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"Elvis e il Colonnello"

Ultimo Aggiornamento: 05/08/2023 16:02
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4. Il Re raggiunge la vetta a ritmo di rock’n’roll

All’apparenza, l’ufficio leva di Memphis non era diverso da tutti gli altri della nazione. Era composto da uomini nominati dal presidente sulla base delle raccomandazioni dei senatori e dei membri del congresso locali. Era compito loro stabilire chi si sarebbe arruolato nelle forze armate. In tempo di guerra, i membri dell’ufficio leva prendevano decisioni su questioni di vita e di morte ogni giorno, influenzando la vita di migliaia di cittadini di Memphis. In tempo di pace, tuttavia, quelle decisioni venivano compiute in un’atmosfera rilassata, di basso profilo, e la pressione che i membri percepivano era più indiretta e meno rovente.
Ciò che rendeva l’ufficio leva di Memphis diverso dagli altri degli Stati Uniti lo accomunava però con gli altri uffici del Sud. Le politiche razziali avevano sempre uno spazio importante. A meno che i ricchi proprietari di piantagione bianchi segnalassero una pericolosa scarsità di giovani neri per lavorare nei campi, gli uffici di leva del Sud tendevano a dare priorità maggiore al reclutamento di maschi di colore.
Dagli anni Quaranta, quando il Congresso aveva attivato la coscrizione, fino alla metà degli anni Cinquanta, le nomine per l’ufficio leva di Memphis furono controllate dall’apparato di Crump. Si trattava di incarichi assai desiderati per via del potere quasi illimitato che consentivano ai membri dell’ufficio leva di manipolare contratti d’affari, decisioni del tribunale e un mucchio di altre transazioni finanziarie. Uomini e donne disperati avrebbero accettato qualsiasi cosa pur di evitare il servizio militare ai loro figli, soprattutto se dai figli in questione dipendevano gli affari di famiglia.
E.H. Crump non aveva mai prestato servizio nell’esercito. In generale, ai maschi bianchi con un’influenza politica o sociale in città veniva chiesto di rado di farlo, a meno che, naturalmente, fossero molto patriottici o volessero fare un’esperienza nell’esercito, una categoria che comprendeva più rappresentanti di quanto si potrebbe pensare, perché la città era stata a lungo imbevuta di un profondo spirito nazionalistico.
All’inizio, il fascicolo del servizio di leva di Elvis Presley era una sorta di routine. Si iscrisse il 19 gennaio 1953, poco dopo il suo diciottesimo compleanno, all’ufficio del Selective Service System, che si trovava in South Main Street. L’indirizzo che fornì fu 698 Saffarans e come referente indicò suo zio Ed Smith, che viveva al numero 1534 di Mississippi Street, a Memphis. Affermò di essere alto un metro e ottantadue e di pesare sessantotto chili.
Il primo marzo l’ufficio leva gli spedì un questionario e, in base alle informazioni ricevute, lo classificò 1-Anf. Nessuno sapeva di preciso che cosa significasse: 1-A voleva dire che era disponibile per il servizio militare; Nf probabilmente era l’abbreviazione utilizzata dall’ufficio locale per indicare che stava ancora frequentando il liceo.
Era un brutto momento per le classificazioni 1-A. Si combatteva ancora nella guerra di Corea, anche se le trattative di pace erano in corso. Oltre venticinquemila militari americani erano caduti nel conflitto, in gran parte soldati di leva. Era scontato che Elvis dovesse andare in guerra. E pensare che il suo unico figlio in vita avrebbe potuto trovarsi in pericolo straziava Gladys. Il futuro si presagiva tetro.
Tuttavia, alcune settimane prima che Elvis si diplomasse, il fato intervenne con la firma di una tregua in Corea, che permise a Elvis di sfuggire alla minaccia del servizio militare in tempo di guerra. Avrebbe potuto aspettarsi di ricevere un foglio d’arruolamento l’anno successivo al diploma, ma dopo la tregua le forze armate si ritrovarono con soldati in eccesso e nessuno dei trentadue uomini registrati tra il primo e il 13 gennaio del 1953 dall’ufficio leva di
Memphis ricevette notifiche fino al gennaio del 1957.
Nel corso dell’estate del 1956, i giornalisti posero spesso a Elvis domande sulla leva, domandandosi come mai non indossasse l’uniforme. In agosto, il cantante disse a un reporter dell’«International News Service» che da tre anni non aveva notizie dall’ufficio leva, «e spero di non averne mai» aggiunse. Poco dopo aver rilasciato queste dichiarazioni, ricevette un questionario dell’ufficio leva, che domandava l’aggiornamento dei dati sulla sua salute e il suo stato civile. Avendo saputo grazie a una soffiata che Elvis aveva ricevuto il documento, un giornalista della «United Press International» chiese all’ufficio leva se stessero per inviare all’artista un foglio d’arruolamento.
Un portavoce dell’ufficio rispose: «I nuovi documenti sono stati firmati per aggiornare lo stato di Presley. Moltissimi giovani non segnalano cambi di indirizzo, di stato civile e altri dati, perciò inviamo questionari per accertare se abbiano persone a carico.»
«Sinceramente non sapevo che cosa significasse quel questionario» disse Elvis al giornalista. «Non mi hanno detto nulla di una… visita medica. Quando mi vorranno, sono pronto.»
Il Colonnello Tom Parker si trovava di fronte a un dilemma. Le ultime persone sulla terra con le quali voleva avere guai erano i portavoce dell’esercito degli Stati Uniti. Se avesse chiesto privilegi speciali per Elvis a un ufficio leva civile – e sapeva che per tenere il cantante lontano dall’esercito sarebbe bastata una telefonata all’ufficio locale – avrebbe potuto creare problemi tali da portare alla sua espulsione.
Allo stesso modo, un paio d’anni nell’esercito avrebbero potuto distruggere la carriera di Elvis. Il rock ’n’ roll aveva solo due anni. Quale nuova musica si sarebbe affermata in seguito? I giornalisti dicevano che non sarebbe durato ancora per molto, e anche se Parker non credeva mai a quello che leggeva sulla stampa, doveva almeno considerare l’eventualità che di tanto in tanto ci azzeccassero.
Elvis avrebbe potuto far parte dell’esercito per due anni, tornare e trovare l’America nel bel mezzo di una nuova moda musicale transitoria. A complicare tutto il resto c’era la vita personale di Parker, che, per la prima volta, stava interferendo con le sue decisioni negli affari. Negli anni passati dalla sua prima visita a Las Vegas, quando aveva organizzato l’ingaggio di Eddy Arnold, era tornato molte volte in quella città, non per via dell’intrattenimento
maestoso per cui era celebre, ma per le slot machine e i tavoli da gioco. L’unica passione della sua vita era proprio il gioco d’azzardo. Non abbiamo testimonianze su ciò che perse verso la fine degli anni Cinquanta, ma negli anni Sessanta le sue perdite ammontavano a un milione di dollari l’anno in un unico casinò, secondo i registri di tribunale. Nel 1957, doveva ormai aver gettato notevoli somme nel gioco d’azzardo.
Quando il «The Nashville Banner» pubblicò un articolo che alludeva ai suoi debiti di gioco, Parker rimase così sconvolto da compiere una mossa a cui in passato aveva deciso di non ricorrere mai, ovvero fare causa a un cittadino americano. Ardire a vie legali o mettersi nella posizione di essere denunciato avrebbe potuto dare il via a rivelazioni sul suo stato di immigrato clandestino. I direttori del «Banner» risposero che sarebbero stati felicissimi di difendersi in tribunale contro il Colonnello, ricordandogli che avrebbe dovuto portare davanti al giudice tutte le sue ricevute relative al gioco d’azzardo. Non sorprende che Parker non iniziò mai davvero la causa.
Secondo una teoria, il debito di Parker era così grande che la congrega che governava la città riscosse il favore esigendo un pezzo del contratto di Elvis. I contatti del Colonnello con i personaggi del crimine organizzato della Louisiana lo avrebbero aiutato ad allentare quella stretta, dato che Las Vegas e New Orleans erano collegate dalla stessa rete di Cosa Nostra, ma quando c’è di mezzo il denaro le amicizie possono aiutare solo fino a un certo punto.
Per quanto riguardava il servizio militare, Parker aveva tre possibilità: poteva fare quella telefonata all’ufficio leva e tenere il suo ragazzo lontano dall’esercito; poteva starsene con le mani in mano e permettere che Elvis venisse arruolato; oppure poteva fare in modo che Elvis scegliesse di arruolarsi e ricevesse un incarico allettante.
In precedenza, quell’anno, «Billboard» aveva pubblicato un articolo basato su fonti confidenziali, che prevedeva che Elvis si sarebbe arruolato a dicembre. L’articolo diceva che sarebbe entrato nei Servizi speciali e avrebbe potuto esibirsi durante tutta la durata della leva.
Per quanto riguardava i suoi debiti di gioco, Parker aveva solo due scelte: poteva concedere la porzione del contratto di Elvis che i suoi creditori chiedevano, qualsiasi essa fosse, e poi sedersi a guardare la fortuna che si era immaginato finire in fumo; oppure poteva temporeggiare quanto bastava a pagare i suoi debiti, tenendo così il ragazzo lontano dalle grinfie dei suoi creditori.
Quello che serviva a Parker era un posto dove congelare Elvis finché lui fosse stato in grado di pagare i debiti. Un posto dove sarebbe stato al sicuro e i suoi creditori non avessero potuto raggiungerlo. Un posto dove non avrebbe dato l’impressione di essersi nascosto.
Per accontentare Parker, l’ufficio leva di Memphis fece in modo che la visita medica preliminare all’arruolamento di Elvis fosse privata. Parker non voleva che il cantante passasse quello che aveva passato lui. Non voleva una stanza piena di turbolente reclute di Memphis a guardare il suo prodigio americano nudo come un verme. Non voleva che un dottore afferrasse le parti intime del suo ragazzo di fronte ad altri uomini (a quell’epoca i medici non indossavano i guanti di gomma e massaggiavano vigorosamente il pene per scovare possibili omosessuali).
Fin dall’inizio, Parker era stato geloso delle persone vicine a Elvis. Era geloso di Scotty e Bill perché viaggiavano con lui e dormivano nella sua stessa stanza. Era geloso delle donne con cui Elvis usciva, il che era sempre fonte di dispute. Anni dopo, June Juanico, una ragazza del Mississippi che Elvis aveva frequentato durante l’estate, disse che Parker si arrabbiava sempre – tanto da sbattere le porte – quando li coglieva insieme. E lei non fu l’unica a percepire ostilità da parte sua: Parker reagiva sempre così nei confronti delle donne di Elvis.
Come gli era stato ordinato, Elvis si presentò alla visita medica privata pre-arruolamento il 4 gennaio del 1957. Ad accompagnarlo al Kennedy Veterans Hospital di Memphis, dove una volta aveva suonato per promuovere il suo primo disco, c’erano una ballerina di Las Vegas di nome Dotty Harmony, che stava passando le vacanze di Natale con lui, e uno dei suoi amici di Memphis, Cliff Gleaves. Quando parcheggiarono fuori dall’ospedale la Cadillac color crema di Elvis, furono accolti da un esercito di giornalisti e fotografi. Elvis indossava una giacca rossa e pantaloni neri. Intimidita dalla folla, Dotty decise di aspettare in macchina. Prima che Elvis riuscisse a entrare nell’edificio, i fotografi gli chiesero di posare sui gradini con un sergente dell’esercito e un ufficiale dell’aeronautica militare.
La marina non aveva inviato un rappresentante. Uno dei fotografi, ansioso di scattare una foto provocante, chiese a Elvis di invitare in ospedale anche Dotty.
«No, signore, preferirei di no» rispose lui. «Dotty non ha nulla a che fare con questa situazione.»
All’interno, fu accolto dal dottor Leonard Glick, che lo informò che avrebbe eseguito lui la visita. Appena alle spalle di Elvis scalpitava una frotta di fotografi. Visibilmente infastidito dal gruppo, il cantante disse al medico che aveva immaginato non ci sarebbero stati fotografi durante l’esame.
«Questo dipende da lei» rispose Glick. Elvis disse ai fotografi che sarebbe stato felice di posare per loro una volta finita la visita.
«Ehi, che ne dice di uno scatto senza la camicia?» urlò uno di loro. All’improssivo, mentre Elvis si dirigeva verso la saletta delle visite, un gruppo di circa venti adolescenti sfrecciò verso di lui da un corridoio laterale, ma prima di poter raggiungere il cantante il personale militare le spinse da parte.
Quando uscì dalla saletta, Elvis raccontò ai giornalisti che la visita era andata più o meno come se l’era aspettata. Dopo che ebbe risposto alle loro domande (i reporter si mostrarono particolarmente interessati ai suoi risultati nel test d’intelligenza), Elvis accettò di firmare autografi e posare per le foto. Fu allora che invitò Dotty nell’edificio.
Dotty, Cliff e il sergente dell’esercito brindarono a Elvis con due tazze e una bottiglietta, mettendosi in posa per un fotografo. Quando le chiesero se Elvis fosse in forma, Dotty diede loro la risposta che volevano: «Dal punto di vista medico è un ottimo esemplare».
La cosa che pareva interessare di più ai giornalisti era che cosa Elvis avrebbe fatto delle sue caratteristiche basette, una volta reclutato nell’esercito. Elvis scansò il problema, ma lo scrittore di Memphis Robert Johnson, che curava una rivista intitolata «16: The Magazine For Smart Girls», disse che non riteneva che tagliare le basette sarebbe stato un problema per Elvis: «Una volta ha fatto intendere che non ama più le sue basette come un tempo».
Uno degli ufficiali delle Forze speciali presenti dichiarò a Johnson che l’esercito «non avrebbe corso il rischio di fare pasticci» rasandogliele.
Elvis concesse a giornalisti e fotografi tutto il tempo che volevano, poi mentre stava lasciando l’ospedale un’infermiera gli passò accanto di corsa e gli toccò la giacca, tra i gridolini deliziati delle sue amiche, che avevano formato lungo il corridoio un’inamidata linea bianca d’attacco.
Dopo la visita medica, Dotty fece ritorno a Las Vegas ed Elvis prese un treno per New York con Scotty, Bill e D.J. per la loro terza e ultima partecipazione all’Ed Sullivan Show. Elvis trovava difficile credere che il Colonnello gli permettesse di arruolarsi. Per uscire da quell’intoppo sarebbe bastasta una telefonata. Non era un grosso problema.
L’idea che il Colonnello lo lasciasse entrare nell’esercito era così improbabile che Scotty non perse neanche un secondo a pensarci. Nessuno credeva sarebbe successo. Dopo la partecipazione all’Ed Sullivan Show, Elvis e il gruppo tornarono a Memphis per una settimana, prima di dirigersi a Hollywood per iniziare a lavorare al successivo film del cantante, "Amami teneramente" ("Loving You").
Con sorpresa di tutti, l’ufficio leva tenne una conferenza stampa per annunciare che Elvis aveva superato la visita di leva preliminare all’arruolamento.

Nei suoi primi anni di carriera, spesso il cantante parve preoccupato per il suo rapporto con il Colonnello. Scotty ha raccontato: «Viaggiavamo insieme nella stessa macchina, Elvis riferiva qualcosa che il Colonnello aveva detto, e io rispondevo “Elvis, devi prendere una posizione e dire quello che pensi. Non c’è nulla di male se vi mettete a discutere di qualcosa”. Lui replicava “Oh, be’, ho un accordo con lui. Io canto e lui cura gli affari”. Borbottava e brontolava sulla faccenda per un giorno o due, ed era tutto. Andava avanti e obbediva, anche se non era quello che voleva lui».
Quando a Scotty, Bill e D.J. fu chiesto di comparire in "Amami teneramente", Scotty sentì che Elvis era venuto in loro soccorso. Anche se Scotty apprese come stavano davvero le cose solo anni dopo: era stato Kanter, e non Elvis, a inserirli nel film. Kanter scrisse perfino delle battute per loro. Tuttavia, il cantante fece sì che Scotty, Bill e D.J. suonassero nella colonna sonora. In quell’occasione, i ragazzi del gruppo intuirono che Elvis stava tenendo testa al Colonnello per loro e lo apprezzarono, perché sapevano quanto fosse difficile per lui dire di no al vecchio.
Per il Colonnello Tom Parker, i film erano un mezzo per ricavare maggiori guadagni dalla musica di Elvis. Non aveva mai pensato che Elvis potesse sfondare come attore. Quando alcuni critici stroncarono "Fratelli rivali", Parker decise che i futuri film avrebbero dovuto avere più canto e meno dialoghi.
La recitazione di Elvis nel suo primo film possiede una certa energia grezza che avrebbe potuto svilupparsi in qualcosa di speciale per gli schermi cinematografici. Quello che né Elvis né Parker presero in considerazione, quando il film uscì, furono i pregiudizi culturali nei confronti degli abitanti del Sud diffusi tra i critici. Rileggendo quelle prime recensioni, è evidente che la maggior parte di coloro che scrissero articoli negativi sul film ce l’aveva con Elvis non perché le sue doti di recitazione avessero bisogno di affinarsi, ma perché era originario del Sud. Non ne apprezzavano l’accento. Forse pensando a questo dettaglio, per il film successivo, "Amami teneramente", Wallis scelse un regista del Sud: Hal Kanter, nato a Savannah, in Georgia. Era la sua seconda pellicola; in precedenza aveva diretto la commedia con George Gobel e Diana Dors, "Mia moglie… che donna!" ("I Married a Woman)" per la RKO. Aveva anche
scritto la sceneggiatura per "La rosa tatuata" ("The Rose Tattoo") di Tennessee Williams. Era considerato in grado di tradurre il fascino del Sud in un immaginario comprensibile anche per il resto della nazione.
Prima che iniziassero a girare "Amami teneramente", Parker e il produttore Hal Wallis raggiunsero un accordo: le ambizioni recitative di Elvis avrebbero dovuto cedere il passo alla musica. Wallis aveva realizzato la maggior parte delle commedie musicali di Dean Martin e Jerry Lewis, e sapeva giusto qualcosina su come rafforzare l’immagine degli artisti. Non avrebbe dato torto a Parker. Una volta disse che lo riteneva «un genio» perché cavava tutto quello che poteva da Elvis, e lui lo sapeva bene, perché Parker cavava tutto quello che poteva anche dal magnate del cinema, par suo. Ogni volta che Wallis credeva di avergli preso le misure, il vecchio Colonnello si inventava qualche nuova trovata. Per esempio, quando stavano negoziando il contratto, Parker suggerì che Elvis avrebbe dovuto ricevere un extra se avesse indossato vestiti di sua proprietà. Wallis accettò, perché lo studio aveva un reparto costumi e sapeva che non c’erano molte possibilità che Elvis indossasse qualcosa di proprio. Una volta che Wallis ebbe acconsentito, Parker disse che avrebbero dovuto stabilire una cifra, un ammontare, per ciò che il suo ragazzo avrebbe ricevuto in quella situazione. Ormai, Wallis si stava stufando di parlarne. «Dunque, diciamo che pagherete venticinquemila dollari ogni volta che capita» disse il Colonnello.
«Venticinquemila!»
Parker tenne duro e Wallis accettò la cifra. Si sarebbe assicurato che Elvis portasse solo quello che c’era in quel maledetto reparto.
Come la maggior parte della gente che lavora nel cinema e nell’industria discografica, Wallis credeva che un piccolo dettaglio non contasse, per il successo di un progetto, quanto la visione complessiva. Parker era del tutto diverso: quei piccoli particolari erano praticamente tutto.
Hal Kanter ha riportato che il Colonnello limitava le sue visite sul set di "Amami teneramente" a brevi conversazioni con Presley.
«Avevo la sensazione che Elvis fosse un po’ in soggezione di fronte a lui, e che in fondo non gli importasse» afferma Kanter. «Ma potrebbe darsi che sia perché mi sentivo io così e lo stavo proiettando sul cantante. Il Colonnello Parker era il truffatore più esperto dai tempi di Barnum. Era affidabile quanto un uragano. Non sapevi mai quando avrebbe colpito.»
Indipendentemente dalle sue doti in campo musicale, Kanter considerava Parker un intralcio per la carriera di Elvis come attore.
«Non gli interessava davvero il copione. Gli interessava di più quante canzoni sarebbero apparse sullo schermo.»
Quando Parker scoprì che Kanter era l’autore della sceneggiatura di "Amami teneramente", gli chiese se fosse stato interessato a scrivere insieme a lui la sua autobiografia. Il Colonnello disse: «Se lo farai, il titolo ce l’ho… Quanto costa se è gratis?».
«Inutile dire che quel libro non lo scrissi mai» ha concluso Kanter.
Una volta, Parker si presentò sul set con un pugno di salsicce fatte in casa. Kanter lo osservò distribuirne un po’ ai presenti, quando però si avvicinò a lui con le salsicce in mano, non gli offrì di condividere quelle prelibatezze campagnole. «Mi offrì di comprarne un po’» ricorda Kanter ridendo. «Incredibile! Gli altri si arrabbiavano con lui, ma a me divertiva.»
Per anni, dopo "Amami teneramente", Kanter ricevette biglietti di auguri per Natale, firmati da Elvis e dal Colonnello.
«Era sempre legato a Elvis a doppio filo» ha raccontato. «Avevo la sensazione che fossero altri a pagare quei biglietti di Natale.»
Una volta, durante le riprese di uno dei film successivi del cantante, Parker venne sul set a osservare. Rimase in disparte, in ombra, nessuno si accorse della sua presenza. All’improvviso, Parker notò qualcosa dall’altra parte della stanza e attraversò rapido il set, passando proprio davanti alla telecamera. Tutto s’interruppe di colpo.
«Il ragazzo sta indossando un orologio di sua proprietà» disse Parker, passando il sigaro da un angolo della bocca all’altro. «Vedete… eccolo lì al polso. Questo vi costerà altri venticinquemila dollari.»
Il Colonnello e i ragazzi del gruppo si disprezzavano a vicenda, ma era Parker, creatore del Re, e non i membri della band, creatori del mito, ad avere il potere di esprimere quel disprezzo. Quando il proprietario di un rivenditore di automobili Chrysler di Los Angeles si offrì di fornire ai ragazzi delle macchine nuove, se avesse avuto il permesso di farsi pubblicità dicendo che i membri della band di Elvis guidavano le sue autovetture, Parker disse di no. Lo stesso
accadde con la RCA, che si offrì di fornire alle famiglie dei musicisti degli elettrodomestici, in cambio del diritto di sfruttare il fatto che utilizzavano i suoi prodotti. Parker non volle neanche sentirne parlare: no, no, no.
Per nessun motivo Parker avrebbe mai concesso un dito ai ragazzi del gruppo. Erano impiegati pagati duecento dollari alla settimana e nient’altro. Non contava quanti dischi vendesse Elvis, a quanti film prendesse parte, quanti concerti tenesse, i membri della band avevano comunque uno stipendio di duecento dollari alla settimana a meno che, naturalmente, non fossero in studio, aiutassero a registrare canzoni per le pellicole cinematografiche o suonassero in tour; in quel caso di dollari a settimana ne ricevevano solo cento. Era fonte di immensa gioia per Parker che i membri della band guadagnassero meno dei camerieri personali e dei membri dell’entourage di Elvis, chiamati in seguito «la Mafia di Memphis».
«Oh, sì, bisognava tenerlo d’occhio» ha detto D.J. «Non voleva che fossimo “la band”. Diceva: “Non pagate i ragazzi, altrimenti vorranno più soldi. Ne troveremo altri”. Se non fosse stato per Elvis, ce ne saremmo andati all’epoca di 'Heartbreak Hotel'. Al Colonnello non importava.»
«Faceva in modo che le persone con cui faceva affari si guardassero sempre alle spalle: “Che cosa combinerà adesso?”» ha raccontato Scotty. «Non era uno sciocco; era doppiamente scaltro. Sapeva considerare tutte le angolazioni. Avrebbe speso cento dollari per poterti superare di uno e poterci scherzare sopra. Gli piaceva vincere. A volte, trattando per un accordo, otteneva la cifra che voleva e poi diceva: bene, per me è okay; il mio ragazzo cosa ci guadagnerà invece?»
Mentre si trovavano a Los Angeles per filmare "Il delinquente del rock and roll" ("Jailhouse Rock"), Elvis e la band entrarono in studio per registrare dei nuovi singoli e un album di Natale per la RCA. Era da oltre un anno che discutevano con il cantante della realizzazione di un disco di pezzi strumentali. Presley avrebbe suonato il piano e si sarebbero chiamati i "Continentals". L’idea di fare qualcosa di nuovo emozionava Elvis, soprattutto perché avrebbe avuto il ruolo di un anonimo pianista. Sarebbe stato come fare l’agente segreto. L’ultimo giorno delle registrazioni alla RCA, rimasero in studio per iniziare a lavorare sulle strumentali. Sapevano già che cosa volevano fare ed era da diverse settimane che provavano le canzoni. Tuttavia, prima che si mettessero all’opera, Parker mandò a dire che non potevano tenere quella sessione d’incisioni. Lui non l’aveva approvata ed Elvis semplicemente non lavorava a progetti che non avessero la sua approvazione. Scotty, Bill e D.J. rimasero attoniti. In cerca di sostegno guardarono Elvis, che però non disse nulla e si riparò dietro il muro protettivo del suo entourage. Bill sbatté il basso elettrico nella
custodia. Ma la prima emozione che colpì Scotty non fu la rabbia: fu la delusione provocata dal fatto che una persona a cui lui teneva e di cui si fidava non lo avesse spalleggiato in un momento critico. Elvis lasciò lo studio senza mai davvero scusarsi o offrire spiegazioni. Quello che diceva Parker era legge. E non era negoziabile.
Sulla via del ritorno a Memphis, Scotty e Bill guardarono in faccia la loro reale situazione. Erano dei turnisti pagati duecento dollari a settimana e non sarebbero mai stati altro. Non avrebbero mai ricevuto royalties per il lavoro compiuto sui dischi di Elvis e Parker non avrebbe mai permesso loro di registrare insieme a Presley niente che non coinvolgesse anche lui. Se non avessero cominciato come soci di Elvis, avrebbero potuto avere una prospettiva diversa. La musica che avevano creato al "Memphis Recording Service", quella che aveva catapultato Elvis tra le celebrità, era stata frutto di uno sforzo comune. Il cantante non era arrivato in studio con una manciata di canzoni pronte. Non aveva
detto «Ragazzi, sto per inventare il rock’n’roll, ecco cosa dovete fare». Al contrario, la magia realizzatasi in studio era stata il risultato della collaborazione di tre uomini, ciascuno dei quali aveva dato il proprio contributo. La voce spettava a Elvis e a lui solo, ma la musica… beh, quella era un’altra storia.
Scotty e Bill ebbero una lunga conversazione con le mogli. Avevano fatto tutti sacrifici affinché Elvis raggiungesse il successo. Bobbie gli aveva prestato la macchina e aveva perfino viaggiato per promuovere presso le stazioni radio le loro prime uscite. Bobbie ed Evelyn avevano sopportato le lunghe assenze dei loro uomini durante i tour nella speranza che le incertezze, la mancanza di soldi e le difficoltà un giorno terminassero. Scotty e Bill ebbero il compito ben poco invidiabile di informare le mogli che il loro sogno non era altro che quello, una parvenza di speranza senza alcuna base solida. Tutti attribuirono la colpa della situazione al Colonnello. Fino al suo arrivo, ogni cosa era filata liscia. Dopo diversi giorni di riflessione, decisero di mettere Elvis di fronte alla realtà della loro disperata situazione. Entrambe le famiglie avevano debiti, e più accompagnavano il cantante lungo il suo cammino più i loro debiti aumentavano. Scotty e Bill decisero di inviare a Elvis le loro lettere di dimissione. Parlarono con D.J. di licenziarsi tutti e tre insieme, ma il batterista fece notare che, a differenza loro, lui era stato assunto fin dall’inizio
come turnista e non aveva i loro stessi motivi di lamentela. Disse però che non li avrebbe biasimati se si fossero licenziati. Quando ricevette le loro raccomandate, Elvis si trovava ancora a Los Angeles. Le loro dimissioni furono per lui un assoluto shock. Fece vedere le lettere a tutti i membri del suo entourage. Quando lo stupore iniziale passò, si infuriò, accusando Scotty e Bill di slealtà. Quando cercò di parlarne a Parker, saggiamente quest’ultimo rispose che non erano affari suoi. Steve Sholes gli disse di assumere un’altra band. A lui Scotty e Bill non erano comunque mai piaciuti. Poteva trovare per Elvis i migliori musicisti di New York o di Los Angeles, che non parlassero con l’accento strascicato del Sud. Il cantante non sapeva che cosa pensare. Quando tornò a Memphis, chiamò Scotty e gli chiese come avrebbe potuto convincerli a tornare a lavorare con lui. Scotty gli disse che non avrebbero voluto mollare, ma avevano bisogno di una ricompensa concreta per i loro sforzi. La loro prima preoccupazione, spiegò il chitarrista, era riuscire a pagare i loro debiti. Se Elvis avesse dato loro un forfait di diecimila dollari a testa per estinguere i debiti contratti mentre erano in tour con lui, nonché un aumento di cinquanta dollari a settimana, sarebbero stati felici di tornare al lavoro. Elvis rispose che ci avrebbe pensato su. Nel frattempo, Scotty e Bill parlarono ai giornalisti della loro situazione. Pensavano di essere nel giusto e volevano raccontare la loro storia perché non volevano che i fan credessero che stavano abbandonando Elvis. Per quanto riguardava i fans poteva essere una buona mossa, ma servì solo a esacerbare il loro rapporto con il cantante, che stava rapidamente peggiorando. Vedere le sue faccende private sulla stampa lo mise solo in ulteriore imbarazzo e lo spinse tra le braccia del Colonnello, in attesa, che gli disse di non preoccuparsene; lo avrebbe aiutato a trovare nuovi compagni due volte più bravi di Scotty e Bill.
Invece di richiamare il chitarrista per discutere ancora, Elvis incontrò Bill Burk, giornalista del «The Memphis Press-Scimitar», e inviò la sua replica a Scotty e Bill attraverso una lettera aperta che fu pubblicata sul giornale. Così, augurò ai suoi turnisti buona fortuna, dicendo loro addio.
«Se fossi venuto da me, avremmo potuto risolvere la faccenda» disse Elvis, indirizzando le sue dichiarazioni a Scotty. «Mi sarei sempre preso cura di te. Ma sei andato dai giornali cercando di mettermi in cattiva luce, invece di rivolgerti a me in modo che potessimo sistemare le cose.»
«Capii più tardi, quando Parker venne coinvolto, che non c’era modo di aggiustare tutto» ha dichiarato Scotty. «Tutte le volte che leggo di questa storia, si sostiene che Elvis disse che mollammo perché volevamo più soldi e riconoscimenti. Non volevamo affatto riconoscimenti. Volevamo solo delle gratifiche, suppongo, per poter mettere da parte qualcosa in banca.»
Quando lesse le dichiarazioni del cantante sul giornale, Scotty seppe che poteva trarne solo due conclusioni: o Elvis stava mentendo, cercando di fare una bella figura sulla stampa oppure il Colonnello Parker non gli aveva mai riferito delle molte volte in cui aveva richiesto un necessario aumento nel corso degli anni. Conosceva Elvis troppo bene per pensare che avrebbe mentito in una situazione del genere. Anche se Scotty, Bill e D.J. erano da tempo consapevoli dell’inimicizia nutrita da Parker nei loro confronti, non avevano mai voluto credere che il Colonnello avesse effettivamente nascosto qualcosa a Elvis. Adesso sapevano che Parker stava giocando pesante.
Con in programma un’esibizione alla fiera di Tupelo il mese seguente, Elvis iniziò le audizioni per trovare chitarristi e bassisti che rimpiazzassero Scotty e Bill. La speranza che i due nutrivano di salvare la situazione fu distrutta dalle lettere che Vernon spedì loro, con le quali le dimissioni venivano accettate. Quella per Scotty includeva un assegno di ottantasei dollari e venticinque centesimi, a saldo per i servizi svolti come chitarrista di Elvis.
Adesso che conoscevano la loro posizione, Scotty e Bill non persero tempo e cercarono nuovi lavori. La prima offerta che ricevettero fu un ingaggio di sedici giorni alla Fiera statale del Texas, a Dallas. Il contratto prevedeva che facessero quattro spettacoli al giorno, dal cinque al venti ottobre. Ricevettero milleseicento dollari e i funzionari della fiera rimborsarono tutte le spese. Era più del doppio di quello che guadagnavano lavorando per Elvis. Per rimpiazzare Scotty e Bill, il cantante assunse due musicisti di Nashville, Hank Garland alla chitarra e Chuck Wiginton al basso. Quando i Jordanaires arrivarono per l’impegno a Tupelo e scoprirono che Scotty e Bill erano stati rimpiazzati, rimasero sbalorditi. Non avevano saputo nulla del litigio. Gordon Stoker dei Jordanaires notò che quel giorno Elvis era alquanto agitato. Una volta sentita la storia di come Scotty e Bill se ne erano andati, non gli ci volle molto a capire che cosa fosse successo.
«Il Colonnello teneva Elvis all’oscuro di un sacco di cose» ha raccontato. «Non gli diceva tutto quello che avrebbe dovuto.»
Dopo il concerto di Tupelo, Elvis disse a D.J. che senza Scotty e Bill non era lo stesso. Con un importante tour già fissato per Los Angeles e San Francisco, Elvis prese posizione con il Colonnello, come di rado capitava: gli disse che rivoleva Scotty e Bill. Parker scaricò l’onere sul suo assistente Tom Diskin, che chiamò i due musicisti al loro ritorno dal Texas, chiedendo loro di unirsi di nuovo alla band. Acconsentì a pagarli mille dollari a testa per quattro concerti. Scotty e Bill accettarono a condizione che tutte le esibizioni future fossero trattate su base giornaliera. Al Colonnello stava bene.
Rividero Elvis per la prima volta al "Civic Auditorium" di San Francisco. Lui si comportò come se tra loro non fosse accaduto nulla. Anzi, era così euforico che quella fu una delle esibizioni più memorabili della sua carriera. Quando in chiusura suonarono "Hound Dog", come sempre, Elvis scese dal palco per rockeggiare vicino a un cane di gesso, mentre novemila fans esultanti scuotevano le fondamenta dell’edificio.

- fine prima parte -

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