempi. Intanto a Loreto, per festeggiare, il cardinale Castrillon Hoyos, il più grande entusiasta sostenitore del Motu Proprio, colui che tra tutti i cardinali si è battuto come un leone per l’avvicinamento dei lefebvriani nonostante la ritrosia di buona parte della curia, domani celebrerà un solenne rito in latino. Ovviamente un Te Deum.

© Copyright Il Messaggero, 13 settembre 2007



L'idea di scegliere una chiesa in ogni diocesi (meglio, in ogni città) per la celebrazione della Messa tridentina mi sembra una soluzione più logica perché, mettiamo il caso che non si raggiungano le 30 persone in ogni parrocchia, cosa fare allora?

Poi, la questione del latino in seminario:
Cari vescovi: riaggiungetelo nel bagaglio del giovane sacerdote, please!! [SM=g27828]


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Domani entra in vigore il Motu proprio con il quale si liberalizza il rito preconciliare. Monsignor Brandolin di Sora: «Un giorno di lutto per chi lavorò al Concilio»

Torna la messa in latino, la fronda dei vescovi

La data è quella di domani, ma le discussioni e le polemiche non hanno aspettato il 14 settembre per esplodere. Il Motu proprio «Summorum Pontificum», con il quale Benedetto XVI ha liberalizzato il messale preconciliare, entra in vigore nelle prossime ore.

I sacerdoti non dovranno chiedere alcun permesso per usare l’antico rito nelle messe fuori orario, mentre nel caso vi siano gruppi stabili di persone che chiedono al parroco l’antica liturgia questa dovrà essere concessa anche nelle celebrazioni domenicali delle parrocchie. Nella lettera inviata dal Papa a tutti i vescovi, si legge: «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso».

QUELLI CHE... GIOISCONO

Domani pomeriggio, alle 18, nella basilica della Santa Casa di Loreto, il cardinale Darío Castrillón Hoyos, presidente di Ecclesia Dei, celebrerà un solenne pontificale in rito antico seguito dal «Te Deum»: sarà presente anche l’ambasciatore della Federazione Russa presso la Santa Sede Nikolay Sadchikov, a seguito delle dichiarazioni del patriarca Alessio II aveva detto al Giornale: «Il recupero e la valorizzazione dell’antica tradizione liturgica è un fatto che noi salutiamo positivamente». Il vescovo di Frosinone, Salvatore Boccaccio, ha scritto al Papa per ringraziarlo dell’iniziativa. All’indomani della pubblicazione del documento era intervenuto anche il cardinale Camillo Ruini, Vicario di Roma, per presentare ai fedeli l’iniziativa.

A Genova, domani alle 18.45, nella chiesa di San Carlo, sarà celebrata una messa antica presso l’altare del Crocifisso; a Ravenna l’arcivescovo Giuseppe Verucchi farà celebrare stabilmente la messa tridentina in cattedrale. Molti altri presuli italiani hanno già risposto positivamente alle richieste di sacerdoti e fedeli.

La sezione veronese dell’associazione tradizionalista «Una Voce», intanto, ha messo in rete un fac simile di richiesta per «fruire della celebrazione» tridentina.

QUELLI CHE... RESISTONO

Al momento della pubblicazione del Motu proprio, il vescovo di Sora Luca Brandolini aveva detto: «È un giorno di lutto, non solo per me, ma per i tanti che hanno vissuto e lavorato per il Concilio Vaticano II». L’arcivescovo di Pisa Alessandro Plotti, nonostante il Motu proprio stabilisca che i fedeli si rivolgano direttamente ai parroci, è prontamente intervenuto con una notificazione stabilendo che «in nessuna parrocchia si introduca l’uso del messale del 1962», solo «per offrire in maniera indiscriminata la celebrazione in latino», e ordinando che «prima di concedere o di negare tale privilegio» si passi comunque per il vescovo. Duro anche il vescovo di Alba, Sebastiano Dho, che presiede la commissione liturgica dei vescovi piemontesi: ha suonato il campanello d’allarme parlando del rischio che con l’applicazione della decisione papale si venga a creare «una Chiesa parallela». Mentre il vescovo di Como Diego Coletti avverte che la richiesta della messa tridentina «non può essere avanzata da singoli credenti o persone che all’improvviso maturano la scelta di voler partecipare a una messa secondo il rito preconciliare».

Interventi tutti pervasi da una malcelata avversione alla liberalizzazione voluta dal Pontefice, che tendono a restringerla preventivamente. Molti si augurano che lo stesso impegno sia ora messo in atto dai vescovi quando si tratta di contrastare abusi liturgici, sciatterie e insensate creatività che spesso hanno trasformato «la messa in show», come scrisse l’allora cardinale Ratzinger.

QUELLI CHE... NOI NO

Il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano (che pure aveva concesso dal 1988 una celebrazione domenicale in rito ambrosiano antico), a fine luglio aveva annunciato che lui non avrebbe usato il vecchio rito, ricordando «quel senso di chiuso, che emanava dall’insieme di quel tipo di vita cristiana così come allora lo si viveva».

Poi è arrivata la decisione della diocesi, oggi guidata dal cardinale Tettamanzi: il Motu proprio non si applica per il rito ambrosiano. Decisione che rispetta alla lettera la legge (nel Motu proprio non si cita il rito ambrosiano), ma che appare a tutt’oggi come la più clamorosa presa di distanze dall’intenzione liberalizzatrice del Pontefice. E per le parrocchie della diocesi di Milano dove vige il rito romano, un comunicato mette già le mani avanti affermando che non «risultano esistere gruppi stabili di fedeli per i quali potrebbero essere opportuni passi di riconciliazione».

QUELLI CHE... SCRIVONO

Già due le pubblicazioni sul tema: il primo è un libricino del liturgista Manlio Sodi, sottilmente contrario all’iniziativa papale. Il secondo è invece favorevolissimo e risponde a tutte le critiche: lo ha scritto Pietro Siffi, e s’intitola «La messa di San Pio V» (Marietti), in libreria tra pochi giorni.

© Copyright Il Giornale, 13 settembre 2007



Sono ansiosa di vedere cosa succederà domani!
FORZA, BENEDETTO!!!!! [SM=g27823]


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Il moto contrario di giornali cattolici, professori pontifici e vescovi

Oggi entrano finalmente in vigore le norme previste dal motu proprio Summorum pontificum, pubblicato il 7 luglio, che in pratica liberalizza l’uso della messa preconciliare, detta di san Pio V. Questa decisione di Papa Ratzinger seppure ampiamente prevedibile è stata, per ora, indubbiamente quella più contestata del suo pontificato. Per tutta l’estate infatti si sono susseguiti interventi e commenti che hanno criticato la decisione papale, cercando di depotenziarne il più possibile le conseguenze. Quella che ormai viene definita la fronda anti messale di san Pio V si è manifestata soprattutto tra i liturgisti e nei media, ma non sono mancati in tal senso interventi di cardinali e vescovi.

La fronda mediatica.

Contro il motu proprio si sono schierati in modo netto periodici che vanno per la maggiore in campo ecclesiastico. In Italia si sono fatti sentire Il Regno, quindicinale dei dehoniani di Bologna, che ha pubblicato un puntuto intervento del liturgista Andrea Grillo, nonché Jesus e Vita pastorale, mensili dei paolini (Famiglia Cristiana, settimanale del gruppo ha confermato invece anche su questo punto la svolta “governativa” filoratzingeriana).
Nel Regno Unito poi il settimanale cattolico liberal The Tablet ha stroncato il motu proprio con un editoriale dal titolo inequivoco: “Un passo indietro”. Ovviamente ipercritica anche l’agenzia cattolica Adista, espressione di quel che rimane della sinistra ecclesiale italiana.

La fronda accademica.

Nel criticare il motu proprio i periodici appena citati hanno dato voce a vari docenti che insegnano nelle più prestigiose facoltà ecclesiastiche romane, e che pure hanno il titolo di “pontificie”.
Grillo infatti insegna nel pontificio Ateneo di Sant’Anselmo; il Tablet ha ospitato un articolo critico di padre Mark Francis, anche lui docente a Sant’Anselmo e una lettera di tenore analogo scritta dal gesuita Keith F. Pecklers, professore di liturgia alla pontificia Università Gregoriana. Jesus da parte sua ha ospitato un’intervista al solito Grillo.
Don Manlio Sodi, ordinario alla pontificia Università Salesiana, ha poi dato alle stampe addirittura un instant book, titolato “Il Messale di san Pio V. Perché la messa in latino nel III Millennio?”, anch’esso ovviamente critico del motu proprio (si afferma tra l’altro che il Messale preconciliare deve essere considerato come abrogato, quando invece il motu proprio pontificio afferma esattamente il contrario). Il bello è che il volumetto di don Sodi – stampato dalle Edizioni Messaggero che fanno capo ai frati conventuali che gestiscono il famoso santuario di Sant’Antonio di Padova – ha ottenuto l’imprimatur ecclesiastico da parte di monsignor Danilo Serena, vicario generale della diocesi patavina.

La fronda episcopale.

Non sono molti i vescovi che hanno pubblicamente manifestato apprezzamento per il motu proprio ratzingeriano.
In Italia sono intervenuti il cardinale Camillo Ruini e il vescovo di Frosinone Salvatore Boccaccio; in Cile il vescovo opusdeista di San Bernardo Juan Ignacio González Errazuriz. In Gran Bretagna il cardinale di Edinmburgo, Keith O’Brien (lo stesso che quando ricevette la porpora dovette sottomettersi a un inusuale giuramento di fedeltà al magistero perché in odore di progressismo), ha addirittura celebrato personalmente la Messa di san Pio V per i fedeli tradizionalisti scozzesi. Più rumorosa è stata invece la reazione di quei presuli che ritengono problematica, se non nefasta, la decisione pontificia. In Italia la fronda si è manifestata con interventi apertamente contrari come
quelli del vescovo di Sora Luca Brandolini e dell’arcivescovo di Pisa Alessandro Plotti, o come quello problematico del neovescovo di Verona Giuseppe Zenti. La contestazione comunque ha avuto il suo epicentro in Piemonte, dove si fa sentire in modo particolare il magistero spirituale di fratel Enzo Bianchi del monastero di Bose, che su Repubblica è stato tra i primi a criticare la decisione di Benedetto XVI. Il vescovo di Alba, Sebastiano Dho, ha messo nero su bianco le critiche su Vita Pastorale e le ha ribadite al quotidiano la Stampa. Il vescovo di Novara, Renato Corti, ispirato dall’ufficio liturgico diocesano, ha addirittura chiesto una riunione straordinaria della Conferenza episcopale regionale per ragionare sul motu proprio.
Un torinese d’eccezione come il cardinale
Carlo Maria Martini, ha ritenuto necessario far conoscere al mondo, tramite il Sole 24 Ore, che lui la messa tridentina non la celebrerà mai. Il suo successore a Milano ha fatto sapere che in buona parte della sua diocesi vige il rito ambrosiano, e che il motu proprio parla solo di “rito romano”.

© Copyright Il Foglio, 14 settembre 2007


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Da oggi la messa in latino ha di nuovo libera circolazione nella chiesa

LE ASPETTATIVE E LE POLEMICHE. PARLA L’ARCIVESCOVO RANJITH, SEGRETARIO DELLA CONGREGAZIONE VATICANA PER IL CULTO

Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

Roma. Oggi, 14 settembre, entra in vigore il motu proprio di Papa Benedetto che “liberalizza” la Messa tridentina, permette cioè ai fedeli che lo desiderano di partecipare, in ogni parrocchia, a celebrazioni in latino secondo il messale di san Pio V. Sino ad ora per farlo occorreva una particolare dispensa
del vescovo diocesano.
L’arcivescovo Malcolm Ranjith è il segretario della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, il viceministro vaticano della liturgia.
In questa intervista esprime le aspettative e le preoccupazioni del suo dicastero di fronte all’accoglienza che il motu proprio “Summorum Pontificum” ha avuto nella chiesa cattolica. Il documento con cui Benedetto XVI ha liberalizzato la messa tridentina ha, infatti, suscitato grande interesse. Però sembra che molti lo giudichino solo in chiave ideologica alla luce del cosiddetto spirito del Concilio Vaticano II.
Per monsignor Ranjith, invece, “il Papa ha valutato profondamente le crescenti richieste dei fedeli favorevoli al ritorno del rito tridentino e considerando anche i risultati attuali delle riforme liturgiche post conciliari ha preso la sua decisione.
Ora non si tratta di vedere fantasmi di divisioni o teologie retrograde dietro questa decisione ma di mettersi in ascolto e obbedire con lealtà. Non è vero che la riforma di Paolo VI viene sottovalutata.
Il Papa la chiama l’espressione ordinaria della messa. Credo che a causa di questa decisione alcuni valori essenziali della liturgia torneranno a essere più accentuati sia nell’uno che nell’altro modo di celebrare.

Sono sicuro che soprattutto i vescovi, che nel momento dell’assunzione del loro ministero episcopale hanno professato la loro piena lealtà e obbedienza al Sommo Pontefice, accetteranno questa decisione con sentimenti di generosa collaborazione e assicureranno la fedele attuazione delle indicazioni del motu proprio nel modo con cui viene indicato loro, rispettando le identità specifiche dei due modi di celebrare.

Vedo che in genere il motu proprio è stato accolto bene. In ogni caso, parlare di questa come una mossa contro il Concilio Vaticano II sarebbe non solo un totale malinteso ma anche un tentativo di creare divisioni nella chiesa. Non vedo nessuna ragione per questi allarmismi”.
Il Papa sembra aver fatto della questione liturgica uno dei temi fondamentali del suo pontificato. “Già dal tempo del suo ministero
episcopale a Monaco di Baviera aveva mostrato un grande interesse per la questione liturgica. Ciò su cui lui, ora da Papa, continua a insistere è la centralità del principio perenne lex orandi, lex credendi e la necessità assoluta di conoscere, celebrare e vivere profondamente il mistero della liturgia come principio vivificante
della chiesa.

Il Papa vuole che tutti i fedeli godano di quel senso nobile e trascendente come anche profondamente trasformante della liturgia. La liturgia non è tanto ciò che si studia quanto ciò che si celebra, si crede e si vive”.

I sacerdoti giovani

Sono molti i sacerdoti giovani, al di sotto dei quarant’anni, a essere interessati alla liturgia tradizionale. “E’ un fenomeno interessante, questa richiesta dei giovani sacerdoti.
Per me è un segno dei tempi e il Concilio Vaticano II raccomandava a noi di essere sempre attenti a questi segni. Vedo una forte sete tra loro, di essere autentici alle esigenze della loro vocazione. I giovani di oggi che decidono di diventare sacerdoti fanno una scelta che forse comporta più sacrifici di quelli di ieri. Quando noi siamo entrati in seminario, per esempio, l’ambiente era più religioso di oggi. Vedo che in alcuni casi questa ricerca li porta a scegliere un senso più tradizionale della liturgia, nel portare la veste talare o qualche insegna sacerdotale o religiosa e ad essere pronti a intraprendere altre scelte indicative della loro vocazione.
Questa non dovrebbe significare una condanna di altri che forse hanno pensato di non insistere tanto su questi aspetti esterni della loro identità. Ma i tempi cambiano.

I giovani vogliono più coerenza.
L’entusiasmo dei giovani va sempre incoraggiato, non disprezzato”.
In questi anni molte celebrazioni liturgiche hanno mostrato la tendenza a un abbassamento del divino verso l’umano invece che l’innalzamento dell’umano verso il soprannaturale.

Crede che la liturgia tradizionale contribuirà al rimedio di questo fatto?

“Non solo la liturgia tradizionale ma anche quella del Novus Ordo, se viene celebrata con fede, devozione, decoro, senso di fedeltà alle norme e rigore spirituale è capace di innalzare il cuore umano verso una vera adorazione di Dio. Come dice il Papa, ‘la liturgia… è veritatis splendor’.
Essa non è ciò che noi facciamo, ma piuttosto qualcosa di celeste alla quale siamo chiamati ad adeguarci anche negli aspetti esterni. Dall’altra parte è la chiesa che celebra la liturgia: adorazione e lode del suo Signore come suo popolo.
Per questa dimensione ecclesiale come dice il Concilio nella ‘Sacrosanctum Concilium’: ‘nessun altro assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa in materia liturgica’.
Il problema attuale è uno spirito di disordine sulla disciplina liturgica, largamente diffusa in diverse parti del mondo. Tale situazione è il risultato d’una formazione liturgica difettosa a diversi livelli. Diversi sacerdoti non conoscono il vero senso di ciò che si celebra e portano avanti una liturgia ‘fai da te’.
Per sfortuna, in alcuni casi anche gli stessi vescovi sono diventati immobili e inconsistenti tollerando questa situazione passivamente o magari, in qualche caso raro, incoraggiando tali atteggiamenti. E poi ci sono atteggiamenti piuttosto pedantici di alcuni teorici, i quali hanno purtroppo dimenticato che la liturgia non è tanto un atto intellettuale quanto un atto di adorazione, perciò di profonda spiritualità e fede”.

Si assiste a una fuga dei fedeli verso due estremi opposti: la ricerca del misticismo a tutti i costi o la banalizzazione.

“Ciò che è successo nel nome d’un cosiddetto ‘spirito del Concilio’ il quale non è stato neanche fedele alle indicazioni dei suoi vari documenti ha causato gravi danni alla chiesa soprattutto a causa d’un certo avventurismo liturgico.
Questa constatazione non deve essere interpretata come una critica del Concilio ma come una proposta di riaggancio a ciò che aveva veramente stabilito. Alcuni dei maggiori cambiamenti in liturgia non sono mai stati auspicati dal Concilio. La banalizzazione dei misteri eterni della liturgia conseguita e giustificata da alcuni liturgisti ora sta creando una crescente richiesta per abbandonare totalmente gli aspetti terrestri e entrare in una fase di misticismo distaccato.
Un sano senso di equilibrio fra i due aspetti, cioè quello discendente e quello ascendente come anche un vero apprezzamento del valore eterno di ciò che si realizza nella liturgia è importante. I costanti chiarimenti di Papa Benedetto sulla vera natura della liturgia sono delle indicazioni alla chiesa e soprattutto a vescovi e clero su quell’equilibrio necessario. Senza un tale atteggiamento si rischia di cadere nella superficialità e nel formalismo da un lato e dall’altro lato in uno spiritualismo che non ispira alla realizzazione
delle scelte cristiane nella vita”.

Attraverso gli errori liturgici sono passati anche errori dottrinali. Sarà possibile mettervi rimedio anche grazie alla liturgia tridentina?

“Credo di sì, ma la parola ‘anche’ qui è importante. Non dobbiamo abbandonare i tentativi di far conoscere a tutti il valore eterno di ogni forma di celebrazione liturgica, soprattutto quella del Novus Ordo.
Attraverso la correzione di alcune di queste esagerazioni liturgiche che probabilmente la messa tridentina faciliterà negli anni futuri, ci sarà un miglioramento ulteriore del Novus Ordo e così anche un superamento delle crisi teologiche causate da quelle tendenze banalizzanti della liturgia”.

Molti sacerdoti e molti fedeli sembrano timorosi di chiedere di applicare ciò che il Papa ha stabilito che sia un loro diritto. Forse c’è bisogno di un incoraggiamento.

“Non vedo, di chi dobbiamo avere timore perché timore significa mancanza di fede.

D’altronde, in un mondo che abbandona il senso della disciplina e soffre a causa di essa, sarebbe grave se qualche pastore della chiesa donasse un esempio negativo in questo senso disobbedendo al Papa. Ciò comporterebbe una controtestimonianza per Cristo che spogliò se stesso è ubbidì al Padre fino alla morte sulla croce”.

© Copyright Il Foglio, 14 settembre 2007



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I vescovi contro il latino ma l'obiettivo è il Papa

di Antonio Socci

Era il 1971 e il teologo Joseph Ratzinger - che pure era stato un uomo del Concilio - denunciò l'immane disastro "progressista" del post Concilio, indicando a chiare lettere la grave responsabilità di tanti vescovi: «In base a queste istanze (progressiste), anche a dei vescovi poteva sembrare "imperativo dell'attualità" e "inesorabile linea di tendenza", deridere i dogmi e addirittura lasciare intendere che l'esistenza di Dio non potesse darsi in alcun modo per certa (...).
Per questo sono certo che si preparano per la Chiesa tempi molto difficili. La sua crisi vera e propria è solo appena cominciata».
E infatti la crisi è divampata e a farla esplodere è stato innanzitutto l'attacco alla liturgia che della Chiesa è il cuore. Da cardinale tutore della fede, nel 1997, Ratzinger scriverà: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo, dipende in gran parte dal crollo della liturgia».

Libertà restituita

E oggi, da Papa, egli regala alla Chiesa un giorno storico. Il 14 settembre infatti entra in vigore il Motu proprio con cui Benedetto XVI ha restituito ai fedeli la libertà di partecipare alla cosiddetta liturgia tridentina, la liturgia di sempre della Chiesa. Attenzione: non è solo questione del latino (perché anche la riforma del 1969 ha la sua messa in latino). Né è questione che interessa solo i cosiddetti tradizionalisti. È molto di più: la notte dell'autodemolizione progressista e modernista della Chiesa sta finendo. Un grande teologo come Von Balthasar - che Papa Wojtyla volle cardinale pur essendo anch'egli uomo del Concilio, scrisse: «Stranamente a causa di questa falsa interpretazione si ha la sensazione che la liturgia post-conciliare sia divenuta più clericale di quanto non fosse nei giorni in cui il sacerdote era un semplice servitore del mistero che veniva celebrato!». Da oggi ai cristiani viene finalmente restituita la libertà di pregare (e di credere) come la Chiesa dei loro padri e dei Santi ha pregato (e creduto) per 19 secoli. Una libertà loro sottratta da vescovi e chierici "progressisti" dispotici che prima hanno (arbitrariamente) presentato la riforma liturgica del 1969 come un'abolizione del rito tradizionale della Chiesa e poi hanno sabotato lo speciale indulto chiarificatore di Giovanni Paolo II del 1984 e del 1986.
Ora Benedetto XVI - preso atto del boicottaggio dei vescovi - ha ordinato loro di riconoscere i diritti dei fedeli. Un passo grandioso che porterà frutti sorprendenti alla Chiesa. Ma, ancora una volta, diversi vescovi stanno cercando di disobbedire al Papa con la ribellione esplicita o con qualche trucco dialettico. A dare il la come al solito è stato il cardinal Martini che - ormai nei panni dell'Antipapa - ha tuonato che lui non avrebbe mai celebrato nel rito tradizionale per "quel senso di chiuso che emanava dall'insieme di quel tipo di vita cristiana così come allora lo si viveva". Così, forte del fallimento pastorale progressista (e del suo episcopato), Martini ha liquidato secoli di santità: la Chiesa dove sono fioriti i più grandi santi, da Caterina a Francesco, da Carlo Borromeo a Francesco Saverio e Teresina di Lisieux, da Massimiliano Kolbe a Padre Pio, darebbe «un senso di chiuso» rispetto alla chiesuola progressista, fatta - immagino - di cattocomunisti, ecumenisti scatenati e teologi della liberazione.
La grandiosa liturgia cattolica per la quale geni come Mozart, Michelangelo e Caravaggio hanno creato capolavori darebbe un'idea di "chiuso" rispetto agli sciamannati schitarramenti postconciliari con i più indecenti abusi liturgici. Ma subito a coda di Martini ha preso il coraggio del boicottaggio furbesco anche l'attuale vescovo di Milano Tettamanzi (scottato dal conclave del 2005 da cui voleva uscire Papa) e altri vescovi, tra i quali va citato quello di Pisa per la sua aperta opposizione al Papa (da monsignor Plotti aspetto ancora che mi spieghi il senso della Cattedrale a pagamento, come fosse un museo). Per avere un'idea di cosa sia la "chiesa progressista" bisogna leggere un articolo apparso l'altroieri su Repubblica. Parlava dei funerali dei bimbi rom, morti in un incendio a Livorno, celebrati dal pope ortodosso nella Cattedrale cattolica della città toscana. Monsignor Razzauto, amministratore diocesano con funzioni di vescovo, che ha concesso la cattedrale ha dichiarato: «Se, per motivi speciali, o per mancanza di spazio, ne avessero bisogno non avrei alcun problema a mettere a disposizione la Cattedrale anche agli islamici». Avete letto bene: la Cattedrale cattolica a disposizione per dei riti islamici. I commenti - teologici e canonici - li lascio alle autorità vaticane.

Vorrei sottolineare però che questo clero così ecumenico e aperto è lo stesso che poi, per decenni, ha negato le chiese ai fedeli cristiani per celebrare la Messa tradizionale.

In un'altra città toscana un vescovo ha negato la Cattedrale addirittura a un cardinale perché avrebbe celebrato, com'era sua facoltà, la Messa tridentina. Nella ribellione dei vescovi c'è un'opposizione al Papa che viene da lontano. Al Concilio don Giuseppe Dossetti, passato dalla politica italiana alle smanie riformatrici della Chiesa, provò a dimostrare che il vescovo ha il potere di giurisdizione con l'ordinazione stessa, a prescindere dal fatto che lo riceva dal Papa. Se questa idea fosse stata accolta la Chiesa Cattolica si poteva trasformare in chiesa episcopaliana col Papa ridotto a coordinatore. Invece fu bocciata e Dossetti fu rimosso da Paolo VI. Ma i vescovi progressisti non hanno mai rinunciato alle loro pretese.
Paolo VI, negli ultimi anni, era diventato una voce che grida nel deserto. L'allora patriarca di Venezia Albino Luciani fu tra i pochi che cercò di opporsi alla dissoluzione: «Sarebbe ora di affermare coraggiosamente che voler essere col Papa non è deteriore complesso di inferiorità, ma frutto dello Spirito Santo». Con Wojtyla il papato ritrovò vigore.

Schiavi del potere

Ma ricordo l'ottimo don Divo Barsotti che in un'intervista del 1985 mi diceva: «C'è un grande pericolo, il disgregamento dell'unica Chiesa di Cristo. I viaggi del Papa, secondo me, esprimono questa drammatica preoccupazione. Il papato negli anni recenti era stato umiliato e isolato. Nessuno voleva più sentir parlare del Papa, soprattutto i vescovi...».
E poi aggiungeva: «Ancora non si è superato questo dramma. Ci sono ancora vescovi che resistono al Papa».

Giustamente Barsotti sottolineava che il vescovo ha diritto di essere seguito dai fedeli, ma se è in comunione col Papa. Altrimenti fa una sua chiesuola. Lealtà vorrebbe che un vescovo in disaccordo col Papa si dimettesse.

Ma di rinunciare al loro potere clericale non vogliono sentirne parlare. Anzi, purtroppo continuano tuttora a essere nominati vescovi di area "progressista" che promettono di continuare questa deriva. Perché la burocrazia clericale è ancora in loro potere. Cosa temono dalla libertà? Perché vogliono impedire al popolo cristiano di pregare come la Chiesa ha pregato per due millenni? Perché nella Chiesa "lex orandi, lex credendi". La Liturgia esprime la dottrina cattolica ortodossa ed è la vera fede che affascina e attrae. Mentre la loro stagione è quella del passato, quella - come denunciò il cardinal Ratzinger - dove i cristiani erano «portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina». In quel memorabile discorso di apertura del Conclave, Ratzinger aggiungeva, amaramente: «Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all'altro». Benedetto XVI ora cerca invece di ancorarla alla roccia della tradizione ortodossa. E anche se il "partito clericale" gli ha dichiarato guerra, ha con sé il popolo cristiano.

© Copyright Libero, 14 settembre 2007



Quanta ragione hai, caro!!!! [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811]


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CARD. BERTONE: RISPETTO PER CHI VUOLE MESSA IN LATINO

"Nonostante tutte le critiche che ci sono state"

Roma, 13 set. (Apcom) - "Nonostante tutte le critiche che ci sono state" nei confronti del motu proprio del Papa che liberalizza il messale pre-conciliare (la cosiddetta messa in latino) e che entra in vigore domani, "bisogna comprendere il valore di questa connessione tra passato e presente della Chiesa": lo ha detto il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano, a conclusione di una messa che ha celebrato questa sera nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, a Roma.

Il 'primo ministro' del Papa si è intrattenuto con i cronisti che gli domandavano un commento sulle recenti resistenze al provvedimento papale che va incontro alle richieste dei cattolici tradizionalisti. "L'oggi non rinnega mai il patrimonio del passato", ha detto il porporato, che ha anche sottolineato come, durante la celebrazione eucaristica di questa sera (vigilia della festa dell'esaltazione della Croce), l'assemblea abbia cantato in latino "una bellissima Salve Regina: una meraviglia!".

"Non dimentichiamo questo passato - ha aggiunto il cardinal Bertone - e abbiamo rispetto per coloro che vogliono tenerlo vivo nel cuore e nei riti della Chiesa".


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Quoto al 100% l'articolo di Antonio Socci. Fa bene il pontefice ad ancorare la barca di Pietro alla roccia della fede ortodossa. La messa in latino è il patrimonio della Chiesa e chi critica questa è sicuramente chi vuole portarci via le nostre radici. Stiamo col Papa sempre e comunque perchè la via che traccia è la via di Cristo: non dimentichiamoci che, al di là della fisicità dei porporati, il pontefice è stato eletto da Dio, dallo Spirito Santo.
VIVA IL PAPA E IL MOTU PROPRIO "SUMMORUM PONTIFICUM" [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=g27811] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40799] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=x40801] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27836] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828]
OREMUS PRO PONTIFICE NOSTRO BENEDICTO
EXTRA ECCLESIAM NULLUS OMNINO SALVATUR
IN HOC SIGNUM VINCES
IL MOTU PROPRIO "SUMMORUM PONTIFICUM" E' QUANTO DI PIU' GIUSTO SI SIA FATTO IN QUESTI ANNI PER LA CHIESA CATTOLICA
"O glorioso S. Francesco, gettate uno sguardo sopra il Successore di Pietro, alla cui sede, vivendo, foste così devoto" (Pius PP. IX).
"Ma se fu sempre necessario, Venerabili Fratelli, ora specialmente, in mezzo a così grandi calamità della Chiesa e della società civile, in tanta cospirazione di avversari contro il cattolicesimo e questa Sede Apostolica, e fra così gran cumulo di errori, è assolutamente indispensabile che ricorriamo con fiducia al trono della grazia per ottenere misericordia e trovare benevolenza nell’aiuto opportuno". (Pius PP. IX, enclica Quanta Cura).
Tu es Petrus e super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversum eam. Et tibi dabo claves regni coelorum. Et quodcumque ligaveris super terram, erit legatum et in coelis; Et quodcumque solveris super terram, erit solutum et in coelis. (Mt 16, 18-19)
"Che ci sia una ed una sola Santa Chiesa Cattolica ed Apostolica noi siamo costretti a credere ed a professare, spingendoci a ciò la nostra fede, e noi questo crediamo fermamente e con semplicità professiamo, ed anche che non ci sia salvezza e remissione dei nostri peccati fuori di lei, come lo sposo proclama nel Cantico: "Unica è la mia colomba, la mia perfetta; unica alla madre sua, senza pari per la sua genitrice", che rappresenta un corpo mistico, il cui capo è Cristo, e il capo di Cristo è Dio, e in esso c'è "un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo". (...) Noi sappiamo dalle parole del Vangelo che in questa Chiesa e nel suo potere ci sono due spade, una spirituale, cioè, ed una temporale, perché, quando gli Apostoli dissero: "Ecco qui due spade" (che significa nella Chiesa, dato che erano gli Apostoli a parlare (il Signore non rispose che erano troppe, ma che erano sufficienti). E chi nega che la spada temporale appartenga a Pietro, ha malamente interpretato le parole del Signore, quando dice: "Rimetti la tua spada nel fodero". Quindi ambedue sono in potere della Chiesa, la spada spirituale e quella materiale; una invero deve essere impugnata per la Chiesa, l’altra dalla Chiesa; la seconda dal clero, la prima dalla mano di re o cavalieri, ma secondo il comando e la condiscendenza del clero, perché è necessario che una spada dipenda dall’altra e che l’autorità temporale sia soggetta a quella spirituale. Perché quando l’Apostolo dice: "Non c’è potere che non venga da Dio e quelli (poteri) che sono, sono disposti da Dio", essi non sarebbero disposti se una spada non fosse sottoposta all’altra, e, come inferiore, non fosse dall’altra ricondotta a nobilissime imprese. (...) Perciò se il potere terreno erra, sarà giudicato da quello spirituale; se il potere spirituale inferiore sbaglia, sarà giudicato dal superiore; ma se erra il supremo potere spirituale, questo potrà essere giudicato solamente da Dio e non dagli uomini. Quindi noi dichiariamo, stabiliamo, definiamo ed affermiamo che è assolutamente necessario per la salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al Pontefice di Roma". (Unam Sanctam, Bonifacius PP. VIII, 18 Novembre 1302).
"Bisogna dare battaglia, perchè Dio conceda vittoria" (S. Giovanna d'Arco)
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A LORETO COL MESSALE DI GIOVANNI XXIII

Castrillon Hoyos celebra nella Santa Casa
«L'importante non è il rito ma l'Eucaristia»


Il presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei ieri ha presieduto il Pontificale nell'antica forma
D
al Nostro Inviato A Loreto Mimmo Muolo

Concentrazione silenziosa e melodie gregoriane. Paramenti classici e preghiere recitate sotto voce dal celebrante che guarda nella stessa direzione dei fedeli.
Nella cripta dei santi pellegrini, sotto la Basilica della Santa Casa di Loreto, si celebra la Messa con il rito precedente la Riforma di Paolo VI. E le differenze rispetto alla liturgia del Messale conciliare saltano subito agli occhi. Ma il cardinale Dario Castrillon Hoyos sottolinea: «Dobbiamo comprendere che la cosa importante non è il rito, quanto l'Eucaristia. Cristo che si fa di nuovo carne per la nostra salvezza».
Il presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei è giunto da Roma in una data a suo modo storica per la Chiesa. In questo venerdì 14 settembre, festa della esaltazione della Santa Croce, entra infatti in vigore il Motu Proprio di Benedetto XVI che di fatto liberalizza l'uso - sia pure in forma straordinaria, rispetto a quella ordinaria che resta appunto la liturgia voluta dal Concilio Vaticano II - della Messa in latino. E l'Associazione «Una Voce», un migliaio di iscritti in tutta Italia, ha promosso un solenne Pontificale che si svolge nella cappella posta proprio nel «ventre» della grande santuario lauretano.
C'è clima di festa per quello che Castrillon Hoyos, nell'omelia della Messa (unica parte in italiano, se si eccettua il breve benvenuto iniziale da parte del rettore della Basilica, padre Marzio Calletti) definisce «un dono ricevuto grazie alla benevolenza del Papa». «Questo Motu Proprio - aggiunge il cardinale - è espressione del suo animo, del suo cuore e del suo intelletto, è esercizio del suo munus non solo reggente, ma anche santificante». Perciò il porporato si dice sicuro che «tutti i vescovi del mondo saranno felici di offrire ai loro fedeli la ricchezza di questo rito santo».
Un rito, sottolinea ancora, «bello e teologicamente forte». Esso, dunque «deve godere del debito onore che gli è dovuto per il suo antico e venerabile uso».
Castrillon Hoyos non ignora, però, le perplessità (e in alcuni casi anche la «dura opposizione») suscitata dal Motu Proprio. Perciò ricorda che questo rinnovato uso deve avvenire «senza contrapposizioni». «Celebrare in questa forma straordinaria - spiega - non vuol dire che disprezziamo la nuova forma e che non ci importa dell'assemblea. Il Papa non fa tornare indietro la Chiesa, ma anzi le fa fare un passo avanti». Ciò che si vuole piuttosto sottolineare è che «tutta l'assemblea sia orientata verso il sacrificio di Cristo».
Un sacrificio - aveva detto in un passaggio precedente dell'omelia - intimamente connesso con la risurrezione e da vivere nella propria vita». Perciò, conclude il cardinale «tutti dobbiamo essere grati al Santo Padre per il dono di questo Motu Proprio uscito dal suo cuore». Così la sezione picena di «Una Voce» insieme con il presidente nazionale Riccardo Turrini Vita ha chiesto all'arcivescovo prelato di Loreto monsignor Gianni Danzi (ieri assente per sopravvenuti improcrastinabili impegni) la possibilità di celebrare nella Santa Casa.
Erano presenti anche il rappresentante del patriarcato di Mosca, padre Filippo Vassiliev, che ha ricordato il giudizio di Alessio II («una iniziativa molto positiva») e una delegazione dell'ambasciata russa presso la Santa Sede. La celebrazione è durata due ore e mezza, anche per effetto dei canti gregoriani eseguiti dalla Cappella musicale della Santa Casa, diretta da padre Giuliano Viabile, e dal Rossini Chamber Choir di Pesaro di Simone Baiocchi.

© Copyright Avvenire, 15 settembre 2007
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La Messa in latino

Il cardinale che non trova più il messale

Il prelato «Dopo quarant’anni non è facile, dovrò “ripassare” e prepararmi prima di salire all’altare»

GIACOMO GALEAZZI

CITTA’DEL VATICANO
«In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti. Ehhm. .uhhm.. Ci ho messo un po’ per farmi tornare in mente quelle lunghe liturgie celebrate da giovane». Dieci anni di messe in latino, dal 1955 al 1965, rispolverate all’improvviso dal «motu proprio» entrato in vigore ieri. Tra «iniziale disorientamento, ricordi e sentimenti profondi», il cardinale Javier Lozano Barragán, 74 anni, ministro vaticano della Salute, ripercorre il suo ritorno alla celebrazione pre-conciliare. Lo stretto collaboratore di Joseph Ratzinger non aveva conservato in casa il Messale di Pio V. «Anzi, quando fu superato dal Concilio, noi giovani sacerdoti di allora, lo abbandonammo senza rimpianti e con grande entusiasmo - sorride il cardinale -. Lasciare l’antico messale per noi significava poter ampliare gli orizzonti». Ora l’inatteso ritorno alla messa che fu. Non senza contraccolpi.

«Dopo il 1965 i sacerdoti non hanno più studiato il latino - evidenzia il porporato -. Una larga frangia del clero non conosce il latino. Una carenza grave perché il latino è la lingua madre della Chiesa e dell’Occidente». Il «motu proprio», quindi come sfida e opportunità.

«Può rivelarsi anche uno sprone a riprendere in mano i classici - sostiene il ministro vaticano della Sanità -. Noi da giovani, non vedevamo l’ora di finirla con il latino. Ora lo riabbracciamo come un caro, vecchio amico». Iniziale imbarazzo, graduale riscoperta.
Con qualche momento di stupore, ma anche la crescente consapevolezza dell’«inattesa possibilità» di rituffarsi nel latino. «Aldilà dell’emozione, per dire messa in latino serve prepararsi. Sarà che il latino l’ho imparato quand’ero un bambino e da allora è passato tanto tempo - racconta il porporato di Curia -. Il latino non è tanto facile». L’ufficialità cede il passo alla memoria. «Ripristinare la messa com’era prima del Concilio Vaticano II è un arricchimento. La liturgia oggi è già ricca, possiamo scegliere tra le tante preghiere previste - osserva il cardinale -. Adesso, in più, si è aperta la porta al canone romano. Un rito diverso e una ricca simbologia propria».
Certo i cambiamenti non sono di poco conto per chi celebra la funzione religiosa e anche il cardinale ha dovuto adeguarsi. «Quella in latino è una messa solenne. L’inizio è più lungo, il sacerdote non sale subito sull’altare e le variazioni non riguardano solo l’uso della lingua - precisa Barragan -. Nella celebrazione ci sono atteggiamenti e segni che si ripetono per mostrare il rispetto a Cristo nell’Eucarestia. Per esempio, una volta che si tocca l’ostia con le dita, il pollice e l’indice devono rimanere insieme e vanno purificati uniti nel calice». Simboli di rispetto e ossequio che il cardinale rievoca. «Alla fine della messa, prima della comunione, si legge ancora un passo del Vangelo, il primo capitolo di Giovanni - puntualizza il porporato -. La celebrazione termina con la recita di tre Ave Maria alla Madonna e di una preghiera a San Michele Arcangelo». Tante differenze, dunque, non solo esteriori. «Sono dovuto tornare con la memoria a un’epoca lontana della mia vita - ammette -. Una sensazione strana. Sono variazioni notevoli». Con una nota di riflessione: «Ho celebrato per dieci anni la messa in latino, poi sono stato al passo con i tempi che cambiavano e mai avrei pensato di tornare ad essa». La messa, dunque, come «filo rosso» nel proprio cammino di fede, mentre il latino è sempre più lingua morta nei seminari e sempre meno in uso nella pratica quotidiana delle canoniche». E anche in Curia, senza dare nell’occhio, in parrocchia, parecchi riprendono in mano i libri di latino. Così riscoprono l’armonia della grande liturgia. Ed è proprio il caso di dire: «Indulgentiam absolutionem, et remissionem peccatorum nostrorum, tribuat nobis omnipotens et misericors Dominus....».

© Copyright La Stampa, 15 settembre 2007


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La messa in latino, ritorno al sacro contro i sacerdoti del finto progresso

di Alessandro Gnocchi

Se qualcuno pensa che i cattolici affezionati alla messa di San Pio V, quella in latino, siano un plotoncino sparuto di generali in pensione e di duchesse svanite faccia un esperimento. Vada sul web: si troverà al cospetto di giovanotti in grado di maneggiare il computer come pochi, pieni di energie, con lo sguardo rivolto al futuro. Gente che ama la tradizione, ma che vive con i piedi piantati nel presente. E che proprio per questo ha già fiutato il clima vagamente censorio che si respira in molte parrocchie italiane in questi giorni.
È entrato in vigore il motu proprio con cui Papa Benedetto XVI liberalizza la messa di san Pio V, ma una fetta dell’episcopato italiano si appresta a mettere la sordina al documento.

Il caso della diocesi di Milano, opportunamente sollevato dal Giornale, ne è l’esempio più vistoso: siamo ambrosiani - hanno fatto sapere dalla curia - dunque niente Messa di San Pio V. Un cavillo che ha il solo scopo di disattendere il documento del Papa.

Del resto, quanti vescovi hanno parlato pubblicamente e liberamente di ciò che sta avvenendo? Quanti parroci? Uno solo, che ci risulti, si è assunto questa responsabilità apertamente, applicando subito il motu proprio e ha riempito la chiesa di fedeli, suscitando la reazione dell’apparato di curia.

Anche questo un caso che ha sollevato Il Giornale. Un giornale laico. Come laica è La Stampa, sulla quale Massimo Gramellini, all’indomani della pubblicazione del motu proprio mise nero su bianco il seguente ragionamento: era ora che si suonasse nuovamente la campana del senso del sacro. Era ora di finirla con quei sacerdoti in jeans e chitarra che pensavano di essere più vicini ai loro fedeli e, invece, erano solo più lontani dal Cielo.

Laico Il Giornale, laica La Stampa: forse vorrà dire qualche cosa. Vuol dire che un atto come quello di Benedetto XVI non può essere letto con il paraocchi. E tanto meno con il paraocchi del cosiddetto spirito del Concilio Vaticano II che ha permeato la quasi totalità del mondo cattolico. Per un certo tipo umano da sagrestia, tutto deve essere letto in funzione del Vaticano II, e ciò che non rientra in quei canoni va silenziato. Siccome negli ambienti progressisti cattolici è stato stabilito che il motu proprio del Papa non è conforme allo spirito del Concilio, ecco pagato il Pontefice con la stessa moneta usata per l’ultimo dei reazionari.

Intanto il popolo non capisce come mai, pur in presenza di un atto del successore di Pietro, preti, arcipreti e vescovi dicano pubblicamente che non è cambiato niente, che si continua come prima. Non capisce come mai ci si permetta di non obbedire al Papa. Non capisce come mai sacerdoti e fedeli che manifestano interesse per la liturgia tradizionale vengano messi al bando e perseguitati: avete capito bene, perseguitati. Ci sono giovani che sono costretti ad abbandonare il seminario della propria diocesi per aver manifestato simpatie per l’antico rito.

Purtroppo, c’è un’evidente scollatura fra la gente comune, i fedeli, e un gruppo limitato, ma potente di intellettuali che hanno preso in mano le redini di non poche diocesi e facoltà teologiche. Sono quegli stessi che chiamano la Chiesa «popolo di Dio» ma sotto sotto considerano la gente solo una massa incolta lontana anni luce dalla famosa «fede adulta». Ma questo popolo, in realtà è formato da cattolici ordinari che per anni hanno subìto, mugugnando, tutti gli orrori liturgici perpetrati in nome di un’ideologia ecclesiale che ha avuto le caratteristiche di una vera e propria rivoluzione culturale. Nella quale, la degenerazione liturgica è preceduta, accompagnata e seguita da un errore dottrinale. Molti pastori e intellettuali non riescono o non vogliono capirlo.

E vengono scavalcati da questo Papa teologo nel rapporto con il popolo. Mentre loro si attardano in sacrestia a capire chi si gioverà della ricaduta ecclesiologica del motu proprio, Benedetto XVI è già in chiesa a parlare con il suo gregge. E più parla chiaro, più il suo gregge lo comprende e lo ama. Come quando discute dei principi non negoziabili.

Che cosa vogliono dire le sue prese di posizione sulle questioni etiche se non un non negoziabile «Basta»?
Lo stesso accade per la riconsegna della piena cittadinanza nella Chiesa a una liturgia millenaria come quella della messa tradizionale. In questo caso, Papa Benedetto ha preso una posizione anche più forte. Ha scoperto un nervo che molti cattolici avrebbero preferito lasciare sottopelle: ha detto che un’intelligente fedeltà alla propria storia è più forte e più cattolica dell’infatuazione per un concetto utopistico di progresso. Ha detto che la tradizione è connaturale al cattolicesimo mentre l’ideologia è il suo esatto contrario.

© Copyright Il Giornale, 16 settembre 2007


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Vergogna è poco dire!!! Non trovo le parole giuste adatte al comportamento di questo vescovo...
Una cosa chiedo: SI DIMETTA QUANTO PRIMA!

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Nogaro: «La messa in latino è solo coreografia»

Caserta, il vescovo proibisce la celebrazione tridentina. Il parroco: obbedisco, ma non sono d'accordo

Angelo Agrippa

NAPOLI

Il vescovo della tolleranza. Degli immigrati. Dei diseredati. Che concede la struttura diocesana della Tenda di Abramo ai musulmani per la preghiera del venerdì e la cappella adiacente il duomo di Caserta per gli ucraini e i moldavi ortodossi. Ma che ha impedito la celebrazione della messa tridentina ripristinata «motu proprio » da Benedetto XVI dallo scorso 14 settembre.

Con una telefonata, monsignor Raffaele Nogaro ha chiamato il rettore del santuario di Sant'Anna di Caserta, don Giovanni Battista Gionti, e gli ha ordinato di sospendere la celebrazione, prevista per stasera alle 20. «Ma in questo caso— replica Nogaro — la tolleranza non c'entra nulla.
La messa in latino è una distorsione dal fatto religioso. Neanche i professori universitari di latino pregano o parlano nella lingua degli antichi romani. Non è lo strumento adeguato per allacciare un vero rapporto con Dio. Aiutare la gente a pregare è sforzo onorevole. Ed è quanto si tenta di fare concedendo la struttura della Tenda di Abramo ai musulmani e la cappella adiacente il duomo di Caserta agli ortodossi. Viceversa, stordire i fedeli con immagini sacre è coreografia, teatrino, cornice estetica. Ai fedeli va offerto qualcosa di valido e di educativo, non occasioni di disorientamento. Insomma, mugugnare in latino non serve a nulla».

Parole forti. Di dissociazione netta rispetto a quanto disposto da Benedetto XVI che ha recuperato il rito di San Pio V, caduto in disuso dopo la riforma del Concilio Vaticano II. Un rito che da qualche anno sembra, tuttavia, raccogliere nuovi sostenitori della liturgia più rigidamente tradizionalista.

«Il responsabile della correttezza teologica, liturgica e morale di una diocesi è il vescovo— aggiunge monsignor Nogaro — anche se il Papa ha disposto l'apertura a favore di altri riti. Il vescovo, e sono l'unico, finora, in Campania ad aver agito in questo senso, ha deciso di controllare l'applicazione della disposizione papale. Inoltre, non è sufficiente la richiesta di trenta o quaranta persone per celebrare secondo il vecchio rito in latino. Il parroco è obbligato a comunicarlo al vescovo. E io non sono stato avvertito».

Don Gionti è nella sua sacrestia, circondato dai fedeli che gli avevano chiesto di celebrare la messa in latino. Ora, è visibilmente sconcertato: «Obbedisco al mio vescovo — ribadisce — anche se abbiamo perduto la possibilità di una esperienza liturgica importante per la nostra comunità, dato che mi era stata richiesta da molti fedeli. L'avrei vissuta come un esperimento, non certo per sostituire la celebrazione ordinaria post-conciliare. Probabilmente, se la messa in latino avesse riscosso il successo dell'opinione pubblica e dei fedeli l'avrei riproposta di tanto in tanto. D'atronde, credo che il sacerdote debba assicurare una risposta di servizio ai fedeli. Ma il vescovo mi ha chiesto di sospendere la messa programmata, avvertendomi che avrei creato un precedente rischioso. Ma non ho ancora capito a quale rischio faccia riferimento».

Il caso è stato segnalato da una lettera che uno dei fedeli promotori dell'iniziativa ha inviato via e-mail al quotidiano Roma, riferendo dell'indignazione scatenata dal divieto imposto dal presule di Caserta tra i numerosi parrocchiani del santuario patronale della città.

Insomma, altro che «Nulla veritas sine traditione » come amano ripetere i seguaci di San Pio V. Padre Louis Demornex, originario della Franca Contea, studi al collegio Russicum di Roma e da oltre trent'anni parroco tradizionalista delle frazioni di Aulpi e Corigliano di Sessa Aurunca, nell'alto Casertano, ironizza: «Fa bene il vescovo Nogaro a negare il rito tridentino — dice — altrimenti correremmo il rischio di celebrarlo in mezzo a una discarica, come ha fatto lui celebrando messa tra la montagna di rifiuti dell'invaso di Lo Uttaro. Il rito tridentino non è democratico. Ma ha rappresentato per oltre un millennio la spina dorsale della Chiesa. Mentre, distruggendo la messa vera si finisce per distruggere la Chiesa. Il Papa lo sa ed è per questo che lo ha ripristinato».
Nogaro, pur raccomandando di non voler ritrovarsi immerso nelle polemiche, chiarisce ancora una volta: «È come osservare la statua di un santo che passa in processione per strada e ammirarne soltanto la bellezza artistica. Non si può dire certamente che in questo caso ci troviamo dinanzi a un atto di fede o ad una occasione che ispira spiritualità. Così è se noi comunichiamo in una lingua che ormai nessuno più conosce, nessuno più pratica, nessuno più capisce. La suggestione è cosa ben diversa dalla fede e occorre che qualcuno dica ciò che comumemente si pensa».

© Copyright Corriere del Mezzogiorno, 16 settembre 2007

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[Modificato da Paparatzifan 16/09/2007 22:29]
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Mons. Tavanti: «Più solenne. Gioverà alla nostra fede»

di LAURA BOGLIOLO

ROMA Gli angeli sorridenti della Cappella Borghese hanno accompagnato gli sguardi dei fedeli che hanno seguito ieri alla Basilica di Santa Maria Maggiore la prima messa in latino dopo l'entrata in vigore del 'motu proprio'. Alle 8 le campane hanno svegliato le anime raccolte ed emozionate. «La messa è il cuore della Chiesa e la forza del Cristianesimo, benvenuti, grazie per aver raccolto l'invito» ha spiegato Monsignor Tavanti, canonico della basilica, che ha invitato i presenti all' Introibo ad altare Dei. Sono venuti da Frosinone, Manziana e quartiere periferici della capitale. C'era chi ha preso un'ora di permesso dal lavoro, e chi ricordava il rito seguito da bambino quando faceva il chierichetto in quella stessa cappella. «Durante la messa - ha spiegato il sacrestano padre Angelo Gaeta - ci sono lunghi momenti di silenzio, ci sono le preghiere segrete».
I fedeli hanno seguito la liturgia anche grazie a fogli stampati da internet che ricordavano i passi fondamentali della messa. «E' bene tornare alla tradizione - ha spiegato dopo la liturgia Monsignor Tavanti - proporrò di celebrare la messa in latino più spesso, gioverà alla nostra Fede perché più solenne e intensa».

© Copyright Il Messaggero, 15 settembre 2007


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MESSA IN LATINO: LORETO, 700 FEDELI PER PRIMA CELEBRAZIONE
MESSA IN LATINO: LORETO, 700 FEDELI PER PRIMA CELEBRAZIONE


(AGI) - Loreto (Ancona), 14 set.

Nel giorno in cui e' entrato in vigore il motu proprio 'Summorum pontificum' di papa Benedetto XVI, con il quale e' stata liberalizzata la messa in latino, il cardinale Dario Castrillon Hoyos ha celebrato la messa pontificale ed il Te Deum' nella basilica inferiore della Santa Casa. Una cerimonia molto partecipata ed a tratti toccante, alla presenza di oltre 700 fedeli, che si e' svolta davanti alle principali cariche delle istituzioni regionali, civili e militari, i rappresentanti delle confraternite e degli antichi ordini cavallereschi.
Assente monsignor Danzi, arcivescovo delegato pontificio a Loreto, ma solo per un improvviso impegno.
Presenti, fra gli altri, l'ambasciatore della Federazione Russa presso la Santa Sede, Nikolay Sadchikov, accompagnato dal Console Armando Ginesi.
Mezzora dopo l'inizio della celebrazione in latino nell'ampia basilica inferiore, in quella superiore e' iniziata la messa con il rito tradizionale, che ha richiamato i fedeli che abitualmente sono legati alla santa messa delle ore 18.30.
Una scelta voluta per non modificare proprio l'orario del rito pomeridiano, celebrato nella forma tradizionale. La liturgia 'straordinaria' e' tutta imperniata sul mistero, sul sacro.
E' durata oltre due ore: a tutti i presenti e' stato distribuito il testo contenente la traduzione in italiano, ma una delle novita' piu' evidenti rispetto al rito 'ordinario' e' che viene lasciato molto spazio alla preghiera individuale, anche perche' il latino e' un po' piu' difficile da seguire; l'altra e' la comunione: i fedeli restano in ginocchio al loro posto e sono i celebranti a distribuire l'eucarestia. Hanno fatto da cornice diversi canti, sempre in latino. Nel corso dell'omelia in italiano, il cardinale Castrillon, presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha ricordato la visita del papa ad inizio settembre ed il suo incontro con i giovani per l'Agora', quindi ha dedicato gran parte del suo intervento all'Esaltazione della Croce ('motivo di redenzione per i cristiani'), che la chiesa ha festeggiato oggi. Quindi ha ricordato il suo rapporto con Loreto e la Madonna: 'Sicuramente lei avra' sentito tante volte questo rito celebrato in latino, per lei non e' una novita''.
Ha ringraziato il Papa, perche' 'la sua iniziativa ha permesso ai credenti, a chi lo desidera di celebrare la liturgia secondo l'antico rito di Papa Pio V', che la chiesa a celebrato per diciassettte secoli. 'Non si tratta di una contrapposizione tra due riti, uno ordinaria ed uno straordinario - ha concluso Castrillon - ma si e' voluto recuperare il valore di un rito attraverso il quale, tra l'altro, si sono accostati all'eucarestia per secoli tanti fedeli, devoti e santi'.
Al termine della messa pontificale e del 'Te Deum', il cardinale Castrillon ha abbracciato il rappresentante del patriarcato della chiesa russo ortodossa, che ha seguito l'intera cerimonia. (AGI)
"Ciascuno deve salvare non solamente la propria anima ma anche tutte le anime che Dio ha posto sul suo cammino.

Suor Lucia Dos Santos



TURRIS EBURNEA



LIBRI CATTOLICI













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Riportiamo le parole che Mons. Bagnasco ha dedicato al motu proprio Summorum Pontificum nel corso della prolusione dinanzi al Consiglio Permanente della CEI.


Nel corso degli ultimi mesi peraltro sono venuti dalla Sede Apostolica interventi importanti sotto il profilo ecclesiologico e pastorale, e che bene esprimono la sollecitudine di Benedetto XVI. È un’azione che trova nei Vescovi italiani una ricezione speciale.

Gli siamo vicini con la nostra pronta e incondizionata collaborazione sempre, e in modo particolare quando emergono nell’opinione pubblica voci critiche e discordanti.

A ben guardare, sono episodi che in nessuna stagione hanno risparmiato i romani Pontefici. È singolare peraltro quella ricorrente pretesa – mossa da “cattedre” discutibilissime – di misurare la fedeltà altrui, Papa compreso, facendola coincidere ovviamente con i propri stilemi e le proprie evoluzioni.

L’iniziativa su cui si è maggiormente concentrata negli ultimi mesi l’attenzione anche intraecclesiale è il “Motu proprio” Summorum Pontificum, relativo all’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, ed entrato ufficialmente in vigore dal 14 settembre scorso.

L’obiettivo di questo pronunciamento è chiaramente tutto spirituale e pastorale.

Infatti, da una parte “fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa” – come scrive il Papa nella preziosa lettera di accompagnamento del “Motu proprio” –; dall’altra parte è necessario “fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente”.

In questo orizzonte egli chiede di includere come espressione “straordinaria” nella lex orandi della Chiesa il Messale Romano promulgato da San Pio V e aggiornato dal beato Giovanni XXIII nel 1962, posto che la via “ordinaria” resta il Messale Romano varato da Paolo VI nel 1970. E insiste nel precisare che non ci saranno due riti, ma “un uso duplice dell’unico e medesimo rito”, che tutti vogliamo sia sempre più al centro della dinamica ecclesiale, occasione di una piena “riconciliazione” e di un’unità viva nella Chiesa stessa.

Quella che il Papa ci sprona ad adottare, oltre le spinte culturali cui si è fatalmente soggetti, è dunque una chiave di lettura inclusiva, non oppositiva.
Nella storia della liturgia, come nella vita della Chiesa, c’è “crescita e progresso, ma nessuna rottura”, come già egli ebbe modo di affermare nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005.

In quella sede infatti, commemorando il 40° anniversario del Concilio Vaticano II, ha indicato valida non “l’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, bensì quella della “riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”.

In altre parole, è la sollecitudine per l’unità della Chiesa “nello spazio e nel tempo” la leva che muove Benedetto XVI, una tensione che fondamentalmente tocca al Successore di Pietro.

Ma questa passione per l’unità deve muovere ogni cristiano e ogni pastore dinanzi alle prospettive che si aprono con il “Motu proprio”.
Non dunque ricerca di un proprio lusso estetico, slegato dalla comunità, e magari in opposizione ad altri, ma volontà di includersi sempre di più nel Mistero della Chiesa che prega e celebra, senza escludere alcuno e senza preclusione ostativa verso altre forme liturgiche o nei confronti del Concilio Vaticano II. Solo così si eviterà che un provvedimento volto ad unire e ad infervorare maggiormente la comunità cristiana sia invece usato per ferirla e dividerla.

Vorrei tuttavia aggiungere che sono ragionevolmente ottimista sulla migliore valorizzazione del “Motu proprio” nella vita delle nostre parrocchie. E confido che talune preoccupazioni pessimiste, da subito emerse, si riveleranno presto infondate. Il senso di equilibrio che da sempre caratterizza il nostro clero e dunque la nostra pastorale farà trovare, grazie all’azione moderatrice dei Vescovi, i modi giusti per far germinare il virgulto nuovo dalla pianta viva della liturgia ecclesiale, e anzi, in ultima istanza, per rilanciare e incrementare questa nel suo insieme.


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17/09/2007 23:35
 
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A Padova molti giovani hanno assistito al ritorno della funzione in latino

E il prete disse: «Ite, missa est»

Léon Bertoletti

Età incredibilmente bassa a Padova nella domenica che ha segnato il ritorno alla messa in latino. Nella chiesa di San Canziano, a cinque minuti dal Duomo, il rito tradizionale è ormai da anni un'abitudine. Da ieri, però il clima è cambiato. Quasi fosse una prova, l'età media era incredibilmente bassa tra i devoti che riempivano la chiesetta. Le due ultime file di banchi erano occupati da fedeli under 30.
Le prime parole del parroco sono state per il pontefice: «Ringraziamo il Papa che ci ha consentito di tornare a celebrare liberamente questa messa».
«In nomine Patris». Sono le 11 in punto quando nella centralissima chiesa di San Canziano, cinque minuti a piedi dal Duomo di Padova, un anziano sacerdote inizia a celebrare la prima messa in latino consentita da papa Ratzinger. La lingua che ha accompagnato secoli di cattolicesimo risuona nel tempio da anni, ogni santa domenica. Nessuna novità, da questo punto di vista. Adesso, però, il clima è cambiato. Benedetto XVI, con un provvedimento firmato il 7 luglio scorso, ha dato piena legittimità all'antico rito ordinato dal predecessore Pio V (e aggiustato da Giovanni XXIII). Non si pensa più, dunque, di vivere una liturgia nostalgica, una celebrazione per cristiani incartapecoriti che non hanno digerito il concilio Vaticano II. È, piuttosto, un ritorno al futuro. Quasi fosse una prova, tra i devoti che riempiono la chiesetta l'età media è incredibilmente bassa. Le ultime due file di banchi sono occupate da fedeli under 30.
L'atmosfera è composta e tutto profuma di antico. Manca l'organista, ma potrebbe sbizzarrirsi sulla tastiera. Assolutamente non c'è spazio, invece, per chitarre e tamburelli. I preti non possono modificare a proprio piacere le formule del messale, come consentito dalle regole post Concilio. Devono compiere gesti sobri e misurati. Mentre ai fedeli è richiesta più concentrazione che attenzione. Meditano e pregano. Ogni tanto rispondono agli inviti del prete. Ma non così tanto come nella messa riformata. Quando suona la campanella, il celebrante sbuca dalla sacrestia, a passo lento, e si ferma giù dagli scalini. Sopra il camice bianco, indossa una pianeta verde con ricami in oro: un paramento liturgico che appare più elegante delle moderne casule. Sul braccio sinistro gli pende una piccola stola. Ai piedi dell'altare, il sacerdote recita l'Introito, facendosi il segno della croce. È la prima parte della celebrazione. Poi sale e si inchina per baciare la sacra mensa. Seguono la lettura di un brano di San Paolo e il Vangelo. A questo punto i vocaboli latini lasciano spazio all'italiano, perché è il momento dell'Istruzione (in pratica l' antenata dell'omelia). «Ringraziamo il Papa che ci ha consentito di tornare a dire liberamente questa messa», sono le prime parole del celebrante dopo essersi avvicinato al leggio e aver indossato il tricorno: l'originale cappello ecclesiastico a tre spicchi che ormai si vede soltanto nei film di don Camillo.
«Speriamo - prosegue il ministro del culto - che tutti i vescovi accolgano l'invito del sommo pontefice e consentano a sacerdoti e fedeli di rinnovare questa tradizione». Dopo l'istruzione arriva l'offertorio. Poi la consacrazione, che è il momento più suggestivo. Chi celebra guarda Dio e non il popolo. Sussurra parole incomprensibili, mentre alza la patena e il calice. Parla sottovoce, senza farsi capire, mentre i fedeli stanno in silenzio, inginocchiati. Anche la comunione si riceve in ginocchio, alla balaustra che delimita il presbiterio, e direttamente in bocca. Infine ci sono il ringraziamento e il congedo. Ite, missa est.

© Copyright Il Gazzettino del nordest, 17 settembre 2007


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17/09/2007 23:39
 
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LITURGIA. Prima festa dopo il «motu proprio»

Freno vescovile alla messa in rito tridentino

Ieri è stata la prima domenica che riporta (potenzialmente) la versione del 1962 dell’antico rito tridentino varato nel 1536 sugli altari di tutte le chiese. A Verona, come già da tempo, la messa in latino di San Pio V si tiene nella chiesa di Santa Toscana, ma ieri, visto che il vescovo monsignor Giuseppe Zenti non riconosce lecita la celebrazione officiata da don Vilmar Pavesi, sull’altare è salito monsignor Bruno Ferrante, l’unico sacerdote diocesano finora autorizzato a celebrare in latino, anche dopo il «motu proprio» del papa. E i tradizionalisti hanno partecipato nell’attesa che nell’incontro delle prossime settimane con il vescovo vengano accolte alcune delle loro richieste, come la parrocchia personale, magari retta proprio da don Pavesi, che per intanto continua a officiare nella cappella di un istituto di suore a Borgo Venezia.
Il prete tradizionalista italo-brasiliano è da poco rientrato da Loreto, dove ha incontrato il cardinale Dario Castrillon-Hoyos, presidente della Pontificia commissione Ecclesia Dei, l'organismo che fu incaricato da Giovanni Paolo II di ricucire lo strappo con gli scismatici di monsignor Marcel Lefebvre.
Nicola Cavedini, portavoce di Una Voce, è certo che «questa giornata apre le porte ad un fatto storico da cui non si potrà più tornare indietro». E spiega che l’ascolto della messa in latino aiuta a dare un nuovo significato al rito. «È il sentire dentro che cambia il significato di ogni passaggio». Già il solo fatto che il celebrante volga le spalle ai fedeli, indossi la Pianeta e il manipolo, ossia la fascia, e che la preghiera eucaristica abbia un solo canone, è importante.
Tra i fedeli presenti c’era anche l’ex direttore generale dell’azienda ospedaliera, Michele Romano, che si dice convinto che tutto questo porterà i cattolici a ritornare a messa. Ora c’è la speranza che il vescovo faccia un passo conciliatorio, tanto più che monsignor João Wilk dal Brasile ha inviato una lettera alla Curia scaligera in cui si dice lieto che don Pavesi si inserisca nella diocesi veronese. E a quanti affermano che col ritorno di questa liturgia si rischia un salto nel passato, Cavedini risponde che è un diritto poter decidere a quale rito partecipare. «Soprattutto per noi tradizionalisti», puntualizza, «purtroppo fino a oggi si è sorvolato sull’aspetto spirituale che il rito tridentino rievoca, attaccandosi a semplici elementi giuridici». A.Z.


© Copyright L'Arena, 17 settembre 2007

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17/09/2007 23:44
 
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Quaranta fedeli alla messa in latino

La liturgia con rito tridentino ieri nella chiesa della Madonna di Galliera

di GIOVANNI PANETTIERE

‘IN NOMINE PATRI et Filii et Spiritus Sancti’. Con voce impercettibile e spalle ai fedeli, don Lorenzo Jantaud, sacerdote francese dell’istituto fiorentino di Cristo Re Sommo Sacerdote, con addosso la pianeta, in testa il berretto e la fascia del manipolo al braccio destro, dà inizio alla messa. Alla chiesa della Madonna di Galliera e di San Filippo Neri, struttura non parrocchiale dei padri Filippini in via Manzoni, ieri mattina, su iniziativa del movimento per il rito tridentino Una Voce, da sempre in contatto con i lefevriani, è tornato a risuonare il latino secondo il Messale di San Pio V, nella versione del 1962 del beato Giovanni XXIII. Nella diocesi bolognese è stata una delle prime celebrazioni tradizionali dopo l’entrata in vigore della ‘Sommorum pontificum’ di Benedetto XVI che liberalizza la liturgia preconciliare, pur confermando quella di Paolo VI, promulgata nel 1970 e abitualmente in lingua nazionale, come forma ordinaria. Il documento papale non sancisce quindi un sovvertimento dei canoni liturgici, ma rende semplicemente più facile lo svolgimento della messa del Concilio di Trento, che resta comunque liturgia straordinaria nella chiesa cattolica.

PER I SEGUACI di Una Voce la celebrazione alla Madonna di Galliera è stato motivo di orgoglio e di gioia, come sottolinea Fabio Marino, vicepresidente nazionale del movimento: «Sono anni che ci battiamo per far valere la bellezza e l’importanza della messa tridentina. A Bologna fin ora non abbiamo potuto mai celebrare la nostra Eucaristia di domenica. Sin dai tempi del cardinale Biffi ci è stato concesso solo il sabato, ma noi siamo cristiani e crediamo che il giorno del Signore sia la domenica. Non è stato per nulla facile accettare tutto ciò. Ora però, grazie al Santo Padre, fortunatamente non c’è più bisogno del permesso episcopale. Non posso però negare che ci preoccupa non poco l’atteggiamento di diversi vescovi italiani, che ostacolano il rito di San Pio V anche dopo la ‘Sommorum pontificum’. Lo considerano sovversivo dell’intera teologia del Vaticano II. Ragionano in questo modo perché temo che interpretino il Concilio come momento di rottura nella storia della Chiesa. Ma non è così e il Papa, a più riprese, ha affermato questo semplice concetto».

POCHI COMUNQUE i fedeli presenti alla funzione nella chiesa dei Filippini. Solo una quarantina di persone, età media piuttosto alta. Tra loro anche diversi curiosi. Le donne indossano un velo bianco sopra la testa, antichissimo simbolo di sottomissione femminile all’uomo, secondo l’interpretazione tradizionale della frase biblica di Dio rivolta a Eva dopo la caduta nell’Eden, ‘l’uomo dominerà su di te’. Don Lorenzo, rispettando pienamente l’antica liturgia, ha detto messa prevalentemente rivolto all’altare, quasi bisbigliando. Praticamente impossibile cogliere, in quei frangenti, le sue parole. Nessuno spazio è stato dato alla lingua italiana, salvo per la lettura del Vangelo e l’omelia, una riflessione del celebrante incentrata sulla sofferenza del cristiano, necessaria per accedere al Paradiso.

I LAICI hanno seguito con attenzione la celebrazione, anche se tra ‘i novizi’ non sono mancati comprensibili momenti di smarrimento. Gli unici canti ammessi sono stati quelli gregoriani. Al momento dell’Eucarestia, l’ostia consacrata è stata messa direttamente in bocca al fedele, in ginocchio ai bordi del presbiterio. Niente preghiere dei fedeli, né passi biblici letti dai laici. Tutti questi atti, normali per la celebrazione ordinaria, spariscono nel rito tridentino. Alla fine, un’ora e poco più per una messa che dà l’impressione di essere più liturgia del presbitero che dell’intera assemblea con il suo pastore.

© Copyright Il Resto del Carlino (Bologna), 17 settembre 2007


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