Buonasera!
Dovrei aver modificato correttamente tutti i passaggi "incriminati", se qualcuno mi è sfuggito chiedo venia e provvederò a sistemare quanto prima.
La fine del bg è stata leggermente revisionata per dare un focus maggiore al discorso della maledizione di Feriy, riprendendo la traccia della quest e le conseguenze che ha avuto ON, quindi il gioco effettivamente giocato fino ad ora.
Concludo con un grazie, per l'apprezzamento del segno particolare e la pazienza/disponibilità nel leggere tutto.
-------------------------------------------------------------------------------------------------------
ATTO I – La nascita
Ne è passato di tempo dal primo vagito di quel bambino.
Una settantina di anni umani, circa. Venuto alla luce in una notte piovosa, illuminata dai lampi e squassata dal rombo dei tuoni che risuonavano tra i monti.
Nato all’ombra della morte, del dolore, della disperazione di atti crudeli e violenti.
Era una piccola comunità di elfi erranti, stabilitisi nel Nord da non molto tempo, in quei paesaggi montuosi aspri e duri dove solo i forti sopravvivono. Erano perfettamente in grado di badare a sé stessi, ognuno con il proprio compito per il bene del gruppo.
Ma non era la loro terra.
Quella dura roccia, quei boschi cupi, appartenevano agli uomini del Nord.
Uomini duri come la terra che abitavano, feroci e violenti come i temporali che flagellano i monti, impietosi e freddi come la neve che ricopre le vette.
Così è avvenuto l’ “incontro” tra il padre e la madre del ragazzino. Sempre all’insegna della violenza e della ferocia.
Era un omone grande e grosso il padre, il classico guerriero barbuto del Nord. Uno dei migliori guerrieri della comunità in effetti, dal temperamento battagliero, praticamente incapace di starsene con le mani in mano, ad affrontare tranquillamente la vita di tutti i giorni. Uno di quegli uomini nato per combattere, come se quello fosse l’unico scopo della sua vita. Ed era proprio così che vivevano: di scorrerie e razzie, ai danni delle comunità vicine o degli sventurati di passaggio.
Ciò che contava era sopravvivere, secondo la legge del più forte, seguendo i dogmi più estremi del culto di Khorr. Quella piccola comunità di elfi, una volta scoperta, rappresentava, semplicemente, un ottimo bersaglio. Troppo facile per i guerrieri esperti, ma al tempo stesso una perfetta preda per mettere alla prova i più giovani, quelli che ancora dovevano assaggiare il sangue ed attraversare il fuoco della battaglia.
Fu così che il padre ideò ed organizzò quella spedizione, nonostante il clima rigido dell’inverno. Approntò il gruppo di razziatori e si fecero avanti, attraversando la boscaglia fino a raggiungere quel villaggio talmente povero da non avere neanche una palizzata a difesa.
Ma gli Elfi non erano totalmente indifesi.
Alcuni di loro erano perfettamente in grado di maneggiare le armi raffinate create dalla loro razza o acquistate in giro per l’Aengard. Dopotutto erano degli erranti, abituati a sopravvivere nelle terre selvagge. Giunti fin lì in cerca di un posto isolato, difficile da raggiungere, dove recuperare le energie e cercare di crescere in numero.
Quel giorno tutti i loro buoni propositi vennero infranti.
L’incursione fu piuttosto veloce, ma non per questo indolore.
Gli uomini erano di più, meglio equipaggiati e meglio guidati mentre gli elfi, colti di sorpresa, cercavano di fare il possibile. Non ci volle molto prima che i rumori della battaglia di spegnessero, lasciando spazio ai gemiti dei feriti ed ai lamenti disperati di donne e bambini. La violenza dilagò senza alcun freno morale. Fu un massacro e quelle poche che scamparono non ebbero sorte migliore dei morti, anzi.
Proprio lì, dove il sangue dei mariti, dei fratelli e dei padri ancora era caldo, furono violate.
Fra loro, la madre. Sopravvisse a tutto quello strazio. Sopravvisse grazie alla disperazione, all’attaccamento alla vita che le permise di reggere mentalmente tutto quell’orrore. Le violenze non terminarono quella notte, né le successive. Svilite, umiliate, insultate, trattate come animali da compagnia per il piacere dei forti che avevano trionfato. Utilizzate come merce di scambio, perse ai dadi o barattate in cambio di qualcosa.
Questo il futuro che affrontarono, ridotte ad essere il passatempo di uomini e donne altrettanto dure e crudeli, ma troppo fiere ed orgogliose per morire.
Fu concepito così. Come tanti altri bastardi, nati negli anni a venire. Ibridi allevati con il semplice scopo di servire. A volte erano le madri stesse ad ucciderli, per non condannarli a quell’esistenza misera e triste. Per questo furono torturate, alcune uccise, affinché quei bambini-schiavo potessero nascere e così la cosa andò avanti. Fra tutti quelli, c’era Urur.
ATTO II – Consapevolezza
Nel momento in cui una vita viene al mondo, un’altra si spegne. Esaurita nello spirito ed abbandonata sanguinante subito dopo aver messo alla luce quel bambino.
Un ibrido come tanti altri, risultato dell’unione del sangue umano con quello elfico.
E’ stato voluto affinché servisse il padre ed i suoi figli, per badare alla casa, ai campi, alle bestie e quant’altro. Non è piccolo ed esile come tutti gli altri nati fino a quel momento. Appena uscito dal grembo materno, già da quel momento, si nota come abbia ereditato maggiormente dal padre umano la stazza robusta.
Cresce senza madre, cresce male in quel contesto che gli insegna solamente l’odio ed il disprezzo.
E’ alto, forte, resistente, cattivo, duro.
I tratti del ragazzo fin da subito ricordano più quelli duri e spietati degli uomini del Nord, solamente quelle orecchie con la punta accennata tradiscono il miscuglio di sangue a cui appartiene.
Passano gli anni, neanche li conta, mentre lavora duramente.
Ben presto viene distolto dalle sue mansioni di “base” per essere destinato ad altro. La colpa è di quel fisico prestante e robusto che si ritrova.
Dallo sguattero di turno, passa ad essere il fantoccio da addestramento per i giovani.
Giornate interminabili di cazzotti, calci, percosse d’ogni genere. Anche ferite di varie armi.
Di certo non ci vanno leggeri, purché quel ragazzotto robusto resti vivo.
E’ quello l’unico ordine, imperativo, dato dal padre. Non certo per amore o compassione, semplicemente è uno strumento utile per tutti gli altri suoi figli e per i giovani razziatori che ancora devono farsi le ossa.
Lo spremono per bene, poi quando crolla esausto gli concedono il riposo che basta per recuperare dalle ferite e tornare ad essere il fantoccio d’addestramento di turno.
E intanto cova l’odio e la rabbia, cova la vendetta. Sputa sangue ed impara sulla propria pelle quanto costa essere forti, quanto serve esserlo per poter sopravvivere.
Va avanti così, fino al giorno in cui la rabbia prende il sopravvento.
E’ proprio durante uno di quelle sessioni brutali, all’inizio. Il ragazzo che ha davanti è più basso di lui di tutta la testa, a differenza di tutti gli altri non ha l’aria da spaccone o la faccia da duro uomo del Nord. Eppure è costretto ad entrare nel recinto, ad impugnare la mazza tonda con la quale dovrebbe affrontare il grosso ibrido. Sono passati anni, la misura è colma. Quando il sempliciotto gli si avvicina, semplicemente esplode in un folle turbine di furia omicida. Lo colpisce con forza, tramortendolo, prende la mazza e lo finisce. Rapidamente e brutalmente. Come ha visto fare tante volte con gli altri ibridi, gli altri mezzelfi. Quando esausti o feriti, quando inservibili ormai nel villaggio, buttati nel recinto e massacrati dai giovani per abituarli al sangue.
Stavolta è lui che lo fa scorrere. Urla rabbiose, grida d’allarme mentre gli altri corrono al recinto.
Chi mai avrebbe pensato che quel ragazzo silenzioso, taciturno, solitamente schivo potesse mai rivoltarsi contro chi gli ha concesso di vivere e di mangiare?! Corre veloce, l’aria fredda nei polmoni ed i sensi acuiti dall’adrenalina.
Viene ferito, ferisce ed uccide a sua volta.
Ruba un cavallo e schizza via attraverso le porte delle palizzate, un attimo prima che si chiudano. Le frecce fischiano dietro di lui, si conficcano nel terreno tutto attorno, una lo raggiunge alla spalla sinistra.
Ma il sapore della libertà è troppo dolce per permettersi di cedere, non può farlo, non vuole farlo. Ha sentito solo racconti dalle donne più vecchie, storie di quella comunità di elfi e delle sue origini.
Una volta allontanato il pericolo, una volta risanate le ferite grazie all’aiuto di vagabondi erranti, si dedica alla ricerca delle sue origini materne. Una ricerca lunga, faticosa, che lo lascia con l’amaro in bocca.
Perché li trova gli elfi.
Delicati, aggraziati, quasi effeminati in quei loro modi fluidi e ben diversi da ciò a cui è abituato.
Ma non trova quello che cercava, quel senso di appartenenza che sperava di riscoprire. Al contrario, è oggetto di scherno, disprezzato per i tratti rozzi e per quella stazza pesante che ricorda troppo gli umani, per tutto praticamente.
Braccato da una parte, ripudiato dall’altra. Si ritrova solo, con l’odio verso il mondo che cresce, sbandato e senza un obiettivo, una meta.
ATTO III – La maledizione
Rimane una sola cosa alla quale aggrapparsi: la vendetta.
Non ha intenzione di morire, di lasciarsi andare, di cedere, di finire come tanti altri che si sono spenti perché spezzati nello spirito.
Abbandona gli elfi, quella loro spocchia ed aria di superiorità per tornare sui monti dove è cresciuto. Abituato a quel clima rigido ed impietoso.
Di erranti, di sbandati, di scampati alle razzie ce ne sono e vagano senza meta finché non trovano la morte.
E’ proprio loro che cerca, a cominciare da quelli che lo hanno aiutato durante la fuga. Pian piano, ci vuole tempo, inizia a formarsi un vero e proprio gruppetto. Tutti quelli che fino a quel giorno hanno subito le scorrerie della comunità di razziatori, tutti quelli che sono sopravvissuti in un modo o nell’altro ed anche quelli che cercano vendetta. Li raduna, si spostano sui monti sopravvivendo come possono. E’ dura, c’è chi muore e chi si arrende, ma tanti resistono spinti tutti dallo stesso desiderio.
Passano gli anni ed alla fine si arriva alla resa dei conti. Di nuovo una razzia nella notte, di nuovo fiamme, sangue e grida. Ma stavolta le parti sono invertite, gli uomini che si sono rammolliti nel loro vivere comodi soccombono. E’ un massacro, pochi sopravvivono ed ognuno decide la propria strada. Urur è fra quelli che restano, desideroso di costruire qualcosa. E’ cresciuto ascoltando i discorsi sui dogmi di Khorr, sulla spietata legge del più forte che domina ed alla fine l’ha messa in pratica, ritorcendola contro chi la predicava. Eppure non è appagato, manca qualcosa. Manca un IO al quale fare riferimento, un motivo per il quale continuare a vivere. Dunque è nella religione che cerca le risposte assieme agli altri mezzelfi che decidono di rimanere. Sono degli ibridi, un miscuglio più o meno caotico di due razze diverse. Solo una è la divinità alla quale rivolgersi, il doppia faccia nel quale rivedono la propria natura duale.
Si stabiliscono in quel villaggio, sostituendosi ai precedenti occupanti e, senza neanche rendersene conto, divenendo i nuovi razziatori di quei monti dal momento che l’unica attività per sopravvivere è quella di restare forti. Ma nelle notti buie, invece di invocare Khorr e la sua furia sanguinaria, s’intonano inni e canti a Feriy, affinché ascolti le suppliche di quegli ibridi e giunga a dargli uno spazio, uno scopo, un perché, un chiarimento sulla loro natura.
Passano ancora gli anni, i rituali vengono ripetuti più e più volte eppure non un cenno. Il grosso mezzelfo s’è investito da solo dell’autorità di più alto sacerdote, guidando gli altri membri della comunità a modo suo, secondo le proprie convinzioni, cercando spasmodicamente una risposta.
Finché Feriy non si manifesta, realmente. Proprio a lui, all’autoproclamatosi sacerdote del dio, all’ibrido che inventa riti ed invocazioni. Ma il risultato non è quello sperato, non ci sono risposte ma solo la beffa del doppia faccia che schernisce i tentativi vani, che rimprovera quell’improvvisazione suggerendo di abbandonare tutto e cercare un vero sacerdote per scoprire la vera essenza del sé.
Come accaduto in passato, la furia prende il sopravvento sul mezzo. Una furia cieca che lo porta ad insultare il dio, non riuscendo a sopportare il peso di quello scherno. Giura vendetta nei suoi confronti, giura di eradicarne il culto, giura di distruggerlo. In cambio, dopo un lungo silenzio, riceve solamente un’altra risata di scherno che risuona orribile.
La follia ormai galoppa, pazzo di rabbia raduna i nuovi razziatori, tutti quelli che gli danno ascolto. Li guida verso nuove terre per mettere in atto quel blasfemo giuramento. Cercano i seguaci di Feriy, li massacrano senza pietà ogni qual volta incontrano qualcuno che professi tale religione. Si spingono perfino ad assaltare i templi dedicati al dio, massacrandone il clero. Quello che non sa Urur è che ha fatto di peggio: in una delle ultime scorrerie s’è imbattuto in un campione emergente del dio, falcidiato insieme a tutti gli altri dalla furia e dalla ferocia implacabile del mezzo.
Inizialmente la fortuna pare arridere al gruppo, ma il doppia faccia non può perdonare tale affronto. Ancor meno se portato da qualcuno nelle cui vene scorre un sangue antico, ancestrale.
Lentamente gli scontri si fanno più sanguinari, i templi fortificati, i viaggiatori cauti, i credenti raccolti in una vera e propria crociata di fede contro i blasfemi uccisori di sacerdoti, donne, bambini, vecchi.
Si ritrovano nuovamente braccati, sempre meno numerosi, sempre più disperati mentre l’impresa crolla nelle tenebre. Ed il dio, che tutto sa e confonde con la sua arte, s’appresta alla vendetta.
E’ una notte fredda, sono rimasti pochi ibridi in quel piccolo accampamento, i pochi superstiti di quella follia. La luna brilla alta nel cielo, piena e bianca. Nell’aria risuona l’ululato del vento e, come mischiato a quel muggito, una voce arcana profonda che mormora parole oscure.
Si sveglia sudato, agitato, nel cuore della notte. Sente delle urla fuori dalla propria tenda, prende la spada ed esce di corsa. Di fronte a lui i superstiti, infervorati, le facce accese dall’odio. E quell’odio è rivolto verso di lui. Verso l’umano che vedono. Non comprende, è confuso, ma quando solleva la mano a toccare le orecchie non sente più quell’accenno di punta. L’istante successivo il finimondo, lo assalgono gridando, furibondi. Convinti, confusi dal dio della menzogna, di aggredire uno dei tanti odiati umani che gli da la caccia.
E poi il buio.
Si risveglia l’indomani mattina, al centro di quell’accampamento. Attorno a lui i corpi orrendamente straziati dei suoi compagni, le facce contorte in smorfie di pure orrore e dolore. Non si capacita di cosa sia successo, eppure non c’è traccia dei nemici. Ma è nudo, scosso da una rabbia feroce come non mai, dolorante e, soprattutto, sporco di sangue da capo a piedi. Trova uno specchio tra i resti di una tenda e si guarda: un uomo. E’ quello il riflesso che gli torna.
Nella testa risuona nuovamente la risata del dio seguita da poche, enigmatiche parole: “
Ti avevo offerto la libertà, hai scelto la follia. Ora sarai condannato all’oblio, a dormire in eterno, intrappolato nella bestia che sei diventato. Nessuno saprà che esisti.”
Di nuovo, il buio.
ATTO IV – Il risveglio
Non ricorda il proprio passato. Non sa da dove viene, chi l’ha generato. La maledizione del Duplice l’ha “ridotto” ad un semplice essere umano, grande e grosso oltre ogni misura, facendo svanire ogni singolo ricordo della sua vita passata. Da che ha memoria è sempre vissuto ad Asarn, nel Nord. Là nel Brehorn è cresciuto tra i seguaci di Khorr, o almeno questo è ciò di cui è convinto. Un uomo dedito al combattimento, più forte e grande degli altri che conosce. Non ha uno scopo se non combattere, perennemente spinto da quella rabbia bestiale che lo agita. L’unica certezza che ha è l’Orso, la bestia nella quale si trasforma durante le notti di luna piena, non sempre, o quando la rabbia è troppa. Non sa da cosa derivi la maledizione, non può saperlo perché è la maledizione stessa ad aver ottenebrato i suoi ricordi, ad averlo convinto di essere altro.
Impara l’arte della guerra, da solo, in gruppo, in formazioni. Di tutto e di più. Impara a maneggiare le armi, dalle più piccole alle più pesanti ed ingombranti. Impara a sopportare il dolore, anche se le cicatrici che si porta addosso parlano chiaro. Ma dopo anni, non c’è niente che realmente lo lega a quei posti. Continuano a sembrargli vagamente familiari, ma senza una motivazione vera.
Parte.
Gira l’Aengard guadagnandosi da vivere come viene, servendo come mercenario solitario, come sicario, come guardia del corpo, come scorta, come riscossore di crediti e via dicendo. Tutto ciò che riguarda, insomma, l’aspetto prettamente fisico. Un ambito nel quale far valere la propria forza brutale, quella ferocia selvaggia che continua ad agitarlo.
Senza meta, senza radici, senza legami di alcun tipo. Disprezza tutto e tutti, incapace di trovarsi in sintonia con qualcosa o qualcuno.
Almeno fino a quando il Duplice non si ricorda di lui. Vede quella nuova vita a cui credeva di averlo condannato, vede come il maledetto s’è adattato a quella condizione, come sembri addirittura trovare piacere in quegli sfoghi di violenza e ferocia.
Si sa, il Duplice è volubile, dispettoso se vogliamo. Può dare e togliere a proprio piacimento, per il proprio divertimento e gusto. Di tempo ne è passato, l’aspirante campione perso sostituito ed un ultima beffa non si esime dal rifilarla a quella bestia ambulante.
Gli appare un giorno, lo irride per quella natura bestiale alla quale s’è abituato, che crede appartenergli e, semplicemente, lo priva di tutto ciò. Lo rigetta nella confusione e nell’incertezza del non sapere chi è, cos’è e soprattutto perché.
Forse ha reputato sufficiente il tempo trascorso, la “punizione” inflitta al Drago ed al suo Discendente? O forse s’è semplicemente annoiato di stare ad osservare ciò che sembrava divertente ed invece s’è rivelato monotono e privo di stimoli, vista l’assuefazione alla violenza del nordico. Di certo c’è solo l’impossibilità di comprendere a fondo le motivazioni del dio più volubile fra tutti.
In ogni caso, la beffa del Duplice non ha mai termine, difatti se torna ad essere un mezzelfo, una traccia di quella maledizione passata e subita rimane indelebile e permanente: quell’altezza fuori norma che rimarrà come un “marchio” dell’opera del dio, condannandolo per sempre ad essere un solitario diverso da tutti gli altri.
Ma non finisce lì, inizialmente lo riduce quasi alla follia risvegliando nella mente del nordico tutti i veri ricordi della sua vita. Non si limita, però, a restituirglieli e basta annullando la propria maledizione. No, l'ultimo "scherzo" che gli rifila è il dubbio perenne, condannandolo a ricordare entrambe le sue vite: sia quella reale da mezzelfo, dalla nascita fino a quella notte nell'accampamento; sia quella "immaginaria" costruita dalla maledizione. Un intreccio che, inizialmente, lo porta sull'orlo del baratro più nero, lasciandolo fortemente provato per giorni e giorni.
Lentamente ha iniziato ad uscirne, man mano che i ricordi si sono fatti più vivi e fissi. Due vite distinte e separate, eppure ha la certezza indissolubile di averle vissute entrambe.
L'unica altra certezza che ha è che entrambi i "sentieri" percorsi, realmente o meno, l'hanno condotto fin dove è ora: alla Loggia, alle Tenebre, ad una sorta di qualche legame con gli altri loggiati, in particolare con Amyria.
E' quell'unico pensiero, oltre al rifiuto di arrendersi ad qualcosa o qualcuno, che lo spinge ad andare avanti, a cercare di accantonare i dubbi sul proprio passato per concentrarsi, invece, sul presente. Su ciò che è, su ciò che può tentare di controllare decidendo da sé delle proprie azioni.
Trova un ottimo sfogo durante l'invasione di Balsjord, sebbene non venga impiegato in prima linea ma in una missione d'infiltrazione all'interno della cittadina per cercare, individuare ed eliminare Testa di Sangue.
In ultimo il nuovo incarico del quale viene investito dalla neo Regina del Brehorn: comandare la milizia della cittadina liberata, Balsjord.
Si concentra su quello, nonostante alcune notti continuino a pesargli, insonne a causa degli incubi e di quel dubbio sulla propria identità reale che, nonostante tutto, non lo abbandona mai del tutto.
[Modificato da Urur 21/03/2023 19:53]